La prosopopea dimaiana

Nell’opera lirica Tosca, tratta come vicenda dal dramma storico di Victorien Sardou, durante la tortura del pittore bonapartista Mario Cavaradossi, il barone Scarpia, spietato Capo Della polizia, non sopporta che il torturato riesca a parlare per dare consigli a Tosca e ad un certo punto sbotta e grida. “Ma fatelo tacere!”.

La similitudine è ingenerosa, ma nell’attuale fase politica Luigi Di Maio si sente un grillista sottoposto a tortura e, forse proprio per questa ragione, continua a sciorinare, dal confino del ministero degli Esteri a cui è stato condannato, affermazioni gratuite sul programma di governo alla ricerca di un’identità perduta e di un ruolo politico misconosciuto da tutti. Vuole far vedere che conta ancora qualcosa e non perde occasione per distinguersi e ricattare il partner piddino.

La sua ultima trincea è l’iva: guai a toccarla per rimodularla; se il governo avrà l’ardire di toccare i fili dell’imposta sul valore aggiunto, cadrà miseramente sotto le picconate dimaiane. Giuseppe Conte avrà nei secoli il merito di avere spazzato via Matteo Salvini dal ministero degli Interni, da dove avvelenava la politica spargendo fiale di sovranismo e populismo. Non sarebbe il caso di riservare lo stesso trattamento a Luigi Di Maio allontanandolo definitivamente dal governo? Alla Farnesina non si capisce cosa ci stia a fare. La leadership del M5S l’ha perduta. La sua credibilità è finita nell’abbraccio soffocante con Salvini. Se resta in pista lui, facendo il pesce in barile fra governo e movimento, i pentastellati arriveranno a crollare ulteriormente nei consensi.

Forse Giuseppe Conte lo sta cuocendo a fuoco lento con la tacita benedizione di Beppe Grillo. È l’uomo dallo strafalcione facile e la storia gli dedicherà quella rassegna di svarioni linguistici e culturali che i giornali gli hanno già ampiamente riservato. Mi aspettavo che il presidente Mattarella gli mettesse il veto, ma era pretendere troppo. Sembra uno che rientri da un lungo viaggio e pensi di essere ancora in regime pentaleghista: nessuno l’ha informato e lui continua a fare il verso all’alleato Salvini. Qualcuno, prima o poi, gli dovrà pur dire, che il governo è cambiato, che non è più vice-presidente del Consiglio, che i grillini lo vedono come un “bego nella minestra”, che all’estero lo considerano un poveretto e che in Italia fa ormai la parte del poveraccio. Nel frattempo lui continua a dare aria ai denti. Quelli che…votano M5S perché Di Maio sparla bene.

È l’insopportabile ultimo della classe, che gioca a fare il primo. Possibile che nessuno riesca politicamente a toglierlo di mezzo (discorso solo ed esclusivamente politico: non voglio istigare nessuno contro di lui, su queste cose non si scherza). Se devo essere sincero, mi sta più sulle scatole lui di Salvini. Se servisse al riguardo aumentare un pochettino l’iva, ci starei. Sì, perché nella sua immaginazione farebbe cadere il governo, ma in realtà cadrebbe lui e ci libererebbe per sempre dall’ignoranza fatta politica. Sarebbe il secondo atto del sollievo, concetto acutamente introdotto da Beppe Severgnini per il governo Conte II. Al sollievo per l’emarginazione di Salvini e delle sue dannose sparate si aggiungerebbe quello per un “fatti più in là” riservato a Di Maio. In democrazia non si chiude la bocca a nessuno, ma farei una pacifica, morbida e democratica eccezione.

Nella sua stucchevole battaglia contro gli aumenti dell’iva ha trovato un occasionale alleato in Matteo Renzi anche lui impegnatissimo nel fare implacabilmente le pulci a Conte ed a pungerlo in continuazione: cose che capitano. Per quel poco di stima che mi rimane verso il leader di “Italia viva”, il nuovo partito senza storia e senza futuro, sotto sotto e cinicamente mi auguro che la vena rottamatrice renziana si possa scaricare su Di Maio, trascinandolo nel gorgo dell’antigoverno per poi giubilarlo con il solito spregiudicato ritornello dello “stai sereno”. A meno che nel gorgo non ci finiscano entrambi e vi trascinino il governo e il Paese.

Stato di diritto e ragion di Stato

A distanza di parecchi anni si sta facendo luce e giustizia sulla morte di Stefano Cucchi, una persona arrestata per presunti reati a livello di tossicodipendenza e letteralmente massacrata di botte durante una sorta di calvario fra penitenziario e ospedale militare. Per un certo periodo di tempo ha resistito una ricostruzione morbida dell’accaduto: una morte per complicazioni dovute al già precario stato di salute accentuato dalla carcerazione. Bastava guardare le fotografie del suo corpo per capire che era stato selvaggiamente colpito. Partirono i depistaggi per coprire i responsabili di questo disgustoso episodio, ma alla fine non hanno retto e la verità è venuta finalmente a galla: merito dell’ostinata opera dei famigliari di questo ragazzo e del coraggio di alcuni magistrati, che non si sono fatti condizionare ed intimorire dalla “ragion di stato”.

È difficile capire perché alcuni carabinieri si siano lasciati andare ad una simile porcheria: capisco la frustrazione, la fatica e il fastidio verso la delinquenza di strada; non dico di usare i guanti di velluto, ma non è possibile scendere alla violenza ed alla crudeltà da parte di chi dovrebbe difendere tutti dalla violenza e dalla crudeltà. La cosa ancor più grave è però il tentativo di coprire questi comportamenti, depistando le indagini e sollevando polveroni dietro i quali nascondere questi fatti vergognosi ed inaccettabili da tutti i punti di vista.

La requisitoria del pubblico ministero al processo che si sta volgendo in questi giorni è stata ammirevole, coraggiosa ed equa. Un aspetto però non mi ha convinto: la difesa d’ufficio dell’Arma dei carabinieri. Con tutto il rispetto possibile e immaginabile per gli appartenenti all’Arma stessa, non mi convince che i suoi capi fossero all’oscuro della vicenda in tutto il suo divenire; in modo particolare i depistaggi non possono essere stati iniziativa esclusiva di singoli, lo scopo era quello di difendere nel modo peggiore il buon nome  e l’immagine dei carabinieri e quindi c’era in campo qualcosa in più delle mele marce a cui si fa riferimento: la pianta non è malata, sono d’accordo, ma c’è qualche ramo da verificare e da tagliare.

In Italia si tende a esagerare colpevolizzando i partiti quando un loro esponente sbanda e si rende responsabile di qualche reato, mentre nei confronti di alcune istituzioni non si può nemmeno pensare male, facendo due più due uguale quattro. La mossa dell’Arma di costituirsi parte civile è positiva, ma tardiva e non può togliere quanto avvenuto prima e rimettere automaticamente le cose a posto. Chi ad un certo livello ha ispirato, deciso, organizzato o quanto meno tollerato i depistaggi? Non lo si saprà mai, ma almeno ammettiamolo. Se poi queste cose avvengono per una sorta di omertosa legge militare, non scritta ma impressa nelle menti malate, il discorso si fa ancor più grave. Non voglio far risalire le colpe a chi comanda, perché capisco che non possa riuscire a controllare tutto e tutti, ma non accetto che chi comanda se ne lavi le mani.

Ammetto si sia fatto qualche passo avanti e sia emersa una verità che sembrava impossibile da ammettere. Però non mi basta: devono cambiare la mentalità e il clima nell’assetto e nell’impostazione delle forze dell’ordine. Ognuno si prenda le sue responsabilità. Fatti come quelli della morte di Stefano Cucchi, al di là dell’orrore che suscitano, al di là delle verità che vanno scoperte e punite in modo giusto (sono d’accordo col Pm, non in modo esemplare), devono insegnarci qualcosa ed è quel qualcosa che non si può ottenere appunto nemmeno con le pene esemplari.

 

Le sciocchezze disonorevoli

 

“Onorevole Meloni, mi scusi, ma sta dicendo una sciocchezza”, così ha detto Lilly Gruber durante una puntata di “otto e mezzo”, la trasmissione de la7 condotta appunto dalla nota giornalista, che ha ospitato la leader di Fratelli d’Italia. È una vita che Giorgia Meloni dice sciocchezze e finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di dirglielo nei denti e fuori dai denti.

Si stava parlando di Europa e di regole da rispettare: Giorgia Meloni sosteneva che tali regole variano a seconda del gradimento europeo verso i governi italiani. Guai se non fosse così! Cosa ci starebbe a fare il governo nei rapporti con la Ue, se bastasse applicare degli indici: non siamo a scuola durante l’ora di matematica. Come ha giustamente affermato il nuovo commissario europeo agli affari economici, Paolo Gentiloni, c’è modo e modo di applicare le regole e c’è anche la possibilità di derogare ad esse in tutto o in parte in base a motivazioni serie sul piano dello sviluppo economico, degli investimenti e dell’occupazione.

È ovvio che se un governo si limita ad andare a Bruxelles per battere i pugni sul tavolo, per insolentire i dirigenti, per prendere le distanze dalle istituzioni europee, avrà un ascolto e una credibilità tendente a zero; se invece si dialoga, si presentano piani di sviluppo, si giustificano certe politiche espansive, il discorso può essere diverso e più possibilista. Si deve tener conto inoltre del contesto economico in cui si opera: un conto è sforare sul deficit con la previsione di un notevole aumento del Pil, un conto è sforarlo in una situazione recessiva etc. etc.

L’Unione europea ha le sue regole, ma anche la diplomazia ha le sue. Bisogna essere diplomatici, altrimenti sarebbe sufficiente farsi rappresentare in Europa da bravi ragionieri o da bravi polemisti.  Mario Draghi ne è la dimostrazione: è riuscito a rispettare le regole dell’Istituto da lui presieduto, ma ha puntato anche a sostenere la crescita europea e indirettamente ha dato una manona all’Italia. Pensiamo se a capo della Bce ci fosse Giorgia Meloni, quante sciocchezze riuscirebbe a dire e fare nell’interesse della patria.

Ma torno alla scaramuccia televisiva. Nelle interviste ai politici osservo come i giornalisti si limitino a fare domande peraltro piuttosto scontate e poi non ascoltano le risposte o, se le ascoltano, le ignorano per comodità o per piaggeria, non si permettono mai di contraddire l’interlocutore, per convenienza o per ignoranza. Mi sembra che, pur con tutti i limiti e i difetti, Lilly Gruber faccia eccezione e ragioni con la sua testa anche di fronte ai suoi interlocutori. Complimenti!

Gianfranco Fini era definito un politico che non sa un cazzo ma lo dice bene. Quanto a Giorgia Meloni, credo faccia parte di quella categoria di persone che non sa un cazzo e non riesce nemmeno a dirlo bene. La destra estrema fa dei passi avanti, ma la gente, ma il consenso, ma…

Giocare alle guardie del dazio

Ai bei tempi della mia fanciullezza, quando un gioco pendeva versa la sconfitta, il bambino, proprietario del pallone o di altro strumento ludico, ritirava il tutto e andava a giocare nel suo cortile dove era sicuro di vincere. Gli adulti facevano e fanno di peggio: per non perdere truccano il gioco, barano di brutto. Non si può cavarsela scuotendo il capo o pensando che l’uomo è fatto così e non c’è niente da fare. Sul fatto che l’anti-giochino di cui sopra sia una costante nei rapporti umani posso essere d’accordo, mentre non mi rassegno a subire passivamente questa impostazione egoistica. Prendo e riporto di seguito dal quotidiano “La stampa”.

Il tanto atteso verdetto del Wto, l’organizzazione mondiale per il commercio, alla fine è arrivato: gli Stati Uniti potranno imporre dazi sui prodotti provenienti dall’Europa per un ammontare annuo fino a 7,5 miliardi di dollari, quasi sette miliardi di euro. Un conto salato in grado di scatenare una guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, frenare ulteriormente una crescita economica già stentata e dare un duro colpo all’export italiano. A cominciare da quello agroalimentare, ma senza dimenticare il settore moda e le motociclette, arrivando a costare al sistema Italia fino a un miliardo di euro.

La decisione del Wto è legata a quella con cui a suo tempo sono stati giudicati illegali alcuni aiuti pubblici destinati al consorzio Airbus e la cifra indicata dall’organismo che ha base a Ginevra è destinata a compensare il danno (stimato) subito dal sistema economico statunitense. Ma lo stesso Wto ha anche ritenuto illegali alcuni aiuti forniti dall’amministrazione di Washington alla Boeing e nei prossimi mesi dovrebbe emanare un verdetto analogo a quello odierno, stavolta per quotare il valore delle misure compensative che potrà adottare l’Ue.

Un gioco che potrebbe teoricamente avere somma zero, se non fosse per la vena particolarmente battagliera dell’amministrazione Trump e la sua attitudine a voler negoziare partendo sempre da una posizione di forza. I segnali giunti in questo senso da Washington non sono mancati ed hanno spinto la commissaria europea al Commercio uscente, la svedese Cecilia Malmstroem, a mettere le mani avanti. “Anche se gli Stati Uniti hanno avuto l’autorizzazione dal Wto – ha sottolineato – scegliere di applicare le contromisure adesso sarebbe miope e controproducente. Restiamo pronti a trovare una soluzione equa, ma se gli Usa decidono di imporre le contromisure autorizzate dal Wto, l’Ue non potrà che fare la stessa cosa”. Con il rischio di alimentare un clima già teso tra le due sponde dell’Atlantico e arrivare ad una guerra commerciale che, come già indicano l’andamento degli scambi mondiali e le reazioni dei mercati azionari (le borse sono crollate), avrebbe un effetto decisamente recessivo. “L’imposizione reciproca di contromisure – ha avvertito la commissaria – avrebbe solo effetti negativi per tutti”.

Fin qui la cronaca. Mi corre l’obbligo di aggiungere due brevi riflessioni: una di ordine etico-sociologico, l’altra di carattere politico. Che la globalizzazione sia un “gioco” pericoloso e poco divertente posso anche essere d’accordo, ma che sia meglio rifugiarsi nel proprio cortile e divertirsi a lanciare sassate nei cortili altrui non sono per niente convinto. La convivenza è difficile, ma non può essere sostituita dalla rancorosa solitudine. Non vale ricercare chi abbia fatto la prima mossa sbagliata ed aggressiva e ancor meno vale rispondere alle sassate rigettando indietro i sassi. Prima o poi ci rimetteremmo tutti.

La seconda riflessione riguarda il divertimento assai poco innocuo per i bambini della politica italiana. Abbiamo deciso di scherzare col fuoco del sovranismo e del populismo, di alzare la voce nazionalistica, di gridare per difendere i nostri interessi: di giocare nel nostro cortiletto. In una parola detta fuori dai denti, abbiamo deciso di votare la Lega e di darla su a Salvini. Ebbene, si sappia che così facendo si finisce nel tritacarne delle guerre commerciali e non solo commerciali. Forse siamo ancora in tempo per riprendere a giocare correttamente nel cortile comune.

 

Rigorista, ma non troppo

Ho ascoltato l’autopresentazione che Paolo Gentiloni, nella sua qualità di commissario agli affari economici, ha fatto davanti alla commissione competente del Parlamento europeo convocata per dare il suo placet alla nomina avvenuta a livello di vertice e di spartizione fra gli Stati-membro. Una relazione molto garbata, ma anche molto densa di significato.

Paolo Gentiloni, come riportano le agenzie di stampa (ho ripreso quanto scritto a caldo da Huffington post), ha assicurato da subito che si concentrerà sulla riduzione dei debiti più alti. In audizione davanti al Parlamento europeo, nell’esame da superare per la nomina a commissario Ue agli Affari economici e monetari, l’ex premier ha teso, ma non troppo, la mano ai rigoristi, assicurando che i debiti devono scendere, ma chiarendo il suo pensiero. “Nell’applicare le nostre regole, mi concentrerò sulla riduzione del debito pubblico come qualcuno a cui sta profondamente a cuore l’impatto potenzialmente destabilizzante del debito alto quando l’economia va male”. Nel suo mandato si occuperà quindi anche di un “uso adeguato dello spazio di bilancio per far fronte al rischio di rallentamento delle nostre economie”.

Le regole vanno applicate, “supervisionerò l’applicazione del Patto di Stabilità e crescita per assicurare la sostenibilità dei conti, farò uso delle flessibilità quando necessarie, per ottenere una posizione fiscale appropriata e consentire alle politiche di bilancio di giocare un ruolo di stabilizzazione e promuovere gli investimenti”. Più flessibilità, quindi – “non è una concessione a qualcuno, è nelle regole” chiarisce – per stimolare gli investimenti e sostenere la crescita economica.

Le regole potrebbero anche essere riviste. “Il Patto di stabilità e crescita – afferma Gentiloni – non è perfetto, userò l’opportunità, che ci dà la revisione delle regole contenute nel Patto di stabilità e crescita, per riflettere sul futuro, basandomi sull’evidenza del passato e prendendo in considerazione il contributo del Fiscal Board (l’organismo che ha aperto alla golden rule per gli investimenti)”.

Un parlamentare tedesco lo ha messo alla punta chiedendogli come si comporterà di fronte al disavanzo e al debito pubblico dell’Italia: domanda legittima, ma assai maliziosa e petulante. Gentiloni ha risposto con grande abilità e stile. Nessun commento infatti sulla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza presentata dal Governo italiano: “a quel progetto – assicura – dedicherò la stessa attenzione e serietà sul rispetto delle regole con cui esaminerò quelle degli altri stati membri”. Ed ancora: “Non sono e non sarò il rappresentante di un unico Governo nella commissione, mi occuperò di tutti e 27 i progetti di bilancio”.

Lo stile, l’abilità e l’esperienza non gli mancano, ma i nord-europei la devono smettere di fare i primi della classe. Gentiloni avrebbe potuto rispondere tranquillamente: «Accetto la sua domanda provocatoria, ma è sicuro che i membri della commissione e i dirigenti della Bce provenienti dai Paesi settentrionali della Comunità, in particolare dalla Germania, siano sempre stati equidistanti e imparziali nello svolgimento dei loro compiti istituzionali? Non guardi in anticipo la pagliuzza nel mio occhio e non dimentichi quelle negli occhi dei suoi connazionali».

Di fronte al presuntuoso atteggiamento rigorista vado su tutte le furie. Alla Germania, come del resto anche all’Italia, fu riservato un trattamento di favore alla fine della seconda guerra mondiale. Fu aiutata non poco nel processo di riunificazione. Ha spadroneggiato assai a livello europeo e internazionale. Con chi è più forte, ma soprattutto con chi è più bravo credo si debba tenere un atteggiamento di ammirazione e di disponibilità. Ma mi son sempre piaciuti i primi della classe che fanno copiare i compiti e non quelli che fanno mettere i meno bravi dietro la lavagna. L’Italia ha sicuramente molti scheletri negli armadi, molti peccati da farsi perdonare, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra.

 

 

 

 

Votare per crescere

Mi è sempre stato riconosciuto un certo carisma nel rapporto con i giovani, addirittura con i giovanissimi. Succedeva nelle associazioni cattoliche che ho bazzicato, nel mondo della scuola che ho purtroppo solo sfiorato da insegnante, nel campo professionale che ho calpestato per decenni, nel settore sociale che ho frequentato direttamente dopo il raggiungimento dell’età pensionabile. Riuscivo e riesco tuttora a dialogare con loro, a mettermi in sintonia, a comunicare la mia esperienza.

Preferisco quindi coltivare rapporti concreti col mondo giovanile piuttosto che teorizzare e pontificare sul modo di essere dei giovani d’oggi e di ieri. Quando lo faccio, tirato per la giacca dalle provocatorie circostanze, oscillo fra l’assegnare ai giovani una patente di benefica diversità rispetto alle generazioni precedenti e l’osservare criticamente la loro mancanza dei fondamentali della cultura e della politica in particolare.  Pretenderei magari di abbinare gioventù ed esperienza, dimenticando che il bello dei giovani è proprio quello di non essere condizionati e frenati dall’esperienza. Mio padre diceva argutamente: «Se un ragas al gaviss al sarvél ‘d n’omm, al ne sariss miga un ragàs…».

Diciamo pure che più i giovani sono “diversi” più svolgono la loro benefica funzione critica nei confronti della società. Se posso permettermi una valutazione generale sul comportamento giovanile odierno, trovo in essi una scarsa capacità di contestazione, conseguente al loro piatto conformismo rispetto alle proposte della società corrente. Quando li vedo assorti e alienati con le cuffiette alle orecchie, chiusi nella disperata ricerca del nulla informatico, mi prende una grande pena. Per fortuna c’è qualche impennata: ultima la contestazione ecologica, che mi lascia ben sperare.

Chiedo scusa per l’autocitazione. In un breve saggio pubblicato nella sezione “libri” del mio sito internet, intitolato “Dialogo tra un trolley ed uno smartphone” ho intentato un brillante processo ai giovani d’oggi tra luoghi comuni, forti provocazioni, pessimismo di maniera, ottimismo di facciata, realismo quasi disperato, lumi di speranza: dal bamboccionismo, con venature di sfigatismo, alle azioni coraggiose per la conquista dei diritti civili.

Il punto dolente è la politica: i giovani non riescono ad inserirsi negli schemi e tendono ad appartarsi, sottovalutando le istituzioni democratiche e la partecipazione ai processi decisionali. L’offerta politica è indubbiamente deludente, ma non c’è nemmeno da parte loro la domanda politica. Potrà servire concedere il voto ai sedicenni? Questa idea sta paternalisticamente mettendo sotto i riflettori i giovani. Non l’hanno chiesto loro, rischiano di subirlo quasi come un’imposizione, come un diritto gentilmente concesso e non come una conquista. Fossi giovane, mi sentirei quasi offeso e restituirei al mittente questo peloso regalo, che puzza di strumentalizzazione e di compromissione col potere costituito. Ma bisogna ragionare!

Viene prima la coscienza democratica o il diritto di voto? Viene prima la gallina della partecipazione politica o l’uovo della scheda elettorale nell’urna? Si è in grado a sedici anni di esprimere un giudizio sulla proposta proveniente dai partiti? Tutti dobbiamo essere in grado di partecipare e quindi ben venga l’apertura di nuovi spazi, ma il problema rimane quello della cultura politica, del come porsi di fronte alla società, della capacità critica nei confronti del sistema. Tutto sommato però meglio rischiare l’omologazione politica col voto che rifugiarsi nell’antipolitica inconcludente e contraddittoria dei venditori di fumo. Il voto conterà poco, ma viene da lontano, profuma di battaglie popolari, è un’occasione di crescita da non perdere. È un diritto per la conquista del quale tante persone hanno dato la vita: ricordiamocelo e viviamolo come un modo di essere uomini, donne e cittadini.

 

 

Le parole che coprono la musica

Speravo vivamente che il Governo Conte II si caratterizzasse per una maggiore discrezione a livello di contrasti interni: non mi illudevo che potessero miracolosamente sparire, ma che venissero esternati e gestiti con maggiore senso di responsabilità. Se infatti le clamorose contrapposizioni erano quasi la cifra del governo Conte I e su di esse veniva paradossalmente costruita la gara al consenso, per l’attuale governo la quotidiana rissa parolaia mette in seria difficoltà il già precario e risicato equilibrio politico-programmatico.

Tutti hanno la penosa necessità di distinguersi. Il M5S deve sbandierare continuamente la sua demagogia: su ogni argomento fa una sorta di controcanto rispetto alla linea emergente e, quando proprio non sa come contrapporsi, si rifugia nel taglio dei parlamentari, che è diventato lo specchietto delle allodole di questa stagione politica. Di Maio deve distinguersi dal premier Conte, che gli contende (il bisticcio di parole è voluto…) la leadership del movimento; le diverse correnti movimentiste scaricano sul governo le loro insoddisfazioni e frustrazioni; l’aria interna è piuttosto pesante e allora bisogna aprire le finestre governative (meglio il raffreddore a Conte che la polmonite al M5S).

Matteo Renzi vuol tenere viva la sua Italia e non tace un attimo in un continuo altalenare di promesse di fedeltà e di minacce di distinzione. Se il parlare troppo è il suo segno distintivo, questo vezzo è direttamente proporzionale alla necessità di trovare una propria identità: sì, perché ormai siamo al punto che prima si fonda un partito e poi se ne cercano le radici, ammesso e non concesso che esistano.

Il partito democratico, sgravato dal peso contestatore renziano, è relativamente più calmo, anche se le correnti non mancano e l’accordo col M5S è duro da digerire. In compenso, per il momento, parlano poco i ministri e forse parla un po’ troppo il presidente del Consiglio, che assomiglia a Roberto Baggio quando finalmente approdò alla nazionale: ogni giocata doveva stupire il pubblico, i colpi di tacco si sprecavano anche se non servivano a niente. Giuseppe Conte ha trovato un suo spazio, dovrebbe cercare di gestirlo con molta discrezione senza rovinare l’immagine che è riuscito a creare di se stesso.

In conclusione non ne posso più della politica parolaia e ho tanta nostalgia dei tempi in cui si discuteva nelle sezioni di partito e non si bevevano le chiacchierate mediatiche, in cui le tribune politiche televisive erano poche ma buone, in cui i giornalisti facevano il loro mestiere e non invadevano il campo delle primedonne, in cui i partiti facevano politica e la politica non faceva i partiti. Bei tempi, in cui, per dirla con Berlusconi, molti politici attuali sarebbero andati a pulire i cessi di Montecitorio, palazzo Madama e palazzo Chigi.

 

 

Il Pd, ‘o famo strano

C’era da aspettarselo: l’uscita di Matteo Renzi dal partito democratico, come primo e immediato risultato, ha avuto quello di innescare l’apertura delle porte del partito ad opportunisti e pentiti. Renzi sostiene di avere riconquistato la propria libertà di iniziativa politica: sì, la libertà di lasciare campo libero a chi nel Pd ci crede ancor meno di lui. Il partito democratico viene stretto nella morsa dei nostalgici interni e recuperati e degli insoddisfatti fuorusciti. Non ho idea di cosa ci rimarrà.

Per fare politica occorrerebbe lungimiranza e, conseguentemente, pazienza. Due doti che sembrano mancare a Matteo Renzi, al quale va pur dato atto di avere tentato di svecchiare la sinistra, che fa molta fatica a interpretare culturalmente il mondo che cambia e a rappresentare politicamente le nuove istanze emergenti. Però, così come era entrato a gamba tesa all’inizio, presentandosi come rottamatore, alla fine ha abbandonato il campo, mandando affanculo la squadra per farne una nuova tutta sua, senza pensare che per gli spazi vuoti c’è sempre chi è pronto a occuparli.

Non nego di avere simpatizzato per lui, apprezzandone la verve e la modernità di linguaggio e restando affascinato dal suo attivismo e pragmatismo: finalmente un personaggio, che cercava di fare qualcosa di nuovo, uscendo dagli schemi tradizionali e dalle ingessature della politica.  Poi tutti sanno come è andata a finire ed è inutile rimescolare la pentola. Oggi, a mio modesto giudizio sta sbagliando, gettando al vento i pur piccoli semi di novità emergenti dal Pd: secondo Renzi sono soltanto cambiamenti contingenti, necessari ma non sufficienti, a cui lui stesso ha contribuito. In parte avrà ragione, ma mi sembra altrettanto velleitaria e inconcludente l’azione alternativa renziana, troppo pretenziosa per essere pura tattica, troppo debole per essere vera strategia.

Fatto sta che il rottamatore si è indirettamente trasformato in riciclatore. Ha indubbiamente conquistato la ribalta, ma poi bisogna recitare e cantare, non basta chiacchierare. Una critica che ho sentito fargli da molti è quella di “parlare troppo”. Al di là del difetto legato alla sua terra d’origine, esiste l’interpretazione spregiudicata e parolaia della modernità. Le operazioni politiche vanno accuratamente e seriamente preparate: vale per lo sbrigativo accordo PD-M5S, imposto tuttavia dalle circostanze economiche, internazionali ed istituzionali, ma vale a maggior ragione per la fuga renziana, vagheggiata da tempo e realizzata in fretta e furia.

Devo andare a prestito dalla fantasia dei miei genitori, anche a costo di ripetermi. Se mia madre, più o meno convintamene e seriamente, usava mettere in discussione le proprie scelte matrimoniali, dicendo: “Sa tornìss indrè …”, mio padre la stoppava immediatamente ribattendo: “Mi rifarìss còll ch’ j ò fat, né pu né meno”.  E giù a ridere ironicamente delle ipotetiche fughe con l’amante, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale: della serie la famiglia ed il matrimonio sono una cosa seria. Anche i partiti e la politica sono cose serie!

 

Quei barconi carichi di…Lazzaro

Mi viene spontaneo fare un mix tra le due rubriche che porto avanti su questo mio modesto sito internet, tentare cioè una drammatica “confusione” tra un fatto del giorno e una riflessione religiosa. D’altra parte di che religione parliamo se la estraniamo dalla vita quotidiana e che vita viviamo se non facciamo riferimento a una fede (non necessariamente di tipo religioso).

Proprio in questi giorni ho sentito affermare, durante un’omelia di una celebrazione liturgica, che i cristiani hanno dei valori in più rispetto agli altri e quindi hanno l’obbligo di comunicarli: direi soprattutto di testimoniarli con la vita, a prescindere dal fatto che anche gli altri hanno valori in più rispetto a noi e li dobbiamo prendere in seria considerazione. Tutti mettano in campo i loro valori e li vivano concretamente e dopo le cose andranno molto meglio.

Ma torniamo ai fatti del giorno: un barcone carico di profughi, al largo delle coste libiche, si è capovolto. «Che cos’altro deve succedere affinché le autorità si prendano responsabilità per la situazione?». Alarm Phone rilancia via social l’allarme per l’imbarcazione in pericolo. Si tratta di una barca partita dalla Libia giorni fa: «Abbiamo informato le autorità in Libia, Italia e Malta, ma nessuno ha lanciato un soccorso». Con il passare delle ore la situazione, come prevedibile, è peggiorata: «I naufraghi temono di morire e chiedono aiuto. Le persone a bordo dicono che stanno imbarcando acqua». Intorno alle 13 l’ultimo disperato sos dalla barca: «Parlano di diritti umani, ma dove sono? Vi prego, aiutateci!”.

Veniamo alla religione. Proprio in contemporanea al drammatico fatto di cui sopra la liturgia della domenica offriva la parabola evangelica del ricco epulone. Lazzaro è un povero disgraziato, coperto di piaghe, che sta alla porta di un riccone ed è bramoso di sfamarsi con quello che cade dalla sua tavola, mentre lui non lo degna nemmeno di uno sguardo, fa finta di niente e continua a banchettare lautamente.   Arriva l’aldilà e il ricco epulone è collocato fra i tormenti, chiede prove d’appello, pietà e comprensione. Ma è troppo tardi, Lazzaro è in Paradiso e Abramo non può fare più nulla per alleviare le sofferenze dell’ingordo e indifferente vip.

Il contrasto vale a livello interpersonale, ma vale anche a livello sociale e internazionale. Da una parte abbiamo alcune persone dello spettacolo, dello sport, della finanza, dell’industria, del commercio che guadagnano milioni di euro e restano più o meno indifferenti davanti a tante persone che, con il magro stipendio o sussidio di disoccupazione, non sanno come sostenere le spese delle loro famiglie. Poi abbiamo i paesi ricchi che respingono e lasciano morire i disgraziati dei paesi poveri.  Il tratto dominante nella parabola e nei rapporti reali è l’indifferenza.

Arriviamo persino a teorizzare la nostra indifferenza come un diritto di difesa. Chiudiamo gli occhi di fronte a tante miserie, a tante sofferenze, a tante povertà e osiamo giustificarci: cosa possiamo fare? Non possiamo impoverirci, non servirebbe a niente, la povertà rimarrebbe comunque nel mondo. Noi abbiamo già dato, adesso tocca agli altri. Non se ne può più di questi profughi che vengono a insozzare la nostra società.

Pensiamo di farla franca, ma arriverà l’inferno e non si tratta di un inferno per i creduloni, un luogo teorico e didattico: è qualcosa di credibile e concreto. Non possiamo pensare di farla franca nell’aldilà, ma già in questo mondo: i profughi continueranno ad arrivare, noi li respingeremo e ne arriveranno ancora di più e la nostra società sarà giustamente scombussolata. Oltre tutto non abbiamo nemmeno l’umiltà di ammettere di avere bisogno di questi soggetti. Come se il ricco epulone non avesse più servitori e si rifiutasse di far lavorare il povero Lazzaro. Indifferenza e stupidità! Meritiamo un doppio inferno!

I mostri nei cassetti

La finanza pubblica è costretta a passare in mezzo a Scilla e Cariddi, i suoi due mostri, poco leggendari e molto reali, che corrispondono all’evasione fiscale e allo spreco della spesa pubblica. Quando si ragiona della quadratura del cerchio dei conti pubblici mi viene spontaneo non pensare tanto a nuovi provvedimenti a livello di entrate e/o di uscite, ma a come tutto potrebbe funzionare a meraviglia portando l’evasione a livelli accettabili in linea con gli altri Paesi e combattendo seriamente e rigorosamente gli sprechi del pubblico denaro.

A questo punto vorrei introdurre una paradossale esemplificazione di un amico medico il quale aveva esercitato la sua professione in strutture private e pubbliche. Per rendermi plasticamente l’idea della differenza fra le due impostazioni gestionali mi disse: «Nelle case di cura private assistevo con apprensione al “riciclaggio” delle garze, nei reparti degli ospedali pubblici vedevo con fastidio medici ed infermieri pulirsi le scarpe utilizzando garze sterili». Se tanto mi dà tanto…

È inutile parlare di nuove tasse se non si riescono a incassare quelle già esistenti; è assurdo ipotizzare sforamenti di bilancio se prima non si fa tutto il necessario per contenere spese inutili e improduttive. Sono convinto che i nostri partner europei, allorquando andiamo a battere cassa, penseranno: perché questi simpaticoni di italiani, prima di chiederci il permesso di aumentare deficit e debito pubblico, non cercano di migliorare il loro sistema di entrate ed uscite pubbliche? Non saprei cosa rispondere, se non che hanno mille ragioni.

Tutti gli esperti in materia dicono che, se si avviassero a soluzione questi due corni del problema, la finanza pubblica respirerebbe a pieni polmoni e consentirebbe di impostare politiche di sostegno a livello sociale ed economico. Anche gli indici di misurazione del nostro stato di salute devono tenere conto di queste anomalie. Il Pil va implementato con l’economia sommersa, il tasso di occupazione va integrato col lavoro nero e via di questo passo. La disoccupazione nel nostro Paese è meno grave di quello che appare proprio per il lavoro nero su cui, peraltro non vengono pagate tasse e contributi. Quando si dice che dipendenti e pensionati pagano fino all’ultimo centesimo, non è proprio vero, o per meglio dire è vero solo per chi lavora regolarmente. E così via.

Vorrei però spendere due parole ulteriori sugli sprechi e sulla finanza allegra. Sono stati affidati, in questo delicato campo, incarichi a fior di esperti per mettere il dito nelle piaghe e cercare di risanarle: ho la netta impressione che non siano stati ottenuti risultati significativi. Molto spesso ci si limita a sforbiciare qua e là, a tagliare dove le resistenze sono più deboli, a sacrificare settori ad alto contenuto sociale, a premiare chi nella pubblica amministrazione non lavora o lavora poco, gravando in modo spropositato su chi fa il proprio dovere, lasciando inalterati i meccanismi burocratici forieri di inefficienze e diseconomie.

Non c’è governo e ministro che tenga, se non si correggono questi perversi meccanismi, nessuno riuscirà mai a quadrare i conti e ad impostare una seria politica di bilancio. Scaricheremo le colpe sulle ristrettezze imposte dalle pur esagerate e riformabili regole europee, ma non usciremo mai dalla debolezza dei nostri conti pubblici. Alla fine si sa come vanno queste cose: ci rimettono sempre i più deboli e quanti hanno meno voce in capitolo. Quindi, di fronte al solito ritornello della mancanza di risorse nella casse dello Stato, mi chiedo: chi l’ha detto? Forse basta cercare le risorse dove dovrebbero essere e sciuparne un po’ meno.  Agli scheletri negli armadi si aggiungono i mostri nei cassetti.