Davide e Golia in conferenza stampa

Ho assistito in televisione con un mix di sensazioni tra l’imbarazzo, il disgusto e la soddisfazione alla conferenza stampa congiunta (?) del presidente Usa Trump e di quello italiano Mattarella, tenuta a latere degli incontri svoltisi nella capitale statunitense. Ho usato tre termini non a caso e infatti cerco di seguito di spiegarmi.

L’imbarazzo era dovuto al fatto di essere, come italiani, alleati storici di un Paese, che ha avuto il pessimo gusto di affidarsi ad un personaggio simile: sprizza presunzione e prepotenza dalle posture che assume, dai toni dei suoi discorsi, dagli atteggiamenti che ostenta, dall’aria di sfida che esibisce. Come minimo, umanamente parlando, è un maleducato, come massimo un arrogante. Sembrava dover scoppiare da un momento all’altro nel suo tronfio auto-compiacimento. Anche Mattarella era imbarazzato e probabilmente soffriva il non poter abbandonare la tribuna per segnare una differenza etica prima che politica.

Il disgusto derivava da un acuto senso di avversione e ripugnanza fisica e morale verso il modo cinico e aggressivo con cui Trump concepisce i rapporti internazionali, fra un menefreghista isolazionismo e un subdolo interventismo, tra un ostentato senso di superiorità e una falsa e formale disponibilità al dialogo. La questione siro-turca era trattata come rissa da cortile di un ben lontano condominio, il problema dei dazi doganali come un normale e drastico scontro fra interessi contrapposti. Il mondo concepito come sommatoria di conflitti da affrontare con cinismo e spregiudicatezza.

Però in me c’era anche molta soddisfazione, quella di essere rappresentato da Sergio Mattarella, che, in tutto e per tutto, educatamente, sobriamente e sommessamente, faceva una sorta di controcanto a Trump. Poche parole, dette bene, mirate al nocciolo metodologico dei problemi: il dialogo, il confronto, la collaborazione, la visione globale, l’europeismo nell’internazionalismo, le alleanze per crescere insieme a tutti. Lo scontro fra due impostazioni totalmente diverse. Arrivo a vedere la contrapposizione tra due culture e due civiltà.

In quella conferenza stampa l’Italia, nella concezione trumpiana, era il parente povero tollerato a malapena, ma mentre il presidente Usa esibiva la debolezza dei muscoli, il presidente Mattarella sfoderava la forza della consapevolezza dei propri limiti, della propria dignità e della buona volontà. Abbiamo dato una autentica lezione agli Stati Uniti: la diplomazia di chi non si sente inferiore né superiore a nessuno e crede nella forza del confronto fra le idee e non nel peso delle economie e delle armi.

Mi sono sentito fieramente italiano ed europeo, grato agli Usa per quanto, tra contraddizioni e ingerenze, hanno fatto in passato per il nostro Paese e per il nostro continente, assai preoccupato per quello che stanno attualmente combinando, nella confusione egoistica e populistica, in tutto il mondo di cui siamo parte integrante. Non so cosa produrrà sul piano politico questo vertice italo-americano. L’Italia ha tanti difetti, tante debolezze, tante carenze. Ebbene, nonostante tutto ciò, mi auguro che la testimonianza italiana, proposta esemplarmente da Mattarella, possa essere una goccia di pace nel mare tempestoso di guerra, un messaggio di serietà e coerenza in un mondo pieno di follie e di opportunismi.

 

 

 

Il salotto cattivo della (non) politica

Come è arcinoto, non fa notizia un cane che morde un uomo, ma un uomo che morde un cane. Nel caso specifico si trattava di due uomini che si mordevano come cani. Ecco perché non ho seguito il dibattito televisivo tra i due Matteo nazionali, Renzi e Salvini nel salotto di Bruno Vespa. Il mio non è un atteggiamento snobistico, ma una convinta difesa d’ufficio della politica con la “P” maiuscola, un “basta” tacito ma clamoroso ai politicanti truccati da politici, una scrollata di spalle al ciarpame spacciato per roba moderna, un tentativo di rientrare nella politica faticosamente praticata abbandonando quella urlata a vanvera.

Stava per andare in onda “Porta a porta” preparato dalla grancassa mediatica, ho spento il televisore ed ho pensato a mio padre.  A volte, per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto, quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Lui, con aria assonnata, rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: “No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Ma io non sono andato a dormire, prima di addormentarmi ho fatto la mia preghiera politica serale, ho letto alcuni passaggi dei preziosi libri che raccolgono il pensiero di Aldo Moro, Amintore Fanfani e Giorgio La Pira: mi sono rasserenato, dopo di che ho dormito molto bene, lontano dal frastuono insensato proveniente da un salotto televisivo che di salotto ha ben poco.

Il giorno dopo ho faticato non poco ad evitare l’eco del non avvenimento: ho chiuso gli occhi e le orecchie, ho tirato qualche respirone e mi sono messo a scrivere queste poche e povere righe. Ho tentato una similitudine calcistica, ritornando sempre agli insegnamenti paterni. Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”.

Ho seguito quindi il suo consiglio, non mi sono lasciato irretire né dalla partita, né dal dopo partita, ho semplicemente scelto un’altra partita, quella vera, quella dei problemi reali e della risposta ad essi in base alla cultura politica. Ho evitato il rischio di prendere lucciole per lanterne. Certo, è una gara durissima, quasi impossibile. In un certo senso ringrazio amaramente Renzi e Salvini per avermi aiutato a scegliere. Possibile che a Renzi non sia venuto un dubbio (solo a lui concedo a fatica questo beneficio) e non abbia pensato: “Dio mio, come sono caduto in basso…”. Ho aperto questa riflessione con la notizia che due uomini si erano azzannati come cani da combattimento, termino chiedendo scusa e rivedendo il fatto del giorno: si è trattato solo di cani, pardon…uomini, che si mordevano la coda.

 

L’esercito dei gufi

L’improvvisato connubio tra Pd e M5S sta provocando sano (?) scetticismo e incutendo insana (?) paura. Faccio parte della schiera degli scettici, un po’ perché sono tale di carattere, un po’ perché l’operazione politica pentapiddina è talmente strana da stupire anche i più smagati osservatori politici.

Sui motivi dello scetticismo mi sono ripetutamente soffermato e quindi non ci torno sopra, se non per aggiungere che, strada facendo, talune ragioni si stanno rafforzando (inaffidabilità pentastellata e visione culturale della democrazia), mentre altre si stanno diradando (impostazioni tattiche e problematiche sociali).

Molti, sia a destra che a sinistra, hanno invece paura che questa inedita alleanza possa tenere e svilupparsi nel tempo: gli uni vedono numericamente un antagonista assai competitivo, gli altri temono una sinistra troppo moderna, disincantata e sradicata dalla sua storia. E allora tutti a gufare. È pur vero che chi di gufata ferisce di gufata perisce: il Pd ha indubbiamente soffiato sul fuoco del mostro pentaleghista ed ora si trova a soffrire per l’enfasi posta sul rapporto contro natura del pentapiddismo.

La coesistenza tra i due partiti non è affatto pacifica, ma si sta consolidando sul piano tattico e ammorbidendo su quello strategico. Cresce quindi la preoccupazione che il grillismo riveduto e corretto possa combaciare in qualche modo col piddismo riveduto e scorretto.

La destra sempre più filo-leghista teme seriamente la costituzione di un polo che le contenda efficacemente il consenso popolare, mentre i puritani della sinistra mal sopportano uno snaturamento etico-storico. Più crescono queste preoccupazioni e più diventa impellente proseguire sulla strada intrapresa per non rischiare di rimanere a metà del guado con niente in mano e con la reputazione rovinata. Credo che i due partner stiano facendo sul serio e riescano, tutto sommato, ad assorbire i mal di pancia al loro interno. Il Pd, liberato dalla pressione renziana e dopo che Renzi gli ha fornito l’ultima lezione di spregiudicatezza politica, riesce ad essere più disinvolto, pragmatico e unito; il M5S esorcizza con abilità le lamentazioni dei nostalgici del vaffa, aiutato dal cinismo grillino, che tende ad inaugurare definitivamente un nuovo corso nel movimento.

Nel contratto tra Lega e M5S si vedeva chiaramente che si trattava di un matrimonio di interessi a tempo, senza alcuna possibilità di intenerimento sentimentale e “sessuale”; l’accordo tra M5S e Pd non è certamente un matrimonio d’amore, ma qualche “scopatina come si deve” potrebbe anche scapparci e, come si sa, l’appetito vien mangiando. E poi ci sono tali e tante suocere italiane e straniere che difendono questo matrimonio…e le suocere contano parecchio, hanno il potere di consolidare o distruggere i matrimoni.  Come si noterà sono partito con la puzza sotto il naso, ma, cammin facendo, comincio ad interessarmi più o meno seriamente alla questione, non per gufare ma per capire dove sta andando la politica (stavo per scrivere “andando a finire”, ma mi sono trattenuto, perché non voglio assolutamente arruolarmi nell’esercito dei gufi). E poi, ne ho viste tante…

Il minestrone salomonico

Tutti i giorni esce un’indiscrezione sulla manovra economica del governo, che viene regolarmente e immediatamente smentita. Tutti si sentono protagonisti e sparano a vanvera cifre e provvedimenti alla ricerca del colpo giusto da assestare al bilancio dello Stato. Passi fin che si tratta dei media alla disperata ricerca dello scoop che possa fare cassetta interessando e/o facendo incazzare i lettori, passi se il gioco al massacro proviene dall’opposizione che mira a screditare la manovra prima ancora che veda la luce, passi se il tiro al piccione lo promuovono le forze sociali tese ad ottenere risultati a favore dei propri associati, ma, quando il botta e risposta se lo fanno i partiti di governo o addirittura i ministri l’un contro l’altro armati, arriviamo al paradosso.

Il dialogo e il dibattito sono il sale della democrazia, ma qui non abbiamo discussione seria, siamo in presenza di uno scontro inconcludente e confusionario che indebolisce tutto e tutti. È pur vero che, come diceva un esperto in materia, un bilancio altro non è che una sommatoria di opinioni, ma se queste opinioni vengono sparate alla viva il parroco cessano di essere tali e diventano certezze di incompetenza e improvvisazione.

In questo tranello sta relativamente cadendo anche il ministro dell’economia, il personaggio competente e concludente, che dice e disdice in un tourbillon di cifre e di misure in cui penso non si raccapezzi più. Signori, vogliamo fare un po’ di silenzio, vogliamo valutare seriamente i pro ed i contro prima di uscire con annunci roboanti, vogliamo provare ad essere seri. Probabilmente i cittadini, pur istigati e strumentalizzati a destra e manca, ne sarebbero soddisfatti: è inutile fasciarsi la testa prima di cadere o cantar vittoria prima di avere vinto.

Sinceramente non ho ancora capito le intenzioni reali del governo, ma forse è meglio così. Qualcuno osserva che è sempre stato così, prima, durante e dopo le manovre economiche. Si sentono ragionamenti da parte degli addetti ai lavori, che fanno letteralmente rabbrividire, proposte contorte e contraddittorie. Non so se sia così anche negli altri Stati europei. Probabilmente sì, forse però sono capaci di occultare la loro ignoranza e la loro incertezza e sembrano più bravi e discreti.

Alla fine si dovrà pur arrivare alla quadratura del cerchio. Il partito democratico ha ottenuto le principali leve del potere in materia economico-finanziaria (ministeri chiave, il rappresentante nella commissione europea, etc.) e mi sembra che le stia manovrando in modo piuttosto insoddisfacente. Il partner di governo fa un’azione di disturbo, tentando di giocare al poliziotto cattivo (il rigorista PD) e a quello buono (lo sviluppista M5S). Il più bel tacer non fu mai scritto. Chi tace acconsente. Il silenzio è d’oro, la parola d’argento. Ce n’è per tutti i gusti.

Il governo ha varato il Def (documento di economia e finanza), poi approvato dal Parlamento: una sorta di ricetta per cucinare la minestra. Mio padre mi raccontava di una madre casalinga con tanti figli: ognuno voleva un tipo di pasta diverso e lei, per accontentare tutti, ne metteva in pentola un pugno di ogni tipo. Lascio immaginare che minestra ne uscisse. Mangiare quella minestra o saltare dalla finestra. Quella salomonica mamma finirà per fare scuola al governo: d’altra parte si dice anche che una legge è buona se scontenta tutti. Lo si potrà dire anche della politica di bilancio?

 

Solidarnosc ed “egoisnosc”

In Polonia ex presidenti, tra i quali Lech Walesa, intellettuali e rappresentanti del mondo della cultura e delle scienze, attivisti dei diritti appartenenti alla comunità Lgbt si sono mobilitati in occasione delle elezioni politiche, ma, al di là dell’esito delle urne, per intervenire sul futuro del Paese e contribuire alla sua non facile e non breve evoluzione democratica, arrestando e invertendo lo scivolamento verso una dittatura più o meno camuffata dalle sirene nazionaliste e dalla finta cultura neo-conservatrice.

Sta prendendo finalmente corpo una sfida degli anti Kaczinski per riprendere il difficile percorso democratico del post-comunismo. La Polonia da tempo infatti sta passando dagli spettri della padella dell’ormai lontano regime comunista alla brace reazionaria e nazionalista, sotto gli occhi distratti e rassegnati dell’Unione europea: troppo precipitose la legittimazione e l’accoglienza comunitarie ai Paesi dell’Est europeo consegnati ad una deriva di immaturità democratica.

Mentre la lotta contro il comunismo si basava sui disastri economici del regime a cui si opponeva strenuamente il sindacato Solidarnosc ed era ideologicamente guidata dal cattolicesimo impersonificato da papa Wojtyla, assai problematica risulta la battaglia contro la strisciante deriva pseudo-fascista, che rinchiude il Paese nella visione ristretta di un nazionalismo incredibile ma vero.

Non può più essere la Chiesa a fare sintesi fra gli oppositori e quindi si sta cercando un collante nuovo nella modernità della battaglia per i diritti. La Polonia sembra dire a tutti che la strada per il progresso politico e sociale passa oggi da cultura, scienza e protagonismo dei “diversi”. Può darsi che papa Giovanni Paolo II si “scaravolti” nella tomba, ma i tempi sono cambiati e non bastano gli scioperi oceanici, anzi il popolo corre dietro le chimere egoistiche dei muri, del sovranismo, del populismo, del nazionalismo.

La Polonia, come gli altri stati dell’ex impero sovietico, ha usufruito e sta usufruendo di enormi aiuti finanziari da parte della Ue, ma rifiuta la logica comunitaria e l’apertura agli immigrati: Solidarnosc è andata a farsi benedire ed è stata sostituita da “Egoisnosc”.

Non sono mai stato convinto della genuinità ideologica e valoriale della rivolta al comunismo dei paesi dell’Est-Europa: a mio giudizio hanno soprattutto colto una storica inversione di marcia innescata dalla crisi economica dell’impero sovietico, si sono liberati di una malattia gravissima, sono usciti dall’ospedale russo senza avere gli anticorpi difensivi verso i mali del capitalismo. Mi sovviene sempre una vignetta di Forattini in cui la gente si lasciava alle spalle le brutture del muro di Berlino e andava incontro a quelle del capitalismo raffigurate nelle siringhe dei drogati. Sono entrati sbrigativamente in Occidente, hanno abbandonato tutti (?) i difetti del comunismo ma non hanno saputo cogliere i pregi della democrazia.

In un certo senso la Polonia deve tornare indietro non per riconvertirsi al comunismo, ma per aderire pienamente al sistema democratico. L’approccio, che sembra essere stato inaugurato, mi sembra laicamente valido, culturalmente adeguato ai tempi, socialmente innovativo, ma politicamente difficile. Non so come si possano aiutare i polacchi. Credo che l’Europa dovrebbe leggere loro le regole, anche se forse è un po’ tardi. Sono entrati, si sono accomodati ed è problematico rimettere in discussione i patti che non sono stati chiari e quindi non hanno portato ad un’amicizia lunga.

La religione finanziaria

Ed eccoci di fronte all’ennesimo scandalo finanziario del Vaticano: siamo a livello di indagine riguardante alcune vendite immobiliari all’estero, in particolare case di pregio a Londra. Anche se non si registrano commenti ufficiali, la Santa Sede ha sospeso cinque funzionari: il direttore dell’Aif, l’Autorità di informazione finanziaria per la lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, istituita nel 2010 da Benedetto XVI; un influente prelato con ruoli apicali a livello di curia romana; tre dipendenti con incarichi di secondo piano negli uffici vaticani.

Gli investigatori starebbero analizzando alcuni flussi finanziari dei conti su cui transita l’Obolo di San Pietro, vale a dire le offerte fatte dai fedeli e inviate al Papa per essere redistribuite a sostegno della missione della Chiesa e delle opere di carità, ma anche e soprattutto per il sostentamento dell’apparato vaticano. Nel 2015 i conti e gli investimenti da fondi provenienti dall’Obolo avevano raggiunto la somma record di quasi 400 milioni di euro.

Quando volevo ironizzare sulla mia eventuale vocazione religiosa, ipotizzavo di entrare in convento e, in base alla mia formazione ed esperienza professionale di carattere economico, di essere immediatamente adibito alla tenuta dei conti ed all’amministrazione dei fondi riguardanti il convento stesso. Mi bastava questo, pur peregrino, pensiero per escludere categoricamente da parte mia, al di là di ogni altra considerazione, la presa in considerazione di una scelta di stampo squisitamente religioso e clericale. Non ho mai capito infatti i preti e i frati che, anche in buona fede, trafficano in campo monetario: se avevano voglia di fare soldi potevano tranquillamente rimanere allo stato laicale, salvo il dovere anche per i laici, come minimo, di accumulare ed usare correttamente il danaro.

Ricordo un triste episodio di tanti anni fa: nella chiesa di san Giovanni evangelista una statua del Sacro Cuore aveva cominciato a piangere e sanguinare. Mi recai immediatamente sul posto e vidi effettivamente qualcosa di strano, anche se poi ufficialmente l’autorità religiosa competente escluse categoricamente ogni e qualsiasi manifestazione di ordine soprannaturale. Ma il problema che oggi voglio richiamare è un altro. Immediatamente, visto il notevole afflusso di fedeli, una manina diabolica alzò considerevolmente la tariffa per l’accensione dei ceri. Per fortuna il provvedimento rientrò dopo alcune ore, ma ne rimase la traccia simoniaca.

La tentazione del danaro è sempre e comunque molto forte, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, purtroppo anche in quelli religiosi. Però a tutto c’è un limite. Non mi piace il tariffario per le celebrazioni liturgiche, peraltro ormai in disuso, ma, se l’obolo di San Pietro venisse utilizzato per fare speculazioni immobiliari, la cosa sarebbe di una gravità incredibile.

Benedetto XVI era sicuramente già intervenuto per sfrondare e bonificare il bailamme finanziario del vaticano: forse fra i motivi delle sue dimissioni c’era anche la presa d’atto del marciume esistente nella Chiesa e la inadeguatezza della sua persona ad affrontarlo in modo deciso ed efficace. Lo capisco! Papa Francesco è intervenuto con piglio più coraggioso, ma il potere finanziario e burocratico annidato nei meandri della Santa Sede è fortissimo. Le riforme strutturali e il ricambio dirigenziale scivolano come gocce d’acqua sui vetri della finanza vaticana. Papa Giovanni Paolo I, il cardinale Luciani, sono convinto sia crollato anche fisicamente davanti alle malefatte dello Ior ed agli scandali relativi. Sono passati da allora parecchi anni, ma il problema rimane e resiste all’alternarsi della santità dei papi.

Ho sempre sostenuto che sarà più facile che i preti si sposino, che le donne diventino preti, che anche i laici possano celebrare la messa, piuttosto che le finanze vaticane siano amministrate da laici galantuomini, completamente estranei a certe logiche ed a certi schemi. La difesa d’ufficio più rassegnata sostiene che anche nella Chiesa ci sono i profittatori e i delinquenti (il vangelo in alcuni passaggi lascia intendere che Giuda Iscariota, addetto alla cassa del gruppo, fosse piuttosto malandrino: può darsi fosse soltanto l’eco della ben più grave e scandalosa vicenda del tradimento); la linea difensiva più intelligente invece giustifica certi comportamenti con la motivazione che anche la Chiesa ha le sue necessità e quindi deve fare i conti  con le risorse necessarie…

Giriamola pure come vogliamo: resta il fatto scandaloso di una Chiesa coinvolta clamorosamente nelle peggiori prassi del sistema finanziario. Gesù caccia i mercanti dal Tempio, ma questo gesto stupendo nella sua provocatoria purezza di fede, risulta, in un certo senso, superato dai tempi. Se infatti Gesù tornasse in terra, non ritroverebbe soltanto i mercanti nel Tempio, ma la Chiesa inserita e impegnata nel mercato.

Mamma li americani!

Chi capisce cosa succede in Siria è bravo. Ho rinunciato da tempo e mi sono rifugiato nel pacifismo ante litteram considerato che tutte le parti in causa mettono in campo interessi inconfessabili. Forse solo i Curdi, con la loro storica ricerca di un territorio autonomo, meritano considerazione e infatti sono lì in mezzo e prendo botte da tutte le parti, dai nemici e dagli amici.

Di fronte alla Turchia che fa un gioco spregiudicato di invadenza, i Paesi europei sembrano maldestramente condannare, gli Usa dicono e disdicono, la Russia rientra in campo, i Paesi arabi farneticano come loro solito. Ci penserà il Consiglio di sicurezza dell’Onu a non concludere un cazzo. Mi scuso per la superficialità di giudizio e per il tono meramente provocatorio.

Nel bailamme siriano mi ha però colpito una frase sibillina pronunciata dal presidente americano Donald Trump, il quale ha gettato acqua sui timori di combattenti dell’Isis in fuga dalla Siria per l’attacco della Turchia, indicando che tanto «scapperebbero in Europa». Trump, incalzato dai giornalisti sulla sua decisione di ritirare le truppe Usa dal nord della Siria e il conseguente attacco di Ankara, ha detto che nella lotta all’Isis «non c’è stata reciprocità» con l’Europa e che le responsabilità dell’America nella cattura dei militanti sono state spropositate rispetto all’impegno degli alleati.

In buona sostanza a Trump non frega niente se i terroristi invadono l’Europa anche perché avrebbe fatto ben poco per contrastarli. Non sono in grado di valutare oggettivamente il contributo dato dalla Ue alla lotta contro l’Isis, ma prendo atto che l’alleanza euro-americana non esiste più e Trump ci tratta come uno dei tanti pezzi che si muovono sulla scacchiera internazionale. Mi scappa detto che forse non ha tutti i torti Matteo Salvini a spingere per un rapporto di qualche collaborazione con la Russia di Putin: stanno saltando infatti i tradizionali legami occidentali.

Quando l’indomani della elezione (?) di Trump, che io giudico un colpo di stato legalizzato (ricordiamoci che Hillary  Clinton aveva ottenuto oltre un milione di voti in più…), molti alzavano le spalle sostenendo apertamente o tacitamente che in fondo si trattava di questioni americane, sbagliavano di grosso e forse se ne stanno accorgendo allorché Trump ammette di essere disinteressato alle eventuali ripercussioni terroristiche sull’Europa a causa del disimpegno americano in Siria e della contemporanea offensiva scatenata dalla Turchia.

D’altra parte ancor più emblematica è la questione dei dazi americani sui prodotti europei: ognuno si faccia i propri interessi, punto e stop. Questo è il clima in cui viviamo. I rapporti internazionali sono sempre stati inquinati da sporchi interessi di parte, ma forse stiamo raggiungendo l’apice della confusione nella quale oltre tutto l’Europa parla lingue diverse da tutti i punti di vista. C’è di che essere sconfortati. Come Italia abbiamo un grosso vantaggio, quello di poter contare sulle doti diplomatiche e sulla lungimiranza politica di un autentico statista come Luigi Di Maio. Al solo pensare che la nostra politica estera sia in mano a lui mi viene freddo. L’hanno messo lì per dargli un contentino dopo la debacle pentaleghista di cui era il trimalcione grillino. Ma non si poteva trovargli un posticino un po’ più defilato?

L’inutile polemica pubblica sui servizi segreti

Non ho sinceramente capito il succo delle critiche rivolte da Matteo Renzi a Giuseppe Conte in merito al controllo sui servizi segreti. Resto fermo a quanto affermava in via confidenziale Aldo Moro: i servizi segreti utilizzano le spie che sono la peggiore categoria di persone e quindi risulta difficile manovrarle ed assai problematico impostarne, contenerne e controllarne l’operato; tendono a sfuggire di mano, a confondere i ruoli fra spionaggio e controspionaggio; non ci si capisce dentro mai niente. I servizi segreti sono necessari? Purtroppo sembrerebbe proprio di sì. E allora? Bisogna cercare di tenerli sott’occhio. Non invidio chi lo deve fare. Si sa che in passato sono spesso sfuggiti di mano o addirittura sono stati manovrati contro lo Stato e le sue Istituzioni.

Il leader di Italia Viva ha chiesto al presidente del Consiglio di fare chiarezza sull’incontro tra il ministro della Giustizia Usa e i vertici dell’intelligence italiana. Obiettivo dell’indagine di Washington è stabilire se Roma abbia collaborato con i democratici per fabbricare false prove sul Russiagate. Matteo Renzi suggerisce al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di andare al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che esercita il controllo sull’operato dei servizi segreti italiani, a spiegare tutto sulla “spy story”, che ha coinvolto il ministro della Giustizia Usa William Barr, “venuto a incontrare segretamente il capo del Dis Vecchioni”. Fin qui niente da eccepire.

Renzi aggiunge: “I Servizi segreti italiani vanno messi in condizione di lavorare perché da loro dipende la vita dei nostri connazionali rapiti all’estero, delle operazioni di contro-proliferazione del terrorismo e sono in stragrande maggioranza degli straordinari professionisti. Personalmente penso che il presidente del Consiglio, in generale e nello specifico quello di adesso, farebbe bene a dare la delega dell’Autorità delegata ai Servizi. Suggerisco, nell’interesse del presidente del Consiglio, di avere un signor professionista che si occupi di queste cose e di non metterci sempre lui in mezzo”.

Sinceramente non mi sembra opportuno delegare a un tecnico un compito così delicato e importante e quindi non capisco dove voglia parare Renzi. Così come mi sembra pleonastica e invadente la raccomandazione di relazionare al Copasir sulle questioni inerenti ai servizi segreti. O ci sono seri motivi per dubitare sull’adempimento di questo obbligo o si tace.

Il premier Conte, dal canto suo, afferma: «L’intelligence è il presidio della democrazia, non essendo concepibile che si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il Governo le assegna». È evidente che, alla vigilia della sua audizione al Copasir (non appena ne sarà nominato il presidente), al capo dell’esecutivo prema sottolinearne la centralità e la rilevanza. Non è certamente suo interesse cercare nuovi nemici o nuovi conflitti, ma anzi è una sua priorità chiarire la posizione allineata «al servizio della patria». Non a caso elogia i vertici dei servizi: «Permettetemi di cogliere anche questa occasione per esprimere il mio più sentito apprezzamento e ringraziamento per l’operato dei vertici del comparto e per ringraziare tutte le donne e gli uomini per l’attività quotidiana che svolgono al servizio della Nazione».

Conte, poi, per sgomberare il campo dagli equivoci circa il suo possibile asservimento al presidente americano Donald Trump al cui servizio avrebbe messo a disposizione la nostra intelligence, con i due incontri tra il ministro di giustizia statunitense William Barr e il direttore del Dipartimento che si occupa delle informazioni per la sicurezza della Repubblica, Gennaro Vecchione, ribadisce che «l’interesse nazionale è il perno dell’azione». E ancora, rivolto ai neo assunti a livello dei servizi di intelligence: «Ogni sera andrete a letto convinti di aver rispettato la Costituzione ed i valori democratici e la mattina vi sveglierete più determinati che mai ad onorare la patria». Per il premier, insomma, è fondamentale ribadire che «l’intelligence è patrimonio dell’intera nazione, una comunità di valorosi professionisti che, garantendo la sicurezza del Paese, protegge quella sfera di interessi nazionali che unisce e non divide, nella quale tutti i cittadini italiani si riconoscono e debbono potersi riconoscere».

Le osservazioni renziane mi sembrano niente più di un modo per tenere sulla corda il presidente del Consiglio, partendo peraltro da argomenti molto delicati da usare con estrema cautela nella polemica politica. Le repliche di Conte mi paiono scontate e un tantino ingenue. Se Renzi ha qualcosa di importante da dire a Conte, lo faccia in separata e riservata sede. Se Conte si sente tranquillo, tanto meglio per tutti, ma stiamo attenti e con le orecchie e gli occhi aperti, perché quanto affermava Aldo Moro mantiene intatta tutta la sua inquietante attualità.

 

Seggiolini e seggioloni

Per ironia della sorte il giorno in cui viene varato il decreto che impone l’uso nelle automobili dei seggiolini anti smemoratezza genitoriale, in un asilo del torinese una macchina viene parcheggiata in salita senza freno a mano e investe alcuni bambini ferendone uno in modo piuttosto grave. Io ci vedo una morale, senza voler colpevolizzare alcuno: non c’è decreto che tenga, se non si sta attenti a quel che si fa. Ammetto sia difficile porre sempre la massima attenzione nel nostro comportamento, ma non esiste alternativa sufficiente ad evitare i rischi. Aiutati che il decreto ti aiuta.

Il Parlamento italiano avrà 345 parlamentari in meno: una legge di riforma costituzionale approvata quasi all’unanimità. Non entro nel merito del drastico provvedimento: il numero dei parlamentari non è un assoluto della democrazia, il parlamento sì, almeno di una democrazia parlamentare come la nostra. Facendo però un parallelismo con il discorsetto di cui sopra, non illudiamoci di avere risolto così il problema della distanza politica delle istituzioni dai cittadini, la questione della correttezza della politica e, men che meno, l’esigenza di risparmiare sulle spese erariali.

La nostra società, a tutti i livelli e in tutti i campi, è alla disperata ricerca delle scorciatoie e si illude così di raggiungere frettolosamente la meta, senza capire che l’uso delle scorciatoie presuppone una chiara e precisa consapevolezza della destinazione finale e della strada maestra, su cui, prima o poi, bisogna tornare.

Se consideriamo la politica come un inutile spreco di risorse e la tagliamo di brutto, rischiamo di non ritornare più sulla strada principale della democrazia e di vagare perdutamente nei meandri del populismo. Non darei quindi al provvedimento appena varato un significato eccessivo: o serve al recupero di efficienza del parlamento (e non sarà cosa facile) o rischia di indebolire ulteriormente il rapporto fra cittadini e istituzioni. Non intendo drammatizzare questa legge né in senso positivo, né in senso negativo. Sicuramente può essere solo un tassello in una ben più ampia riforma costituzionale e in un processo di rifondazione della politica al servizio dei cittadini.

Una complessiva riforma della carta costituzionale è stata ripetutamente tentata e regolarmente fallita. L’ultimo tentativo renziano è stato ignobilmente esorcizzato: poteva essere certamente qualcosa di più e di meglio rispetto alla sbrigativa sforbiciata dei parlamentari. In Italia l’importante non è cambiare seriamente, ma far finta di cambiare assai poco seriamente.

Cosa serve l’obbligo dei seggiolini anti-panico se i genitori non riescono a impostare la loro vita nel rispetto di quella dei figli anche a costo di impoverirsi materialmente. Cosa serve mettere in galera chi usa maldestramente l’automobile se non capiamo che la macchina è un bene da usare con grande e scrupolosa attenzione a costo di perdere (?) un po’ di tempo e di fare un po’ meno gli sbruffoni. Cosa serve ridurre le seggiole istituzionali se chi le occupa è e resta un incapace e chi lo elegge lo fa in base a criteri superficiali e genericamente protestatari. Diamoci tutti una bella e sana regolata, poi se ne potrà parlare.

 

 

Nella notte razzista, tutti i delinquenti sono immigrati

Ogni pretesto è valido per drammatizzare e fuorviare il problema dell’immigrazione. Mio padre, al contrario, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón agh va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…».

Due poliziotti sono morti a Trieste in una sparatoria in Questura. A sparare è stato un rapinatore che avevano fermato e che era insieme al fratello. Secondo una nota della stessa Questura, “i due fratelli erano stati accompagnati in Questura da personale delle Volanti dopo un’attività di ricerca del responsabile della rapina di uno scooter, avvenuta nelle prime ore del mattino. Per motivi in fase di accertamento – si legge nella nota – uno dei due ha distolto l’attenzione degli agenti e ha esploso a bruciapelo più colpi verso di loro. Entrambi hanno tentato di fuggire dalla Questura, ma sono stati fermati”. I due fratelli sono originari della Repubblica Dominicana. A sparare ai due poliziotti è stato quello descritto come affetto da disagio psichico.

Immediatamente, a latere di una sacrosanta ondata di sdegno per questo inquietante atto criminale, di spontanea condanna del clamoroso gesto criminale e di doveroso solidarietà verso gli operatori delle forze dell’ordine che rischiano la vita nell’adempimento del loro delicatissimo e importantissimo compito spesso dimenticato e sottovalutato, è partita la vergognosa strumentalizzazione del fatto che gli autori di questa folle azione criminale siano stranieri: vale sempre più la xenofoba e razzista espressione secondo la quale “straniero è uguale a delinquente”. Dimostrare, dati alla mano, che gli stranieri, gli immigrati in particolare, sono perfettamente in media rispetto alla delinquenza nostrana, non serve a nulla: non vale la temperatura reale, ma quella percepita, che risente del tasso di menagramo esistenti.

Adesso, da una parte si avrà la stucchevole invettiva di chi vuole fornire i cannoni alla polizia per battere la delinquenza, senza sapere che con i cannoni è difficile mirare sul giusto bersaglio ma si spara nel mucchio; dall’altra parte si criminalizzeranno tutti gli immigrati, con una generalizzazione assurda e dettata soltanto dalla paura alimentata da chi vuol creare un clima di scontro sociale su cui basare le proprie fortune politiche. Magari si tenderà scriteriatamente persino a bloccare l’iter parlamentare di una sana e positiva legge sulla cittadinanza agli stranieri, si chiami ius culturae, ius soli o come dir si voglia.

Di fronte a questo dibattito falsato, oltre a chi ci guazza dentro e soffia irresponsabilmente sul fuoco, esiste chi cerca di usare i guanti di velluto sollecitando e promettendo i soliti impossibili rimpatri: come se bastasse un decreto per scovare e riportare in patria i clandestini, senza contare che nei clandestini sono compresi anche soggetti che, pur non rientrando formalmente nelle categorie da accogliere, vivono comunque nei loro Paesi in situazioni disperate dal punto di vista economico e sociale.

Sarebbe molto più serio e onesto, ammettere innanzitutto che degli immigrati abbiamo bisogno, che quindi il fenomeno va gestito con razionalità e buon senso, che occorre affrontarlo in un clima costruttivo a livello nazionale ed europeo,  che nessuno può velleitariamente sbandierare ricette assurde, inapplicabili ed inumane come la chiusura dei porti e che dobbiamo rassegnarci  a fare i conti col fenomeno migratorio di cui siamo quanto meno corresponsabili, fenomeno che, al momento, non presenta peraltro quantitativi allarmistici, ma che, se non affrontato seriamente sulla base di politiche razionali ed umanitarie, può effettivamente creare grosse preoccupazioni. Insomma, in ordine all’immigrazione si può dire, parafrasando il noto proverbio, che la lingua batte a sproposito dove si vuole a tutti i costi che il dente dolga.