Il potere sì, le donne forse

Mi sono sempre chiesto perché la Chiesa, soprattutto nella sua gerarchia, sia stata e ancor oggi sia così testardamente incallita nella difesa dell’obbligatorietà del celibato sacerdotale. Non ho sinceramente trovato richiami evangelici, motivi dottrinali e cause storiche convincenti al riguardo. L’unica maliziosa, ma fondata, spiegazione la trovo nella vocazione clericale all’esercizio del potere. Mi si dirà: cosa c’entra il potere con il celibato? C’entra eccome: i preti non sposati formano una casta che li distingue dal mondo, non tanto per allontanarli da una mentalità materialista e pagana, ma per esercitare una carismatica influenza sui credenti e non credenti, che scantona inevitabilmente nel clericalismo puro e duro, condizionante l’istituzione ecclesiastica e la società intera. Il celibato, spacciato per rinuncia agli affetti e ai sentimenti di routine per puntare a quelli più alti e universali, finisce con l’essere l’anticamera di una smania incontenibile di prevaricazione sociale e financo politica.

Potrà mai l’Amazzonia scombinare le carte della Chiesa al punto da imporle una revisione anche a questo livello? Di necessità virtù? Dal particolare al generale? Dalle foreste alle città? Da cosa nasce cosa? Da cambiamento a cambiamento? Non lo so! Qualcosa comunque forse si sta muovendo.

Il Sinodo sull’Amazzonia sta segnando un punto di svolta. Il Sinodo dei vescovi, visto dal punto di vista gerarchico-burocratico, è un organo consultivo che ha il compito di consigliare il Papa. Se però si comincia a discutere e il Sinodo da mero strumento di consultazione diventa uno stile di vita ecclesiale, i punti delicati non possono sfuggire e devono essere affrontati: la difesa dell’ambiente, la questione ecologica, la giustizia sociale, il calo delle vocazioni, il ruolo della donna.

Si è partiti dalla situazione concreta e specifica della regione panamazzonica, dove “molte delle comunità ecclesiali hanno enormi difficoltà di accesso all’Eucaristia” a causa delle enormi distanze territoriali, per allargare il discorso: pur apprezzando “il celibato come dono nella misura in cui questo dono permette al sacerdote di dedicarsi pienamente al servizio del popolo di Dio”, si arriva finalmente a riconoscere che il celibato “non è richiesto dalla natura stessa del sacerdozio, anche se possiede molteplici ragioni di convenienza” ed a proporre di “stabilire criteri e disposizioni da parte dell’autorità competente per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiano un diaconato permanente e  ricevano una formazione adeguata, che possano avere una famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parole e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica”.

Le comunità ecclesiali in tutto il mondo vivono a diverso titolo e in diverso modo difficoltà nell’accesso all’Eucaristia: in Amazzonia è questione di fare viaggi lunghi e impossibili, da noi è ancor peggio, perché è questione di viaggi ben più difficili a livello di coscienza individuale e collettiva. E allora, perché in Amazzonia sì e nel resto del mondo no? In effetti nel documento finale del Sinodo alcuni vescovi “si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento”.

Sembra facile, ma non lo è. Infatti si sono scatenate e continueranno a scatenarsi le reazioni conservatrici e tradizionaliste, che minacciano sfracelli dottrinari oltre a vere e proprie scissioni. E, come scrive Domenico Agasso JR su “La Stampa” al cui articolo ho attinto, non sono mancati neanche colpi di scena pittoreschi, come il furto di statuette raffiguranti una donna incinta dai tratti indigeni (la «Pachamama») e il loro lancio nel Tevere. Le sculture in legno sono state additate da blog e siti conservatori, in aperta campagna mediatica contro Bergoglio, come «simboli pagani»: da qui, esultanze e approvazioni per il blitz («giustizia è fatta»).

Un altro argomento dirompente affrontato dal Sinodo è quello del «ruolo fondamentale delle religiose e delle laiche nella Chiesa amazzonica e nelle sue comunità». Perciò viene sollecitato “il diaconato permanente per le donne”. Già nel 2016 papa Francesco aveva creato una «Commissione di studio sul diaconato delle donne» che è arrivata a un risultato parziale. E poi i lavori si erano interrotti. Ora i sinodali dicono: “Vorremmo condividere le nostre esperienze e riflessioni con la Commissione e attenderne i risultati”. Proposta subito accolta da Bergoglio, che ha già preannunciato la riconvocazione. L’attenzione è anche rivolta alle “donne vittime di violenza fisica, morale e religiosa, femminicidio compreso”. E poi, nei “nuovi contesti in Amazzonia, dove la maggior parte delle comunità cattoliche sono guidate da donne”, si invita a creare il ministero istituito di “donna dirigente di comunità”. Altre novità non di poco conto.

Resta in me il rammarico che certe innovazioni possano essere introdotte solo per stato di necessità, per puro pragmatismo pastorale, per costrizione culturale e non per scelta evangelica e caritativa. “Putost che niént é mej putost”, meglio leccare un osso che un bastone. Forse sono un po’ cinico e disfattista. Sperare si deve sempre e comunque. Magari lo Spirito Santo ha colto l’occasione amazzonica per scuotere mentalità e coscienze su parecchie materie. Per papa Francesco gestire il dopo-sinodo non sarà una passeggiata: prego ancor più convintamente per lui.

Termino con un piccolo aneddoto. Un carissimo prete amico, che fin dagli anni settanta si poneva acutamente e saggiamente certe problematiche, mi raccontava di una messa crismale del Giovedì Santo, durante la quale i sacerdoti rinnovarono le loro promesse, fatte al momento dell’ordinazione, rispondendo “Lo voglio” alle domande retoriche del Vescovo. Qualcuno tra il serio e il faceto rispose “La voglio” con chiaro riferimento ad una moglie con cui vivere. Speriamo che il Sinodo sull’Amazzonia abbia sdoganato le donne, affinché possano essere degne compagne dei sacerdoti ed esse stesse sacerdoti o giù di lì.

Seri dubbi e demagogiche certezze

Molti anni or sono, in un confronto televisivo tra l’intelligente e brillante giornalista-conduttore Gianfranco Funari e l’allora segretario del partito popolare Mino Martinazzoli, uomo di grande profondità etica e culturale, il politico, interrogato e messo alle strette, non si fece scrupolo di rispondere in modo piuttosto anticonvenzionale ed assai poco accattivante, ma provocatoriamente affascinante, nel modo seguente (riporto a senso): «Se lei sapesse quante poche certezze ho e da quanti dubbi sono macerato… Nutro perplessità verso chi ostenta troppe certezze». L’esatto contrario dell’attuale cliché che vuole tutti pronti a sputare sentenze su tutto.

La sentenza è arrivata in questi giorni: mi riferisco a quella della Consulta, che ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, ammettendo conseguentemente per il futuro che ogni ergastolano, mafioso compreso, possa rivolgersi al giudice di sorveglianza per chiedere i benefici carcerari (permessi-premio, semilibertà, possibilità di lavoro esterno). Per i mafiosi la condizione imprescindibile per godere di tali benefici era finora la collaborazione con la giustizia (in una parola il cosiddetto pentitismo), d’ora in poi la Corte costituzionale dice che la collaborazione non può essere il requisito unico per valutare un mafioso all’ergastolo, ma ci sono altri requisiti: la cessazione dell’adesione all’associazione criminale, la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, la partecipazione al percorso rieducativo.  In estrema sintesi, mentre fino ad ora il detenuto ergastolano per delitti mafiosi, se non collaborante e pentito, veniva considerato in modo assoluto come un pericolo sociale e quindi non poteva uscire di carcere per nessun motivo, adesso la valutazione caso per caso spetterà al magistrato di sorveglianza, la cui valutazione dovrà basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni di varie autorità competenti in materia.

Di fronte a questa sentenza, peraltro in linea con una recentissima decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è scatenata la reazione dei politici in cerca di facili polemiche con cui attirare il consenso della gente poco informata e molto allarmata in una materia delicatissima e fortemente strumentalizzabile.

Se devo essere sincero di fronte a questa problematica mi sento, come diceva Martinazzoli, pieno di dubbi e con poche certezze. Da una parte capisco e condivido come ogni carcerato, ergastolano compreso, abbia diritto alla rieducazione e quindi a seguire un percorso di reinserimento sociale che comporti quindi certe concessioni. Se questo discorso debba valere anche per i mafiosi non ufficialmente e concretamente “pentiti” è un punto assai discutibile: siamo di fronte a persone che generalmente si sono macchiate di crimini orrendi, che spesso mantengono anche dal carcere subdoli rapporti con la criminalità e per le quali risulta difficile capire se siano disposte a cambiare radicalmente mentalità e vita. Da una parte tutti hanno diritto a una prova d’appello, ma al contempo la società ha il diritto/dovere di difendersi e di segnare un netto contrasto rispetto alle organizzazioni mafiose recidendo con esse ogni e qualsiasi legame diretto o indiretto.

La Corte costituzionale ha rinviato il problema alla valutazione del magistrato di sorveglianza, il quale dovrà tenere conto del comportamento tenuto dal carcerato e della venuta meno della sua pericolosità. Non sarà così facile ottenere in pratica i benefici rieducativi anche se, in teoria, non possono essere aprioristicamente ed assolutamente esclusi.  In fin dei conti è giusto che la magistratura, che ha comminato la pena, decida sul decorso della pena stessa, seppure in diverse sedi giudiziarie.

Se comunque mantengo seri dubbi sulla validità del pronunciamento della Consulta, nutro la certezza che la politica deve smetterla di scandalizzarsi di tutto per raccogliere consenso e facendo mera e continua propaganda elettorale. Si chiamino Lega o M5S, ci diano un taglio e facciano politica seriamente, lasciando ai giudici il loro mestiere e soprattutto alla Corte costituzionale quello di stabilire la compatibilità delle norme di legge con la Carta fondamentale della nostra società democratica.

I Miserabili di Giuseppe Conte

In seguito all’omicidio di Luca Sacchi, il ragazzo di 24 anni, ucciso con un colpo alla testa, mentre difendeva la fidanzata da uno scippo, davanti a un pub a Colli Albani, alla periferia di Roma il leader della Lega “commosso e addolorato” per la brutale uccisione del personal trainer, aveva subito puntato il dito contro l’attuale esecutivo.  “Prego per Luca e sono vicino alla sua famiglia. Ma sono anche incredulo e sdegnato perché è inconcepibile quello che è accaduto. Da ex ministro dell’Interno fa ancora più male vedere tutta l’insicurezza della capitale governata dai 5Stelle e i tagli disastrosi che Renzi, Conte e Zingaretti fanno al fondo per le forze dell’ordine”.

“Se qualcuno si permette di fare speculazioni su un fatto del genere in campagna elettorale lo trovo miserabile”. Risponde così Giuseppe Conte agli attacchi di Matteo Salvini. “Qui rischio di arrabbiarmi, Si può ingrassare il consenso in tutti modi, ma se si pensa di lucrare consenso in questo modo lo trovo davvero miserabile”.

La prima riflessione è indubbiamente da fare sul fatto in sé: dimostra a quale punto di caduta è arrivata la nostra società in cui si uccide con una facilità estrema in un micidiale mix di prepotenza machista e di delinquenza sbrigativa. È una società profondamente malata e la malattia sta colpendo le giovani generazioni: occorre un sussulto valoriale e culturale prima di un impegno politico ed amministrativo. Purtroppo invece vi è chi si butta a pesce sulla più incoerente e spregiudicata speculazione politica dimenticando tutto il resto. Mi sembra questo il senso più profondo della piccata risposta del premier Giuseppe Conte al gufo sempre di turno.

La seconda riflessione riguarda i rapporti passati e presenti fra Conte e Salvini. Per reagire in modo così deciso e pesante bisogna proprio dire che il presidente del Consiglio avesse fatto il pieno di umana sopportazione durante la convivenza governativa con Matteo Salvini. Evidentemente aveva dovuto ingoiare una quantità ragguardevole di rospi e ora li sta sputando in faccia a chi glieli aveva propinati. Tutto ciò non risponde al galateo della politica, ma anche la politica ha bisogno di umani sfoghi. Giuseppe Conte ha tutta la mia comprensione: questi emergenti tratti umanissimi del suo carattere e del suo comportamento contribuiscono a rivalutarlo ulteriormente ai miei occhi ed alle mie orecchie.

Però, forse ha aspettato troppo ad accorgersi della miseria delle persone con cui aveva a che fare, ha sopportato troppo e troppo lungamente al punto da rischiare di non essere credibile nella sua precipitosa conversione. Spero gli serva da lezione, perché il problema della speculazione e propaganda elettorale non finisce con Salvini. È un discorso che si annida nella politica e quindi anche nei partiti che formano e sostengono l’attuale compagine governativo giallo-rossa o penta-piddina come dir si voglia. Ed è proprio, anche se non solo, il movimento, da cui ha preso le mosse, fin dalla prima candidatura, la discesa in politica del nostro professore, ad essere contaminato continuamente da questo vizio demagogico. Si sappia regolare e speriamo non occorra un terzo governo da lui presieduto per aprirgli definitivamente gli occhi e spalancargli la bocca.

 

A colpi di Russiagate

Il caso è chiuso, da questa vicenda ne esco più forte: è questa la convinzione del premier Giuseppe Conte, rimasto in silenzio da settimane e che ha voluto rispondere direttamente del ‘Russiagate’ sia al Copasir e sia ai cronisti, “anche per chiarezza nei confronti dei cittadini”. Proprio per mettere a tacere “le ricostruzioni” che hanno rischiato di gettare “ombre” sull’attività dei nostri Servizi.

La vicenda ruota attorno all’inchiesta condotta negli Stati Uniti dal procuratore Robert Müller e volta a scoprire le collusioni tra lo staff di Donald Trump e la Russia nei tentativi di inquinare la campagna elettorale americana del 2016, screditando la candidata democratica Hillary Clinton e indirizzando il voto a favore dello stesso Trump. Ora il presidente Usa, che nel frattempo rischia la procedura di impeachment per un’altra vicenda – le sue conversazioni con il premier ucraino Zelensky al quale chiedeva di indagare sul figlio di Joe Biden, sfidante democratico nella corsa alla Casa Bianca 2020 – sta cercando di mettere in atto una mossa del cavallo, trasformando il Russiagate in un complotto contro di lui ordito all’epoca da Barack Obama con la complicità di Matteo Renzi, allora premier italiano: in questo scenario si inserisce la visita di Barr, emissario di Trump, in Italia e i suoi irrituali incontri con i servizi segreti tra agosto e settembre.

Durante l’audizione al Copasir il premier secondo quanto si apprende è stato duramente criticato dalla Lega mentre il Movimento 5 stelle ha mantenuto un atteggiamento più’ morbido. Per Conte dunque la vicenda è stata chiarita. Tuttavia chi ci capisce qualcosa è bravo! Non riesco a immaginare un coinvolgimento di Giuseppe Conte, e di Matteo Renzi prima, in questa vicenda che probabilmente rimarrà negli annali delle inestricabili vicende spionistiche. Penso e spero che il premier attuale abbia detto la verità di fronte al Comitato per la sicurezza e davanti ai microfoni (la solita velleitaria e paradossale pretesa italiana di avere i servizi segreti pubblici). Quanto a Renzi mi puzza molto di fantasioso e meramente difensivo il suo coinvolgimento in una manovra concordata con Obama per danneggiare Trump, per il quale la miglior difesa è sempre l’attacco: è invischiato in mille opache vicende e intende trascinare nella bagarre i suoi avversari passati e presenti. Un gioco al massacro bello e buono.

Quello che non mi è piaciuto è il proditorio e disgustoso attacco salviniano, che sa tanto di “prima gallina che canta ha fatto un altro uovo”. Il leader leghista, imitando Trump, vuole sollevare un polverone dietro cui nascondere il suo Russiagate. A differenza di Conte si è sottratto al dovere di fornire spiegazioni sull’altra sua strana vicenda russa, chiarendo di cosa esattamente abbia parlato il suo consulente e collega di partito Savoini nell’incontro a Mosca e se fosse completamente all’oscuro di quella trattativa, condotta da un suo consulente che trattava affari legati al petrolio citando il futuro della Lega.

Infatti è arrivata puntuale la stoccata di Giuseppe Conte, in conferenza stampa dopo l’audizione al Copasir: “Forse Matteo Salvini dovrebbe chiarire che ci faceva il ministro dell’Interno assieme a Gianluca Savoini, con le massime autorità russe e il responsabile dell’intelligence russa. Dovrebbe chiarirlo a noi e agli elettori leghisti. Dovrebbe chiarire se è idoneo o no a governare un Paese”. Non mi è piaciuta neanche la sortita contiana, non in linea con la tardiva idea piuttosto positiva che mi sono fatta di lui, molto comprensibile e spontanea, ma altrettanto inopportuna per un capo di governo, che non si dovrebbe lasciar trascinare, di fronte a microfoni e telecamere in risse da cortile e tanto meno in diatribe riguardanti questioni delicate e riservate. Ma tant’è. Chi di Russiagate vuole ferire, gira e rigira, di Russiagate finirà per morire. Ognuno può individuare il feritore e il morituro a suo piacimento.

 

Dal contratto al casino, ma Conte…

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Non vorrei che succedesse così tra i partiti che sostengono il governo Conte II.

Nella maggioranza giallo-verde o penta-leghista, come dir si voglia, i contrasti, nonostante la sottoscrizione di un contratto, erano reali e profondi e, al di là degli svarioni tattici, hanno portato alla rottura insanabile tra forze politiche sostanzialmente diverse e contrapposte. Nella maggioranza giallo-rosa o penta-piddina, come dir si voglia, le divergenze programmatiche non sembrano molto profonde e si riducono spesso a scaramucce strumentali aventi prevalentemente lo scopo di tener vivo l’elettorato di riferimento e garantirsi uno spazio politico a livello mediatico.

Il discorso riguarda soprattutto il M5S, che ha una paura fottuta di essere schiacciato dal rapporto Conte-Pd, e il novello partitino renziano, che, per rimanere vivo e crescere, ha bisogno di una grancassa continua, che lo distingua dall’abbandonata casa-madre piddina. Per far finta di litigare ogni pretesto è buono: non so fino a quando il giochino potrà continuare e non sfocerà nel vero litigio ipotizzato ironicamente da mio padre.

Restano validi i motivi tattici che hanno portato alla costituzione di questa maggioranza anti-Salvini, anti-elezioni, anti-sovranismo etc. etc. Il premier Conte si sta rafforzando giorno dopo giorno a tutti i livelli: ha l’appoggio del presidente della Repubblica, è ben visto oltre Atlantico, ha buoni rapporti a livello istituzionale e personale con la Ue, dialoga con le forze economiche e sociali, gode di grande stima e considerazione oltre Tevere, ha un alto indice di gradimento da parte dei cittadini, è molto furbo ed avveduto nei rapporti con i partiti e il Parlamento, si presenta, Dio mi perdoni, come un mix tra Andreotti, Forlani e Moro, è indubbiamente, e lo dico in senso positivo, il più democristiano dei politici attuali. Sarà una gara durissima farlo fuori con manovre più o meno leali.

I partiti e partitini, che, magari obtorto collo, sostengono l’attuale governo, si devono rendere conto che l’equilibrio raggiunto non è facilmente smantellabile. Non capisco dove vogliono parare il M5S e Italia viva, quale sia la loro strategia politica e nemmeno quale possa essere la loro tattica. Vi ricordate la barzelletta dei politici italiani piccoli, storti e malfatti: erano tre personaggi di primo piano di allora. Può valere anche per grillini e renziani, che appaiono effettivamente “piccoli”, o almeno in grosso calo o in piccola partenza, “storti” in quanto seguono una via politica tortuosa e incomprensibile, “malfatti” perché non hanno radici, storia, ideologia alle loro spalle. L’unica formazione politica, pur con tutti i limiti e i difetti che si ritrova, ad avere un filo logico, magari piuttosto tenue, è il partito democratico, che peraltro ha in mano i rapporti con la Ue e i ministeri economici (scusate se è poco…). Giuseppe Conte lo sa e soprattutto dimostra di saperlo e questo dà un fastidio enorme agli altri partner di governo.

D’altra parte bisogna capirli. I pentastellati hanno, due anni fa, inventato un premier nella persona di Giuseppe Conte. Si sono illusi di controllarlo. Poi, ad un certo punto è loro sfuggito di mano per andare sulla propria strada e diventare addirittura potenzialmente alternativo rispetto alla debole leadership grillina. Adesso flirta addirittura col Pd. Per Di Maio e c. è decisamente troppo, difficile da ingoiare, nonostante i sorsi d’acqua forniti ripetutamente da Beppe Grillo.

Renzi ha inventato la coalizione giallo-rossa in chiave meramente tattica e interlocutoria e la vede trasformarsi, giorno dopo giorno, in ipotesi strategica o comunque in collaborazione stabile ed allargata: gli serviva per guadagnare tempo e spazio in vista di una scissione e della successiva prova elettorale, sta diventando il suo incubo nonostante le leopoldiane adunate mediatiche.

E allora via col fuoco concentrico e incoerente degli attacchi al governo e al Pd. Ho l’impressione che più attaccano e più si rafforzino il governo e l’asse Conte-Pd che lo regge sostanzialmente. Forse può valere la barzelletta del marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi  fagh cme no vôja e stag chi!». All’invito perentorio a smettere di fare chiasso e confusione, rivolto loro da Giuseppe Conte, Di Maio e Renzi possono rispondere picche, ma stiano attenti a non cacciarsi sotto il letto.

 

Le bandiere pentastellate

Mio padre credeva fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle, non sopportava di assistere impotente ai soprusi, arrivava ingenuamente ad illudersi di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”.

A mio padre posso perdonare questi atteggiamenti a metà strada tra il serio ed il faceto, rientravano nel suo carattere e nella sua personalità, me li snocciolava con intento didattico, era perfettamente consapevole della loro fantasiosa inefficacia, ma dietro di essi voleva far passare insegnamenti fondamentali e valori imprescindibili.

Non posso al contrario capire il demagogico bisogno pentastellato di sventolare bandiere dietro le quali nascondere l’incapacità di fare politica: ultimo, per chi sventola e per chi si lascia abbindolare, è il discorso delle manette agli evasori, conditio sine qua non per approvare la manovra economica varata dal governo Conte. Se andiamo in ordine di tempo e mettiamo in fila le bandiere o bandierine del M5S, partiamo dalla decurtazione degli stipendi ai parlamentari, passiamo al reddito di cittadinanza, poi al taglio delle poltrone parlamentari per arrivare all’allargamento e innalzamento delle pene carcerarie per chi non paga le tasse.

Detto come va detto si tratta di cazzate spacciate per coraggiose novità, lontane mille miglia dall’avviare a soluzione i problemi. Pagare meno i parlamentari cosa risolve? Comporta la fuga dalla politica dei migliori, che trovano sicuramente di meglio da fare, disincentiva l’impegno dei politici, premia i fannulloni della categoria, punisce chi svolge seriamente il proprio compito istituzionale. Se mai ci fosse un risparmio sul piano strettamente finanziario, questo si tramuterebbe in un danno incalcolabile sulla produttività del Parlamento.

Il reddito di cittadinanza è una misura meramente assistenziale, un pannicello caldo per chi non trova lavoro e magari rischia di accontentarsi del pannicello e non si cura veramente cercando un’occupazione. Non è sbagliato di per se stesso, ma è sbagliata la logica politica e programmatica che lo enfatizza come panacea del male della povertà. Si tratta di un’elemosina di Stato sulla quale non si può campare a lungo. Molto più facile sventolare la bandiera del reddito di cittadinanza che varare politiche industriali ed occupazionali adeguate alla società moderna.

La drastica diminuzione del numero dei parlamentari è un premio all’antipolitica, tende a squalificare l’istituto parlamentare, getta un’aria qualunquistica di sfiducia verso la politica in genere. Il risparmio economico è risibile, soprattutto se confrontato con la minore rappresentatività degli eletti, con il depotenziamento del parlamento e della democrazia parlamentare, con la politica ridotta sempre più a mera cassa di risonanza di quei partiti che si vorrebbero far uscire dalla porta mentre rientrano dalla finestra.

Arriviamo per sommi capi alle manette per gli evasori. Siamo e restiamo sempre nella demagogia. Le sanzioni pecuniarie e penali esistono già, ma non si riesce ad applicarle: troppo grande il ginepraio fiscale, troppo facile nascondersi dietro un casino di norme assurde ed inutili, troppo pressapochistici i controlli, troppo accanimento verso chi cade sotto la mannaia degli adempimenti formali o comunque non riconducibili a vera e propria evasione, troppo lunghi i procedimenti giudiziari al termine dei quali, se c’era evasione, questa sparisce coi tempi biblici del contenzioso tributario peraltro molto discutibile nella sua configurazione e nella sua operatività.

L’evasione esiste, ma con lo spaventapasseri del carcere facile finiremo col penalizzare chi commette errori, chi si macchia di colpe veniali e scoraggeremo l’imprenditorialità sana, mentre quella dei farabutti rimarrà viva e vegeta. Se voglio essere sincero fino in fondo, devo soltanto sfiorare, per carità di Patria, il problema della Guardia di Finanza e di come si mostri spesso invischiata, anche nei suoi più alti gradi di comando, in fatti di corruzione: aveva ragione una mia spassosa zia, quando ingenuamente confondeva finanzieri e contrabbandieri, ritenendoli addirittura intercambiabili? Tutti ridevano, ma non c’era proprio niente da ridere. E dove non c’era corruzione (lungi da me, infatti, generalizzare) ho visto nella mia vita professionale molta impreparazione e inesperienza da parte degli organi di controllo del fisco. Ho sempre detto e ripeto che chi si trova a passare sotto l’esame della guardia di finanza deve rassegnarsi a vedersi contestare tutto, da Adamo ed Eva in avanti: così si crea molta evasione di carta che crolla a livello di contenzioso. Le cifre al riguardo parlano chiaro.

Non rimane che riporre le bandiere nell’armadio e ricominciare a fare politica seriamente. Come avvenne al sottoscritto calcisticamente parlando. Mio padre mi aveva insegnato che, dentro lo stadio, si rimane uomini non si diventa bestie e da uomini ci si deve comportare in ogni situazione. In effetti diverse volte eravamo andati in trasferta, avevamo seguito il Parma in altri stadi, senza soffrire spiacevoli inconvenienti. Mio padre era così sicuro della sua teoria che una volta mi consentì di portare la bandiera crociata artigianalmente confezionata con un manico da scopa. Era lo stadio Braglia di Modena, derby di serie B: non riuscii neanche a spiegare la bandiera ed a sventolarla, che il Parma era già sotto di un goal e mio padre, un po’ grilloparlantescamente, mi disse: “A t’ äva ditt äd lasärla a ca’, ch’ l’era méj”. Ne prendemmo altri due: un secco, inequivocabile tre a zero dai cugini modenesi.

 

Nella Chiesa gli estremi non si toccano

Papa Luciani fu avvelenato con il cianuro in una congiura di palazzo ordita da Paul Marcinkus, perché voleva denunciare frodi azionarie compiute in Vaticano. Questa versione è anticipata dal quotidiano La stampa, che la prende giustamente con le pinze, perché viene da un gangster della famiglia mafiosa americana dei Colombo, Anthony Luciano Raimondo, ed è documentata nel suo libro di memorie “When the Bullet Hits the Bone” (“Quando il proiettile colpisce l’osso”), pubblicato negli Usa.

Dissero a papa Luciani, quando nella cappella Sistina, durante il conclave, era preoccupato per la sua nomina che si stava profilando: «Dio, quando dà un peso da sopportare, concede anche la forza necessaria… e poi c’è tanta gente nel mondo che prega per il papa…». Giovanni Paolo I cadde trafitto dalle ostilità vaticane. Non vorrei esagerare con le citazioni di mia sorella, ma, al riguardo, con la sua simpatica istintività di giudizio, disse: «Gli hanno fatto conoscere Marcinkus e gli è dato un infarto…». I tempi sono cambiati. Sono cambiati?

Proprio in questi giorni la Chiesa celebra la memoria di don Pino Puglisi: un eroico sacerdote impegnato, come parroco a Brancaccio, ad offrire orizzonti nuovi ai tanti ragazzi che fino ad allora avevano il destino segnato nella manovalanza della malavita. La sua era diventata la voce degli onesti, capace di rompere l’omertà. Per questo fu ucciso con un colpo alla nuca sull’uscio di casa il 15 settembre 1993 (Matteo Liut – Avvenire).

Leggerò con grande attenzione e interesse il libro di cui sopra anche se non potrà fare piena e veritiera luce sulle malefatte vaticane. A mia sorella era bastato fare due più due e sicuramente non era andata molto lontana dalla verità. D’altra parte Giuda Iscariota teneva la cassa del gruppo, non era sempre d’accordo nell’utilizzo dei fondi, si lasciò corrompere per pochi soldi. Gli evangelisti tirano giù con lui e lo definiscono ladro, prima ancora di traditore: avevano il dente avvelenato e forse anche un po’ la coda di paglia. La posta in gioco era infatti ben più alta della semplice ingordigia per il denaro, anche se è significativo che già ai primordi ecclesiali esistessero questi scandali finanziari. Questo non allevia le responsabilità di una Chiesa sempre invischiata in faccende economiche speculative e delinquenziali. Paul Marcinkus ne è stato un simbolico e clamoroso artefice. Ma non è purtroppo finita li. È vero che nella Chiesa convivono, come del resto in tutte le comunità, persone che operano e testimoniano il bene fino a versare il proprio sangue assieme a persone che si impegnano in macchinazioni malefiche di carattere finanziario e non. Ciò non toglie che fare pulizia dovrebbe essere un imperativo categorico a livello vaticano.

Papa Francesco ci sta provando. Dei suoi predecessori ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

Risulta comunque più che mai azzeccata la storiella che raccontava don Andrea Gallo: «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

 

 

 

Alla faccia buffa di Boris Johnson

Di questi tempi, quando resto scandalizzato o schifato dagli andamenti politici italiani, mi consolo guardando a Londra ed alla infinita e vergognosa pantomima della Brexit. Se qualcuno ha definito il Conte II come il governo del sollievo, io definisco l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue come la vicenda politica della consolazione.

C’è da consolarsi in tutti i sensi. Viene infatti confermata e rivalutata la scelta europeista come imprescindibile e irreversibile; viene rivalutata la democrazia italiana, che, pur con tutti i limiti e i difetti che si ritrova, giganteggia di fronte al casino anti-democratico da anni inscenato da coloro che si ritengono i padri della democrazia; viene rivalutata la classe politica italiana, che, pur non brillando per autorevolezza e serietà, è sempre meglio dei saltimbanchi inglesi alle prese con  i salti mortali della Brexit, che sta diventando sempre più difficile come si dice nei circhi di periferia; viene rivalutato, pur con tutte le carenze possibili e immaginabili, il buon senso degli italiani, i quali sparlano bene, ma hanno almeno il buongusto di fermarsi quando il gioco si fa pericoloso e tragico, mentre gli inglesi nella loro supponenza si prendono sul serio, combinano disastri e si infilano in avventure clamorosamente assurde.

Intendiamoci bene: mors tua non è vita mea. Gli inglesi la stanno combinando talmente grossa da condizionare negativamente il futuro europeo e mondiale. Sì, perché proprio nel momento storico in cui ci sarebbe estremo bisogno di un’Europa unita e compatta, loro la indeboliscono e la beffeggiano spudoratamente. Hanno avuto il becco di ferro di decidere l’uscita, ma poi non trovano l’uscita. Si sono intrappolati in un assurdo gioco di porte girevoli e stanno prendendo tutti per il sedere: quando sembrano finalmente fuori dalle balle, te li ritrovi ancora dentro a chiedere rinvii, a discutere sul sesso della Brexit, a litigare fra di loro scaricando le loro beghe politiche sugli ex partner europei.

È sempre più valida la gag immaginata da mio padre, il quale rideva ironicamente delle ipotetiche fughe degli improvvisati amanti, con i due che scappano e cominciano a litigare scendendo le scale: della serie l’Europa è una cosa seria, la Brexit no. Mentre sempre più larghi strati della popolazione inglese sembrano rendersi conto del casino combinato e ipotizzano sacrosanti ripensamenti, le istituzioni tengono duro, ma non trovano più il bandolo della matassa per saltarci fuori almeno in modo dignitoso, i partiti politici hanno trovato pane per i loro denti polemici e faziosi e tutto si sta trasformando in una progressiva e interminabile pagliacciata, condotta in un crescendo rossiniano dal premier Boris Johnson.

Quanto all’attuale premier britannico, si può dire che rivaluti il semplicistico criterio di giudizio montanelliano. Quando gli chiedevano un parere su certi politici, rispondeva con un laconico: «Ma guadatelo in faccia…». Guardiamo in faccia questo signore che smentisce categoricamente ogni e qualsiasi teoria sullo storico aplomb dei suoi connazionali: se impersonifica la Gran Bretagna, l’ultima consolazione che otteniamo consiste nel liberarci di un fastidioso peso morto. Ce ne faremo una ragione, anche perché involontariamente gli inglesi ci stanno aiutando in tal senso. Viva l’Europa!

 

“Aquile randagie”: ricordi meravigliosi e amare amnesie

Sono l’ultimo, in ordine anagrafico, dei nipoti di don Ennio Bonati, il meno qualificato di tutti a coltivare la memoria di questo prete, che mi permetto di definire col titolo del libro recentemente a lui dedicato: un sacerdote, uno scout, un teologo. Sono nato due mesi prima della sua morte, ne porto indegnamente il nome, lo considero il mio santo protettore.

Ho atteso con grande interesse l’uscita del film sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, quale coraggiosa reazione alla messa fuorilegge disposta da Mussolini dopo alcuni anni dalla sua salita al potere. È fortunatamente in atto la riscoperta di questo movimento, a cui convintamente ed operosamente aderì don Ennio Bonati, anche se la sua nascita si deve soprattutto e prevalentemente al coraggio ed alla lungimiranza dello scoutismo lombardo e ad alcuni suoi profetici ed eroici protagonisti.

Il film è indubbiamente un’ammirevole ricostruzione romanzata di una fase della vita dello scoutismo italiano, impegnato nell’antifascismo quale scelta esistenziale ed etica prima che politica. In esso giganteggiano due personaggi: don Andrea Ghetti e don Giovanni Barbareschi, peraltro grandi amici di don Ennio Bonati. Basta scorrere le pagine del libro succitato in cui sono contenuti i segni stupendi di una comunanza di ideali cristiani e civili con don Ghetti, per trovare le parole mirabilmente dedicategli appunto da don Ghetti ed è sufficiente rifarsi al giudizio riservatogli da don Barbareschi (lo definiva un “faro”).

Ebbene don Ennio, non è protagonista nel film, né principale, né secondario, né comprimario: per vederlo bisogna guardare il film in controluce, tramite cioè il protagonismo di due suoi grandi amici: don Andrea Ghetti e don Giovanni Barbareschi. Molto perché siamo all’ombra di due giganti, poco perché don Bonati brilla anche di luce propria.

Il film è bello: un’occasione per conoscere e rinverdire la storia dello scoutismo anche e soprattutto nella sua generosa e coraggiosa azione antifascista e nel salvataggio delle vittime della violenza, da qualsiasi parte e in qualsiasi momento venisse. Di questo movimento don Ennio Bonati fu uno dei rifondatori dopo la seconda guerra mondiale.

Probabilmente la pellicola è stata realizzata in economia pur essendo notevole a livello scenografico, fotografico, interpretativo e come portatrice di un messaggio di fondo emergente in chiave netta e coinvolgente. Gli autori avranno dovuto fare scelte comportanti tagli e rispondere alla necessità di concentrarsi su alcune figure. Persino quella di don Ghetti non è sufficientemente delineata e valorizzata. Certi episodi sono riportati in modo sbrigativo mentre avrebbero meritato ben altra raffigurazione.

Tutto ciò considerato, resta il fatto che a don Ennio Bonati ed al suo giovane seguace Giampaolo Mora non viene dedicato nessun episodio, nessuna parola, nessuna citazione, nessuna immagine. Senza alcun intento polemico bisogna pur ammettere che nella sceneggiatura del film un posticino per questi due parmigiani lo si poteva, oserei dire lo si doveva trovare. Le occasioni anche piccole non mancavano: l’amicizia con don Ghetti (bastava inserire un breve incontro tra i due); la spedizione per “correggere” i manifesti della propaganda fascista (don Ennio vi aveva partecipato concretamente); viene citata Monza nei suoi collegamenti con Milano (si poteva aggiungere anche Parma). Almeno in fondo al film, a livello didascalico, si poteva inserire una foto d’assieme in val Codera in cui don Bonati e Mora sono presenti. Niente!

Intendiamoci bene: quando si fanno ricostruzioni storiche esiste sempre il rischio di qualche grave dimenticanza. Don Bonati inoltre non ha bisogno di rivisitazioni postume; chi lo ha conosciuto direttamente o indirettamente lo considera un santo per tutta la sua testimonianza esistenziale; chi ne viene in contatto sente il profumo e ne resta affascinato. Molti però non sanno nemmeno chi sia e avrebbero bisogno di impararlo. Il film era un’occasione propizia: è stata clamorosamente mancata. Non sarebbe stato nulla di esauriente, ma avrebbe innescato la curiosità di approfondire la vita di un personaggio meraviglioso. Non è la prima volta che succede. La vivida e inossidabile memoria a livello famigliare è in netto contrasto con i silenzi attorno a don Ennio Bonati ed alla sua vita: sono stati la regola con qualche timida ma graditissima eccezione, proveniente soprattutto dal movimento scout.

Speravo che la cortina fumogena si fosse diradata, che la conventio ad excludendum si fosse definitivamente rotta. Non è così. Peccato. Speriamo nella prossima occasione. Un grazie di cuore ad Andrea Mora, il quale per l’occasione ha fatto un bellissimo ricordo di don Ennio e del padre Giampaolo: ha meritevolmente riempito un vuoto, che andava però coperto, almeno un pochettino, dal film. Complimenti comunque a tutti.

Non vogliamo i dipendenti dalle chat

Più che di chat dell’orrore io proverei a parlare di orrore per le chat. Probabilmente stiamo mettendo in mano a impreparati e immaturi ragazzini autentiche bombe senza sicura, che possono scoppiare da un momento all’altro. Dove ci sta il più ci sta anche il meno. Dove sta svanendo il senso del limite tutto diventa ammissibile: se nessuno si è preoccupato di insegnare ai ragazzi cosa vuol dire nazismo, è possibile che il nazismo diventi una parolaccia su cui e dietro cui scherzare; se nessuno ha trasmesso ai bambini il valore del rispetto per la vita di tutti, è mostruoso, ma possibile, che si scherzi sulle violenze viste come divertimento; e via di questo passo.

La nostra è la società dell’eccesso e quindi le persone, per età e cultura, meno preparate ed attrezzate possono nuotare nell’eccesso senza forse nemmeno accorgersi di quanto stanno facendo. La nostra non è la società del libero pensiero, ma sta diventando, a tutti i livelli, la società del libero sfogo e quindi, dal momento che lo sfogo è di per se stesso qualcosa di incontenibile e incontrollabile…

È inutile scandalizzarsi, bisogna invece allarmarsi e cominciare a fare qualcosa soprattutto a livello educativo e formativo. Quando osservo questi ragazzini alienati dall’uso spropositato degli smartphone, mi chiedo: come fare a mettere un freno a questa deriva informatica? Vietando loro l’uso di questi pericolosi apparecchi? Forse sarebbe ancora peggio, perché scatterebbe il fascino del proibito che enfatizzerebbe ancor più il ricorso a questi strumenti. Ricordiamo tutti il richiamo che esercitavano le pellicole vietate ai minori…

E allora? Non esistono ricette facili per malattie complesse e progressive. Bisogna partire o ripartire dalla prevenzione, dall’educazione, da un certo tipo di istruzione, dalla cultura dei valori e degli ideali, che abbiamo tolto ai ragazzi e che dobbiamo loro restituire con gli interessi.

In questi giorni ho visto la disgustosa scena dei calciatori del Foggia che osannavano e inneggiavano a certi tifosi e non si sottraevano alle rime degli ultras: «Noi vogliamo i diffidati». Lo hanno ripetuto a lungo e si sono fatti riprendere. Il messaggio evidentemente era rivolto ai tifosi che allo stadio non possono entrare, quelli colpiti dai Daspo del questore, che ai match della squadra non possono assistere.  A loro era dedicato anche uno striscione al centro della curva, ma la scena inaspettata è stata quella dei calciatori che cantavano e battevano le mani per i tifosi finiti nel mirino delle autorità di pubblica sicurezza.

Molti anni fa, ero alla fermata di un autobus ed attendevo con la solita impazienza l’arrivo del mezzo pubblico; accanto a me stavano un giovane padre assieme a suo figlio bambino, ma non troppo. Sfogliavano un giornale sportivo e leggevano i titoloni: il più eclatante diceva della pesante squalifica comminata a Maradona per uso di sostanze stupefacenti. Si, il grande Maradona (Mardona lo chiamava mio padre…. ed è tutto un programma) beccato con le dita nella marmellata. Il bambino ovviamente reagì sottolineando la gravità della sanzione ed espresse, seppure un po’ nascostamente, il suo rincrescimento per l’accaduto. Qui viene il pezzo forte, la reazione del padre che vomitò (non so usare un verbo migliore): “Capirai quanto interesserà a Maradona con tutti i soldi che ha!!!” Il bambino non replicò e l’argomento purtroppo si chiuse così. In poche parole quel “signore” aveva lanciato un messaggio negativo, diseducativo all’ennesima potenza. Era come dire al proprio figlio: “Ragazzo mio, nella vita conta solo il denaro, delle regole te ne puoi fare un baffo, della correttezza fregatene altamente”. Arrivò finalmente l’autobus, il tutto finì lì, ma ringraziai mio padre perché non ragionava così.

A distanza di tempo arrivano ben altri autobus sulle ali del web. Ed è un coro disgraziato di oscenità che investe i giovanissimi. Facciamo un bell’esame di coscienza e proviamo a ricominciare da capo. È tardi, ma non è mai troppo tardi. Saro vecchio, ma la penso così.