L’uovo dell’ambiente o la gallina dell’economia

In questi giorni ho cercato di approfondire il discorso dell’Ilva, vale a dire del salvataggio di questa importante azienda nella produzione di acciaio. Non so se non sono stato capace di scovare i discorsi seri, ma ho letto solo argomentazioni polemiche sul comportamento del governo e delle forze politiche: tutto il discorso si riduce all’opportunità o meno di concedere agli acquirenti uno scudo penale inerente i reati ambientali commessi nel tempo da questa azienda.

Sul punto particolare si scontrano due tesi: una, possibilista e pragmatica che giustifica l’automatica esenzione dai risvolti penali di chi subentra nella proprietà e nella gestione dell’acciaieria, l’altra giustizialista e intransigente, che ha peraltro comportato l’eliminazione dagli accordi stipulati della salvaguardia penale. Questa inversione di marcia ha offerto l’occasione alla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal di ritirarsi dalla trattativa, prendendo forse spunto dallo scudo penale per ripensare all’investimento alla luce delle difficoltà del mercato dell’acciaio e di conseguenza riconsegnare l’azienda recedendo dal contratto d’affitto dello stabilimento di Taranto con i suoi 10.777 lavoratori.

Non sono in grado di giudicare il comportamento dei governi che hanno affrontato la situazione in questi ultimi anni: probabilmente l’instabilità ha creato equivoci e contraddizioni, aggiungendo difficoltà a difficoltà. Così come risulta impossibile verificare le reali intenzioni dei vertici di Arcelor Mittal: non è improbabile che abbiano avuto dei ripensamenti e che quindi il discorso ritorni al punto di partenza. Una bella grana da tutti i punti di vista: per l’economia italiana, per i lavoratori, per il mezzogiorno.

Vorrei però riflettere un attimo su quello che, a mio modesto avviso, è il problema di fondo: la politica industriale nelle sue compatibilità con i problemi ambientali e di salute pubblica. L’Ilva ha creato situazioni gravi a livello ambientale, tali da richiedere opere lunghe e costose di bonifica ed una costosa revisione dei processi produttivi. Mi chiedo brutalmente: viene prima la salvaguardia della salute dei lavoratori e dei cittadini o la garanzia dell’occupazione in un settore così importante come quello della produzione dell’acciaio?

Sembrerebbe la brutta e drammatica riproposizione della questione dell’uovo e della gallina. Ci dobbiamo rassegnare a rivedere sostanzialmente i piani industriali, non possiamo continuare, come se niente fosse, a rovinare l’ambiente ed a puntare su produzioni senza futuro o comunque con un futuro assai incerto e problematico. Occorre coraggio strategico e visione larga e lunga. Di fronte a questo nodo vedo un po’ tutti disorientati e titubanti: gli imprenditori non riescono ad affrontare responsabilmente i mercati globalizzati ed a rispondere all’esigenza di ripensare gli investimenti in una logica di rispetto dell’ambiente; i sindacati dei lavoratori sono fortemente condizionati dalle preoccupazioni contingenti della salvaguardia dei posti di lavoro; i politici non hanno la lungimiranza necessaria e si limitano a litigare giocando allo scarica barile di fronte a problematiche epocali; gli economisti, come al solito, pontificano, ma non ci pigliano mai.

Il problema viene presentato come un duello tra fazioni politiche e tra la politica e l’industria. Così facendo non si fa certamente un buon servizio all’informazione ed al dibattito. Credo che nessuno abbia ricette pronte; sarebbe già tanto se problemi di tale portata fossero affrontati con maggiore serietà, con auspicabile sincerità, con spirito costruttivo e con coraggiosa vena programmatica.  Non vado oltre, anche se gradirei che la discussione affrontasse il vero punto dolente, quello appunto di un’economia rispettosa dell’uomo e dell’ambiente, che, come sostiene papa Francesco, sono le due facce della stessa medaglia.

Siamo diventati gli accattoni della politica estera

Secondo Federico Fubini, editorialista e vice-direttore del Corriere della Sera, i dazi imposti dagli Usa ai prodotti italiani vanno ben oltre la reazione americana agli sgarbi europei consistenti in sussidi pubblici concessi a Airbus, ma si inquadrano in una vera e propria guerra commerciale volta a punire l’Italia per le sue scelte filocinesi di politica commerciale ed a premiare lo stato del Wisconsin che ha regalato nel 2016 la Casa Bianca a Donald Trump.  Da una parte ci sarebbero le arance italiane che volano in Cina e dall’altra i formaggi italiani che rompono i coglioni al suddetto stato operaio e agricolo. Mentre la seconda economia del mondo si è sì aperta alle arance italiane, la prima si è chiusa. Gli Stati Uniti hanno alzato un muro tariffario. Non solo sugli agrumi della Sicilia orientale, ma di tutto il Paese. Dal 18 ottobre, le arance e i limoni sono diventati la prima categoria di frutta a entrare in blocco nella lista dei beni da export per circa 400 milioni di euro soggetti ai dazi punitivi del 25% fissati dagli Stati Uniti.

Ma la prima serie di dazi include il made in Italy per 47 categorie di prodotto. La stessa lista dei beni colpiti rivela molto delle intenzioni di Trump e delle sue priorità. Perché il presidente non opera solo con la diplomazia delle arance. Più della metà dei beni coperti da dazi al 25% coincidono con i migliori formaggi italiani: parmigiano e parmigiano reggiano, mozzarella, pecorino, romano, provolone, groviera, gorgonzola. Viene colpito a tappeto il settore del made in Italy che compete più direttamente con la principale industria del Wisconsin: con 5,8 milioni di abitanti contro 60 milioni, questo Stato americano è testa a testa con l’Italia come quarto produttore mondiale di formaggi, in volume. È specializzato nell’«Italian sounding», il plagio dei marchi: formaggi definiti «asiago», «fontina», «parmesan», «provolone» e un prodotto chiamato «mozzarella» più abbondante (mezzo milione di tonnellate l’anno) di quello italiano. Trump sa che per rivincere nel 2020 non può avere pietà dell’Italia, ma deve curare questo Stato che produce un terzo del formaggio «Italian sounding» consumato negli Stati Uniti.

Secondo Federico Fubini, di cui ho riportato letteralmente il succo dell’impietosa analisi, non è chiaro oggi chi possa protestare da Roma. Gli stessi americani se lo stanno chiedendo. Di Maio ha avocato agli Esteri i poteri sul commercio, ma non ha ancora scelto a quale sottosegretario assegnarli. Quel ruolo è conteso fra Manlio Di Stefano (M5S e piuttosto protezionista) e Ivan Scalfarotto (Italia Viva, aperto agli scambi). Dopo quasi due mesi, il governo va avanti con un vuoto di potere in un posto oggi vitale. Fin qui le contingenti manchevolezze da parte italiana.

Mi sembra però preoccupante al limite dello sconforto che l’Italia stia perdendo un partner fondamentale: Donald Trump se ne sbatte altamente del nostro Paese e dell’Europa, fa esclusivamente i propri interessi. Mi si dirà che gli americani hanno fatto così da sempre aiutandoci soltanto dietro contropartite notevoli in termini di schieramento mondiale. Ora che il mondo è cambiato e sta cambiando, tutto è rimesso in discussione e l’Italia si ritrova sempre più sola, ultima ruota del carro Ue e ininfluente a livello internazionale. Fanno pena i politici che vanno negli Usa o dialogano con gli Usa per pietire qualche elemosina; stupiscono i politici che pensano di fare dispetto alla moglie trumpiana facendosi tagliare i coglioni dalle amanti russe, cinesie persino est-europee; meritano compatimento i politici che pensano di poter fare a meno dell’Europa e alzano la voce in casa, per poi chinare miseramente il capo non appena mettono il naso fuori dalla porta. Possibile che non si possa elaborare uno straccio di politica estera, che vada al di là delle sciocche rimostranze nazionaliste e sovraniste e dei balbettamenti dei potenziali europeisti?

 

La guerra delle bottiglie

Quando in una famiglia le cose non vanno bene e non c’è intesa, ogni pretesto è buono per litigare. Sto assistendo con fastidio e imbarazzo alle continue scaramucce, che scoppiano regolarmente sui vari argomenti fra i partner della maggioranza, che dovrebbe sostenere il governo Conte II. Non so ancora se ci sia continuità o discontinuità fra l’azione del governo Conte I e quella del governo Conte II. Una cosa mi sembra evidente: c’è continuità nella litigiosità. Forse è un dato che sta comunque connotando il fare politica, riducendola ad una rissa elettorale continua e insopportabile.

Più la gara è difficile e più dovrebbe consigliare un minimo di collaborazione fra coloro che la devono sostenere, invece avviene esattamente il contrario: la manovra economica si è presentata fin dall’inizio come una sorta di nozze coi fichi secchi. Era doveroso ammetterlo, cercare di valorizzare al massimo i fichi secchi, vale a dire le poche risorse disponibili, e puntare decisamente su provvedimenti a costo zero o addirittura su scelte di taglio alle spese inutili. Invece si litiga anche sui fichi secchi e si va alla disperata ricerca di quelli freschi.

In molti definiscono come una “manovrina” l’azione governativa economico-finanziaria; anche in politica piccolo può essere bello, purché ben mirato e finalizzato. Non si vede invece un disegno seppur minimale, si coglie soltanto un tira e molla dettato soprattutto dalla disperata ricerca di visibilità partitica. Il principale interprete di questa fase disfattista sembra essere Matteo Renzi, il quale non vuole affatto mantenere sereno Giuseppe Conte e lo disturba in continuazione. Un caro amico, attento osservatore delle cose della politica, si è e mi ha chiesto: insomma, cosa vuole Renzi, dove vuole andare, che disegno ha in testa, che tattica sta seguendo, a quale strategia fa riferimento? Non ho saputo rispondere. Forse non saprebbe rispondere nemmeno il diretto interessato.

Ultima pretestuosa polemica la plastic tax: chi la vede inquadrabile nel discorso della green economy, chi ne fa un problema di introito erariale, chi la vede come un colpo basso assestato ad un settore industriale e commerciale, chi la utilizza per polemizzare e lanciare penultimatum.

Un governo di coalizione ha sempre comportato problemi di convivenza politica e di ricerca di difficili compromessi: ricordo i travagliati tempi del centro-sinistra, con pause di centro-destra, con aperture compromissorie al partito comunista. La differenza stava però nel fatto che (quasi) tutto, pur nella complicata matassa politica, rispondeva ad una logica strategica e tattica. Oggi la matassa è ancor più aggrovigliata, manca totalmente un respiro strategico e tutto si riduce ad un tatticismo esasperato e demagogico. Alcuni partiti non hanno radici storiche, culturali e territoriali, altri se le giocano esclusivamente nel breve termine, altri le trasformano o le camuffano.

In conclusione mi sembra che la plastica non sia tanto oggetto di tassazione, ma sia diventata la materia prima della politica. Berlusconi ha inaugurato con Forza Italia la (non) politica di plastica, adesso sta tirando le ultime bottiglie sintetiche che non fanno paura a nessuno, dopo aver fatto la plastica alla sua faccia e a quella del suo partito (entrambe riuscite malissimo al limite del ridicolo). Qualcuno sta sostituendo la plastica delle illusioni con il cemento dei muri. Altri puntano sulle illusioni di vetro che rischiano di creare le schegge impazzite della protesta universale. Altri pretendono di riciclare bottiglie d’autore impolverate e piene di detriti. Altri le tirano a vanvera contro il primo bersaglio che si presenta.

La sana burocrazia antifascista

Ai bei tempi in cui ero  modestamente impegnato in politica, quando si stilava un documento non mancava quasi mai un accenno alla scelta antifascista: “democratico ed antifascista” era un virtuoso ritornello, che segnava inequivocabilmente il territorio su cui si camminava e si operava politicamente. A me non è mai venuto in mente che fosse una proposizione stucchevole, anzi la consideravo come un distintivo da esibire con orgoglio e impegno. Certo, non bastava a qualificare un programma o un progetto, ma ne era un presupposto essenziale e indispensabile.

In questi giorni ha fatto scalpore e suscitato polemiche il fatto che in comune di Parma il modulo per la “richiesta di occupazione permanente di spazi ed aree pubbliche per passi e accessi carrai” preveda una dichiarazione aggiuntiva, consistente nella barratura di una casella piuttosto impegnativa: riconoscersi nei principi costituzionali democratici; ripudiare il fascismo e il nazismo; non professare e non fare propaganda di ideologie nazifasciste, xenofobe, razziste, sessiste o in contrasto con la Costituzione; non perseguire finalità antidemocratiche esaltando, minacciando od usando la violenza quale metodo di lotta politica o propagandando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni ed i valori della Resistenza; non compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista e/o nazista, anche attraverso l’uso di simbologie o gestualità ad essi chiaramente riferiti.

Se devo essere sincero, il testo di questa dichiarazione mi piace, lo trovo attualissimo ed assai pertinente, anche e soprattutto rispetto al momento storico che stiamo vivendo. Non capisco quale imbarazzo possa avere un cittadino a barrare una simile casella e ad assumere impegni che dovrebbero essere automatici e normali per chi vive in una società veramente democratica così come delineata dalla nostra Carta costituzionale. Potrà essere considerato un eccesso di zelo burocratico la richiesta di formulare simili impegni al fine di ottenere semplicemente un passo carraio o roba del genere. Le pratiche burocratiche richiedono generalmente la produzione di tanti documenti inutili, la fornitura di tanti dati scontati e ripetitivi, molto spesso, già in possesso della pubblica amministrazione. In molte procedure è richiesto il certificato antimafia, che purtroppo non basta a fare chiarezza sul comportamento di un soggetto che si rivolge alla pubblica amministrazione per ottenere un’autorizzazione o una concessione. L’amministrazione comunale di Parma ha ritenuto, indirettamente e forse esageratamente, che, come si suole dire, dove ci sta il più ci stia anche il meno.

Il vicesindaco Marco Bosi ha spiegato che “le regole per l’accesso alle sale civiche e sulla concessione dell’occupazione di suolo pubblico sono state varate dal consiglio comunale il 18 novembre 2018 col fine di controllare che spazi pubblici, al chiuso e all’aperto, non fossero concessi per attività politiche neofasciste e come gli uffici tecnici abbiano recepito le nuove regole per tutti i casi di occupazione di suolo pubblico, quindi anche per i passi carrai: un atto amministrativo, e uno scrupolo eccessivo, che non nasconde alcuna volontà politica”. Il vicesindaco ha anche aggiunto di “non vedere perché un cittadino debba provare fastidio a dichiararsi democratico e ad aderire ai principi della Costituzione”.  Ben detto!

Se la destra ha questi argomenti per attaccare la giunta comunale, se certa stampa prende spunto da una simile questione per imbastire accuse di “estremismo ideologico” e “marketing politico”, vuol dire che gatta ci cova e infatti di gatte covanti ce ne sono parecchie (anche in Senato). Su facebook un esponente di Fratelli d’Italia scrive: “Il fascio carrabile. A Parma se chiedi il passo carraio devi sottoscrivere questa roba qua. Fa molto ridere. Anzi no. Una postilla di dubbia costituzionalità, illiberale, discriminatoria, pretestuosa e, strumentale”. Non gli resta che andarsi a rileggere la storia e la Costituzione prima di dare aria ai denti della polemica politica.

Sono da sempre un cittadino ostile rispetto alla burocrazia, ai suoi riti ed alle sue sciocche e inutili procedure. In questo caso però devo ricredermi e riconciliarmi con essa. Fosse solo per avere snidato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che purtroppo l’antifascismo, con tutto quel che ne consegue, non è patrimonio condiviso, anzi viene ritenuto un fastidioso orpello del nostro civico operare. Non voglio sopravvalutare l’episodio parmense, né dare all’amministrazione comunale patenti di democraticità (ci vorrebbe ben altro), ma in questo caso sto dalla parte del sindaco Federico Pizzarotti, il quale, magari senza volere, partendo da una sacrosanta preoccupazione di prevenire la concessione di spazi pubblici per attività neofasciste, ha sollevato, anche a  livello di scartoffie burocratiche, un problema di fondo della nostra società democratica e (lo dico e lo dirò sempre convintamente) antifascista.

Lo storytelling deamicisiano

Parecchi anni or sono, una sera, mentre stavo guardando il telegiornale in compagnia di mia sorella, uscì finalmente la cronaca di un episodio edificante, di cui sinceramente non ricordo nulla, che mi portò ad avvalorare una mia tesi esistenziale minimalista e ad esclamare: «Il Padre Eterno, che ci conosce molto bene, tutto sommato sa che in fondo non siamo cattivi come può sembrare. Se non fosse così, dopo essersi preso la briga di scendere in terra per chiarirci inequivocabilmente cosa non andava e soprattutto dopo aver attirato su di sé e patito tutta la cattiveria possibile, ci avrebbe già distrutto chiudendo una parentesi che invece si ostina a tenere aperta».

Lo storytelling, elemento distintivo della nostra epoca, è l’arte del raccontare storie, impiegata come strategia di comunicazione persuasiva, specialmente in ambito politico, economico ed aziendale. Se guardiamo ai processi politici in atto nella nostra società ci accorgiamo facilmente come sia in atto una scientifica operazione di cattura del consenso pilotata sulle “balle” ben raccontate e ben propinate. Così è per il leghismo salviniano che al riguardo vince di gran lunga sul grillismo dimaiano: trionfa chi riesce ad usare l’anestetico subdolamente più efficace. Quando mi sono sottoposto alla gastroscopia mi hanno applicato una sedazione lieve, che non mi ha tolto la coscienza, ma che alla fine mi ha tolto completamente il ricordo di quanto mi era successo. Il gastroenterologo di fama che mi aveva trattato, mi tranquillizzò dichiarando che tutto rientrava perfettamente nella normalità.

Di fronte ad uno storytelling generalizzato ed avvolgente, che ci cambia continuamente le carte in tavola, usando tutti i mezzi e i congegni possibili, dobbiamo esercitarci a livello personale in questa arte, andando alla ricerca di quegli episodi che possano raccontarci la realtà vera ed aiutarci a vivere nella giusta dimensione. Occorre fare molta attenzione alle piccole cose, ai gesti ed alle azioni apparentemente insignificanti, ma eloquentemente interessanti e rivelatori. Sono stato quasi costretto a farlo guidato da un piccolo episodio capitato alla mia attenzione.

Ero in autobus e qualche metro davanti a me viaggiava una persona affetta da sindrome down, giovane ma difficilmente catalogabile in base all’età. Ad un certo punto ho notato che, come è nello stile di vita di queste meravigliose persone, ha allungato improvvisamente, in segno di spontanea e nuova amicizia, la mano ad una persona che viaggiava in piedi poco distante da lui. Questo gli si è avvicinato e, approfittando della situazione, gli ha chiesto un aiuto in denaro. Anche una signora seduta dietro di me aveva visto e capito la situazione e si stava interrogando: “Gli sta chiedendo dei soldi?”. A quel punto mi sono allarmato ed ero sul punto di intervenire, ma, un po’ per non umiliare e disturbare l’equilibrio psicologico del soggetto down, un po’ per non drammatizzare il rapporto che si stava instaurando tra i due, ho preferito sorvegliare la scena a distanza. La persona portatrice di handicap ha estratto il suo portamonete e, su reiterata ma garbata richiesta, ha fatto con molta discrezione l’offerta (non ne ho potuto vedere l’entità). Poi si è alzato per scendere alla fermata successiva e l’altro assieme a lui. Cominciavo ad essere preoccupato e mi chiedevo: vuoi vedere che ci scappa una mezza “bullata”? Fortunatamente, appena prima di scendere, il normodotato ha dato una leggera pacca sulla spalla all’altro e gli ha sussurrato un inequivocabile e dolce “grazie”. Dopo di che sono scesi ed ognuno è andato per la sua strada, almeno così mi è sembrato di notare. È venuto il mio turno per la discesa dall’autobus e prima di farlo ho detto alla signora che, come me, aveva assistito alla scena con una certa evidente trepidazione: «Oggi quel ragazzo ci ha dato una esemplare lezione…abbiamo assistito ad un episodio che ci deve fare riflettere».

E infatti ho continuato per parecchio tempo a pensare a quei due. Ho riflettuto solitariamente sull’accaduto e, tra i tanti pensieri venutimi alla mente, mi sono detto che finalmente a volte scatta il feeling tra “poveri”: non so chi tra i due fosse più povero, ma si sono dati la mano, si sono aiutati e ringraziati. Lo storytelling deamicisiano, la beatitudine sciorinata in autobus, la politica tornata a respirare coi polmoni e il cuore delle persone, la società modellata a misura di sentimento: a volte basta poco (?) per riprendere a vedere un mondo migliore ed a sperare in una storia diversa.

 

La renitenza alla civiltà democratica

Il professor Luigi Magnani, noto critico d’arte, annotava acutamente come spesso il superficiale visitatore di pinacoteche si soffermasse a lungo davanti ad un quadro “di scuola” e passasse velocemente oltre davanti al capolavoro. Grave sintomo di impreparazione ed incompetenza, ma anche e soprattutto di carenza educativa in materia artistica.

Siccome anche la politica è un’arte, l’osservatore sbrigativo, passando in rassegna il corso delle vicende politiche, purtroppo costellato di scandali, finisce col rimanere colpito dai piccoli eventi, magari gonfiati ad arte, e rimane indifferente di fronte a questioni enormi, solo perché non hanno un riscontro pratico immediato.

Stiamo costruendo un castello di sabbia su un fantomatico conflitto d’interessi del premier Giuseppe Conte, un galantuomo prestato alla politica, mentre ci sta sfuggendo un fatto di gravità inaudita: le forze politiche riconducibili al centro-destra, che fra l’altro si autocompiacciono, presuntuosamente e intempestivamente, di essere  maggioranza nel Paese, al Senato si sono astenute sulla istituzione della Commissione straordinaria, promossa da Liliana Segre, per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.

È sotto gli occhi di tutti l’insorgenza di tali fenomeni nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche. Ebbene, la senatrice a vita Liliana Segre, l’ex bambina che fu deportata ad Auschwitz e una dei 25 piccoli italiani sopravvissuti all’Olocausto, ha promosso la costituzione della commissione di cui sopra, contando su un voto ampio e sperando che nella battaglia contro l’odio in generale il Senato avrebbe trovato una sintonia generale.

Neanche per sogno. Anche se dopo l’approvazione l’Aula l’ha applaudita a lungo, tutti in piedi, ed Emma Bonino si è avvicinata e le ha stretto la mano, anche se la vicinanza a parole è stata unanime, specie dopo i tanti insulti ricevuti, resta il vulnus di un centro-destra che si è appunto astenuto con argomentazioni da brivido. Per FdI, ad esempio, tra le espressioni di odio, nella mozione messa ai voti, si citano nazionalismo ed etnocentrismo e allora il senatore Giovanbattista Fazzolari ha osservato: “Così si mette fuorilegge Fratelli d’Italia”: con quel vergognoso voto FdI si è veramente ed autonomamente messa fuori dalla Costituzione Italiana. Con un occhio attento alla storia ci si poteva arrivare ugualmente, ma ne abbiamo avuto la sconcertante ed ignobile riprova.

Per la Lega non è in dubbio la buona fede e la storia dell’ex deportata (gentile e sciocca concessione: mancava solo che ritenessero Liliana Segre in mala fede e magari negassero la sua storia), ma esisterebbe il rischio  di “un uso strumentale” della commissione. Certo, la commissione altro non è che uno strumento per snidare e combattere ogni e qualsiasi manifestazione e tentazione di odio e violenza. E allora di cosa hanno paura i senatori leghisti? Di non poter più impunemente seminare paura, discordia e rancore? Di perdere consenso in certe frange (?) di violenti, in certi ambienti, nostalgicamente ma pericolosamente, rivolti alle ideologie di un passato nefasto e catastrofico?

Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo in Aula ha fatto qualche esempio: “Sostenere che la famiglia è formata da un uomo e una donna è un’espressione di odio rispetto ad altri tipi di famiglia?”.  Nossignori, ma è odio fomentare avversione e discriminazione verso gli altri tipi di famiglia. Continua Romeo: “Dire che l’immigrazione illegale può mettere a repentaglio la nostra civiltà è odio?”. Sì, perché l’immigrazione non mette a repentaglio un bel niente, siamo noi con la nostra inciviltà che abbiamo messo a repentaglio la vita di milioni di persone, le quali ora cercano disperatamente un briciolo di spazio e di vita dignitosa.

Anche Forza Italia alla fine si è piegata alla ragion di destra, dichiarando per bocca di Lucio Malan: “Riteniamo troppo ambiguo il passaggio sul contrasto ai nazionalismi e la necessità di colpire dichiarazioni sgradite, anche quando non siano lesive della dignità della persona”. Ci rendiamo conto a quale livello di “raffinatezza” antidemocratica siamo arrivati? Stiamo a disquisire mentre assistiamo tutti i giorni ad episodi di razzismo e di intolleranza: roba da matti. Se Berlusconi voleva chiudere in “bellezza” la sua vita politica, ci sta riuscendo alla grande.

In molti, a cominciare da Liliana Segre, si sono dispiaciuti della divisione creatasi in Senato. Non mi associo, anzi ritengo un fatto positivo che la destra butti la maschera: meglio sapere fino in fondo con chi si ha a che fare. Ognuno si prenderà nelle Istituzioni e nelle urne le proprie responsabilità. Certo, come ha detto il cardinale Parolin, “ci sono cose su cui dovremmo convergere, sui valori fondamentali dovremmo essere tutti uniti”. Prendiamo purtroppo atto che non è così. Dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella è venuto l’ennesimo invito “a non abbassare mai la guardia e a non sottovalutare tentativi che negano o vogliono riscrivere la storia contro l’evidenza, allo scopo di alimentare egoismi, interessi personali, discriminazioni e odio”. Adesso sappiamo ancor meglio di prima che questi tentativi trovano rispondenze omertose nell’Aula del Senato. Sappiamoci regolare!

Patti impossibili, immigrazione lunga

L’accordo in scadenza fra Italia e Libia prevede una stretta cooperazione tra i due paesi in tema di “contrasto all’immigrazione illegale e rafforzamento della sicurezza delle frontiere”. A volerlo nel febbraio del 2017 fu l’allora ministro degli Interni Marco Minniti (governo Gentiloni), che tentò di intraprendere una seria politica di contenimento della pressione migratoria proveniente dalle coste libiche: il governo libico, legittimato dalla comunità internazionale, si impegnava ad arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti, mentre l’Italia avrebbe fornito supporto tecnico e  tecnologico  agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, vale a dire addestramento, mezzi e attrezzature alla Guardia costiera libica.

Il sacrosanto tentativo ha ottenuto risultati apprezzabili a livello quantitativo (calo notevole degli arrivi di migranti), ma ha registrato un fallimento dal punto di vista qualitativo (ripetuta violazione dei diritti umani). Da quanto ho potuto capire, è successo che la Libia si è rivelata un partner obbligato ma totalmente inaffidabile: la sua Guardia costiera viene definita infatti un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti e l’Onu ha sottolineato come i salvataggi operati dai guardacoste di Tripoli (utilizzando motovedette e telefoni satellitari forniti dall’Italia) siano in realtà delle vere e proprie intercettazioni in mare, effettuate con il fine ultimo di porre in schiavitù, torturare e infine rivendere ai trafficanti di uomini i migranti intercettati; i centri di detenzione presenti nel paese africano sono vere e proprie carceri di stato dove i migranti senza documenti vengono sottoposti a reclusione arbitraria e indefinita e ad un trattamento  che l’Alto commissario  delle Nazioni Unite per i diritti Umani ha definito un oltraggio alla coscienza dell’umanità.

La grave accusa che viene fatta a chi ha stipulato e gestito questi patti italo-libici è di avere ignorato inizialmente e di non avere fatto nulla in questi due anni e mezzo per rimuovere le paradossali situazioni esistenti in Libia, che prefiguravano ed evidenziano tuttora un rapporto sostanziale fra lo Stato e la criminalità nella gestione dei migranti.

In effetti quando ci si mette nella logica di collaborare con i Paesi africani (peraltro anche la Turchia non è da meno) si incontra un ostacolo enorme nell’inaffidabilità dei loro governi, che comunque non possono essere bypassati, ma che dovrebbero essere fortemente condizionati nei loro comportamenti a dir poco anti-democratici. Inoltre esistono stridenti contraddizioni nella comunità internazionale, che, dopo aver creato un autentico disastro abbattendo scriteriatamente, con una guerra assurda, il regime libico di Gheddafi e consegnando il Paese in mano alle tribù, da una parte riconosce e legittima il governa libico di Fayez al Serraj e dall’altra ne bolla i comportamenti in aperta violazione dei diritti umani.

Immagino cosa potrà succedere nei mari e nei centri di detenzioni libici: a volte ci penso prima di addormentarmi e confesso di fare fatica a prendere sonno. Quindi viene oltre modo spontaneo scandalizzarsi del potenziale cinismo con cui si sta cercando di gestire il fenomeno migratorio e di conseguenza chiedere di interrompere o rivedere i patti stipulati dall’Italia con la Libia. Ma non basta, perché si esige di fermare l’emorragia nel rigoroso rispetto dei diritti umani: una gara impossibile, si pretende la botte piena e la moglie ubriaca, a meno che non si capovolga il discorso accettando la botte vuota e la moglie piena. Cosa voglio dire? Mettersi nella logica di sopportare enormi sacrifici sul piano economico e sociale, accogliendo e integrando i migranti con criteri razionali ma solidali.

È inutile nascondersi che gli equilibri politici italiani si stanno giocando sulla pelle dei migranti: chi parla male e si erge a loro respingitore ante litteram;  chi  parla bene ma razzola male non avendo il coraggio di varare una politica per l’immigrazione partendo dal presupposto che oltre ad essere una impellenza etica è anche una necessità economico-sociale; chi continua a ripetere lo stonato ritornello dell’assenza europea e degli Stati europei; chi si limita ad una sacrosanta difesa dei diritti umani a livello di salotto etico senza mai scendere nella cucina politica.

Minniti avrà sicuramente commesso degli errori, ha provato, con tutta l’intelligenza che si ritrova (e non è poca), ad affrontare concretamente la situazione e si è indubbiamente sporcato le mani. Mi danno molto fastidio però quanti non fanno un cazzo di niente e si limitano a condannare: sono gli obiettori di comodo. Li ascolto attentamente, li condivido quasi sempre, ma poi…

Il Movimento 5 Stelle…cadenti

La politica non è il campionato di calcio e le consultazioni elettorali non ne sono una partita. Non so resistere tuttavia alla tentazione di individuare la squadra uscita perdente dalle urne della regione Umbria, nelle quali peraltro erano stati inseriti eccessivi referendum di carattere nazionale. Ne è uscito un responso, per certi versi clamoroso, che rischia di mettere perfino a soqquadro il governo e le forze che lo sostengono.

Osservando i risultati ci si accorge come più che di un trionfale successo leghista si debba parlare di una pesantissima sconfitta del movimento cinque stelle in linea con le precedenti ultime consultazioni elettorali. Sta succedendo quel che, in un certo senso, temevo.

Il grillismo, pur con tutti i limiti e i difetti, è riuscito per qualche tempo ad assorbire la indistinta protesta proveniente dall’antipolitica, a interpretare in qualche modo la generica voglia di nuovo e di pulito  emergente da larghi strati della società, a dare voce a chi voleva gridare tutto il suo sdegno verso il potere a tutti i livelli. Si capiva che non sarebbe bastato porgere il microfono alle lamentele per affrontare e risolvere i problemi, ma almeno si poteva evitare il peggio e sottrarre il malcontento da pericolose derive, che storicamente hanno sempre preso la brutta direzione o della violenza o del populismo destrorso.

L’illusione è durata poco ed eccoci alle piazze piene ed alle urne vuote del M5S, con i suoi elettori in fuga verso l’astensione, ma ancor peggio alla rincorsa della follia leghista e della destra estrema. La dirigenza pentastellata, confusa, divisa e disorientata non ne vuol sapere di seria autocritica e tende a scaricare colpe e responsabilità sulle scelte dell’ultimo periodo (leggi accordo col Pd), sulle debolezze del pur penoso capo grillino (leggi un impettito e sconclusionato Luigi Di Maio, con tutti i difetti e nessun pregio della tradizionale classe politica italiana), sulle divisioni interne (un’armata Brancaleone tenuta insieme soltanto da una polemica stucchevole e asfittica verso tutto e tutti).

Le ragioni della brusca frenata elettorale, preludio di un vero e proprio schianto politico, sono ben più profonde e sistemiche. Una forza politica, si chiami partito o movimento poco importa, deve avere solide radici ideali, valoriali, storiche, sociali e territoriali. In una parola deve avere una cultura politica. Il M5S, nato da simpatiche ed acute intuizioni grilline, da spericolati vaneggiamenti casaleggiani e da evidenti scorribande mediatiche, non possiede alcuna delle radici di cui sopra: non ha storia, non ha riferimenti ideali e sociali, non ha legami territoriali, non ha competenza, preparazione ed esperienza. Colma queste incolmabili lacune con pedante arroganza e penosa presunzione.

La sua debolezza si è notata e si nota soprattutto nel territorio, laddove il movimento è partito e si è via via allargato cavalcando proteste locali: in poco tempo la improvvisata classe dirigente, fatta di sindaci, si è squagliata come neve al sole, mostrando la corda e la incapacità di affrontare concretamente i problemi della gente.

Ultima in ordine di tempo la rinuncia della sindaca di Imola, che, dopo mesi di difficoltà alla guida della città alle porte di Bologna, conquistata dal Movimento 5 Stelle soltanto nel giugno 2018, getta la spugna e in un’intervista dichiara apertamente: «Il M5S non esiste più. È morto ed è morto quando è morto Gianroberto Casaleggio. Abbiamo visto un appropriarsi di ruoli apicali da parte di persone senza arte né parte, che hanno perso sei milioni di voti in un anno e fanno finta di niente. Ho bisogno di appoggio per fare quello che i cittadini mi hanno chiesto votandomi. Oppure divento un burattino nelle mani del Pd, cosa che io non voglio essere».

Manuela Sangiorgi firma così il certificato di morte del M5S, ma non ne individua le vere e profonde cause: scarica la responsabilità sulla insipienza della classe dirigente grillina, sulla mancanza del nume tutelare, sulla assenza di impegno fattivo, sul partito democratico (cosa c’entri non è dato capire). I grillini non rischiano di diventare burattini nelle mani del Pd, ma di essere burattini in via del tutto autonoma, senza teatrini, burattinai, copioni, etc. La commedia è finita! E purtroppo c’è chi vanagloriosamente riesce a recuperare il pubblico deluso dalla breve e sconclusionata recita. Alla prossima commedia, che potrebbe diventare tragedia.

 

Le pietre scagliate dai peccatori

Non sono un giurista, ma, pur nella mia conclamata ignoranza, ho l’impressione che con il discorso del conflitto di interessi si stia strumentalmente esagerando. Secondo il Financial Times, Giuseppe Conte fu consulente di un fondo finito nell’inchiesta del Vaticano: il giornale britannico avanza l’ipotesi di un conflitto di interessi del premier legato al finanziere Raffaele Mincione ed al fondo finanziario da lui gestito, che avrebbe ricevuto circa 200 milioni di euro dal Segretario Vaticano per un discusso investimento immobiliare di lusso a Londra.

Mi sforzo di affrontare l’argomento con il massimo rispetto per il giornale che sta sollevando autorevolmente la questione, con il massimo spirito critico nei confronti del Vaticano, che mercanteggia dentro e fuori il Tempio, con il massimo rigore verso la politica che non può permettersi di impegolarsi con la finanza.

Riporto di seguito il fatto come esposto da “Repubblica”. Nel maggio 2018 la società Fiber 4.0, controllata dal fondo di Mincione di cui sopra, ingaggia l’avvocato Giuseppe Conte per un parere legale. Fiber 4.0 stava tentando la scalata alla Retelit, una compagnia italiana di telecomunicazioni, ma era stata battuta da due aziende straniere: un fondo tedesco e una società libica. Conte nel suo parere legale sostenne la necessità di introdurre il principio del golden power, che in questo caso avrebbe permesso al governo di bloccare la cessione delle compagnie strategiche ad azionisti stranieri. Allora Conte era solo candidato premier su segnalazione del M5S per il governo giallo-verde che si stava faticosamente formando. Un mese dopo il governo guidato da Conte emanò un decreto applicando proprio il golden power a Retelit, senza peraltro che il Fondo di Mincione ne ottenesse benefici, perché non arrivò al controllo della compagnia. Il premier spiegò allora di non aver partecipato alla discussione del decreto e di essersi astenuto dal votarlo in consiglio dei ministri.

E il Vaticano? Il quotidiano britannico arriva a sostenere che il Fondo attenzionato fosse sostenuto dal Segretariato Vaticano e che la scalata alla Retelit sia stata lanciata utilizzando il denaro ottenuto dalla Santa Sede e quindi che Conte avrebbe operato anche per fare un favore al Vaticano. Palazzo Chigi ha diffuso una nota al riguardo: “Conte ha reso solo un parere legale e non era a conoscenza e non era tenuto a conoscere il fatto che alcuni investitori facessero riferimento ad un fondo di investimento sostenuto dal Vaticano e oggi al centro di un’indagine”. La presidenza del Consiglio ha ribadito che “per evitare ogni possibile conflitto di interesse, il premier si è astenuto anche formalmente da ogni decisione circa l’esercizio della golden power. In particolare non ha preso parte al Consiglio dei ministri del 7 giugno 2018 (nel corso del quale è stata deliberata la golden power), astenendosi formalmente e sostanzialmente da qualunque valutazione. Si fa presente che in quell’occasione era impegnato in Canada per il G7”.

Faccio un semplice ragionamento di buon senso. Ogni e qualsiasi professionista che venga chiamato a ricoprire cariche pubbliche porta con sé un trascorso di questioni problematiche e quindi un potenziale conflitto di interesse dal momento che la sua azione politica potrebbe influire su tali questioni. E allora per evitare un simile rischio bisognerebbe che chi assume incarichi politici fosse stato un nullafacente. Diversamente l’unica cosa da fare è astenersi da ogni e qualsiasi decisione, direttamente o indirettamente collegabile a precedenti incarichi professionali. Mi sembra né più né meno l’atteggiamento tenuto da Conte. Se ci saranno ulteriori sviluppi con elementi e documenti seri e inconfutabili, staremo a vedere. Al momento non capisco dove stiano e in cosa consistano le basse insinuazioni del Financial Time, prontamente cavalcate dai gufi italiani, Salvini e Meloni, che chiedono chiarimenti di Conte a livello parlamentare, lasciando comunque intendere che se fosse solo parzialmente vero quello che scrive il Financial Time in qualsiasi Paese ci sarebbero le dimissioni tre minuti dopo.

Quanto ai rapporti col Vaticano, chi è senza peccato scagli la prima pietra: da sempre la politica italiana è intessuta di fili collegabili al Vaticano. Forse dispiace che Conte sia appoggiato dalla gerarchia cattolica e si vuole vedere in questa scelta di campo la restituzione di piaceri fatti in passato. Ma fatemi il piacere. De Gasperi andava in chiesa per pregare, Andreotti per trafficare coi preti, in merito a Conte mi sembra presto per dare giudizi o insinuare dubbi, chi vivrà vedrà. Dimenticavo di aggiungere che Salvini brandisce croci e rosari durante i comizi elettorali: non mi vorrà far credere che dipenda da una sua crisi mistica…

C’è soprattutto lo strano modo di intendere la trasparenza politica:  chi, da ministro dell’Interno non si è presentato in Parlamento per chiarire opache vicende nei rapporti con la Russia, chiede che il presidente del Consiglio corra in Parlamento a riferire sui dubbi e le ombre sollevati dal Financial time; poi non ci si accontenta nemmeno di usare due pesi e due misure, ma si lascia subdolamente intendere che i chiarimenti difficilmente potrebbero evitare pronte e spontanee dimissioni dal parte del premier (giustizia politica sommaria); ultima e non ultima considerazione: la questione è di vecchia data, se ne era già parlato e scritto, ma allora Conte era premier di un’altra coalizione e allora evidentemente valeva la presunzione di innocenza, mentre ora per lui, appoggiato da una coalizione nemica, vale la presunzione di colpevolezza.

La democrazia italiana costola del fascismo

Faccio in premessa la tara al significato del test elettorale umbro per la ristrettezza del campione (solo settecentomila cittadini votanti), per la specificità della situazione (si votava in conseguenza della sanitopoli umbra), per la complessità del momento politico assai precario e incerto (l’Umbria è diventata una sorta di laboratorio in cui gli esperimenti possono anche provocare vere e proprie esplosioni).

I risultati eclatanti (una schiacciante vittoria del centro destra a guida leghista e una debacle del centro-sinistra a combinazione penta-piddina) comportano e meritano tuttavia una qualche riflessione. Parto da lontano, da Massimo D’Alema, che, parecchio tempo fa, nella sua lucida, ficcante e quasi irritante verve polemica, sosteneva quanto segue: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un antistatalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra”. D’Alema va sempre e comunque ascoltato, perché, pur nella sua smodata autostima, riesce ad affrontare i temi politici con schiette e provocatorie analisi, a volte troppo sofisticate, ma mai banali e scontate.

La succitata sua dichiarazione va certamente aggiornata nel tempo laddove concede alla Lega il marchio di fabbrica antifascista e dove le nega la possibile paternità di una destra organica e strutturata. La Lega è cambiata, ma resta valido il ragionamento di fondo a livello culturale, sociale e politico. Non la faccio lunga e mi chiedo: come può l’elettorato di sinistra passare con tanta rapidità e facilità all’estrema destra. Sta succedendo ed è successo clamorosamente anche in Umbria. Se la storia propone parecchi casi emblematici, resta tuttavia paradossalmente incomprensibile che uno storico elettore di sinistra, ad un certo punto, decida di votare per una destra, volgarmente egoista, socialmente populista, culturalmente nazionalista, economicamente liberista, affogandosi in un inqualificabile e disgustoso polpettone estremista e sovranista. Capirei se la reazione schifata ad un logoro e corrotto sistema di potere sinistrorso, provocasse una sbandata e portasse alla protesta antipolitica tipica del grillismo nostrano, ma persino il grillismo non funziona più da carta assorbente del malcontento di sinistra, anche chi ha votato M5S è fuggito verso gli illusori lidi leghisti.

Mia sorella, nella sua acuta e impietosa schiettezza, faceva un ragionamento per certi versi opposto a quello di D’Alema: «Gli italiani, diceva, sono rimasti fascisti e quindi…dove si è stati si può tornare con una certa relativa facilità di percorso». E la Resistenza, la Costituzione, la democrazia parlamentare dove sono finite? Frutto di avanguardie capaci di coprire con il mantello democratico le nudità di una destra sempre in agguato? La democrazia cristiana e il partito comunista hanno saputo tradurre e coniugare positivamente i difetti di un popolo senza radici ideali e con un traballante bagaglio valoriale? Finiti questi ancoraggi storici, logorato il sistema virtuoso dell’antifascismo ruspante, in tanti si sono sentiti finalmente in libera uscita e hanno sfogato i loro istinti politici nel primo casino che si presentava loro? Domande molto pesanti e provocatorie!

Paradossalmente è la sinistra democratica ad essere una costola della destra più o meno anti-democratica? Lo schema dalemiano può essere capovolto? L’Umbria sembra rispondere con un blasfemo sì. E allora? L’esperimento tattico di stoppare l’emorragia a sinistra con il cotone emostatico dell’accordo Pd-M5S sembra miseramente fallito. Il popolo di sinistra appare propenso a rivolgersi drammaticamente e sbrigativamente al pronto soccorso leghista, senza pensare che l’ospedale intravisto è assai poco raccomandabile. È pur vero che “al prim cavagn al vól bruzä e soprattutto che “an gh’è gram cavagn, ch’an vena bón ‘na volta a ’l an”. Resta il fatto che il cesto penta-piddino ha fatto clamorosamente acqua. Il governo centrale verrà condizionato e frastornato da questo sperimentale flop? Il M5S riuscirà a leccarsi le ferite sempre più profonde e inguaribili? Il Pd ritroverà il bandolo della matassa e l’orgoglio storico di poter essere l’argine allo strisciante fascismo risorgente?  La sbornia leghista farà rapidamente il suo tempo? Quale può mai essere il compromesso storico che ci salvi dalle derive in corso? Occorrerà spostarsi dal laboratorio di Frankenstein al cantiere politico vero e ricostruttivo della democrazia e della sinistra.