L’armadio della fobia meteorologica

Non ho alcuna intenzione di iscrivermi al partito negazionista dei cambiamenti climatici, del riscaldamento terrestre e dell’inquinamento atmosferico e non vorrei quindi essere equivocato se non ne posso più delle continue notizie ansiogene sulle previsioni del tempo. Un tempo si temeva che fossero truccate per non disturbare i flussi turistici, oggi mi viene il dubbio che siano cavalcate da un’informazione esagerata, che sfrutta le notizie sugli andamenti atmosferici a livello di vero e proprio business.

Un conto è predicare e adottare precauzione, cautela, attenzione, oculatezza, altro conto è puntare direttamente o indirettamente sull’allarmismo fine a se stesso. Mi sembra si stia esagerando! Siamo bombardati da un susseguirsi di allarmi, gialli, arancioni, rossi: la fine del mondo sembra essere imminente.   È pur vero che un segno evangelico di imminenza della fine dei tempi, da intendersi non tanto in senso cronologico, ma etico e morale, è rappresentato da calamità naturali come terremoti, carestie, pestilenze e fenomeni atmosferici terrificanti come tifoni e super tifoni, che sono anche il risultato del nostro modo irresponsabile di trattare uomini e natura. Tuttavia non bisogna cadere nella trappola del catastrofismo.

È altrettanto vero che è meglio soffrire per eccesso di zelo precauzionale che per incuria e rassegnazione, ma tutto ha un limite. Anche perché persino la neve sta creando il panico: quando ero bambino la neve abbondantissima accompagnava tutto l’inverno, condizionava anche allora la circolazione, la viabilità, la vita quotidiana, ma a nessuno veniva in mente, peraltro in periodi in cui si era tecnologicamente assai meno organizzati ed attrezzati, di trasformarla nello spauracchio esistenziale dell’inverno e finanche della primavera.

Il discorso delle alluvioni è decisamente e drammaticamente più preoccupante. Certo sarebbe meglio che invece di piangere sul latte versato, si facesse qualcosa di più in via preventiva. Sicuramente creare un clima di panico spargendo a piene mani allarmismo, non serve a niente e a nessuno. Forse abbiamo acquisito una mentalità illuministica tale per cui tutto dipende dall’uomo e quindi, quando si verifica qualche evento clamorosamente dannoso e disastroso, occorre cercare a tutti i costi un colpevole su cui scaricare le colpe. Non sono certo un fatalista, ma nemmeno un giustizialista climatico. Occorre equilibrio prima e dopo le sciagure: prima, per prevenirle nei limiti del possibile, dopo per non aggiungere angoscia ad angoscia. Basti pensare agli appelli mediatici a fornire immagini dei disastri: un tempo andavano a ruba le registrazioni pirata degli eventi musicali, oggi vanno a ruba le immagini pirata delle alluvioni. Tutto fa spettacolo!

In passato si sono colpevolizzati molti soggetti per non aver divulgato per tempo gli allarmi provenienti dalla protezione civile ed è quindi normale che gli amministratori e tutti coloro che hanno responsabilità a livello pubblico stiano dalla parte del manico e divulghino allarmi a piene mani. So di dirla grossa, ma se andiamo avanti così, forse si dovrà imparare a proteggersi dalla protezione civile.

Innanzitutto bisognerebbe distinguere ciò che, pur creando disagio e difficoltà, rientra nella norma e quindi non deve essere vissuto con le mani nei capelli, ma semmai  con le maniche arrotolate. In secondo luogo sarebbe oltre modo necessario mobilitarsi, impegnarsi, lavorare prima e non fare un gran casino dopo. In terzo luogo occorre chiarire che le scelte a favore della salvaguardia ambientale, climatica e territoriale presuppongono sacrifici e rinunce: cose che nessuno vuol fare. In questo bailamme ansiogeno alla fine chi ci rimette sono coloro che vengono effettivamente colpiti, davanti ai quali rimango veramente angosciato e paralizzato.

Mia madre, quando vedeva gente che rimaneva senza casa per effetto di eventi atmosferici, si commuoveva al punto da augurare a se stessa di morire piuttosto che vivere simili drammi. Attenti però a non fasciarsi la testa prima di cadere, lasciando nella cacca chi è caduto e spargendo ansia da probabili attacchi di caduta. Una mia anziana conoscente, quando aveva sentore dell’arrivo di un temporale si rifugiava dentro l’armadio. Non vorrei che ci stessimo chiudendo involontariamente e collettivamente in una sorta di armadio della paura, aggiungendo a quella dell’insicurezza economica e sociale, a quella verso gli immigrati, anche quella della precarietà atmosferica e climatica. Sono consapevole di avere toccato tasti delicati, spero di essermi spiegato e di non avere dato l’impressione di insensibilità e scetticismo e soprattutto di non aver aggiunto confusione a quella che già purtroppo esiste.

 

Pizzarotti: cause note ed effetto a venire

Nel marzo 2012 Federico Pizzarotti si candida per il Movimento 5 Stelle alla carica di sindaco di Parma per le elezioni amministrative del 6 e 7 maggio 2012, successive alle dimissioni del sindaco di centrodestra Vignali e al commissariamento della città. Al primo turno ottiene il 19,47% e accede al ballottaggio contro il candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli, presidente della provincia di Parma, forte del 39,20% dei consensi.

Faccio un fermo immagine. Cosa era successo a Parma? Mentre all’orizzonte si profilava il grillismo, il partito democratico, che aveva la strada spianata dalla disastrosa esperienza del centrodestra camuffato da “civiltà parmigiana”, falliva a porta vuota un rigore, facendolo battere dal candidato totalmente sbagliato, per precedenti e discutibili sue esperienze amministrative, per inadeguatezza politica, per il vezzo insopportabile di lasciare una carica per un’altra più importante, ma soprattutto perché a bordo campo c’era pronto il goleador Giorgio Pagliari, candidato naturale a sindaco, unanimemente considerato come l’uomo ideale, per preparazione, esperienza e coerenza, capace di dare una svolta all’amministrazione comunale parmense. Gli fu inspiegabilmente preferito Bernazzoli.

Ricordo il confronto elettorale in vista del ballottaggio: un esercizio di presunzione post-comunista nei confronti di un neofita della politica. Se al primo turno elettorale mi ero astenuto, al ballottaggio non resistetti alla tentazione di dare una lezione esemplare alla sinistra incapace di leggere la realtà e sempre pronta a sovrapporsi alla realtà. Votai Pizzarotti, che uscì clamorosamente vincitore con il 60,22 dei consensi e si trattò del primo sindaco di un capoluogo di provincia appartenente al Movimento 5 Stelle: non era un’elezione con il riconoscimento politico del candidato e del suo partito, era semplicemente un atto di protesta contro il Pd, impegnato a guardarsi l’ombelico, e contro il forno inceneritore dei rifiuti ormai in fase di avanzata costruzione, avversione cavalcata dai grillini con la promessa  di una impossibile retromarcia .

Ebbi modo di pentirmi amaramente di aver votato Pizzarotti (non certo di non aver votato Bernazzoli), perché ne capii alla svelta i limiti e i difetti. Pizzarotti ha capito, fin troppo bene e da subito, che, come lui stesso afferma, “il Movimento doveva prendere la strada della maturità e diventare un partito serio e di governo, invece ha sbragato con uno al comando e senza che il gruppo crescesse”. Inizia quasi subito a fare il rompiballe fino alla sua fuoriuscita dal movimento, dopo un’assurda parentesi giudiziaria ed una pretestuosa sua sospensione, mai rientrata dopo l’archiviazione delle accuse a suo carico. Questo è il suo merito storico, al di là della sua amministrazione che giudico comunque insufficiente e di basso profilo.

Infatti nel 2017 dovetti astenermi ancora alle elezioni amministrative: il Pd sbagliava per l’ennesima volta il candidato, rincorrendo un fantomatico esponente del civismo alla parmigiana, Pizzarotti si ripresentava con una lista indipendente chiamata “Effetto Parma”, fondata da lui e da un notevole gruppo a lui fedele. Non mi convincevano e restai a casa, pur riconoscendo che, come diceva Montanelli, Pizzarotti non si era arricchito, dimostrandosi un galantuomo, non aveva voluto strafare ed era riuscito a galleggiare sul mare di debiti lasciati in eredità dalle precedenti amministrazioni megalomani e spendaccione. Fu rieletto con il 57,87% dei voti contro il pallido esponente del centrosinistra Paolo Scarpa.

Liberato dalla corsa all’impossibile terzo mandato, Federico Pizzarotti si monta la testa, fondando “Italia in comune”, auto-dichiaratosi il “Partito dei sindaci”, che si presenta con alterne vicende e risultati modesti alle elezioni regionali in Abruzzo, Sardegna e Piemonte. Alle elezioni di maggio per il Parlamento europeo il movimento promosso dagli spretati grillini punta su +Europa e Pizzarotti è candidato nella Circoscrizione Nord Est e si piazza secondo con 22.127 preferenze, ma non viene eletto in quanto la lista non supera la soglia minima di accesso.

Ho fatto una breve cronistoria della vita politica di Pizzarotti. Oggi ce lo troviamo a sostenere convintamente la ricandidatura di Stefano Bonaccini alla guida della regione Emilia-Romagna in vista delle elezioni del prossimo gennaio. Gesto obiettivamente apprezzabile anche se quasi scontato nel bel mezzo di un girovagare fine a se stesso (in nome dell’ambientalismo parmense, vicino a quello dei Verdi tedeschi che puntano su crescita e infrastrutture), espresso senza smania di potere, senza puntare ad una seggiola (anche se è ancora presto per dirlo), senza entrare nel Pd a cui assicura di non mandarle a dire (lo giudica un partito senza programma, fisionomia e identità), esprimendo, con tutta la comprensibile asprezza dell’ex, tutta la sua avversione per l’alleanza nazionale e regionale fra PD e M5S, distribuendo giudizi (positivi su Calenda, negativi su Renzi).

Naturalmente non poteva mancare un libro, “Il meglio deve ancora venire”. In conclusione concordo pienamente col titolo del libro e mi auguro che, per Federico Pizzarotti e quella Parma che lui dal 2012 amministra senza infamia e senza lode, arrivino tempi migliori. In cauda venenum: un tempo un personaggio come Pizzarotti avrebbe sì e no fatto il segretario di sezione di un qualsiasi partito; oggi pontifica politicamente sui massimi sistemi e si pavoneggia sul poco o nulla della sua amministrazione comunale in attesa del bagno culturale rigenerante del 2020. Chi si contenta gode.

Per Venezia: Mose o Mosè

Sono stato solo due volte a Venezia: per vedere un Otello di Verdi al teatro La Fenice in una giornata torrida, nel periodo ante incendio; precedentemente in gita di piacere (?) con il gruppo giovanile parrocchiale che frequentavo. In entrambi i casi andiamo molto indietro nel tempo. La gita però ha tutta una sua drammatica particolarità e attualità, perché capitò proprio nel giorno dell’acqua altissima del 1966: l’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966, conosciuta anche come aqua granda o acqua granda, fu un evento meteorologico eccezionale che travolse la città con un’alta marea eccezionale senza precedenti, che raggiunse un’altezza record di 194 cm. Peraltro quello stesso giorno ci fu anche l’alluvione a Firenze (come dice il famoso proverbio, le disgrazie non vengono mai sole e purtroppo, nel caso di Venezia, si sono anche ripetute).

Al mattino non riuscimmo a sbarcare se non a Sant’Elena, il punto più alto e lì ci fermammo alcune ore. Al ritorno  anche a Sant’Elena l’acqua aveva interamente allagato le passarelle e fummo costretti a reimbarcarci sul vaporetto nei modi più strani: chi, come il sottoscritto, si fece letteralmente portare sulla groppa da un disponibile addetto al servizio, naturalmente dietro adeguato e improvvisato compenso;  chi si tolse pantaloni, scarpe e calze e si immerse nell’acqua gelida per poter raggiungere il pontile; ricordo che un amico si rimboccò i pantaloni e poi entrò nell’acqua con scarpe e calze (tanta era la tensione di quei momenti).

Lungo il tragitto col vaporetto fino ad arrivare a piazzale Roma ho visto scene apocalittiche: l’acqua sfondava le vetrine dei negozi e all’interno si notava la distruzione di tutta la merce, gente che alla vista dei propri esercizi commerciali devastati sveniva cadendo in acqua, i vigili del fuoco che accorrevano coi loro mezzi acquatici, ma finivano col fare onde e creare ancora più danno alle cose. Riuscimmo a salire sul pullman ed a tornare a casa: ci fermammo a cena in un ristorante lungo la strada e ci accorgemmo dalla televisione che era successo il finimondo anche a Firenze. Avevamo scelto il peggiore dei periodi per fare una gita a Venezia, ma ci consolammo nella convinzione di aver assistito ad un drammatico evento storico.

L’acqua alta di questi giorni non ha infatti superato il record del 1966. A distanza di oltre cinquant’anni Venezia è ancora esposta agli stessi rischi e pericoli. Non avrei mai più pensato che i fatti del 1966 potessero ripetersi, invece… Del fenomeno dell’acqua alta a Venezia se ne è parlato parecchio. Ci si è accapigliati e divisi sui progetti per contrastare il fenomeno. Mi sembra che tutto sia rimasto come prima e… la città è stata pazzescamente allagata. Ora comincia lo scaricabarile delle responsabilità. Sul Mose, il progetto che prevede le dighe, che dovrebbero alzarsi per difendere la citta di Venezia, è scoppiata la polemica: chi si chiede perché non funzionino ancora; chi dice che non funzioneranno mai; chi ritiene che i commissari, incaricati del funzionamento del progetto, avrebbero dovuto avere il coraggio di alzare le dighe, mentre loro si difendono affermando che non spettava a loro la decisione se alzare o meno il Mose, perché servirebbe al riguardo una cabina di regia istituzionale, ed attestando che nel 2019 erano previsti solo dei test di sollevamento in via di svolgimento e che il ministero delle Infrastrutture era al corrente della situazione. Mancherebbero inoltre anche i presupposti organizzativi per far funzionare il Mose: non ci sarebbero infatti le sufficienti risorse umane, adeguatamente preparate dal punto di vista tecnico.

Limitarsi a far funzionare solo alcune bocche di porto, a detta del Commissario Ossola, non sarebbe servito a nulla o addirittura avrebbe potuto creare maggiori danni alla città. La data di consegna del progetto definitivo funzionante, dopo ulteriori sperimentazioni e collaudi, dovrebbe essere il 31 dicembre 2021. C’è naturalmente chi accusa i responsabili di notevole lentezza nei lavori, chi mette il dito nella piaga dei finanziamenti.  Mi sono limitato a registrare quanto scritto, in modo obiettivo ed articolato da Alberto Zorzi sul Corriere del Veneto.

Aggiungo che personalmente sono tentato di pensare ancor più male e immaginare (?) la solita megastruttura, su cui si scaricano inefficienze, ritardi, rinvii, polemiche: insomma una Cattedrale sull’acqua. Certo, in questi casi vale più che mai quanto sostenne mio padre con una battuta velenosa in occasione di un’alluvione in Italia. Allora c’era da rispondere al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”.   Mio padre rispose: “Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. È indubbiamente una delle più belle battute di mio padre per stile, eloquenza, brillantezza, spontaneità e parmigianità. Non sopportava infatti, sempre e comunque, la faziosità, detestava la mancanza di obiettività e nelle sue frequentazioni terra-terra, nonché nel parlare a livello di base, lanciava questi missili fatti di buon senso più che di analisi politica. Non so cosa direbbe oggi. Sono passati molti anni dalla mia gita a Venezia e dalla battuta sferzante di mio padre. Leggendo ed ascoltando le polemiche scoppiate, da una parte ho fatto silenziosamente la parte del privato e globale accusatore, dall’altra mi sono trattenuto dal buttare la croce addosso a Tizio e Caio ricordando i rinvii paterni al mittente delle accuse faziose, facilone, opportunistiche e distruttive. Non rivedrò certamente un’acqua così alta a Venezia: mi auguro che ciò sia dovuto non solo alla mia ormai tarda età, ma ad un rigurgito di vitalità di tutti coloro che possono intervenire.

Il proficuo accattonaggio salviniano

Quando, nel pieno della scorsa estate, Matteo Salvini ha fatto saltare il banco governativo giallo-verde, gli opinionisti e i commentatori politici si sono esercitati nel dipingere l’impennata del leader leghista come qualcosa di assurdo e intempestivo, una cavolata pazzesca e azzardata, fatta per andare in tutta fretta a raccogliere, con elezioni anticipate, i consensi maturati, prima che marcissero, accreditandosi tutti i meriti (?) governativi e addebitando al M5S i demeriti dell’anno e mezzo di travagliata convivenza governativa.

Sappiamo come è andata provvisoriamente a finire: le elezioni non si sono fatte, Salvini è stato tagliato fuori, l’Europa è tornata a dare le carte, si è prospettata un’alleanza tattica tra Pd e M5S in vista della futura elezione del Capo dello Stato e in vista delle prove elettorali regionali. Questo equilibrio, piuttosto precario per non dire impossibile, sta vivendo giorni sempre più difficili in corrispondenza dell’emersioni dei veri problemi del Paese.

Una manovra economica con l’imperativo di quadrare il cerchio dei conti pubblici, una situazione economica sempre più problematica a livello di rapporti internazionali, crisi aziendali e occupazionali, una esplosione della bomba, peraltro prevedibile, del caso Ilva: tutti i giorni scoppia un problema davanti al quale il governo, quando non di divide, balbetta.

Salvini sta recuperando quei consensi che sembravano averlo abbandonato all’indomani della bufera governativa estiva: sembrava che la gente, almeno in minima parte, avesse capito l’assurdità del capataz leghista. Nemmeno per sogno, Salvini è tornato protagonista nell’immaginario collettivo, gira l’Italia da salvatore della patria, ha sbancato le urne della regione Umbria, si sta impossessando della coalizione di centro-destra, spara contro l’attuale governo come se lui non avesse nemmeno conosciuto i cinquestelle ed arriva con impudenza a concedere comprensione al Pd, chiamato a convivere con un alleato impossibile e quindi riesce a ribaltare sui grillini tutto il male che non gli vien per nuocere.

Non so se lo avesse calcolato, ma senz’altro si era accorto di aver tirato troppo la corda e che questa si stava strappando: forse non aveva altra scelta che rompere, tentando di capitalizzare quel poco che era riuscito a far apparire davanti agli occhi degli italiani e allontanandosi dai problemi che sarebbero ben presto arrivati con la loro evidenza devastante. Dove sarebbe infatti finita la promessa della flag tax? Come se la sarebbe cavata di fronte all’inghippo Ilva? Come avrebbe potuto continuare a sopportare il reddito di cittadinanza e a difendere a spada tratta quota cento. Le ultime due cose citate gliele ha fatte il nuovo governo. Meglio quindi defilarsi nelle piazze, ostentare striscioni nelle aule parlamentari, andare alla conquista dell’Emilia-Romagna etichetta rossa.

Mio zio Mario, che viveva in quel di Genova, raccontava di un accattone, postato in un luogo strategico del centro-città, che rifiutava categoricamente le monete di una certa entità e si accontentava rigorosamente di quelle di più modesto valore. Tutti lo ritenevano un cretino, mentre mio zio lo riteneva un furbo: aveva infatti costruito un suo mercato, perché tutti provavano il suo “assurdo” atteggiamento e finivano, pur scrollando il capo, per fargli l’elemosina. Anche Salvini si sta apparentemente accontentando di stare al di fuori dei giochi, ma in realtà sta giocando alla grande e a tutto campo. Gli autogoal si stanno trasformando in tiri in porta da tutte le posizioni e prima o poi i goal magari arriveranno, anzi stanno già arrivando. A meno che…

 

Volare alto con i piedi per terra

Il peggior modo per affrontare questioni complesse e delicate come quella dell’Ilva è trincerarsi dietro questioni di principio. Con la stucchevole tentazione dei voli pindarici, più o meno in buona fede, ci si sta incartando nella radicalizzazione dei singoli elementi di una vertenza molto articolata e complessa: scudo penale e nazionalizzazione stanno diventando le dita dietro cui si nasconde la politica inconcludente, faziosa e demagogica.

Se ci si ingarbuglia nell’astratto problema di concedere o meno un trattamento legale diversificato ai potenziali nuovi gestori dell’acciaieria di Taranto, non si conclude nulla, si regalano pretesti a chi non vuol affrontare seriamente la situazione e si forniscono alibi a chi vuole defilarsi dalla scottante trattativa.

Se ci si vuole distinguere a tutti i costi facendo i primi della classe, si manda l’intera classe a catafascio presentandosi in ordine sparso ad una trattativa difficilissima in cui occorrerebbe una certa unità d’intenti per raggiungere obiettivi ragionevoli.

Se si punta a sventolare qualche bandiera in chiave populistica ed elettoralistica, si dovrebbe capire che non si può mettere la raccolta di facili consensi prima della difesa della continuità aziendale e di migliaia di posti di lavoro: siamo alla distinzione tra il politico che pensa ai voti e lo statista che pensa alle generazioni future. Bisogna sforzarsi di passare dalla parte degli statisti, altrimenti…

Se si pretende che i potenziali acquirenti dell’azienda Ilva si facciano carico di tutto, prescindendo dai loro piani aziendali di breve e lungo periodo, che nell’elaborare i piani non si possano sbagliare ed avere ripensamenti (salvo pagarne le conseguenze a livello legale e contrattuale), che, nell’economia capitalistica e globalizzata in cui ci ritroviamo, le multinazionali non operino scelte di convenienza a livello di localizzazione degli investimenti e di massimizzazione del profitto (salvo lavorare per regolamentare i mercati, armonizzare le politiche fiscali, fissare standard rispettosi dei diritti dei lavoratori, omogeneizzare le regole ambientali, etc.),  che l’economia smetta di fare i conti per salvare la politica o che si possa essere liberisti a corrente alternata, vale a dire fino a mezzogiorno per poi diventare dirigisti, si torna indietro e si prefigurano scenari anacronistici e impossibili: l’imprenditore deve fare “correttamente” il suo mestiere (non sono sicuro che questo stia avvenendo in casa AcelorMittal), sta al potere politico verificare innanzitutto la correttezza e poi mettere l’interlocutore davanti alle proprie responsabilità non con risse demagogiche e ideologiche, ma con razionali provocazioni sostanziali, mettendo in campo tutto ciò che la politica può fare per agevolare le operazioni.

Un conto infatti è porsi il problema della compatibilità della produzione dell’acciaio in una politica industriale strategicamente innovativa ed eticamente impegnata nel rispetto dell’ambiente, della salute pubblica e del diritto al lavoro, un conto è “incapponirsi” in astratte questioni di principio, in disquisizioni legali, in assurde scelte ideologiche.

I partiti di governo dovrebbero fare un passo indietro per lasciar lavorare il governo. I partiti di opposizione dovrebbero interrompere la polemica su un problema, che peraltro non può prescindere da responsabilità temporalmente e politicamente ben più allargate rispetto agli schieramenti. Il Parlamento lasci al governo il compito di governare e non si metta a varare leggi solo per il gusto sadico o masochistico di mettere il bastone fra le ruote del governo: ci sarà tempo e modo di controllare l’operato governativo, di discuterne l’azione e di valutarne i risultati. La confusione è cattiva consigliera. In questo momento mi sembra di vedere un comportamento molto serio e costruttivo da parte dei sindacati e dei lavoratori stessi: è un buon segno da non lasciar cadere nel vuoto delle polemiche partitiche. Bene ha fatto il premier Giuseppe Conte ad aprire un coraggioso fronte di dialogo diretto anche con i lavoratori.

Occorre molta e laboriosa pazienza che fa a pugni col superficiale e fastidioso protagonismo dei partiti, dei partitini e delle correnti di partito o di movimento, nonché con la ricerca della ribalta mediatica da parte di tanti personaggi in cerca d’autore. Può e deve essere l’occasione per il paradossale ritorno della politica a volare alto con i piedi ben piantati per terra per affrontare i veri e gravi problemi.

 

La tragica scuola dell’antiterrorismo

L’ennesimo attentato terroristico dell’Isis ha colpito, occasionalmente o volontariamente, una pattuglia italiana, che stava operando al fianco dei peshmerga curdi impegnati in una vasta azione antiterrorismo. Questi cinque uomini italiani, rimasti gravemente feriti, incursori dell’esercito e della marina, stavano facendo in Iraq il loro lavoro di istruttori, che prevede un addestramento in poligono e un addestramento in azione. Di loro si sa che sono veterani di missioni all’estero e preparavano al combattimento i colleghi curdi.

Come sostiene il corrispondente della “Stampa”, a cui ho fatto riferimento per capire l’accaduto, erano impegnati in un lavoro intrinsecamente pericoloso, in quanto per forza dovevano andare sul campo per vedere se i loro allievi erano in grado di combattere contro l’Isis e verificare quindi se il loro addestramento aveva funzionato: hanno partecipato, come istruttori, ad una sorta di esercitazione pratica sul campo. L’azione contro i terroristi dell’Isis era andata bene con la scoperta di armamenti e rifugi, però, quando l’azione era da considerarsi finita, è scattata la trappola e un ordigno è improvvisamente esploso al loro passaggio con effetti micidiali.

Sono rimasto, come del resto credo tutti gli italiani, colpito dall’accaduto: giovani vite colpite e compromesse in una assurda scaramuccia vendicativa operata dall’Isis. Erano stati inviati in Iraq dallo stato italiano per svolgere compiti di sostegno a chi combatte i terroristi: un modo strano e per certi versi equivoco di partecipare a questa guerra, mettere a disposizione il know-how dell’esercito italiano a favore dei combattenti contro l’Isis.

Poi mi sono posto alcune domande, come forse avranno fatto molti italiani: fino a che punto ha senso lasciarsi coinvolgere, seppure molto parzialmente, in una guerra? Mi sono chiesto: è una guerra difensiva contro la follia terroristica islamica? siamo sicuri che il terrorismo non si possa combattere in altri modi? non vediamo che queste guerre sono infinite e, quando sembra ad un passo la vittoria, tutto torna in gioco (la dinamica dell’attentato di Kirkuk lo dimostra: l’operazione aveva avuto successo, ma…)? non ci rendiamo conto che i terroristi in fin dei conti fanno anche comodo e v’è chi li foraggia, li arma, li strumentalizza?

Domande che vanno ben oltre le mie conoscenze, ma che mettono in crisi la mia coscienza: capisco che il terrorismo islamico vada combattuto e che non si possa farlo agitando ramoscelli d’ulivo, ma… Me la cavo riprendendo di seguito un passaggio contenuto in una mia articolata e documentata ricerca in materia di terrorismo islamico (peraltro pubblicata integralmente su questo sito).

“La coalizione anti Isis, plasmata all’insegna della realpolitik, è assai simile ad un’armata brancaleone, da cui non si sa cosa aspettarsi. Le contraddizioni di questi Paesi arabi sono riconducibili al dilemma amletico tra dittatura o non dittatura: la dittatura importata dall’Occidente o la non dittatura illudente della religione musulmana. Le dittature anti occidentali, ma sostanzialmente laiche, di Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia sono miseramente crollate sotto i colpi di una falsa crociata contro questi sanguinari personaggi, ma in realtà con l’illusione di riprendere il controllo di questi Paesi o quanto meno di farli rientrare in un gioco controllabile: alla fine l’Iraq e la Libia sono state regalate al Califfato, mentre la Siria, invece pure. È pur vero che la storia è fatta di realpolitik e non di rispetto dei principi, ma la differenza, come sempre, la fanno gli uomini e la loro intelligenza politica. Ed è proprio questo che mi rende pessimista”. Intanto però facciamo la guerra o facciamo finta di non farla, sacrificando comunque la vita di tante persone.

Mio padre, ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra, reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?». E, con questo interrogativo etico molto più profondo di quanto possa sembrare, (non) termino il discorso.

 

 

 

Le donne e i cani in moschea

Stando al bel reportage del mensile Jesus, nel Kosovo, il più giovane Stato d’Europa, i leader religiosi hanno deciso di invertire la rotta: cento mualime, predicatrici femminili dell’Islam, si adoperano come guide spirituali e con le altre donne discutono di diritti e di Corano. Per consuetudine, le donne islamiche dovrebbero pregare a casa e non in moschea, ma in Kosovo le autorità religiose stanno contrastando questa tendenza, promuovendo la presenza di donne come insegnanti spirituali nelle moschee. La decisione di incoraggiare la presenza delle donne nelle moschee rivelerebbe un modo per rendere l’approccio del Kosovo all’Islam più equilibrato, in un momento storico in cui la fede coranica è percepita come opprimente nei confronti delle donne e di tutta la società. Infatti sembra che il discorso femminile faccia da detonatore a tutta una serie di novità culturali, miranti all’evoluzione dell’intera società condizionata dall’interpretazione ed applicazione retrograda della fede islamica.

In Iran un religioso ha denunciato due donne perché portavano a passeggio i cani e loro lo hanno aggredito. Dal gennaio scorso Teheran ha deciso di attuare una dura repressione verso tutti i proprietari di cani, imponendo una serie di regole per vietare la presenza degli animali domestici in ogni spazio pubblico della capitale dell’Iran. Un divieto giustificato per le autorità dal fatto che i cani “creano paura e ansia” tra i cittadini, ma in realtà i cani vengono considerati “sporchi” e un “simbolo della politica filo-occidentale della monarchia estromessa”. Si tratta di un portato della Rivoluzione Islamica del 1979. A prescindere dal merito della questione canina e dalla reazione violenta delle donne di cui sopra, fa piacere notare come un tabù più o meno riconducibile all’Islam tradizionale sia messo in discussione proprio dalle donne.

Sono da sempre convinto che i Paesi arabi, soprattutto quelli a forte incidenza islamica, troveranno un loro riscatto democratico solo se le donne sapranno diventare protagoniste sociali e non si accontenteranno del ruolo matriarcale all’interno della famiglia e della casa. Ricordo di avere partecipato, molti anni or sono, all’assemblea di una cooperativa agricola situata in una zona montana del nostro appennino. Mi stupì l’attenta e folta presenza di donne in un ambiente ancora piuttosto maschilista. Mi spiegarono che il fatto era conseguenza del faticoso lavoro delle donne, a cui veniva delegata la gestione delle stalle, mentre i mariti si dedicavano ad altre attività (si potrebbe fare un po’ di ironia al riguardo rilevando in questa apparente e positiva novità partecipativa un trucco maschilista per scaricare fatica e responsabilità sulle donne con la riserva mentale di dominare comunque il resto delle aziende e della società).

Resta comunque il fatto che se le donne hanno il coraggio di uscire di casa, vuoi per lavorare, vuoi per pregare, vuoi per portare a passeggio i cani, la religione, la cultura e l’assetto sociale possono fare un virtuoso balzo in avanti. Il discorso femminile è il termometro per misurare la febbre (in)civile delle diverse società e dei diversi sistemi politici. In pratica tutte le società trovano purtroppo un filo in comune nella violenza contro le donne e di conseguenza la loro evoluzione positiva dovrebbe basarsi sulla emancipazione femminile.

La portata della questione femminile e sessuale è veramente grande e decisiva nella nostra cultura, ma anche e soprattutto in quella islamica, non solo quella dei fanatici fondamentalisti, ma di tutto l’Islam a cominciare dai cosiddetti musulmani moderati: la loro moderazione vuol dire rispetto per la donna, la sua dignità, il suo ruolo, la sua persona, la sua libertà? Se sì, dopo esserci dati anche noi una bella e sana regolata in materia, possiamo ragionare e percorrere un tratto di strada insieme; se no, tutto diventa un ipocrita gioco delle parti e diventeranno retoriche le domande seguenti. Basterà ai musulmani scendere in piazza per cambiare drasticamente l’atteggiamento pseudo-religioso e anti-culturale verso il mondo femminile? Cosa vorrà dire il fatto che in Kosovo ci sono donne impegnate in un progetto di secolarizzazione? Cosa significherà la reazione anche violenta delle donne iraniane al divieto di tenere al proprio fianco un cane? Cosa potrà dirci il fatto che a Ventimiglia una donna musulmana, entrando in chiesa, si sia tolta il velo in segno di rispetto, pur soffrendo quando cammina per strada e la chiamano terrorista? Che portata potrà avere l’ingresso delle donne in moschea? Sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile?

Le donne tutte, quelle musulmane, quelle cristiane, quelle ebree, quelle atee, non si illudano di ottenere diritti per gentile concessione, ma soltanto con lotte pacifiche, ma decise e coinvolgenti. Il mondo non cambia senza la protesta, la proposta e la partecipazione femminile. Riflettiamo gente…sapendo comunque che il “nuovo” viene dalle donne. Lo sapeva prima e più di noi Gesù di Nazaret.

 

Tra populismo religioso e cultura evangelica

Circola un’analisi di stampo manicheo, con qualche fondamento di verità, sul rapporto tra cattolici e politica in questa fase storica italiana e, in un certo senso, europea ed internazionale. In base ad una approssimativa e schematica descrizione, il mondo cattolico italiano sarebbe diviso fra simpatie populistiche filo-leghiste e fermenti culturali democratici, critici verso i partiti dell’attuale sinistra, ma comunque collocabili culturalmente in quell’area di riferimento. In mezzo, spettatrice assai interessata, la gerarchia cattolica che, come si usa dire, “la darebbe su” all’alleanza pentapiddina in chiave antileghista.

In buona sostanza l’impalpabile e incalcolabile mondo cattolico sarebbe tentato, a livello di base, da una destra strumentalmente schierata in difesa dell’identità cattolica e delle sue tradizioni etiche e culturali, fuorviato dall’egoismo nazionalista truccato dalla simbologia religiosa e impastato con una socialità neo-fascista. Le avanguardie più sensibili e storicamente avvedute starebbero invece borbottando di una profonda riscoperta dei valori cristiani incarnati nella politica, rilanciata criticamente nell’area del centro-sinistra. La gerarchia, assai più pragmatica e immediata, senza immischiarsi troppo nell’agone politico e nel dibattito culturale a monte di esso, si accontenterebbe al momento di appoggiare silenziosamente il nuovo equilibrio Pd-Cinquestelle, rilasciando una cambiale in grigio al premier Giuseppe Conte di estrazione cattolica.

Non so quanta convinzione esista nella base cattolica innamorata della Lega e frastornata dai rosari e dai crocefissi salviniani: si dice che, soprattutto in certe aree del nord, con l’assenso del “basso clero”, questo innamoramento sia piuttosto consistente in termini culturali (?) e numerici. Se e in quanto esista questo fenomeno, lo vedo con grande preoccupazione in base a sciagurati parallelismi storici (il fascismo prima e il berlusconismo poi) e facendo i debiti scongiuri di tipo evangelico. Non credo abbia grande consistenza, ma vada nel segno di un ragionamento che purtroppo è ancora di moda. È questa la mia angoscia: l’attenzione dei cattolici verso una deriva destrorsa, che col Vangelo c’entra come i cavoli a merenda. In un certo senso mi disturba molto meno l’(im)previsto assist al leader della Lega da parte del cardinal Ruini, il quale in un’intervista al Corriere della Sera, in mezzo a critiche alla linea di Bergoglio, in dissenso sulle conclusioni del recente sinodo in materia di delibato sacerdotale, con la solita prudenza al limite della ignavia in materia politica, trova il modo di sdoganare Matteo Salvini: «Non condivido l’immagine tutta negativa che viene proposta in alcuni ambienti. Penso che abbia notevoli prospettive davanti a sé; e che però abbia bisogno di maturare sotto vari aspetti. Il dialogo con lui mi sembra piuttosto doveroso, anche se personalmente non lo conosco e quindi il mio discorso rimane un po’ astratto. Sui migranti vale per Salvini, come per ciascuno di noi, la parola del Vangelo sull’amore del prossimo; senza per questo sottovalutare i problemi che oggi le migrazioni comportano».

La Chiesa può essere considerata da due punti di vista. Se la viviamo come istituzione fine a se stessa, legata alla sua tradizione ed alla gerarchia che la governa, dobbiamo concludere che essa possa purtroppo essere di destra, nel senso della conservazione del potere e dei suoi meccanismi. Se invece la intendiamo come comunità che vive sulla base del Vangelo, la dobbiamo interpretare come autentica spina nel fianco del potere e come alleata ante litteram di tutte le povertà ed emarginazioni, impegnata nel combatterle promuovendo un impegno politico ad hoc.

Se tanti cattolici si schierano in difesa di una Chiesa clericale e conservatrice vuol dire che il Vangelo serve solo a condire le adunate liturgiche. Don Andrea Gallo fu chiamato a rapporto in Vaticano e si difese affermando di applicare il dettato evangelico, niente di più e niente di meno. Il cardinale che lo stava esaminando gli rispose: “Se la metti su questo piano…”. Al che il pretaccio ribatté ironicamente: “E dove la devo mettere?”. La risposta di certo clero, oserei dire di stampo trumpiano, è che abbiamo i nostri poveri e ci bastano. Tutto (non) torna.

Spero che i fermenti culturali di cui tanto si parla e poco si capisce servano a spostare il discorso da questa deriva pseudo-sociologica ad una crescita culturale a livello di ispirazione e di scelte. Non mi sembra assolutamente il caso di vagheggiare nuovi partiti cattolici o correnti cattoliche all’interno dei partiti di sinistra. Bisogna trovare modi e spazi di testimonianza cristiana a livello sociale e politico chiamando a raccolta le prime linee impegnate e protagoniste in senso progressista e aperturista. Dirlo è facile, farlo è molto difficile. Non aspettiamoci che queste novità possano scendere dall’alto di una parte della gerarchia pur intelligente e sciacquata nell’Arno dell’attuale papato. Chi debba muoversi non so, le coscienze lo impongono, le volontà debbono essere trovate, le idee non mancano. Ai rosari branditi sulle piazze bisogna contrapporre il Vangelo testimoniato e tradotto nelle pillole della politica.

Dopo un muro, tanti muri

Più che di retoriche celebrazioni l’anniversario dell’abbattimento del muro di Berlino ha bisogno di profonde riflessioni. Parto da un brevissimo accenno storico, per ricordare in modo oggettivo e non sentimentale la triste realtà che ha caratterizzato per tanti anni l’assetto mondiale dopo la seconda guerra mondiale: dalla immensa e cruenta tragedia del conflitto alla tacita e sepolcrale tragedia della pace.

Il Muro di Berlino era un sistema di fortificazioni fatto costruire dal governo della Germania Est (Repubblica Democratica Tedesca, filo-sovietica) per impedire la libera circolazione delle persone tra il territorio della Germania Est e Berlino Ovest (Repubblica Federale di Germania). È stato considerato il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e USA e quella sovietica, durante la guerra fredda. Il muro, che circondava Berlino Ovest, ha diviso in due la città di Berlino per 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale.

Ricordo quei giorni del 1989 e anni successivi, durante i quali cadevano come birilli i regimi comunisti dell’est europeo: ero contento, finiva un’epoca di mera “non guerra” e speravo iniziasse un’era di vera libertà e pace.  Non è stato purtroppo così. È crollato l’impero sovietico sostituito strada facendo dal più piccolo ma ancor più subdolamente mafioso impero russo, sfociato nel putinismo dei giorni nostri. I Paesi satelliti dell’URSS, liberati dal giogo sovietico e dal regime comunista, si sono impantanati in una frettolosa transizione verso la democrazia ed il capitalismo, allargando, se possibile, le loro miserie economiche e aderendo ai peggiori difetti del sistema occidentale. Verrebbe da dire, con un po’ di esagerazione, passando dalla padella alla brace. Il tutto espresso all’epoca da una profetica vignetta di Forattini: si allontanavano festanti dalle macerie politiche del muro di Berlino e si incamminavano titubanti verso le asprezze etiche del capitalismo, emblematicamente fissate nelle siringhe utilizzate dai tossicodipendenti. Barattavano pezzi di cemento antidemocratico con strumenti di evasione mortifera.  Siamo ancora nel pieno di questa transizione, anche perché la frettolosa adesione di questi Paesi ex-comunisti alla UE non ha fatto altro che far esplodere ulteriormente le contraddizioni reazionarie del post-comunismo. L’Occidente non è stato capace di accompagnarli sul difficile cammino della conversione ed è addirittura arrivato, con la presidenza americana di Donald Trump, a cavalcarne i peggiori istinti egoistici e nazionalistici.

Il muro di Berlino piano piano è stato sostituito dai muri reali e virtuali della nostra epoca, che globalizza le economie e localizza le democrazie. L’americano Trump costruisce un vergognoso muro divisorio verso il Messico in chiave anti-migratoria; gli inguardabili ungheresi ne hanno costruiti ben due, uno verso la Serbia e uno verso la Croazia, per difendersi dall’arrivo dei migranti; Matteo Salvini ha piantato i muri nel mar Mediterraneo nell’illusoria e incivile difesa delle nostre coste contro l’invasione dei migranti del mare. Potremmo continuare nell’inventario delle tragicomiche chiusure ermetiche approntate da un falso ed egoistico concetto di benessere. In buona sostanza alla divisione del mondo in blocchi contrapposti stiamo sostituendo la divisione in tanti blocchetti: della serie “piccolo è bello”.

Abbandoniamo quindi ogni e qualsiasi enfasi trionfalistica: è caduto il muro di Berlino, ma le sue macerie non sono servite per costruire equilibri sostanzialmente diversi. Siamo avvitati su noi stessi, in attesa che scoppino guerre ora qua ora là, ora combattute militarmente, ora, come del resto sempre succede, basate su sporchi e camuffati interessi economici, ora dipinte di sovranismo e populismo. Facciamo il rovescio della vignetta di Forattini: voltiamoci indietro e accorgiamoci che stiamo tornando, con piantate nelle braccia le siringhe dell’egoismo e della paura, né più né meno alle macerie del muro, interpretando nel peggiore dei modi la storica affermazione di Kennedy: “Siamo tutti berlinesi”.

 

Emilia, addio. Come m’ardon le ciglia! È presagio di pianto.

Da funzionario, professionalmente e motivatamente impegnato nel movimento cooperativo di ispirazione cristiana, avevo l’opportunità di partecipare a convegni nazionali in cui erano presenti dirigenti cooperativi provenienti da tutte le regioni italiane. Gli emiliani, a livello espositivo e propositivo, facevano la parte del leone e talora finivano con l’infastidire i colleghi del resto d’Italia: sembrava che volessero fare i primi della classe, mentre in realtà non li volevano fare, ma li erano veramente ed erano disposti a comunicare le loro esperienze. L’Emilia-Romagna è una regione all’avanguardia non soltanto nel settore cooperativo, ma in quasi tutti i settori, in essa trovano una buona combinazione i rapporti tra un pubblico forse troppo invadente ed un privato forse troppo strutturato. Ne è uscita una situazione nel tempo sempre più lussuosamente burocratizzata e imbalsamata. Il punto di forza sta paradossalmente diventando un punto di debolezza facilmente aggredibile da chi predica liberalizzazione spinta al limite dell’anarchia.

In un bel pezzo di Fabio Martini su “La stampa” si commenta l’attuale situazione politica emiliana alla luce delle indiscrezioni emergenti da un sondaggio del partito democratico top-secret, ma che, come tutte le cose segrete, è conosciuto soltanto da donne, uomini e ragazzi/e (chiedo scusa se mi limito, nella battuta, al gender biologico e non culturale). In vista delle elezioni regionali del prossimo gennaio, il centro-destra avrebbe un vantaggio oscillante fra i 5 e i 7 punti sul centro-sinistra, mentre più equilibrato sarebbe il rapporto tra i due candidati-presidenti, l’uscente Stefano Bonaccini e la sfidante, la leghista Lucia Borgonzoni.

La prospettiva di queste elezioni tiene banco nel dibattito politico e la conseguente sfida sarebbe decisiva per il futuro del governo Conte II e della segreteria Pd di Nicola Zingaretti. A detta di tutti i commentatori, sarebbe un disastro per il centro-sinistra, in particolare per il Pd, perdere la roccaforte emiliana.

Il partito democratico sta affilando le sue armi. Innanzitutto conta sull’effetto-Bonaccini, il quale dice della sua amministrazione: «In 5 anni abbiamo fatto tanto, siamo la Regione prima per crescita e la disoccupazione è scesa sotto il 5 per cento». In secondo luogo può contare sull’appoggio di una lista civica, che coinvolge 200 sindaci, alcuni dei quali di centro-destra. Poi Bonaccini avrebbe il sostegno di Confindustria e della Fiom. Inoltre avrebbe la spinta proveniente da importanti personaggi: Romano Prodi, Pierluigi Bersani, Vasco Errani, Virginio Merola. Infine la sinistra farà appello al “sentimento”, punterà sul richiamo della foresta, trasformerà l’Emilia-Romagna in una sorta di Diga, di baluardo contro l’avanzata di Salvini. Romano Prodi confida: «Il centro-sinistra ha amministrato bene e questo in tempi ordinari di solito basta. In tempi ordinari».

Mi permetto di buttare una secchiata di acqua gelida sulle speranze e sugli entusiasmi della sinistra. Come ho scritto all’inizio i buoni risultati amministrativi non bastano a chiosare l’analisi socio-economica regionale: c’è quell’immagine burocratica, proveniente soprattutto dal lontano partito comunista, che rischia di rovinare la piazza. “I daviz jen cme j’insònni”, siamo d’accordo, ma l’impressione sulla società emiliana rigidamente politicizzata e bloccata è assai viva e, peraltro, non è nemmeno del tutto destituita di fondamento.

Il consenso a livello verticistico di sindaci, esponenti sindacali, personaggi politici non importa più di tanto: la gente non ascolta nessuno, ragiona con la propria testa e fin qui non ci sarebbe niente di male, anzi. Purtroppo però è influenzata e fuorviata dalle paure e dalle illusioni scientificamente propalate da una destra vuota e rissosa, ma efficace nella raccolta del consenso.

I sentimenti non tengono più. Personalmente non voterei a destra nemmeno se la sinistra candidasse un redivivo Adolph Hitler. Ma il sottoscritto non fa testo e i richiami alla storia ed alla tradizione influiscono pochissimo su un elettorato confuso e stralunato. Anche l’appello alla diga antifascista potrebbe rivelarsi un boomerang. E allora? Non voglio certamente fare l’uccello del malaugurio, ma la vedo molto dura per la sinistra emiliana. Personalmente scaricherei dalle elezioni regionali un po’ di significato politico nazionale. Poi punterei sulla qualità delle candidature, quella a governatore, ma anche quelle a consigliere ed assessore regionale. Non userei toni aggressivi e presuntuosi: il consenso si conquista con la pazienza delle idee e l’evidenza della realtà.  E poi farei anche un po’ di sana autocritica nel senso di aprire la politica alla gente e non solo alle forze, alle istituzioni e alle strutture intermedie. Il pezzo di Fabio Martini, a cui ho fatto riferimento, è introdotto da una splendida vignetta di Sergio Staino. Il segretario nazionale del Pd dice rivolto a Gesù: «Scusami, Jesus, sono Zingaretti…tu resusciti solo persone o anche partiti?». In quella battuta messa in bocca a Nicola Zingaretti c’è la sintesi dei miei poveri consigli personali di cui sopra.