Diversità senza conflittualità

Non mi sottraggo a mettere per iscritto le mie riflessioni anche su argomenti estremamente delicati su cui opportunismo vorrebbe silenzio. Mi riferisco allo scontro televisivo fra Vladimir Luxuria e Vittorio Sgarbi: una ignobile rissa che, pur rientrando perfettamente nei canoni del circo mediatico, dove tutto fa spettacolo, induce a qualche argomentazione seria.

Innanzitutto sarebbe ora di finirla con la volgarità spacciata da provocazione culturale: non c’è idea che consenta di scendere nei bassifondi della volgarità alla ricerca peraltro solo di audience e di primadonnismo. Vale per Sgarbi, vale per parecchia gente che usa i media per sfogare le proprie reazioni pseudoculturali.  Sono passati molti anni da quando la signora Franca Ciampi, moglie del presidente della Repubblica, esorcizzò la Tv spazzatura, attirandosi anche qualche immeritata critica a livello di invadenza e oscurantismo: aveva ragione e il tempo le sta dando sempre più ragione.

In secondo luogo non ha senso e non trova alcuna giustificazione attaccare volgarmente persone che hanno vissuto e vivono esperienze molto difficili come l’omosessualità e la transessualità: bisogna avere rispetto e riguardo, rifuggendo da ogni e qualsiasi atteggiamento derisorio, discriminatorio e vignettistico. La persona merita considerazione in quanto tale e indipendentemente dai suoi orientamenti e comportamenti sessuali, tutto il resto non è accettabile da chiunque provenga.

Ci riempiamo la bocca di rispetto per la diversità e poi quando è il momento non sappiamo resistere alla tentazione di ridicolizzare, colpevolizzare, attaccare violentemente chi ci propone la sua diversità, non come la vorremmo noi, ma come la vive lui o lei. In questo forse la cultura prevalente è indietro rispetto alla politica e alle leggi, peraltro non certo molto avanzate.

Non mi sento però di sorvolare paternalisticamente sulla insistente “provocatorietà” del diverso, che continua testardamente a sentirsi tale, che ostinatamente non rispecchia integralmente la propria personalità, ma un cliché, un ruolo protagonistico a tutti i costi, pretendendo una inutile e dannosa ribalta non tanto per le sue battaglie di civiltà, ma per le sue esibizionistiche rivalse. Certe persone, che pure hanno conquistato, magari con grosse difficoltà, una loro dimensione personale e sociale, rimangono vittima di una scoppiettante conflittualità, che finisce col rimetterli in un ghetto ancora peggiore.

Quando si è reduci da una guerra, e tutto sommato omosessuali e transessuali hanno dovuto guerreggiare contro pregiudizi e discriminazioni di ogni tipo, prima o poi bisogna provare a vivere in pace con se stessi e con gli altri. A mio giudizio è giunta questa ora, anche se rigurgiti di inciviltà covano sotto la cenere e non perdono occasione per riemergere; occorre superare elegantemente ed equilibratamente lo scontro, altrimenti la questione diventa infinita e crea ulteriore sofferenza seppure camuffata da inutile aggressività. Non è facile, lo capisco benissimo e alle persone toccate nel vivo da certe provocazioni reazionarie, perbeniste o pseudo-culturali va tutta la mia solidarietà. Mi permetto però di consigliare un rientro a trecentosessanta gradi nella quotidianità, senza indietreggiare di un millimetro, ma senza pretendere, come diceva Luca Goldoni, di imporre la diversità a coloro che vivono la sessualità secondo tradizione (si badi bene non ho detto secondo natura e secondo normalità).

 

 

 

 

Quando si allunga il brodo femminile

Un tempo si sosteneva che, se non si vuol risolvere un problema, si fa una commissione: oggi si direbbe “aprire un tavolo”. Quando il problema diventa enorme e generale allora si promuove una giornata mondiale. Ce ne sono in quantità maggiore dei giorni stessi, al punto che bisognerà fare come con i santi, vale a dire definire più temi al giorno, altrimenti non c’è capienza.

Al di là della mia punta di scetticismo, mi sembra tuttavia doveroso risalire alle origini della celebrazione in data 25 novembre della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ricorrenza istituita il 17 dicembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La data è stata scelta come giorno in cui celebrare attività a sostegno delle donne, sempre più vittime di violenze, molestie, fenomeni di stalking e aggressioni tra le mura domestiche. Il 25 novembre non è una data casuale: quel giorno infatti, correva l’anno 1960, furono uccise le sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana. Il brutale assassinio delle tre sorelle Mirabal fu fortemente sentito dall’opinione pubblica. Le tre donne sono considerate ancora oggi delle rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell’arretratezza e nel caos. Il 25 novembre del 1960 le tre donne si recarono a far visita ai loro mariti in carcere quando furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare che le portarono in un luogo nascosto. Qui furono torturate, stuprate, massacrate a colpi di bastone e strangolate a bordo della loro auto. L’unica sopravvissuta fu la quarta delle sorelle Mirabal, Belgica Adele, che dedicò la sua vita a onorare il ricordo delle tre donne. Pubblicò successivamente un libro di memorie: Vivas in su jardin. Le sorelle Mirabal sono conosciute anche con il nome “Mariposas”, poiché simili a delle farfalle in cerca di libertà.

Vengo alla pregnante attualità del tema, per dire come non mi sia mai capitato di trovare una persona che giustifichi in qualche modo la violenza sulle donne. Evidentemente molti mentono spudoratamente e non hanno il coraggio di venire allo scoperto. Probabilmente sono contro la violenza riguardante le donne, solo quelle maltrattate dagli altri (magari gli stranieri). Forse dipenderà dal fatto che non pratico i social media: lì si annidano e vengono a galla le opinioni più assurde e si creano i presupposti per alimentare la violenza a trecentosessanta gradi. Le cifre incredibili del fenomeno sono difficilmente spiegabili. Esistono ragioni molto più diffuse e profonde, che affondano nella cultura, nella storia, nella psicologia, nella politica. Il dato più impressionante riguarda la violenza contro le donne fra le mura domestiche, nell’apparente normalità della vita, nei rapporti con il partner e con i maschi a portata di mano.

Un tempo il fenomeno esisteva, ma rimaneva piuttosto nascosto, ora emerge, non ancora fino in fondo, ma comunque in tutta la sua brutalità e mette in discussione il nostro vivere civile. Sono piuttosto contrario alla celebrazione tematica delle giornate, perché mi sembra un modo per creare un alibi sociale e mettere a tacere le coscienze a livello personale. Nella nostra società si tende ad affrontare i problemi a livello di drammatizzazione mediatica, che non ha nulla da spartire con la presa di coscienza individuale e collettiva.  Così facendo si sposta il problema dalla vita quotidiana a quella virtuale e tutti pensiamo che, quindi, non ci riguardi da vicino e ci limitiamo a protestare senza capire che ne siamo tutti coinvolti e, per certi versi, responsabili.

Sarebbe importante che ognuno facesse un attento esame di coscienza per individuare idee e comportamenti direttamente o indirettamente collegabili alla violenza sulle donne. Certa facile ironia non è forse l’anticamera del disprezzo e della discriminazione? Certa supponenza maschilista non è forse il modo subdolo per considerare la donna un essere inferiore? L’adesione a certi modelli culturali non finisce per legittimare una società consumisticamente orientata alla parità di difetti ben lontana dalla parità dei diritti? Il cammino dell’emancipazione femminile non è forse costellato di trappole che relegano la donna in un pornografico e degradante paradiso o in una sorta di apprendistato pseudo-maschilista? Il modo superficiale e sbrigativo con cui si accostano al sesso le nuove generazioni non finisce col banalizzare i rapporti e assoggettarli al rischio della prevaricazione da parte del soggetto più forte e più irresponsabile? Le religioni, più o meno, non sono forse attestate sulla difesa di schemi tradizionalmente e culturalmente chiusi e discriminatori nei confronti della donna? La politica non si limita forse a pontificare imponendo per legge l’assurdità delle quote rosa, come se bastasse pareggiare artificiosamente i conti per farli sostanzialmente tornare? Nei rapporti internazionali chi si preoccupa di scovare i comportamenti aberranti verso le donne, caratteristici di certe società e di certi regimi?

Ben vengano le giornate, i simboli, le iniziative, le denunce, le mobilitazioni. Se però non sono accompagnate dallo scandaglio individuale e sociale, finiscono alla stregua dei minuti di raccoglimento per le vittime di tanti fenomeni. Mio padre, quando allo stadio si ricordava qualche personaggio col minuto di silenzio, al termine del breve black out, in concomitanza con la ripresa sistematica delle urla dei tifosi, diceva sottovoce: «Zá scordè al mòrt…». Adesso non si fa più nemmeno un po’ di silenzio, perché si applaude: a cosa non ho mai ben capito… A proposito di calcio, sono sinceramente felice che il football femminile si stia ponendo all’attenzione del mondo calcistico. Se però le calciatrici scimmiottano i loro colleghi maschi, se puntano dritto agli ingaggi facili, se entrano sic et simpliciter nel circo mediatico, diventeranno gli specchietti per le allodole di chi pensa che le donne si emancipino in questo modo, proponendo schemi fuorvianti di alienante successo. La solita parità di difetti. Sì, tutto fa brodo, ma dipende qual è il brodo…

I nuovi tabù della nuova (non) sinistra

Ho avuto l’occasione di seguire su TV 2000, l’emittente edita dalla Conferenza episcopale italiana, una breve intervista a Fausto Bertinotti puntata su un giudizio politico dell’attuale sinistra. Ne ho seguito solo uno spezzone, in cui il sindacalista e politico Bertinotti si trasforma in intellettuale e critica pesantemente la politica di sinistra usando tre parametri, tre argomenti ormai desueti nel linguaggio e nell’azione della sinistra.

Chi se la sente di parlare di imposta patrimoniale come strumento di una politica fiscale finalizzata alla ricerca dell’eguaglianza? Chi si permette di mettere in discussione la diminuzione o comunque la revisione dell’orario di lavoro a fronte dei problemi occupazionali conseguenti alla crisi economica e dello sviluppo tecnologico che comprime il fattore lavoro? Chi davanti a pesantissime crisi aziendali e settoriali pensa a ritornare in qualche modo ad ipotizzare il ricorso alla programmazione economica?

Sono indubbiamente delle pertinenti provocazioni, che, se devo dire la verità, mi sono rimaste impresse e mi hanno costretto a riflettere. Credo che il discorso di fondo sia quello dell’accettazione del sistema economico tout court, con la conseguente forte limitazione dell’intervento pubblico diretto o indiretto nell’economia. La sinistra sta accettando supinamente, come variabile indipendente, gli andamenti economici di stampo squisitamente liberista? C’è uno spazio di manovra all’interno di questi meccanismi per una politica di sinistra volta all’equità e all’uguaglianza?

Per un laureato in economia, con tanto di tesi sul “ruolo della grande impresa nell’ambito della programmazione economica”, dovrebbe essere un invito a nozze. Invece mi è andato via l’appetito e la voglia di festeggiare: sono andato un po’ in crisi, lo ammetto. I problemi peraltro tornano sul tavolo dei governi alla faccia del liberismo: pensiamo al salvataggio dell’Ilva che richiede comunque un qualche intervento dello Stato. Pensiamo ai tavoli di crisi aperti a livello ministeriale per verificare come lo Stato possa aiutare le aziende ad uscire dal tunnel per salvaguardare l’occupazione e il patrimonio economico accumulato. Pensiamo alla disoccupazione giovanile per la quale non si può invertire significativamente la tendenza se non con forti investimenti pubblici in certi settori quali la cultura, la difesa ambientale, la valorizzazione artistica, etc. Pensiamo alla lotta all’evasione impossibile se non si adotta una legislazione che riequilibri in qualche modo le ricchezze, che diventano sempre più proprietà di pochissimi contro il progressivo depauperamento di moltissimi.

E allora? Fausto Bertinotti non ha tutti i torti! La sinistra si è rifugiata sul sacrosanto discorso dei diritti civili: in questi giorni il partito democratico ha ripreso il tema dello jus soli per gli immigrati. Mi sta benissimo, ma non basta e non si può partire dal fondo. Occorre il coraggio di ripensare una strategia progressista, senza demagogia, ma anche senza rinunciare a cambiare i meccanismi socio-economici di una società sempre più chiusa, povera e disperata.

Nel lontano 1972 a livello di tesi di laurea scrivevo: “Non è facile riconoscere finalità sociali all’incremento dell’offerta di numerosi beni. Più sigarette favoriscono il cancro. Più alcolici favoriscono la cirrosi. Più automobili provocano più incidenti, più invalidi e più morti; richiedono l’utilizzazione di maggior spazio per autostrade e parcheggi; aggravano l’inquinamento dell’aria e della campagna. Il cosiddetto alto livello di vita consiste, in gran parte, in misure dirette a risparmiare energia muscolare, ad accrescere il piacere dei sensi e a far assimilare calorie oltre ogni necessità di nutrimento. Ciononostante la convinzione che l’incremento della produzione sia un utile fine sociale è pressoché unanime”.

Mi fermo perché è chiarissimo dove voglio arrivare: la comunità deve essere in grado di respingere la pretesa dell’economia di monopolizzare i fini sociali. La politica deve garantire ciò e la sinistra se non ha questo scopo non è più tale. Si sono capovolti i tabù della sinistra: un tempo consistevano nella tentazione di esorcizzare l’economia e l’impresa, oggi consistono nell’esorcizzare la funzione della mano pubblica appiattendola sulla mera presa d’atto dei meccanismi della produzione e del mercato.

Al secónd cavagn al vól bón

Domanda curiosa, oserei dire retorica, quella posta dal M5S ai suoi aderenti: dobbiamo presentarci alle prossime elezioni regionali? La risposta è talmente scontata che, probabilmente, chi l’ha posta aveva la malcelata intenzione di farsi dire di no per guadagnare tempo, scommettendo sull’umore da bastian contrario dei pentastellati. Invece gli iscritti hanno risposto di preferire la partecipazione alla contesa elettorale: un partito, o movimento che sia, impegnato, da ormai diverso tempo, nelle istituzioni del Paese, ha l’obbligo di fare proposte per il governo e di rimettersi al giudizio degli elettori a qualsiasi livello e non può fuggire dalle proprie responsabilità.

La situazione sembra essere la seguente: un capo (?) politico che dimostra un imbarazzo crescente nel guidare il proprio movimento, un capo carismatico che evidenzia una certa (in)spiegabile latitanza di fronte alla confusione regnante nelle fila dei suoi seguaci (se intervenisse non potrebbe fare altro che mandarli tutti a … , come da spunto iniziale movimentista), una flotta di parlamentari che parlano lingue diverse (meglio sarebbe dire che non conoscono la politica e quindi non la sanno fare pur avendone l’obbligo), che brancolano nel buio, che oscillano paurosamente fra il richiamo della foresta dei vaffa e l’imperativo istituzionale di operare scelte di campo e di governo, un elettorato presumibilmente sempre più stordito, deluso e smagrito.

Non si tratta di un piccolo e marginale partitino, siamo di fronte alla formazione politica di maggioranza relativa a livello parlamentare, investita di importanti responsabilità a livello governativo, presente a livello periferico con significativi ed emblematici incarichi amministrativi. Stanno imparando a (non) fare politica in una sorta di perpetuo stage sulla pelle degli italiani, che li hanno o non hanno votati.

La caricatura di democrazia diretta che inscenano nei momenti topici serve solo a enfatizzare le loro lacune: gli iscritti si sono espressi per la partecipazione alle elezioni, ma rimane il problema se presentarsi in solitudine, se allearsi con altre formazioni ed eventualmente con quale di esse. Altri referendum sulla piattaforma Rousseau? Ma fatemi il piacere… Questi inqualificabili signori sono passati nel giro di pochi giorni dall’alleanza contrattuale con l’estrema destra a quella più politica con la sinistra, nascondendosi dietro il dito del non considerarsi né di destra né di sinistra (una menata che va di moda, ma che non significa un bel niente); hanno provato a stringere un rapporto preferenziale a livello regionale (vedi le recenti elezioni in Umbria) per poi ripiegare  su una pausa di riflessione laddove il gioco si fa pesante (leggi le prossime elezioni in Emilia-Romagna); esprimono il presidente del Consiglio (Giuseppe Conte nelle due versioni), salvo metterlo continuamente in difficoltà e prenderne le distanze; sui temi e problemi non riescono ad avere uno straccio di linea e creano una confusione pazzesca nella quale chi ci capisce qualcosa è molto bravo.

Se la politica è in gravi difficoltà, l’antipolitica, così come incarnata dai pentastellati, sta facendo un fallimento spaventoso e deleterio. “Al primm cavagn al vól bruzè”, si dice con una saggia espressione dialettale. Avanti il prossimo. Si profila all’orizzonte un tentativo interessante, ricco di elementi nuovi e diversi rispetto al vaffa grillino. Innanzitutto una precisa scelta di campo culturale e storica contro il salvinismo e quanto rappresenta. Poi il richiamo a certi fondamentali valori umani. Poi la politica intesa come alto servizio ai cittadini e non come protesta verso tutto e tutti. Poi la proposta positiva che viene prima della protesta distruttiva. Poi, staremo a vedere. Mi riferisco al movimento spontaneo delle sardine. Mi auguro non sia l’edizione riveduta e corretta del M5S: un tentativo al buio andato male si può anche sopportare (errare humanum est), un secondo tentativo sprecato sarebbe un vero disastro, perché chiuderebbe ogni e qualsiasi rapporto innovativo fra la politica ingessata e la società in movimento (perseverare autem diabolicum).

 

 

Allerta rossa a Hong Kong

Ammetto di avere glissato sulle proteste di Hong Kong e sulle realtà che esse denunciano: sono stato fuorviato dai fatti di casa nostra e ho ripiegato sulle polemiche di basso profilo, dimenticando che alla base della convivenza ci sta il rispetto dei diritti umani in qualsiasi parte della terra.

Da alcuni mesi Hong Kong è al centro di forti tensioni a causa di proteste di massa e manifestazioni contro il governo. Tutto è cominciato dall’opposizione a una legge controversa sulle estradizioni in Cina, che con il passare delle settimane si è trasformata in qualcosa di molto più grande. I milioni di cittadini che marciano puntualmente nell’ex colonia britannica chiedono fondamentalmente più democrazia. La maggior parte dei manifestanti sono pacifici, ma non mancano episodi di violenza. Il quartier generale del governo è stato preso d’assalto e l’aeroporto internazionale della città è stato bloccato varie volte. Intanto i disordini sono cresciuti nel corso delle settimane e a Pechino la temperatura si alza, facendo temere per un intervento militare della Cina.

Hong Kong appartiene alla Cina, ma di fatto è una regione amministrativa speciale. Ha una sua moneta, un sistema politico e una sua identità culturale. Questo rapporto che mette insieme appartenenza e indipendenza è previsto dalla formula “Una Cina, due sistemi”, espressione con cui si indica la soluzione negoziata per il ritorno nel 1997 di Hong Kong sotto la giurisdizione cinese, dopo che per 150 anni dalla fine della Guerra dell’Oppio era stata una colonia britannica. Oggi il sistema giuridico di Hong Kong rispecchia ancora il modello britannico e i principi sono garantiti dalla costituzione, la Basic Law, che si basa sulla Common Law e che tutela diritti diversi da quelli dei cinesi continentali. Tra questi ci sono il diritto di protestare, stampa libera e libertà di parola. In generale la legge stabilisce anche che la città abbia “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto la politica estera e la difesa. La Basic Law assicura “la salvaguardia dei diritti e le libertà dei cittadini” per 50 anni dopo la riconsegna alla Cina (fino al 2047).

Molti residenti sostengono che Pechino stia già iniziando a violare questi diritti. Già nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste durate quasi tre mesi, note come la “rivolta degli ombrelli”. Le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong. La proposta, poi non adottata, è stata percepita come una misura estremamente restrittiva dell’autonomia della regione, perché comportava l’equivalente di una “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese (Pcc). L’attrito tra gli abitanti di Hong Kong e la Cina continentale non è dunque una novità degli ultimi mesi. Questa percepita minaccia allo stato di diritto di Hong Kong ha fatto riaccendere il timore nell’ex colonia britannica innescando le proteste che finora, hanno visto centinaia di manifestanti finire in manette.

I manifestanti hanno avanzato richieste sostanzialmente riconducibili all’ottenimento di maggiori libertà democratiche. Con il passare delle settimane i funzionari di Hong Kong e di Pechino sono diventati sempre più duri nei confronti delle proteste. Su Hong Kong grava l’ombra dell’intervento militare di Pechino. Da metà agosto Pechino ha schierato contingenti di truppe armate a Shenzhen, sul confine continentale di Hong Kong. Si sta lentamente avvicinando il momento per l’ex colonia britannica di cominciare a negoziare con Pechino per mantenere anche solo una minima parte del grado di autonomia di cui ora gode. Per la Cina, stabilità e sicurezza sono legate a doppio filo con i propri obiettivi di sviluppo economico, e proprio per questo Pechino le ritiene fondamentali: alla luce delle proteste di questi giorni, c’è il rischio concreto che in nome della stabilità la leadership comunista cinese accentui il livello di risolutezza nei confronti della società civile di Hong Kong, incrementando nel corso dei prossimi anni le ingerenze in un territorio considerato come “instabile”. Il timore è quindi che la Cina possa ordinare un intervento di forza.

Le note di cui sopra le ho tratte da un articolo pubblicato su Sky Tg24. Ho anche visto qualche servizio televisivo, che mi ha scosso e interrogato. “Le immagini che arrivano da Hong Kong sono tremende, così forti e drammatiche da sembrare scene di un film d’azione esagerato. Invece è la drammatica realtà, di fronte a cui restiamo inerti spettatori. Il silenzio dell’Italia e dell’Europa è vergognoso “. Lo dichiara la segretaria di Possibile (partito politico italiano, fondato a Roma nel 2015 da Giuseppe Civati, uscito dal partito democratico), Beatrice Brignone, sulla repressione delle proteste a Hong Kong. “I manifestanti – aggiunge Brignone – chiedono solo più democrazia e diritti, ricevendo in cambio la violenza delle forze dell’ordine. Il governo italiano deve denunciare con forza questi fatti gravissimi, portando la questione all’ordine del giorno nell’Unione europea e chiedendo un confronto civile. Bisogna farlo subito, anche perché la situazione sta precipitando”.Un bel tacer non fu mai scritto” (più raramente, il bel tacer non fu mai scritto oppure un buon tacer non fu mai scritto) è un noto proverbio italiano il cui significato è: “la bellezza del saper tacere al momento opportuno non è mai stata lodata a sufficienza”. Lo stanno (lo stiamo) applicando alla lettera confondendo però il saper tacere con la paura di parlare.

In effetti tutti tacciono e nessuno ha il coraggio di inimicarsi la Cina, che sta spadroneggiando in tutto il mondo, comprandosi aziende, terre, strutture di vario tipo. Ogni Stato ha “buoni” motivi per tenere rapporti decenti con la Cina, ci sono in ballo interessi economici enormi e nessuno vuole rischiare di aprire spiacevoli contenziosi. Gli Usa di Trump fanno finta di litigare con la Cina inscenando la pantomima della guerra dei dazi. Il colosso cinese è riuscito nel processo inverso a quello innescato da Michail Gorbaciov in Unione Sovietica: Gorbaciov è partito dalle riforme in senso liberale delle istituzioni politiche, fallendo purtroppo nel suo intento e consegnando l’economia nelle mani del peggior capitalismo, quello di stampo squisitamente mafioso; i cinesi sono partiti dalle riforme economiche omologando il loro sistema al più sfrenato dei capitalismi, salvando la brutta faccia del loro sistema politico comunista.

Il mondo occidentale deve fare i conti con lo strapotere economico cinese e non può permettersi “il lusso” di contestarne il regime comunista, che mantiene intatte le smanie dirigiste ed espansioniste. Come leggo sul Corriere della Sera, in Vaticano stanno analizzando da mesi la causa e le implicazioni delle proteste a Hong Kong, ma non hanno ancora assunto una posizione ufficiale. Sanno che si tratta di un tema al quale la Cina è ipersensibile: ancora di più dopo gli ultimi scontri sanguinosi. Qualunque presa di posizione può incrinare l’accordo temporaneo e segreto di due anni con il regime di Pechino sulla nomina dei vescovi: un’intesa da confermare e rinnovare nel settembre del 2020, e tuttora circondata da un alone di mistero e diffidenze. Si tratta di un attendismo che rischia di apparire, oltre che frutto di realpolitik, di subalternità a Pechino. «Forse», è la novità delle ultime ore, «il Papa parlerà delle proteste a Hong Kong sul volo per il Giappone. Ma solo se sarà sollecitato da una domanda», spiegano gli uomini di Francesco. Si tratterebbe dunque di un commento sollecitato, non di una dichiarazione ufficiale e scritta: a conferma della delicatezza del tema.

Ancora una volta la ragion di Stato prevale, come diceva Marco Pannella, sullo stato di diritto. Nell’indifferenza generale: spero che mentre gli Stati fanno i pesci in barile, almeno il nascente e interessante movimento delle “sardine” abbia la sensibilità di alzare lo sguardo verso i luoghi dove si calpestano i diritti dell’uomo e si incarcera o ammazza chi osa protestare.

 

 

 

Il mes…tiere di guastagoverno

Il governo Conte II era partito col piede giusto nei rapporti con l’Unione Europea, lasciando intravedere una nuova linea di apertura e collaborazione, ma anche su questo fronte emergono incertezze e polemiche: non basta l’autorevolezza di cui gode a Bruxelles il ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri, non è sufficiente l’equilibrio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non aiuta più di tanto al momento il benvisto commissario in pectore agli affari economici, Paolo Gentiloni. Anche a livello europeo è emersa una delicata questione, che rischia di diventare una grana esplosiva per la maggioranza di governo, la quale non perde occasione per evidenziare notevoli divergenze al proprio interno. Si tratta della riforma del Fondo Salva-Stati (Mes).

L’Esm, l’European stability mechanism, ribattezzato in italiano Mes, è il meccanismo permanente di stabilizzazione finanziaria d’Europa creato nel 2011 per far fronte agli choc innescati dalla crisi del debito sovrano nell’Eurozona ed è stato utilizzato nel salvataggio della Grecia. Sottoscritto dai Paesi Ue l’11 luglio 2011, ha sostituito il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf). Il Mes per ‘stabilizzare’ la zona euro mette a disposizione risorse finanziarie ai Paesi in difficoltà, ma solo a condizione che sia rispettato un piano di risanamento economico elaborato sulla base di un’analisi di sostenibilità del debito pubblico compiuta, nella versione attuale, dalla Commissione europea insieme al Fondo monetario internazionale e alla Bce.

Secondo quotidiano.net, a cui ho attinto a livello informativo, la polemica nasce dal fatto che la Ue sta pensando di riformare il Mes e questo potrebbe essere un rischio per i Paesi con un debito pubblico alto come l’Italia. Ma è giallo su uno dei nodi della riforma, il punto focale su cui si insiste da giorni: ovvero l’intervento del fondo solo se vincolato a una ristrutturazione ex-ante del debito. Sia il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sia Bankitalia, precisano che la riforma del meccanismo non prevede uno ‘scambio’ tra assistenza finanziaria e ristrutturazione del debito. Via Nazionale spiega che la verifica della sostenibilità del debito prima della concessione degli aiuti è già prevista dal Trattato vigente. Tanto che il governatore Visco non avrebbe espresso nessun giudizio sfavorevole sulla riforma, al contrario di quanto trapelato ieri. E Gualtieri rincara: “Le condizioni per l’accesso di un paese ai prestiti del MES non sono cambiate, anzi, per una fattispecie specifica, sono state sia pur solo parzialmente alleggerite”. Per il ministro dell’Economia sulla vicenda c’è “molta confusione”.  Ammette Gualtieri: “Effettivamente, all’inizio del negoziato alcuni Paesi avevano chiesto che la ristrutturazione del debito divenisse una condizione per l’accesso all’assistenza finanziaria”. Però, rivela, “anche grazie alla ferma posizione assunta dall’Italia, queste posizioni sono state respinte e le regole sono rimaste identiche a quelle già in vigore”.

Come ormai succede ad ogni piè sospinto il leader leghista Salvini sparge veleni e soffia sui fuochi, non ha importanza se tali questioni fossero già ben presenti e siano state affrontate nel precedente governo, l’importante è creare zizzania populista: trappola in cui cade quasi sistematicamente il M5S col suo sempre più incerto e indisponente capetto. Su ogni torta problematica i grillini (forse sarebbe il caso di non chiamarli più così, vista la latitanza di Grillo) mettono la ciliegina, tanto per complicare le cose, avendo la preoccupazione più di distinguersi che di contribuire a risolvere i problemi sul tappeto.

Per il salvataggio dell’ex Ilva si è trattato di togliere velleitariamente lo scudo legale, facendo credere che sia una sorta di impunità per gli acquirenti dell’azienda, mentre, da quanto ho capito, si tratterebbe solo di garantire ai nuovi gestori di non dover rispondere di eventuali reati riconducibili alle situazioni irregolari precedenti, che dovrebbero comunque col tempo essere sanate. Per il fondo Salva-Stati si starebbe imponendo un alt su una riforma europea che non creerebbe ulteriori problemi all’Italia, mentre si vuol far credere che per attingere a tale fondo in futuro occorrerà la ristrutturazione preventiva del debito pubblico. Il premier Conte non ha un feeling particolare col M5S e ne soffre l’influenza, trovandosi a fare i conti un giorno sì e l’altro pure con le sfuriate pentastellate, che servono solo a sollevare polveroni elettoralistici e a nascondere i contrasti interni sempre più clamorosamente evidenti e paralizzanti.

Non so come finirà la trattativa con la Ue sul Mes e come riuscirà a destreggiarsi Conte tra le pesanti ipoteche del suo primo governo e le vaghe prospettive del secondo. Ogni giorno che passa rivaluto le perplessità che nutrivo alla nascita del governo giallo-rosso; mi ero illuso che alcuni punti forti, seppure tattici, dell’alleanza potessero avviare un periodo di “sollievo” (per dirla con Beppe Severgnini), invece sta sopraggiungendo il panico. Non penso si possa andare avanti così. Qualcuno lascia intendere che su molte questioni abbia decisiva e salvifica importanza la generosa e sapiente azione sotto traccia di Sergio Mattarella. Ho notato come, ogni volta che scoppia una grana, Giuseppe Conte si precipiti dal presidente della Repubblica: probabilmente e giustamente il capo dello Stato vorrà essere informato sullo stato dell’arte e non mancherà di fornire i migliori consigli, anche perché a lui guardano parecchi soggetti, dai lavoratori dell’Ilva ai sindacati che li rappresentano (?), dalla gente che mantiene una certa fiducia nelle Istituzioni ai rappresentanti europei. Confesso di nutrire immensa stima verso Sergio Mattarella e lo considero “l’ultimo dei giusti”. Per favore non trascinatelo nella bagarre, perché l’Italia ha molto bisogno di lui.

 

 

Sul filo del rasoio elettorale

Cifre da capogiro: al Senato sono stati presentati 4.550 emendamenti alla manovra economica varata dal governo Conte II e di questi ben 1.700 sono proposti dai parlamentari della maggioranza. L’approvazione della legge di bilancio, con tutti gli annessi e connessi, è sempre stata un tormentone politico-parlamentare, ricettacolo di tutte le questioni, di tutte le rivendicazioni, di tutte le marchette possibili e immaginabili. In un certo senso, niente di nuovo sotto il sole.

La questione assume però i contorni di una beffa se si pensa a come è nato e sta vivendo il governo Conte II: la compagine ministeriale avrebbe bisogno di cercare e trovare una sostanziale legittimazione con un minimo di compattezza a livello parlamentare fra le diverse forze della maggioranza e invece su ogni problema si scatena una litigiosità, che costringe il governo a stare in bilico come fa un equilibrista sul filo.

È vero che il Parlamento non è un organismo di mera ratifica dell’operato governativo, ha una sua funzione specifica a livello istituzionale, è titolare del potere legislativo, ma deve pur sempre esprimere una maggioranza altrimenti diventa un “pirlamento” qualsiasi, degno soltanto di essere sciolto e mandato a casa.

È inutile nasconderlo: prevalgono clamorosamente gli interessi di partito, tutti stanno a calcolare le convenienze in tal senso e l’unico collante rischia effettivamente di essere quello di evitare le elezioni anticipate, guadagnare tempo in vista della scadenza elettorale per la presidenza della Repubblica, rinviare a tempi migliori il redde rationem con il centrodestra a guida leghista. Non mi scandalizzo affatto: la politica è fatta anche di scelte contingenti riguardo al male minore. Se è così, bisogna però avere la freddezza ed il buon senso di condizionare la propria specificità politica all’obiettivo. Se non ci si può dividere per precisi calcoli di convenienza politica, ci si deve rassegnare a vivere in casa, seppure da separati, ed è perfettamente inutile continuare velleitariamente a rivendicare la propria libertà di manovra.

I cinquestelle sanno perfettamente che buttare all’aria il governo e andare alle elezioni sarebbe per loro un suicidio assistito; gli italiani vivi (amici di Renzi) si rendono conto di non essere assolutamente pronti a sostenere una prova elettorale che li  ridurrebbe ai minimi termini; i piddini sono consapevoli di vivere un momento di grande incertezza strategica e di notevole impaccio tattico e otterrebbero con ogni probabilità la vittoria di Pirro di monopolizzare per lungo tempo l’opposizione alla destra governante.

E allora si litiga nel poco per andare d’accordo nel molto, ma il poco è molto e può saltare il banco da un momento all’altro. Non c’è questione su cui la maggioranza di governo dimostri uno straccio di compattezza. Figuriamoci sulla madre di tutte le questioni, la manovra economica. Tirare la corda è lo sport preferito all’interno della maggioranza giallo-rossa nella convinzione che la fune non si spezzerà, perché irrobustita dalle convenienze di cui sopra.

Anche il precedente governo, fondato sulla coesistenza rissosa tra pentastellati e leghisti, giocava a litigare, ma c’era uno dei litiganti che era sicuro di poterselo permettere, la lega di Salvini, fino al punto da buttare tutto all’aria per andare alla conta elettorale. Volevano le elezioni e non le hanno ottenute. Paradossalmente il governo giallo-rosso non può permettersi di litigare più di tanto perché non vuole le elezioni e…rischia di averle. Credo che la causa fondamentale di eventuali prossime elezioni politiche anticipate non sarà tanto il risultato elettorale emiliano-romagnolo del prossimo gennaio, ma la insulsa e inconcludente litigiosità della maggioranza di governo.

I partner sono sostanzialmente quattro: il movimento cinque stelle con una leadership apparente in stato confusionale, una leadership occulta volutamente e cinicamente nascosta, una strategia completamente assente e camuffata dietro le solite e banali sparate populiste da quattro soldi; il partito renziano o Italia viva come dir si voglia, a cui non manca la leadership, ma con una strategia a misura strettamente ed asfitticamente renziana; Leu (Liberi e uguali, ex Pd) alla disperata ricerca dell’asettico purismo di sinistra, vedovi della lotta e delle masse, con molte chiacchiere e pochi fatti; il Partito democratico, l’unico vero partito superstite del nostro sistema democratico, dotato di una classe politica presentabile, sempre in mezzo al guado fin dai tempi del PCI, diviso al proprio interno e amleticamente incerto fra una scelta progressista moderata e una opzione ideologicamente radicale.  Quattro giocatori intorno al tavolo: dovrebbero essere costretti ad andare d’accordo per i motivi suddetti, ma la tentazione di rompere infantilmente il giocattolo è molto forte. E si vede.

Sardine, omega 3 contro l’alta pressione leghista

“L’Emilia-Romagna non abbocca”, “Bologna non si lega”: questi gli slogan che hanno portato ad adottare “le sardine” come simbolo della protesta anti-Salvini e della mobilitazione spontanea partita da Bologna, ma già arrivata a Modena e Torino. Le sardine sono infatti piccoli e indifesi pesci, che, di fronte allo squalo dell’ex ministro dell’Interno, si muovono compatti, si stringono e si spostano in gruppo e fanno massa. La mobilitazione, lanciata via Facebook, rilanciata con volantinaggi e campagne social, sta promuovendo vere e proprie masse di protesta: nessun legame di partito, niente bandiere, niente insulti. Si tratta di una sollevazione popolare spontanea contro l’onda salviniana che avanza, contro le idee divulgate dalla Lega, contro le derive populiste e sovraniste avviate dalla destra.

Ho già scritto, e ripeto con piacere, che sto respirando finalmente una boccata d’ossigeno, sto scoprendo una reattività impensata da parte soprattutto dei giovani, sto registrando una inaspettata voglia di ragionare con la propria testa.  A casa mia si chiama democrazia! Quindi non è vero che i ragazzi delle sardine con la politica non c’entrano e non vogliono c’entrare nulla: si tratta di iniziative squisitamente politiche anche se al di fuori dei partiti. Al momento non ho la più pallida idea di dove si vada a parare; non lo sanno nemmeno i promotori e ancor meno le migliaia di partecipanti a queste manifestazioni spontanee. L’avvio è promettente nella misura in cui testimonia un rigurgito di vitalità democratica in una società ripiegata su se stessa.

Mi sono posto diverse domande. La prima riguarda il timore che possa trattarsi di un vaffa-day riveduto è corretto, di una minestra pseudo-grillina scaldata, della solita sparata dell’antipolitica, della protesta contro tutto e tutti. Questi rischi esistono, ma forse il gioco vale la candela: meglio rischiare di sbagliare che stare fermi ad aspettare gli errori altrui. Lasciamo tempo al tempo, anche se di tempo sembra essercene pochino, se si vuole fermare l’ondata di piena salviniana, prevista per le prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna.

Palmiro Togliatti, se non erro, sosteneva che i partiti dovrebbero rappresentare la democrazia che si organizza e si struttura. D’altra parte la stessa Carta Costituzionale all’articolo 49 recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale “. Fino ad ora, volenti o nolenti, i partiti, pur con tutti i limiti e i difetti, hanno costituito l’ossatura della vita democratica italiana e non solo italiana. Sinceramente non credo che possano essere sostituiti da una sorta di assemblearismo piazzaiolo: quindi le sardine possono costituire solo una massa critica del sistema partitico, in particolare dei partiti di sinistra, dando voce positiva alla sfiducia distruttiva e trasformandola in sfiducia costruttiva. Il partito democratico, principale e potenziale interlocutore di questo movimentismo volutamente senza capo né coda, deve evitare la tentazione di strumentalizzarlo e/o di sottovalutarlo.

Sarebbe un gravissimo errore farsi prendere dalla smania di incassarne il consenso: ognuno faccia il suo mestiere, chi all’interno degli schemi istituzionali e partitici, chi al di fuori di tali schemi, vale a dire nelle piazze, sui social e in tutte le mobilitazioni spontanee. Il tutto in un benefico interscambio di influenze: il Pd scosso da questa ventata di aria fresca, il movimento delle sardine incalzato dalle esigenze politiche prospettate dal Pd. L’importante era che si muovessero le acque: qualche sasso nello stagno lo stanno buttando.

Qualcuno sta ironizzando: se la sinistra ha bisogno delle sardine vuol proprio dire che è a dieta. Rispondo con lo stesso tono ironico: il pesce fa bene, si digerisce bene, è nutriente e ricco di sostanze capaci di intervenire positivamente sui trigliceridi e sulla pressione sanguigna, preziose alleate del sistema cardiovascolare. Si tratta degli Omega 3, acidi grassi essenziali in grado di avere un effetto positivo anche sul sistema nervoso, il sistema immunitario, l’attività cerebrale, l’umore, le articolazioni. Contrastano poi le infiammazioni e l’invecchiamento cellulare, rallentando l’azione dei radicali liberi. Viste queste proprietà davvero straordinarie e dal momento che le sardine ne sono portatrici non dovremmo mai farle mancare alla tavola politica.

La politica tra botteghe e salotti

Durante le animate ed approfondite discussioni con alcuni carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta, in clima di pieno crollo delle ideologie, si constatava come alla politica rischiasse di sfuggire l’anima buttando via il bambino delle idee e dei principi assieme all’acqua sporca delle incrostazioni ideologiche , come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo, in un certo senso, facili profeti.  È giusto infatti che la politica parta dai problemi e non dalla teorizzazione astratta delle soluzioni sistemiche, ma l’approccio ai problemi può essere di vario tipo.

Si può addirittura far finta che non esistano e che tutto vada bene: in questo è stato maestro Silvio Berlusconi con l’evidenziazione dei ristoranti affollati, delle spiagge stracolme, dei week end praticati da milioni di persone che intasano le autostrade. Da un certo punto di vista non aveva tutti i torti, a volte cado anch’io in questa semplicistica e fuorviante analisi, ma la realtà è molto più complessa e diversificata. Si tratta della politica del facciamo finta che le cose vadano bene, che la disoccupazione sia un problema per i fannulloni, la difesa ambientale sia una mania salottiera dei cretini ecologici, la povertà esista solo nelle encicliche papali e nelle smanie filantropiche delle anime belle, l’immigrazione sia una preoccupazione eccessiva e un fenomeno facilmente arginabile.

All’estremità opposta vi è l’atteggiamento di chi prende atto in modo enfatico, spaventoso e strumentale della realtà problematica, gonfiandone i contorni, alimentando le ansie e le paure, drammatizzando le situazioni, per poi cavalcare il tutto con soluzioni illusorie e populistiche. Si tratta della politica mordi e fuggi, della soluzione consistente nel gettare la palla in tribuna, dei programmi sparati alla viva il parroco, della ormai scientifica e organica raccolta del consenso in base alle balle confezionate dai social. L’attuale destra, italiana e non solo italiana, adotta questi schemi ottenendo, almeno nel breve periodo, un certo successo. Non si tratta più di esorcizzare il comunismo mangia-bambini, di difendere la libertà dall’invadenza della sinistra pigliatutto, si tratta invece di cavalcare l’insicurezza pompata ad arte, la paura dell’immigrato discriminato e criminalizzato, l’angoscia dell’impoverimento fatto risalire all’invadenza fiscale e burocratica dei pubblici poteri. Alla drammatizzazione delle situazioni fa riscontro normalmente la proposta di soluzioni facilone e sbrigative quanto inutili se non dannose, ma prima che la gente se ne accorga passa del tempo e la fola può anche essere riciclata vergognosamente.

Esiste però anche la politica perbenista della ritrosia fatta stile: i problemi vengono schematicamente sottovalutati, il popolo viene lasciato ai populisti, l’immigrazione viene trattata coi guanti bianchi della solidarietà di prima accoglienza e lasciata vivacchiare ai margini della società senza impegno di integrazione, la disoccupazione viene combattuta con i pannicelli caldi senza il coraggio di trovare le risorse (con tagli drastici agli sprechi e con una effettiva lotta all’evasione e con tassazioni di scopo) per effettuare investimenti pubblici (soprattutto nella difesa del territorio, nella salvaguardia ambientale, nella valorizzazione della cultura e del turismo), che invertano la tendenza recessiva dell’economia. È la politica del balbettamento di sinistra, del tira e molla dei progressisti, del parolaio approccio degli sviluppisti.

In mezzo a queste (non) proposte è fatale che possa prendere piede la protesta, la sfiducia, il ripiegamento su chi più grida e si agita, la tentazione al disimpegno, la voglia di mandare tutti al diavolo. Purtroppo anche questo senso di smarrimento viene accolto dalla destra leghista, quella più estrema, che ne riesce a fare tesoro, mentre la protesta sbracata stenta a ritrovare la sponda grillina, che si sta sgretolando a vista d’occhio.

La sinistra fa molta fatica a riappropriarsi delle giuste battaglie ed a coniugarle con la modernità. Da lei il popolo si attende questo, perché in demagogia c’è chi è maestro e quindi ha ben più appeal con i suoi arruffapopolo patentati e imbellettati. Non è mai esistito il destino cinico e baro di saragattiana memoria e quindi bisogna elaborare idee e proposte e raccogliere il consenso con la pazienza dovuta e i tempi necessari: le scorciatoie non servono a niente. Partire dai valori per non fermarsi lì.

 

Se protesta fa rima con destra…

Siamo un po’ tutti affezionati, si fa per dire, allo schema politico che vede la destra al potere e la sinistra all’opposizione in Parlamento e a condurre la protesta nelle piazze, a volte anche durissima, ai limiti della violenza. Un altro conseguente e semplicistico schema prevede la destra al governo nei periodi di vacche grasse, quando ce n’è un po’ per tutti, e la sinistra al governo nei momenti difficili, quando cioè occorrono sacrifici per il bene comune.

Se mai questi schemi avevano una loro ragion d’essere dettata dal solo buon senso, oggi sono saltati, se non sono stati addirittura ribaltati. Forse è anche per questo che mi trovo sistematicamente spiazzato nelle mie analisi. L’ho presa su larga per trovare una spiegazione plausibile al fatto che in Italia, ma un po’ in tutto il mondo, la protesta viene catturata, interpretata e cavalcata populisticamente dalla destra politica più estrema, talora caratterizzata da venature nazionaliste e razziste.

Non è una novità storica in assoluto: i precedenti sono tragicamente preoccupanti, perché simili fenomeni hanno trovato la loro soluzione in regimi autoritari o dittatoriali conditi in salsa populistica. Inutile fare degli esempi. Per arginare queste derive occorre però non partire dall’esorcizzare le estreme conseguenze, ma, se possibile, affrontarne le cause.

Questa volta faccio un esempio. La manifestazione piuttosto spontanea, svoltasi a Bologna in concomitanza e in contrasto con la tournée salviniana volta a raccattare consensi in Emilia-Romagna in vista delle prossime elezioni regionali, ha visto una notevole partecipazione di popolo ed una sorta di scatto d’orgoglio della gente stanca di subire l’aggressione di una destra meramente distruttiva. Ho preso una boccata d’ossigeno e mi sono detto: finalmente il popolo di sinistra batte un colpo, si riappropria delle sue piazze, rispolvera la sua storia, rivendica la sua tradizione, richiama i suoi valori, riprende il filo della matassa nella regione emblematica ed esemplare. Il messaggio era molto chiaro: ci siamo e nessuno si illuda di farci fuori.

Poi, a parte il famoso discorso delle piazze piene e urne vuote che sembra aver funzionato sempre e solo a sinistra, mi sono chiesto: basterà il sacrosanto agitarsi contro Salvini, basterà togliere dall’armadio le bandiere, basterà gridare al lupo contro chi vuole buttare all’aria la democrazia, basterà fare appello alla mente dei cittadini per toglierli dalla pancia di cui si stanno accontentando? Non credo, a volte purtroppo si ottiene il contrario e quindi è meglio non farsi trascinare in una rissa pseudo-ideologica. Mi si risponderà: bisognerà pure farsi sentire e per farsi sentire serve anche scendere in piazza! Sono d’accordo e infatti sento tanta nostalgia dei tempi in cui, di fronte ad eventi interni ed internazionali, si trovava la voglia e il coraggio di mobilitarsi anche al di là degli stretti schieramenti partitici. Come era bello trovarsi in piazza a gridare il proprio dissenso!

La sinistra non deve però illudersi di riconquistare così, o solo così, il consenso della gente. Deve avere il coraggio di cogliere le cause del malcontento e di elaborare risposte credibili e concrete ai problemi, senza negarne l’esistenza o la portata, si chiamino sicurezza, immigrazione, delinquenza, etc. Finora i cittadini hanno la sensazione che le uniche ricette per certe malattie sociali le abbia miracolisticamente in mano la destra, che, prima enfatizza e drammatizza le situazioni di disagio e difficoltà, per poi proporre soluzioni sbrigative ed egoistiche, che tanto simpatia incontrano nell’ingenuità della gente.

Non è vero che il partito democratico non abbia identità, ce l’ha eccome, è l’unico partito che possa vantare una storia, una tradizione, una cultura. Il problema è che tutto questo patrimonio genetico è stato relegato in soffitta, perché serviva a fare opposizione e quindi… Sbagliatissimo! Sarebbe come se una persona mettesse in soffitta i testi su cui ha studiato, illudendosi che non servano più. Quante volte mi è capitato di andarli a riaprire e rileggere durante la mia vita professionale, trovando in essi risposte sempre attuali e adeguate.

Si provi ad individuare i valori fondamentali della sinistra e si cerchi di incarnarli spietatamente nella situazione attuale. Se si vuole fare in fretta, senza paura di sbagliare, si prenda la Costituzione e, a fianco di ogni articolo, si prevedano i contorni della sua attuale e pratica applicazione. L’identità è quella, ma la carta d’identità ogni tanto va rinnovata anche se si rimane la stessa persona. Non è facile, mi rendo perfettamente conto, ma bisogna assolutamente provarci. Buon lavoro!