Lo star trek vaticano

Dai giochi a quiz televisivi, per quel poco che (s)fortunatamente di essi seguo, emerge clamorosamente l’ignoranza dei concorrenti in materia religiosa: sanno tutto sui divi del cinema e non sanno un bel niente di bibbia e vangelo. Sintomo di una disaffezione, culturale prima che esistenziale, verso i temi religiosi, di una incolta laicità che prelude alla mancanza di valori e ad uno stile di vita gretto e superficiale. Non preoccupa tanto la calante partecipazione alle pratiche religiose, ma la scarsa attenzione ai massimi sistemi della vita.

Come mai allora hanno tanto successo e fanno tanta audience e cassetta i documentari (?), le fiction, i film, le serie cinematografiche e televisive sulla figura e la vita del papa e/o dei papi? All’interno della Chiesa col papato di Wojtyla si è aperta una fase storica di forte personalizzazione accentratrice: parlare di religione cattolica vuol dire parlare del papa. Tendenza sbagliatissima e pericolosa. Sbagliatissima perché il papa non è la Chiesa e la Chiesa non è il papa: il discorso è molto più comunitariamente articolato e religiosamente complesso. Pericolosa perché si mette la fede in Dio alla mercé del carismatico fascino papale e della sua capacità di bucare il video e di trascinare i cuori e le masse.

Quando Gesù si accorgeva di essere in odore di successo popolare, si ritirava in preghiera e si sottraeva al facile consenso della folla che lo stringeva da tutte le parti. I papi sembrano invece cercare il contatto, peraltro mediatico, con le masse, sono portati alle radunate oceaniche delle quali è difficile capire cosa rimanga nell’animo dei singoli al di là dell’entusiasmo del momento. Sono passati dalla prigionia alla smania di visitare il mondo intero: la tela della realpolitik vaticana non è più tessuta solo nelle stanze della curia, ma a margine e dei viaggi papali.

Ricordo con tanta nostalgia il primo breve e semplice viaggio in treno di papa Giovanni XXIII da Roma a Loreto e sembrava già un fatto rivoluzionario e forse lo era assai più delle odierne papali circumnavigazioni del globo. Strada facendo infatti i pellegrinaggi  sono diventati viaggi intorno al mondo, acquisendo indubbia influenza etico-politica, ma perdendo progressivamente carica kerigmatica e testimonianza dirompente.

Di fronte a questa insistente ostentazione di protagonismo la cultura ufficiale non può che sbizzarrirsi a trattare il papa come un divo costantemente sfilante sul red carpet globale. Generalmente non ne esce un’immagine edificante del papato e della curia romana: prevalgono le trame, gli intrighi, le manovre, le macchinazioni, i complotti, le congiure. Ma non è questo il dato mediatico preoccupante. Ben venga infatti un bagno di realistica, implacabile e dissacrante trasparenza, ma stanca e disturba l’ormai stucchevole e fantasioso retroscenismo.  Molto negativa è la pretesa di analizzare e ridurre la presenza e la vita della Chiesa guardando dal buco della serratura del Vaticano o costruendo surreali, e talora macchiettistiche, rappresentazioni delle vicende ecclesiali.

Papa Francesco è riuscito a volgere in chiave rinnovatrice la sovraesposizione mediatica papale: coniuga la superficiale attenzione verso la sua persona con il richiamo alle scelte evangeliche più genuine e profonde. Non basta: corre comunque il rischio di meteorizzare la sua ventata di novità senza istituzionalizzare le riforme e lisciando comunitariamente solo il pelo ai cattolici catturati dal suo indubbio appeal. Egli gode di grande popolarità, di enorme attenzione a tutti i livelli: se le è conquistate con una genuina e coraggiosa scelta, anche se talora contraddittoria (urlante ad extra e balbettante ad intra), a favore dei poveri e degli oppressi. Lo stanno (lo stiamo), suo malgrado, banalizzando e trasformando in una star. È pur vero che il mondo gira in un certo modo, ma vale anche per il papa l’invito evangelico ad essere nel mondo ma non del mondo.

 

Il lettone proporzionale

Quando i maschi discutono in modo animato e divisivo, se intendono trovare un massimo comune divisore che li unisca nei limiti del possibile, si mettono a parlare di donne per raggiungere, in un contesto squallidamente machista, un punto in comune. I partiti ed i loro esponenti, quando litigano un po’ su tutto, ripiegano sull’argomento del sistema elettorale, convinti di trovare più facilmente la quadra tramite una pesatura inattaccabile e liberatoria dei loro consensi.

Non ho mai capito e condiviso l’uso del sistema elettorale come grimaldello per condizionare o rivoluzionare la politica: a nessun meccanismo di voto assegno la forza di indirizzare la politica in un senso o nell’altro. Mi fanno sorridere quanti desiderano e puntano ad un sistema che la sera delle elezioni consacri il vincitore indiscusso e consenta di avere una governabilità garantita. Non si tratta di una partita di calcio ad eliminazione diretta, dove per forza di cose uno deve vincere e l’altro deve perdere, la politica è una faccenda molto più complessa, che non finisce con i dati elettorali, ma semmai comincia proprio da quelli per innescare la ricerca di equilibri, accordi e compromessi.

Ragion per cui leggo con scetticismo dell’accordo che si starebbe profilando per il ritorno ad un sistema elettorale proporzionale, abbandonando l’attuale sistema misto, che, per la verità, in un miscuglio assurdo e concepito appositamente per creare zizzania, mette insieme tutti i difetti del maggioritario e del proporzionale. Si tratterebbe di un accordo che finirebbe con l’accontentare tutti e toglierebbe la politica dall’asfittico clima di scontro a tutti i costi, che la sta paralizzando. Mi permetto di nutrire seri dubbi.

La scelta proporzionalista metterebbe d’accordo un po’ tutti: la Lega con il suo 35% (tutto da dimostrare) sarebbe una forza politica imprescindibile senza necessità di preventive donazioni di sangue agli ipotetici alleati. Rimanendo sul fronte del centro-destra, Forza Italia non sarebbe più costretta a fornicare con la Lega, Fratelli d’Italia consacrerebbe la sua autonoma spinta nazionalista in linea con un passato che sta tornando di moda. Il Partito Democratico potrebbe andare alla ricerca del suo spazio senza stipulare matrimoni d’interesse con Renzi, Calenda e Bersani. Gli uni potrebbero illudersi di raccattare voti nel cosiddetto centro moderato (Cacciari sostiene che non esiste più e, secondo me, non ha tutti i torti), mentre Leu raschierebbe il barile di quanto rimane della sinistra identitaria e ideologica. Il M5S potrebbe riproporre i suoi vaffa senza paura di disturbare alcuno a destra e a sinistra: poi si vedrà. I piccoli partiti, bloccati da eventuali e obbligate soglie di sbarramento, chineranno il capo e dovranno confluire in qualche lista di peso a loro più o meno vicina (cosa diversa dallo sfruttare l’utilità marginale per la vittoria di uno schieramento sull’altro). I partiti maggiori non dovranno più donare il sangue e saranno in grado di fare il pieno della spettante rappresentanza parlamentare.

C’è sicuramente il rischio di una frammentazione del quadro politico, che comunque esiste già, ma almeno tutti passerebbero al setaccio delle urne. Le maggioranze si farebbero in Parlamento. Per dirla con Renzi, il proporzionale rimetterebbe in moto i processi politici, costringerebbe tutti a far funzionare il cervello, tutti dovrebbero dotarsi di nuove strategie. Dario Franceschini dice: «La cosa importante è la legge elettorale. Ormai siamo avanti, la scelta proporzionale è fatta, incardineremo il provvedimento in Parlamento entro questo mese e tutti i partiti e i protagonisti della politica dovranno immaginare nuove strategie. Con una legge elettorale di questo tipo si liberano tutti. Tana libera tutti e torniamo giovani».

A me piacciono le bionde. Io preferisco le brune. Io stravedo per la coscia lunga. Io impazzisco per i seni grandi. Io cerco la bellezza. Io mi accontento della sensualità. E va bene, ognuno si tiene i suoi gusti. Tanto sappiamo tutti dove vogliamo parare…La politica omologata al machismo. Tutti contenti in teoria, in pratica sarà ben altra cosa. Il letto-parlamento chiarirà i ruoli e i rapporti.

 

I sassi nella piccionaia dell’indifferenza

Il grande Mario Tommasini, amico carissimo ed indimenticabile, protagonista ed alfiere della vicenda solidale parmense, rappresentante laico del nostro sentimento altruistico, così si esprimeva con la spinta e la forza che lo caratterizzavano (non so sinceramente se il discorso che segue fosse letteralmente farina del suo sacco, lo era certamente il senso): «C’è un male che affligge il mondo. Un male che se ti prende ti fa morire dentro. E che se lo subisci ti fa soffrire il dolore più inaccettabile, più insopportabile. Questo male è l’indifferenza, che è sinonimo di freddezza, di disinteresse. L’insensibilità è figlia della rassegnazione, non del disamore. Non è odio, non è volere il male, è però accettare che il male ci sia. Che ci sia il dolore. Casa, lavoro, affetti, salute: questo è l’essere umano. Ogni essere umano. Se di questi elementi ne manca anche uno solo, la persona vive il disagio. L’equilibrio si fa precario. Inevitabile? No».

Ebbene, in questo periodo l’apatia e l’indifferenza la stavano facendo da padrone: niente sembrava più smuovere le coscienze appiattite sui luoghi comuni di una destra capace solo di seminare paura e odio. Anche i giovani sembravano distrattamente coinvolti in questa deriva qualunquista. Finalmente si sono accese due lampadine nel buio conformistico: a livello mondiale il rigurgito di vitalità indotto dalla protesta di Greta contro la disperata, progressiva e masochistica corsa verso la distruzione dell’ambiente; a livello italiano la mobilitazione promossa dal movimento delle sardine, vale a dire la riscossa costituzionale contro l’assuefazione ad una politica senza memoria, senza valori, senza prospettiva e senza speranza.

I giovani, pur con tutti i loro limiti esperienziali, ci stanno suonando la sveglia. Ci sarà certamente chi scuoterà il capo, alzerà le spalle o si volterà dall’altra parte. Tuttavia è in atto una bella provocazione, che riporta la politica con la “p” maiuscola al centro dell’attenzione. Era ora! La mobilitazione è spontanea e convinta, scendere in piazza riprende ad essere il metodo per mobilitarsi e combattere pacificamente a servizio dei valori più alti del vivere civile. Sto respirando una boccata di aria giovanile, ne avevo bisogno, non solo anagraficamente parlando.

La società soffre la mancanza di rappresentanza che le offrivano le cosiddette forze intermedie, i partiti, i sindacati, le organizzazioni professionali. In questa situazione di crisi di rappresentatività e partecipazione è alto il pericolo di frustrazione e di avvitamento sulla sfiducia e la storia insegna che c’è sempre chi è pronto a colmare il vuoto valoriale con proposte capziose e pericolose. Ben vengano quindi i movimenti che rompono questo nebbioso conformismo. Non so dove potranno sfociare, se rimarranno a livello di denuncia e proposta o se potranno addirittura configurare una nuova strutturazione socio-politica.

Il sasso in piccionaia è stato gettato, i piccioni hanno preso il volo, non so dove andranno, ma certo il loro comodo e statico nido è messo in seria discussione. Per ora mi basta. Mi sembrano prematuri altri discorsi, così come rifiuto lo scetticismo dei soliti gufi e la sbrigativa definizione di minestra scaldata rispetto ai fuochi fatui del M5S. Qualcosa di diverso si è mosso ed era ora. Guardavo ai personaggi della politica, del mondo sindacale, della Chiesa e invece è saltata fuori una ragazzina qualsiasi, si è mosso un gruppo di ragazzi qualsiasi: spero che serva a mobilitare e coinvolgere direttamente o indirettamente tanta gente qualsiasi. Sia ben chiaro che qualsiasi non vuol dire qualunque.

 

Lo zar Boris di Gran Bretagna

Da europeista convinto avevo sperato che il Regno Unito si ravvedesse, tornasse sui suoi passi e desse una dura lezione ai conservatori, rappresentati e guidati da quel Boris Johnson a cui non affiderei nemmeno il governo di una bocciofila, men che meno l’amministrazione del mio condominio. Invece, come scrive Alberto Simoni su “La stampa”, il Regno Unito ha votato per la Brexit e per il cavaliere più spregiudicato e geniale, rigettando il manifesto e i timori laburisti. E lo ha fatto in maniera netta e travolgente.

Se errare è umano e perseverare è diabolico, i britannici hanno scelto convintamente il diavolo e rifiutato drasticamente l’acqua santa. Ce ne dobbiamo fare una ragione. Sono crollati i muri rossi e i bastioni laburisti, i ravvedimenti operosi e ragionevoli che sembravano profilarsi sono spariti come d’incanto, il Regno Unito si è confermato il Paese che tre anni e mezzo fa votò Leave. In effetti la proposta di Johnson metteva la Brexit davanti a tutto, come se il resto dipendesse esclusivamente da questa folle scelta isolazionista e anacronistica. Gli elettori gli hanno dato ragione.

In Italia molti alzeranno le spalle e se ne fregheranno altamente, pensando che si tratti di questioni altrui. Altri saluteranno con malcelato interesse e godimento questo voto a supporto delle loro miserevoli aspirazioni nazionaliste e sovraniste. Sbagliano e se ne accorgeranno forse più presto di quanto si possa prevedere. Prima dell’Europa, piange la storia privata di un contributo democratico, piange il mondo occidentale dilaniato dagli egoismi, piange la politica ridotta a scelte radicalmente pressapochiste, piangono i parlamenti relegati nelle cantine della democrazia rappresentativa.

Speravo che avesse ragione Indro Montanelli quando introduceva nel giudizio politico il criterio del “guardatelo in faccia!”: non ha funzionato con Boris Johnson. Forse ormai la gente non è alla ricerca di qualcuno che sappia incarnare o tenti almeno di incarnare le virtù, ma di qualcuno che sappia coltivare i vizi privati, illudendosi che possano diventare pubbliche virtù. Nel triste attuale pantheon di questi paradossali personaggi della storia dei nostri giorni entra prepotentemente anche Boris Johnson, che si colloca vicino ai Trump, ai Putin, agli Erdogan, ai Bolsonaro, ai Duterte e compagnia brutta.

Saprà l’Europa darsi una scossa, reagire, rinserrare le fila, proseguire il cammino di integrazione, ergersi come oasi democratica nel deserto mondiale? La speranza è obbligatoria, anche se i segnali piuttosto equivoci e preoccupanti sono tanti. Manco a farlo apposta all’indegna gazzarra antieuropea, scatenata nel parlamento italiano con la pretestuosa battaglia contro il “fondo salvastati”, ha fatto riscontro la pazza performance antieuropea dell’elettorato britannico.

Le reazioni sono ben sintetizzate dal giornalista citato all’inizio: Trump ha twittato congratulandosi per la vittoria dell’amico Boris (come volevasi dimostrare); la sterlina già ai primi exit poll è schizzata rispetto al dollaro a livelli che non si vedevano da tempo (la finanza se ne frega della politica); a Bruxelles, ormai rassegnati all’addio britannico, tirano un sospiro di sollievo per la ritrovata chiarezza politica a Londra (la realpolitik vince sempre). La politica italiana al momento tace e forse una sua consistente parte, sotto sotto, è soddisfatta. Chi si contenta gode. Tutti cercano di vedere il bicchiere mezzo pieno delle loro convenienze particolari. Io vedo il bicchiere vuoto degli interessi generali.

 

Il vuoto delle coscienze

L’anarchico Pinelli precipita da una finestra della questura di Milano: un fatto che continua ad essere inquietante e che simboleggia il mistero che tuttora avvolge la strage di piazza Fontana, avvenuta cinquant’anni fa. Innanzitutto smettiamola una buona volta di chiamare Pinelli come anarchico tout court. Se il sottoscritto fosse chiamato il democristiano di sinistra Mora, pur senza rinnegare niente del mio passato politico, risponderei di considerarmi innanzitutto, laicamente parlando, un cittadino democratico. Pinelli era un cittadino, un lavoratore, impegnato politicamente, un contestatore, una persona che testimoniava la sua contrarietà verso i meccanismi ingiusti e oppressivi del sistema.

Criminalizzare gli anarchici in quanto tali è un crimine perpetrato dagli investigatori nei giorni successivi alla tragica esplosione della bomba alla sede della Banca dell’Agricoltura: si cercò sbrigativamente un colpevole a tutti i costi. Considerando la totale estraneità al fatto di Giuseppe Pinelli, appurata senza alcuna ombra di dubbio, i casi sono due: o Pinelli si buttò dalla finestra vistosi disperatamente vittima innocente e irreversibile di un complotto e fatto oggetto in tal senso di pressioni psicologiche inumane oppure lo buttarono volendo far credere ad un suicidio con tanto di ammissione di colpa. Una ipotesi è zuppa, l’altra è pan bagnato. Alla fatalità non credo: nessuno cade dalle finestre; o si butta giù o glielo buttano.

Qualcuno alla questura di Milano si è reso responsabile di qualcosa che nessuno mai è riuscito a provare, ma che lascia intravedere un omicidio o un’induzione al suicidio per motivi politici. La pista anarchica, che proseguì con l’incarcerazione e l’incriminazione di Pietro Valpreda, pure lui risultato estraneo ai fatti, venne testardamente battuta per gettare la colpa dell’attentato addosso a un non meglio precisato mondo dell’antagonismo di sinistra. Quel mondo che purtroppo, per lo meno in parte, raccolse ideologicamente la provocazione, criminalizzando la polizia e i suoi superiori ed arrivando, forse involontariamente, a creare un clima di odio e di violenza, che ha magari spinto indirettamente i soggetti più fanaticamente labili alla spietata e generica vendetta.

La verità storica, che va oltre quella giudiziaria, è ormai abbastanza chiara: l’attentato fu pensato ed eseguito da uomini della destra eversiva, fu coperto da uomini appartenenti a pezzi deviati delle pubbliche istituzioni, fu ideato allo scopo di creare un clima di confusione e di sbandamento generale, dandone la colpa alla sinistra, su cui basare le premesse per una svolta autoritaria nel Paese. È un rischio che le democrazie corrono soprattutto se non hanno gli anticorpi necessari alla difesa.

Ma voglio tornare per un attimo sulla morte di Giuseppe Pinelli. Chi ha sulla coscienza questo fatto? Se l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, divenuto il capro espiatorio della faziosa, rissosa e pazzesca purga pseudo-rivoluzionaria, ha trovato i colpevoli, a livello di esecuzione, per loro spontanea confessione, la morte di Pinelli resta avvolta nel mistero (?). Sicuramente qualche esecutore avrà vissuto e sarà morto con la coscienza sporca, divorato dai rimorsi, mentre i mandanti della strage e della morte di Pinelli sono, restano e resteranno senza coscienza, senza coscienza democratica, laddove la democrazia è da considerare il contenitore ideale dei migliori valori dell’uomo e del cittadino. Nel vuoto delle coscienze non si riesce ad entrare, non si può nemmeno fare pulizia dove non c’è nulla. La democrazia se si vuole difendere e crescere deve riempire questi vuoti.

Il moralistico duello delle ville

C’è indubbiamente nei fatti un accanimento giudiziario e giornalistico nei confronti di Matteo Renzi. Non si è certamente comportato in questi anni da angioletto della politica (e chi è un angioletto?), ma gli strali contro di lui mi paiono eccessivi e spesso ai limiti della correttezza a livello mediatico.

Prescindo da ogni giudizio politico anche perché sono rimasto piuttosto deluso dalla sua parabola: il suo apprezzabile attivismo governativo purtroppo copriva una carenza politica di fondo, che si è poi evidenziata e si sta tuttora evidenziando in modo clamoroso. Ho guardato con un certo interesse al suo governo, non ho capito perché gli italiani lo abbiano così sbrigativamente bocciato al referendum costituzionale, non ho compreso le sue scomposte mosse successive e soprattutto non ho affatto condiviso la scissione procurata nel PD con la costituzione del suo nuovo partito (Italia Viva) e prima ancora non ho intuito dove voglia andare a parare al di là del ritornello sul recupero del voto moderato in cerca d’autore.

Di qui a farlo oggetto di continui attacchi la distanza è piuttosto lunga. Mi sembra forzata e maliziosa la ricostruzione sulla vicenda finanziaria della sua villa: vedere un collegamento fra la nomina a consigliere della Cassa depositi e prestiti di un suo adepto e il successivo ottenimento di un parziale prestito ponte da questo amico di famiglia per l’acquisto di una villa mi sembra il voler vedere conflitti di interesse dappertutto. Non è solo questione di privacy, è moralismo bello e buono.

Si dice che i giornali devono fare il loro mestiere: non si facciano però prendere dall’ansia del “retroscenismo” a tutti i costi ed ancor meno dal puntiglio di vedere sempre, comunque e dovunque il lato sporco della situazione. Di cose scorrette ce ne sono già tante, è perfettamente inutile inventarne.

Oltre tutto si finisce con l’innescare un’assurda catena di moralistici duelli da cui si rischia di uscire tutti sporchi e malconci. Non è infatti condivisibile la stizzita reazione all’interessamento alla villa di Renzi con il tirare in ballo la villa del giornalista colpevole di lesa maestà. Della serie “chi di villa ferisce, di villa perisce”. Se andiamo su questa strada, non ne usciamo più.

Certamente chi è rivestito di incarichi pubblici, come recita la Costituzione, deve adempiere alle sue funzioni con disciplina ed onore e preoccuparsi di evitare alla radice ogni e qualsiasi dubbio nel suo comportamento. Nessuno è obbligato ad assumere cariche pubbliche e chi lo fa deve sapere di avere giustamente addosso gli occhi della pubblica opinione e di chi la alimenta.

Però anche chi fa opinione deve rispondere a una deontologia professionale e alla sua coscienza: i bavagli non devono esistere, ma occorre maggiora cautela e prudenza nel tranciare giudizi di carattere etico e nello squalificare con leggerezza chi è impegnato a vario titolo nelle istituzioni.

Discorso ancor più delicato e difficile è quello riguardante l’azione della magistratura: lasciamola lavorare in santa pace, anche se a volte può venire il dubbio di qualche sbavatura e di qualche esagerazione. Il corso della giustizia non dovrebbe comunque funzionare da detonatore per le bombe scandalistiche. Tutti sappiano che si fa presto a rovinare la reputazione di un individuo: è molto più difficile rimetterla a posto.

 

La (s)quadratura della prescrizione

Tutto è politica, ma non tutto può rientrare nella bagarre partitica. Uno dei motivi su cui le forze, che sostengono o dovrebbero sostenere l’attuale governo, per la verità succedeva anche per quello precedente, stanno litigando è la riforma legislativa dell’istituto della prescrizione. La cosiddetta prescrizione della pena si basa sull’idea che sia incongruo far eseguire una pena nel caso in cui dalla pronuncia del provvedimento di condanna (o dalla sottrazione volontaria del reo all’esecuzione della pena) sia decorso un dato periodo di tempo. Questo periodo di tempo lo si vorrebbe allungare per evitare di premiare, con i tempi biblici della giustizia, i furbi che tergiversando finiscono col farla franca.

Non entro nei meccanismi giuridici e nemmeno nel merito dei principi: troppo difficile per me. Lo stanno già facendo, con poca o tanta cognizione di causa fior di esperti e di commentatori. Voglio solo soffermarmi su una questione pregiudiziale. Non credo che un simile argomento possa formare oggetto di un programma di governo e di una trattativa a tale livello. Sono in gioco questioni troppo elevate e troppo delicate per farne oggetto di diatriba partitica. Occorrerebbe l’umiltà di discutere, prescindendo dalle scelte di schieramento, uscendo dalla fasulla contrapposizione fra garantismo e giustizialismo che da tempo imprigiona la legislazione, la giurisprudenza e la dottrina.

L’esigenza di salvaguardare il diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo deve essere coniugata con la necessità di assicurare alla giustizia chi si rende responsabile di reati penali: il compromesso deve essere trovato mediando fra questi sacrosanti principi, non con patti partitici del do ut des, non cercando medaglie elettorali nella lotta alla corruzione e alla delinquenza.

Esistono questioni che vanno stralciate dalla lotta politica ed affrontate con una visuale di livello superiore. Credo che le regole sulla prescrizione rientrino appunto in questa categoria. Il governo dovrebbe rimettere il problema al Parlamento e il Parlamento dovrebbe affrontarlo al di fuori degli schemi di partito, non abdicando al proprio ruolo, ma ascoltando il parere di esperti per poi decidere a ragion veduta e non sulla spinta contingente e faziosa. Ci si provi almeno, abbassando i toni della discussione ed approfondendo cause ed effetti della materia.

Invece purtroppo stiamo assistendo ad una battaglia squisitamente politica fra i partiti e squisitamente ideologica fra le diverse correnti di pensiero. Forse chiedo troppo alla bassa politica, vale a dire di fare un passo indietro e all’alta politica, vale a dire di usare il fioretto di tipo costituzionale e non la clava di carattere polemico. C’è un clima tale per cui alle argomentazioni prospettate da una parte si collega immediatamente un interesse di partito, se non addirittura personale. Alla fine in qualche modo troveranno la quadra. In qualche modo!

La cagata pazzesca degli italiani

Mia sorella non era una sociologa e tanto meno presidente o segretaria generale del Censis, il prestigioso ed autorevole istituto italiano di ricerca socio-economica, ma ha sempre sostenuto quanto emerge dal recente rapporto del suddetto istituto, vale a dire che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo un po’ meno aulico ed elegante: «Gli italiani sono rimasti fascisti».

Se posso fare una premessa, aggiungendo la mia brutale opinione, devo ammettere che nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti e studiosi: psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Chiudo questa breve e provocatoria parentesi per tornare al rapporto sulla situazione sociale del Paese. Il Censis, come sintetizza “La stampa”, racconta chi siamo diventati, fa la radiografia assai amara di un’Italia che soffre di «sindrome da stress postraumatico», quasi stesse emergendo da una guerra, piena di sospetti (il 75% non si fida degli altri) e che, crollata definitivamente la fiducia nei partiti (76%), guarda con speranza messianica all’avvento dell’uomo forte al potere che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni. Ad attenderne l’arrivo è il 48% degli italiani, percentuale che sale al 56% tra chi ha un reddito basso, al 62% tra i meno istruiti e al 67% tra gli operai. In uno scenario «affollato da non decisioni», con «troppe riforme strutturali annunciate ma mai avviate», la politica «ha fallito», lasciando così spazio a pulsioni antidemocratiche. Abbandonati a se stessi, i cittadini guardano con incertezza al futuro: sono convinti che l’«ascensore sociale» che un tempo permetteva di migliorare la propria condizione sia definitivamente rotto (69%), e hanno paura, al punto che anche il 64% degli imprenditori e dei liberi professionisti teme di scivolare verso il basso. Il futuro è un rebus: il 38,2% è convinto che figli e nipoti staranno peggio di loro.

Non è una situazione edificante, ma ci voleva poco a capirla. Tutti si preoccupano o fanno finta di preoccuparsi dell’inquietante discorso consistente nel diffuso desiderio dell’uomo forte e vanno alla ricerca dei motivi che spingerebbero gli italiani su questa assurda strada. Certo, esistono difficoltà, ansie, incertezze, disillusioni, drammi umani, sfiducia, paure: non mi sembrano tuttavia ragioni plausibili per rifugiarsi in una deriva anti-democratica.

Mi piace molto di più la spietata e recente analisi di Gino Strada, che prendeva spunto dalla paradossale vicenda dei respingimenti degli immigrati: “Quando si è governati da una banda dove la metà sono fascisti e l’altra metà sono coglioni non c’è una grande prospettiva per il Paese”.

Il problema quindi sta nel capire se sono gli italiani a desiderare l’uomo forte al potere senza parlamento ed elezioni o se siano gli eletti in parlamento a dare così brutta prova di sé da spingere gli italiani a prescindere dalla politica ed inseguire il miraggio di una scorciatoia populista ed autoritaria. Sono i cittadini ad avere il governo che meritano o sono i governanti a portare i cittadini su strade sbagliate?

«Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!», così diceva don Andrea Gallo. Aveva mille ragioni! Infatti la scelta democratica è pregiudiziale, è una questione di “fede”, un ideale imprescindibile, per il quale tanta gente in tutto il mondo si è fatta e si fa ammazzare. Non v’è Censis che tenga: l’uomo forte al comando è una cagata pazzesca!

Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy in un suo storico discorso consigliò: “Non chiederti che cosa può fare il tuo paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese”. L’attuale presidente Trump in un suo celebre aforisma confessa. “L’esperienza mi ha insegnato alcune cose. Una è quella di ascoltare la propria pancia, non importa come suoni bene sulla carta. La seconda è che si sta generalmente meglio attaccati a ciò che si conosce. E la terza è che a volte i migliori investimenti sono quelli che non si fanno”. L’aria è cambiata, mi fa piacere che se ne sia accorto anche il Censis.

 

Disperati alla follia

Dal quotidiano “La stampa” riporto di seguito e integralmente l’asciutta, ma efficace, cronaca di un orrendo fatto di sangue, avvenuto a Orbassano, alle porte di Torino.

“Sul tavolo – come sempre – c’era la colazione del matti­no, già pronta dalla sera prima. Nella camera da letto, inve­ce, si era appena consumata una tragedia della disperazione. Una ma­dre, Maria Capello di 85 anni, aveva da poco ucciso a martell­ate la figlia disabi­le dalla nascita, Si­lvia Ronco, di 45 anni. La vittima era ri­entrata nella casa di via Gramsci 36/3 ad Orbassano per il fine settimana, da pochi mesi era segu­ita da una comunità di Collegno. A scopr­ire tutto è stato il padre Clemente, di 87 anni. Un urlo tre­mendo, alla vista di quello che era succ­esso, ha attirato an­che i vicini di casa. La moglie aveva pr­eso un martello e av­eva colpito alla tes­ta più volte la figl­ia, che come al solito dormiva acca­nto a lei. Forse non ce la faceva più a vedere la sua Silvia in quello stato. La madre omicida ora è ricoverata in prognosi riservata all’ospedale San Luigi: un attimo prima del suo folle gesto aveva ingurgitato una massiccia dose di tranquillanti. La pre­occupazione di quello che poteva capi­tare alla figlia una volta che non ci sarebbero più st­ati né lei, né il ma­rito, ha avuto il sop­ravvento. I carabini­eri stanno accertando gli ultimi dettagli di una tragedia famigliare, che tutti i vici­ni commentano in maniera univoca: «N­on doveva finire cos­ì»”.

Pongo a me stesso e a quanti avranno la bontà e la pazienza di leggere alcune domande, senza azzardare le risposte che sarebbero comunque inadeguate. Può questo fatto essere catalogato come conseguenza della follia che si scatena nella complicatissima mente umana? Si può considerare inevitabile che certi drammi anche a livello famigliare possano avvenire? La nostra società fa il possibile per aiutare ed assistere le famiglie che hanno al loro interno soggetti disabili? Ognuno di noi, indipendentemente o in collaborazione con le istituzioni, può fare qualcosa per alleviare le sofferenze di persone a noi vicine, che spesso vivono magari nel nostro stesso quartiere o addirittura nel nostro stesso condominio? Non rischiamo di delegare alle strutture pubbliche ed al mondo del volontariato un carico di responsabilità, che dovrebbe, in certa misura, riguardare tutti? Hanno perfettamente ragione i vicini a commentare in maniera univoca “che non doveva finire così”, ma perché è finita così? Perché lasciamo che si sovrappongano e si accumulino situazione di disagio così gravi e drammatiche (genitori molto anziani con figli disabili adulti)? Pensiamo al dramma dei genitori che considerano il futuro incerto dei loro figli handicappati una volta che rimarranno soli? La tanto sbandierata politica di sostegno alle famiglie riesce a prendere in considerazione e a provvedere qualcosa di consistente per affrontare situazioni come quella di Orbassano? Che ne sarà in futuro di questa madre disperata e di questo padre testimone di una vicenda così tragica?

Grazie di avere letto questi miei provocatori quesiti e soprattutto auguri per trovare il coraggio di dare qualche fattiva, solidale e concreta, magari anche piccolissima, risposta.  Lo dico innanzitutto per me, che di fronte a simili eventi vado in profonda crisi, ma fatico molto a passare dal turbamento all’impegno.

 

Le pierinate governative

Gli scontri all’interno del governo sono costantemente all’ordine del giorno. In un certo senso nella storia passata e recente è sempre stato così, forse i litigi però rimanevano opportunamente nella sala riunioni di palazzo Chigi, mentre oggi tutto viene spifferato e pubblicato, magari in modo enfatico e fuorviante.

L’ultimo per chi non se ne sbatte (come il sottoscritto) è su come impiegare i circa 400 milioni di euro finiti in extremis sul piatto. Un po’ di trippa per i gatti dovrebbe renderli meno aggressivi, nossignori. Stando alle indiscrezioni giornalistiche, le risorse sarebbero state trovate, ma c’è un braccio di ferro tra le forze politiche su come impiegarle. Italia Viva continua a chiedere la soppressione di plastic tax e sugar tax mentre dal Pd cresce la pressione per destinare le risorse al taglio delle tasse per i lavoratori. Un compromesso sembra che l’abbiamo trovato a forza di rinvii: mediazioni al livello più basso.

Il problema è quindi che le diverse anime del governo – da M5S a Pd, passando da Iv e Leu – vogliono destinare le risorse a finalità differenti. In particolare è scontro duro fra il Pd e Iv.  Iv accusa i Dem di ostacolare la proposta di cancellare le microtasse per non fare un favore a Renzi. I Dem ribattono che solo grazie a loro si sono trovati 23 miliardi per il taglio dell’Iva e oltre 3 miliardi per tagliare le tasse ai lavoratori: «Se Iv non vuole tagliare le tasse sul lavoro solo per fare un favore ai produttori di bibite gassate, lo dica». Il M5S non avrebbe preso parte allo scontro, ma chiede di usare le nuove risorse per i contratti dei vigili del fuoco. Con tutto il rispetto per i vigili del fuoco e le loro sacrosante esigenze che si ripercuotono sulla sicurezza di tutti, mi sembra un escamotage per non mettere il dito fra moglie e marito.

Sembrerebbero questioni di lana caprina, ma in realtà non lo sono. Alla base esistono filosofie politiche diverse. Non è la stessa cosa togliere le tasse alle imprese operanti in certi settori o abbassarle ai lavoratori: i due estremi si toccano solo se consideriamo i settori della plastica e dei prodotti zuccherati e gli interessi dei lavoratori operanti in queste imprese. A costoro suonerebbe come una beffa avere meno tasse in busta paga a costo di mettere a repentaglio il loro posto di lavoro. Non ho approfondito, ma mi sembra comunque un po’ eccessivo gridare con tanta forza al lupo ed ipotizzare che siano a rischio migliaia di posti di lavoro in conseguenza della plastic tax e della sugar tax.

La riflessione che faccio è però un’altra. Possibile litigare sempre su tutto: dal Mes alla prescrizione, dall’Ilva all’Alitalia, dalle tasse alle elezioni regionali, dalla riduzione dei parlamentari al sistema elettorale, etc. etc.? Forse manca chi riesca a mediare ed a sintetizzare. Dovrebbe essere il ruolo del presidente del Consiglio, ma Giuseppe Conte, che a questo riguardo non è l’ultimo arrivato, non sembra farcela, anche se all’ultimo minuto uno straccio di accordo riesce a trovarlo (tutto sommato gliene sono grato!). Effettivamente la bassa statura dei contendenti rende impossibile ragionare seriamente.  Certo, se si continua a discutere con la riserva mentale delle elezioni anticipate, non si va da nessuna parte. Credo che il Capo dello Stato, mettendo in campo tutto il suo carisma, potrebbe richiamarli tutti, nei dovuti modi, all’ordine, minacciandoli, alla prima occasione, di sciogliere il Parlamento. Forse però servirà solo a schiamazzare davanti a Mattarella, come fanno i bambini, che si danno la colpa l’un altro.

Il governo giallo-rosso è nato anche per evitare le elezioni anticipate ed una facile e demagogica vittoria della Lega: qualcuno sostiene che sia un obiettivo minimale, tale da non   giustificare la nascita e la vita di un governo. In teoria può essere vero, ma a volte l’idea di evitare il peggio può innescare miracoli. Fatto sta che i presupposti del governo del sollievo (lo continuo a provare e continuo a sperare…) stanno venendo meno uno dopo l’altro: l’europeismo scricchiola, l’antisalvinismo non funziona, guadagnare tempo nemmeno, fare qualche passo avanti per rilanciare l’economia del Paese e salvare il salvabile sembra impossibile.  Speriamo nelle sardine, anche se da esse ci aspettiamo un po’ troppo. Chissà, chi lo sa!?