Da grillini a pierini

Quando una persona è irrequieta e non riesce a stare ferma, la si dipinge con una colorita e triviale espressione: “non sa dove tenere il culo”.

Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, secondo quanto confermano fonti di Palazzo Chigi, ha consegnato la lettera di dimissioni al premier Giuseppe Conte. Il ministro nelle ultime settimane ha più volte lamentato nella manovra economica la mancanza di fondi per la scuola e l’università. Secondo quanto riferiscono diverse fonti di maggioranza, Fioramonti potrebbe lasciare il M5S per fondare un gruppo parlamentare autonomo, ma “filogovernativo”, come embrione di un nuovo soggetto. Già nei mesi scorsi Fioramonti aveva più volte dichiarato che, se non fosse rimasto soddisfatto, avrebbe lasciato il suo ruolo dopo l’approvazione della legge di bilancio.

Non ho gli elementi per entrare nel merito delle motivazioni della rinuncia del ministro anche se posso immaginare la sua frustrazione di fronte alla solita incoerenza politica nel trascurare il settore dell’istruzione dopo averne dichiarato la priorità ad ogni piè sospinto. Ci sono illustri precedenti di ministri che hanno abbandonato per protesta il loro scranno. La rinuncia ottiene l’effetto immediato di mettere il dito nella piaga, dopo di che la piaga rimane se non tende addirittura a diventare “puzzolente”.

Tutti i governi della Repubblica avevano ed hanno, nei loro programmi, l’obiettivo della riforma burocratica, con appositi ministri variamente denominati ed incaricati al riguardo. Ricordo cosa successe al professor Massimo Severo Giannini: dopo qualche mese di incarico ministeriale in tal senso, gettò la spugna e confessò di volersi trasferire negli USA, ricevendo i giusti ma ininfluenti rimbrotti dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. La burocrazia si perpetua nel tempo, ha sette vite come i gatti, condiziona la politica, svuota o svacca le leggi.

Dietro le dimissioni di Lorenzo Fioramonti si cela però anche una sorta di smarrimento e di disorientamento nelle file pentastellate: nemmeno Beppe Grillo riesce a tenere a freno questo crescente malessere, che provoca continui sbandamenti. Non si può effettivamente passare incolumi da un’alleanza al suo esatto contrario senza subirne i contraccolpi. Prima il contratto di governo con la Lega, poi l’accordo con il Pd, prima l’alleanza con Salvini poi la guerra contro Salvini, prima il Pd era considerato il nemico principale poi è diventato l’interlocutore obbligato e via di questo passo. Il tutto camuffato sotto l’effetto continuo di battaglie programmatiche nominali, che lasciano il tempo che trovano (reddito di cittadinanza, no Tav, revoca della concessione autostradale, etc.).

Alcuni parlamentari pentastellati hanno già abbandonato il gruppo, altri ci stanno pensando. Di Maio ha perso il controllo della situazione anche se ostenta sicurezza. Mi sembra che il M5S sia vicino ad implodere, anche perché la sua piazza è ormai schiacciata e soffocata da quella leghista e da quella “sardinista”. Per i grillini non c’è più neanche il dilemma del partito di lotta e di governo: la lotta e le masse si stanno affievolendo, il governo ha tali e tanti problemi da far tremare le vene ai polsi pentastellati. I grillini stanno diventando sempre più cavalieri con tante macchie e con tante paure. Ecco che ritorna l’iniziale immagine del “non sanno dove tenere il culo”. Non lo dico con maliziosa soddisfazione, ma con realistico disappunto.

Il rapporto fra Giuseppe Conte e il M5S diventa sempre più problematico, così come quello col partito democratico: le pazienze degli interlocutori avranno un limite e forse anche quella del presidente della Repubblica non potrà essere infinita. Per quanto terranno gli obiettivi tattici alla base del governo Conte II? Il sollievo provocato dalla costituzione dell’attuale governo sta cedendo il passo allo stress dell’incertezza: ogni giorno una nuova grana, non tanto e non solo di carattere programmatico, ma di coesistenza fra alleati. Ci mancava solo il ministro Fioramonti…

 

 

Deus ex machina o Deus ex praesepi

La tradizione prevede per la festa di Natale ben tre messe con la presentazione di brani evangelici diversi: quella molto suggestiva “della notte”, stringatamente cronachistica dell’evento, quella “dell’aurora”, rigorosamente riservata allo stupore degli umili, quella “del giorno”, fortemente occupata dalla teologia giovannea.

L’età e la pigrizia mi hanno consigliato di puntare sulla celebrazione “del giorno”, ripiegando sul video televisivo per la messa della mezzanotte, peraltro anticipata di un paio d’ore. Mi sono imbattuto nella solita grandeur: il Vescovo di Roma entra in processione, la celebrazione eucaristica è preceduta dal canto della Kalenda, al termine del quale si suonano le campane e si accendono le luci. In una Basilica gremita di fedeli, concelebrano la messa con il Papa, all’«Altare della Confessione», cardinali, vescovi e sacerdoti. Il tutto mixato alla perfezione con una perfetta scenografia ed una sapiente regia in cui però vi era un elemento di “disturbo”: la statuetta di Gesù Bambino, che non si capiva cosa ci stesse a fare.

I riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma, offrono testardamente una pesante spettacolarizzazione; si ha la sensazione di assistere ad assurde messe in scena. Ne va della credibilità dell’evento celebrato, che viene prepotentemente snaturato e sofisticato. Mi sono inevitabilmente irritato, ho spento il video e ho ripiegato sulla rilettura dell’impostazione comunitaria del carissimo amico don Luciano Scaccaglia.

Lui riusciva a creare un palpabile clima di familiarità, fatto di piccoli atteggiamenti capaci però di integrare tutti nella comunità: tutto serviva a sgelare, a “sgessare” la ritualità, riconducendola alla spontaneità. Si trattava del coraggio di fondere il sacro con la vita. E allora tutto faceva credibile corona alle cose coraggiose e provocatorie che diceva nell’omelia.

Papa Francesco, l’ho letto il mattino successivo, ha detto parole bellissime, sintetizzabili in una stupenda espressione: «la luce gentile ha vinto le tenebre dell’arroganza umana». Ma esiste una cesura tra l’ambiente liturgico, così pomposamente ricco e grandioso, e il Natale evangelico, così paradossalmente povero e umile. Che peccato! Un mio insegnante, quando costruiva assieme agli alunni un discorso interessante, coinvolgendoli in prima persona, se qualcuno diceva una parola sbagliata, si fermava e malinconicamente affermava: «Rovinato tutto!».  In san Pietro non sono sbagliate le parole, ma è rovinoso il clima.

A quando, papa Francesco, una ventata di aria fresca anche in questo campo? A quando una decisa sforbiciata a questa pesante e fuorviante ritualità? A quando una iniezione di sobrietà nell’esagerata e smodata liturgia vaticana? A quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento a uomo del pontefice ovunque celebri una messa? A quando un po’ di “sano disordine” esistenziale nel contesto del “finto e burocratico ordine” rituale?  Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di messe sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica.

Mi sono riconciliato col Natale riflettendo nel merito dell’omelia di papa Francesco, così piena di significato. Ma il rammarico è aumentato. Dio ha scelto di andare in direzione contraria rispetto ai nostri piani. Il Figlio di Dio vuole nascere sulla paglia, tra gli animali della campagna, davanti a qualche pastore. E allora perché vogliamo rovinare tutto trasformando questo evento della semplicità divina in un assurdo inno alla grandezza umana? Mi si obietterà che la liturgia è fatta di simboli e occorre saper leggere dietro i simboli, non bisogna fermarsi al dito, ma andare alla luna. Nel caso però bisogna ammettere che il dito non indica la “purezza della luna”, ma la truccata immagine della terra.

Mio padre sosteneva che per accedere alle rappresentazioni teatrali non occorreva l’abito da sera ma il biglietto d’ingresso. Se la messa solenne diventa una cerimonia, per partecipare non serve il biglietto della fede, ma basta l’abito delle convenienze. E tutto diventa una grande, colossale parodia, dietro e dentro la quale c’è posto anche per il tanto e giustamente criticato Natale consumistico, zuccherato e buonista.

 

 

 

 

Lo sbriciolamento ambientale

Straripamenti di torrenti e fiumi, frane, mareggiate, allagamenti: purtroppo non fanno più notizia, tanto si susseguono in continuazione e tanto vengono mediaticamente annunciati e commentati. Non torno sul rapporto fra ecologia e media, improntato alla mera enfasi per catturare audience, ma voglio riflettere sulla sostanza del problema.

I casi sono tre. La morfologia del territorio italiano, così pittorescamente vocato alla valorizzazione del turismo, è tale da esporlo in modo drammatico alle intemperie: si ha la sensazione del vero e proprio sbriciolamento sotto i colpi impietosi dei fenomeni climatici. La già problematica natura del territorio è stata massacrata nel tempo dall’abusivismo, dallo sfruttamento irrazionale, dall’incuria e dall’inerzia. A tutto ciò bisogna aggiungere un’evoluzione climatica, che espone la montagna al rischio smottamenti e frane, la pianura all’incubo delle alluvioni, le coste all’impeto dei mari. Risultato finale: un senso diffuso e tragico di precarietà territoriale.

Sull’andamento climatico influisce una serie di fattori, che esorbita dalle possibilità di intervento di un singolo paese: non si può scaricare le responsabilità nascondendosi dietro la comoda espressione “piove, governo ladro”. Quanto meno occorrerebbe allargare il discorso: piove, governi ladri! Problema enorme, di portata universale, di impatto sconvolgente. Ognuno dovrebbe fare la sua parte. La sensibilità, anche grazie alla circolazione delle idee, sta aumentando, ma il pericolo è di pensare a chiudere le porte della stalla quando i buoi non sono solo scappati, ma non esistono più.

Cosa è nelle possibilità dei governanti italiani ai vari livelli? Lavorare ad un piano di messa in sicurezza, di manutenzione straordinaria, di ristrutturazione territoriale, investendo enormi risorse, che, peraltro, dovrebbero costituire un benefico volano a livello economico-sociale. Se ben impiegati sarebbero i soldi meglio spesi: per evitare danni futuri, per offrire occasioni di lavoro, per valorizzare il patrimonio naturale, per sviluppare il turismo, per puntare ad un ambiente difendibile. Non ho la più pallida idea di quante risorse e di quanto tempo possano occorrere. Di una cosa sono certo, non si tratterebbe di risorse e di tempo sprecati.

Quando si parla di tagliare i fondi alla sanità, non si pensa che queste scelte suicide finiscono col creare buchi ancora più grossi sul piano sociale (malattie, emarginazioni, dipendenze, etc.) e sul piano economico, perché occorrerà in qualche modo far fronte alle conseguenti emergenze. Lo stesso discorso vale per il territorio: non investire oggi significa lasciare crescere il dissesto idro-geologico per far fronte domani e dopodomani a situazioni di emergenza continua. Non sentiamo forse le regioni chiedere la dichiarazione di stato di emergenza? Sarà un ritornello che servirà a poco, se non a scaricare responsabilità in un vergognoso gioco al massacro.

Se riuscissimo ad elaborare e presentare un serie piano di interventi all’Unione europea, sarebbe la più efficace e corretta verifica della disponibilità comunitaria a privilegiare lo sviluppo rispetto al rigore. Certo non dovrà trattarsi di “un piano all’italiana”, come abbiamo purtroppo fatto in passato soprattutto in materia di investimenti nel meridione. Quando vedo passare sul video le inquietanti immagini dei disastri ambientali, mi rendo conto di vivere in un Paese stupendo, ma che assomiglia sempre più ad un castello di carte: basta una folata di vento per buttare tutto all’aria. Immaginiamoci se le folate viaggiano ad una velocità impressionante e sono accompagnate da autentici diluvi (quasi) universali.

Meglio minchioni piuttosto che Mincioni

Quest’anno mi è venuta una forte nostalgia del presepe e ne ho allestito uno, piccolo ma grazioso, all’ingresso della mia abitazione, su un mobile a suo tempo restaurato dal lavoro di una cooperativa per il recupero di soggetti in difficoltà. Mi è sembrato il posto giusto: accogliere i miei visitatori natalizi con questo segno collocato in corrispondenza biunivoca col lavoro umano vissuto come occasione di riscatto e di crescita. Sono sceso in cantina, ho individuato lo scatolone giusto, l’ho aperto e ne ho estratto capanna e statuette. Ho cercato poi di collocare intorno alcuni soprammobili intonati al tema: il tutto al centro della mia casa e della mia vita.

Forse la spinta me l’ha impressa papa Francesco, che ha dedicato al presepe la lettera apostolica Admirabile signum, in cui scrive: “Fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi”.

Terminato il lavoretto con una certa soddisfazione, rispolverati i ricordi inevitabilmente e giustamente indotti da esso, sono passato dall’attualità dell’evento natalizio a quella delle cronache giornalistiche: mi sono messo al computer per scorrere, come faccio ogni giorno, le notizie e gli articoli disponibili sui siti dei principali quotidiani. Il Corriere della Sera proponeva la minuziosa ricostruzione di un’operazione finanziaria e immobiliare effettuata, peraltro con pessimi risultati, dal Vaticano, che da circa sei anni ha un capitale enorme congelato in un prestigioso palazzo a Chelsea, nel cuore di Londra. Si tratta di un investimento da 200 milioni di dollari, ed è una delle più grandi, ma anche controverse, operazioni finanziarie mai realizzate dalla Santa Sede. Ho letto con fastidioso interesse i vari passaggi di questa vicenda.

La vicenda parte nel 2012 da un certo Mincione, un finanziere allora semisconosciuto, che entra nella partita grazie al Credit Suisse, nei cui conti svizzeri confluisce l’Obolo. Il custode della cassa vaticana è un dirigente dell’istituto, banchiere di riferimento della Santa Sede. «Gli ho detto – racconta Mincione – volete raddoppiare i soldi? Vi propongo un mio palazzo al centro di Londra». L’immobile è ubicato al numero 60 di Sloane Avenue, già sede di Harrods. E gli uomini di chiesa affidano i 200 milioni al Fondo Athena, gestito da Mincione. Il fondo ha un solo cliente-sottoscrittore: il Vaticano.

Salto tutti gli ulteriori passaggi. Alla fine di tutta la ingarbugliata vicenda il Vaticano ha dovuto sborsare fior di quattrini ai vari intermediari intervenuti nella gestione dell’investimento, altri denari per liquidare i fondi in cui è rimasto impegolato e altri ancora per consulenze varie. Nelle casse del Papa invece, dopo sette anni, non è entrato un euro di guadagno. Il Pontefice ha parlato di «Corruzione» nella gestione del patrimonio della Segreteria. E su questo sta indagando la magistratura vaticana. Cinque persone sono finite sotto inchiesta. A Londra è in corso un progetto di ristrutturazione del palazzo, affidato all’ingegnere Luciano Capaldo, per creare nuovi uffici. Insomma si vogliono far fruttare tutti quei milioni fermi da troppi anni. Come? L’ha spiegato lo stesso Papa Francesco, giorni fa: «Affittare e poi vendere». Perché i soldi dell’Obolo, ha sottolineato, vanno investiti ma poi anche spesi. Senza imbrogliare.

Ho ascoltato infatti la linea difensiva del papa durante la conferenza stampa sul volo aereo di ritorno dal Giappone, poco chiara e poco tranquillizzante: si è limitato ad enfatizzare un certo qual cambio di clima, più trasparente, responsabile ed intransigente, ma ha eluso il problema di fondo, vale a dire la commistione tra Chiesa ed affari, illudendosi velleitariamente di poter fare operazioni finanziarie senza contaminarsi e scendere a compromessi col potere economico. Alla fine sono stato preso da un impulso infantile: ho scritto la seguente breve letterina di Natale a papa Francesco, parafrasando quelle semplici che indirizzavo a mio padre mettendogliele sotto il piatto alla tavola della cena della Vigilia. Ho forse finito col fare la parte non tanto del bambino, ma del minchione: non so cosa farci…

“Caro papa,

io ti voglio molto bene, ti ammiro e ti chiedo perdono per tutte le volte che da cristiano mi sono comportato male. Ti prometto di fare il bravo e di obbedirti. Però ti devo chiedere un favore: continua pure a parlare a favore dei poveri, ma cerca di convincere tutti i tuoi collaboratori a vivere in povertà, lasciando perdere gli affari di soldi e preoccupandosi degli affari di cuore. Quest’anno ho fatto il presepe, ubbidendo al tuo invito, ma nel presepe non ho trovato finanzieri, banchieri, immobiliaristi. Ho visto solo povera gente intorno alla grotta. Se vuoi, caro papa, ci andiamo insieme e vedrai che è proprio così. Tuo figlio Ennio”.

Dimmi con chi vai e ti dirò i porti da chiudere

Non ricordo con precisione e non credo siano molto rilevanti le differenze tra il caso “Diciotti” e il caso “Gregoretti”, le due navi bloccate dall’allora ministro degli Interni Matteo Salvini, e qualora esistessero tali differenze penso non siano comunque tali da giustificare un cambio di atteggiamento del M5S nel suo capo Luigi Di Maio. Volenti o nolenti i pentastellati, con fatica e dopo una delle solite pantomimiche consultazioni sulla piattaforma Rousseau, in Parlamento avevano salvato Salvini dall’incriminazione sul caso Diciotti, nascondendosi dietro il dito di una decisione politica che non poteva essere censurata sul piano giudiziario. Oggi sembra che le cose vadano diversamente per il blocco della Gregoretti. Perché?

Quello della Diciotti fu il primo di una serie di casi simili fra i quali appunto quello della Gregoretti: il governo italiano (Il Conte I) ha sostenuto a suo tempo di aver “chiuso i porti” alle navi che trasportavano in Italia i migranti soccorsi in mare, per ragioni politiche e di sicurezza. Salvini rivendicava e rivendica tuttora  di aver preso queste decisioni nell’interesse del paese, e la presunta “linea dura” nei confronti dell’immigrazione irregolare era diventata un tema centrale nella comunicazione del governo giallo-verde.

Ad aprire il procedimento sulla Diciotti è stata la procura di Agrigento, mentre sul caso Gregoretti ad intervenire è stata la procura di Siracusa. L’altro elemento in comune, riguarda la decisione del tribunale dei ministri. Per il primo caso, il competente tribunale dei ministri di Palermo ha chiesto l’autorizzazione a procedere al parlamento contro Salvini. Quello di Catania ha adesso emanato la stessa richiesta sul secondo caso. Gli esiti questa volta potrebbero essere diversi: l’allora maggioranza giallo-verde ha supportato Salvini in sede di riunione della giunta per le immunità, grazie al sostegno del Movimento Cinque Stelle. Adesso invece i grillini, che non sono più alleati della Lega, sarebbero propensi a prendere un’altra strada, accordando il no all’immunità per il segretario del carroccio. Sinceramente non capisco cosa ci sia di tanto diverso nel comportamento ministeriale salviniano da giustificare un simile cambio di direzione.

A sorprendere  è stata la retromarcia targata Luigi Di Maio, il quale ha annunciato che il Movimento 5 Stelle voterà a favore del processo per quanto riguarda la vicenda Gregoretti. Dice infatti Salvini: “È una cosa surreale. Per un certo verso, anche se gli avvocati mi suggeriscono il contrario, sarei curioso di finire in Aula. Di Maio ha cambiato idea sui miei processi come l’ha cambiata su tante altre cose“. Il 20 gennaio si voterà infatti l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Palazzo Chigi ha fatto sapere che il caso non sarebbe stato mai discusso in Consiglio dei ministri. Salvini ribatte: “A me dispiace quando ci sono persone che perdono l’onore. È chiaro che per non litigare con il Pd loro si rimangiano tutto quello che avevano detto e fatto“. Se sul piano procedurale può avere una certa importanza che il governo non abbia formalmente deliberato sul sostegno alla posizione del ministro, dal punto di vista sostanziale il governo sapeva benissimo come si stava muovendo politicamente Salvini e, se non lo ha apertamente appoggiato, quanto meno lo ha lasciato fare per tutto il disgraziato periodo di vita della compagine pentaleghista.

Devo quindi obtorto collo dare ragione al leader leghista quando stigmatizza il cambiamento di opinione pentastellata nella politica sull’accoglienza dei migranti. D’altra parte questo ondivago atteggiamento era addirittura precedente alla formazione del governo giallo-verde a cui è succeduto quello giallo-rosso: si tratta di opportunismo bello e buono, di ottenere o perlomeno non perdere il consenso dell’elettorato anti-immigrati andando comunque dietro l’aria che tira politicamente parlando.  È perfettamente inutile che Luigi Di Maio faccia i salti mortali per giustificare il cambio di linea e mantenere quindi un minimo presupposto di convivenza col Pd, senza avere il coraggio di ammettere gli errori commessi e segnare una chiara discontinuità programmatica fra i due governi in cui i grillini hanno una parte certamente non secondaria. È pretestuoso continuare a navigare nel mare tempestoso dei decreti sicurezza, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, cambiando qualcosina ma non troppo, come quella ragazzina incinta appena un pochettino.

La difficile gestione dell’immigrazione è uno dei punti politici più delicati, vuoi perché manca una vera e propria visione complessiva e coraggiosa di questo fenomeno, vuoi perché si vuole essere aperturisti ma senza scontentare troppo i settari, vuoi perché ci si vuole distinguere dalla follia salviniana ma senza regalare alla Lega un cavallo di battaglia molto importante. Il M5S è l’incarnazione di questi equivoci a cui non è peraltro estraneo nemmeno il partito democratico.

Il Conte II è un governo di scopo (fermare la valanga leghista, stare dignitosamente in Europa, arrivare alla scadenza quirinalizia con questo parlamento, tentare la strada della ragionevolezza), che nasce tuttavia, per i tempi affrettati con cui è stato varato e per il basso profilo dei partner, con un notevole fardello di equivoci programmatici che effettivamente e continuamente vengono a galla.

 

Le sardine fuori dalla scatola

E se lasciassimo in santa pace le sardine a fare il proprio “mestiere”? E qual’ è questo mestiere? Rappresentare, interpretare e coagulare il desiderio di una politica legata ai valori costituzionali che fa molta fatica a trovare risposte credibili ed esaurienti nel sistema partitico. La storia insegna che questi movimenti hanno generalmente vita breve, perché la tentazione di giocare direttamente “la partita dei partiti” è fortissima.

L’articolo 49 della Carta costituzionale recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Anche se i costituenti lasciano intendere che sia questa la strada maestra per fare politica, non escludono tuttavia altri mezzi di partecipazione incidenti sulla vita politica.

È normale che dalle parole si voglia passare rapidamente ai fatti e quindi dall’elaborazione delle idee e delle proposte alla diretta partecipazione alle Istituzioni democratiche, ma non è una strada obbligata e sbrigativa. Il sistema dei partiti, con tutto quel che lo segue, ha fretta di omologare questi movimenti spontanei, per devitalizzarli, inquadrarli e ridurli ai minimi termini. Le sardine quindi devono essere molto attente a non finire in scatola.

Esiste tuttavia anche il rischio inverso, quello della marginalizzazione e del relegamento nello sfogatoio protestatario. Trovare una giusta via di mezzo non è semplice. Dal momento in cui si vuole avere vita lunga bisogna organizzarsi, strutturarsi, uscire dal mero spontaneismo e il pericolo di rimanere imbrigliati nei soliti meccanismi è grande.

Ho vissuto, seppure in modo molto defilato, l’esperienza illusoria dell’assemblearismo sessantottino, fenomeno molto più elitario rispetto alle piazze autopromosse riconducibili alle sardine. La partecipazione diretta è molto importante, ma non può esaurirsi in se stessa. La sfida è pertanto lasciata alla fantasia e alla creatività di cui l’imbalsamato sistema politico ha enorme bisogno. Se saranno rose, fioriranno, con l’impegno a lasciarle fiorire e a non volerle coltivare in serre più o meno limitanti e a non volerle raccogliere prima del tempo.

Tutti impartiscono lezioni di strategia e tattica. Sembrano quei due ingegneri e progettisti supponenti, che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia. Mia nonna, in un colorito dialetto, li bollava così: “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”. Le sardine devono fare un partito! No, devono restare nelle piazze! Devono proporsi come nuova guida della sinistra! Devono stare al di fuori della mischia partitica! Ce n’è per tutti i gusti. Chi tira loro la giacca, ammesso che ce l’abbiano; chi li esorcizza come i soliti fannulloni esibizionisti; chi aspetta la loro prima mossa avventata per ridacchiare e sputtanare tutto; chi li confina nel giovanilismo che dura poco, il tempo di trovare un lavoro o la fidanzata; chi li vuole santi subito e chi li demonizza inesorabilmente.

Se posso aggiungere un mio consiglio rispetto ai già tanti che circolano, cerchino di sbagliare con la loro testa! Certo, da tutti si può imparare, di errori se ne possono fare e se ne faranno tanti, ma meglio tentare qualche ricetta nuova che accontentarsi delle minestre riscaldate. Anche perché, cantando “bella ciao” e recitando gli articoli della Costituzione, si va sul sicuro, tutt’al più si farà comunque un utile ripasso della storia passata, che serve sempre per guardare avanti seriamente senza rincorrere il primo cretino che dà aria ai denti.

 

 

Gli sputi razzisti e malefici

Mi auguro vivamente che il fatto non sia vero o che almeno sia stato esagerato, perché diversamente siamo veramente alla follia. Una neonata nigeriana muore in ospedale, partono insulti razzisti alla madre disperata. La prima istintiva reazione è quella dell’incredulità di fronte all’insensibilità verso la sofferenza di una madre che aveva perso la figlia.

Riporto la cronaca in estrema sintesi, prendendola dal quotidiano digitale “affaritaliani” (già la denominazione della fonte potrebbe essere molto significativa e provocatoria). Una madre disperata per la morte della sua bambina di 5 mesi urla di dolore nella sala d’attesa. Peccato che al dolore della donna i presenti in sala abbiano risposto solo con commenti razzisti. È successo la mattina di sabato scorso, 14 dicembre a Sondrio, dove la mamma della piccola si è rivolta al pronto soccorso perché la bimba non respirava normalmente. Purtroppo i medici non hanno potuto salvare la bimba e la madre ha iniziato a urlare e piangere la sua disperazione. Da qui gli insulti razzisti dei presenti testimoniati da una giovane che era al pronto soccorso per un malore e che poi ha denunciato la vicenda su Facebook. “Dalla sala d’attesa iniziano commenti di ogni tipo. Chi parla di riti tribali, chi di satanismo, chi di scimmie, chi di ‘tradizioni loro’, chi di manicomi. Giudizi, parole poco appropriate, cattiveria, tanta – ha spiegato la ragazza sui social -. La tristezza ha iniziato a invadermi. Nel frattempo ho sperato più che mai che calasse il silenzio fra le voci insopportabili e malvagie di quegli individui. E invece no – prosegue la ragazza su Facebook -, anche di fronte alla morte di un’innocente, le voci hanno continuato. La più tremenda è stata: ‘Tanto loro ne sfornano uno all’anno’”.

Altro che sardine, mi sembra che ci vogliano delle balene per stigmatizzare questo strisciante razzismo. Il movimento di piazza che sta prendendo piede è sostanzialmente una denuncia verso la degenerazione antidemocratica del sistema politico. Prima della politica viene l’etica, vengono i valori morali. Ebbene li stiamo perdendo e allora, poi, non ci possiamo lamentare se la politica si accoda o addirittura ci spinge su queste strade sconnesse.  Non mi sento di minimizzare o di ridimensionare questi discorsi considerandoli come la follia di pochi: temo siano la punta di un iceberg molto profondo.

La cattiveria ci sta offuscando cuore e cervello. Salto di palo in palo. Ho ascoltato le invettive del pubblico fiorentino verso l’allenatore dell’Inter Antonio Conte: pura e cattiva demenza. Il personaggio in questione non è certo un esempio di equilibrio e misura nello svolgimento della sua professione, di qui ad investirlo di gratuiti improperi il passo è troppo lungo.

Ed a proposito di allenatori ne voglio citare uno del Parma di molto tempo fa, un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e, succedeva purtroppo anche allora, scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita dagli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, perché evitava scrupolosamente i dopo-partita più o meno caldi. Ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: “E vót che mi, parchè al Pärma l’à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì.”

In effetti devo aggiungere che mio padre esercitava il mestiere di imbianchino. Da uomo quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. E continuò dicendo: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni”.

Chissà cosa direbbe della scena svoltasi nella sala d’aspetto di un ospedale? Ospedale o stadio, madre nigeriana o allenatore di calcio, la solfa è sempre quella ed è sempre più brutta. C’è da avere paura, non certo degli immigrati, ma di noi stessi. E magari chi ha pronunciato quelle squalide frasi, avrà il coraggio di sedersi alla gioiosa tavola del suo cenone natalizio…

A volo di Mattarella

Il presidente della Repubblica ha molto opportunamente trasformato la tradizionale cerimonia dello scambio di auguri con le alte cariche dello Stato in un’occasione di forte monito al mondo politico italiano. È partito da un passaggio di un discorso di Aldo Moro. Se è utile studiare a memoria le poesie dei più grandi letterati, altrettanto utile mi parrebbe imparare a memoria questa breve ma fondamentale analisi di un gigante della politica: “anche se talvolta profondamente divisi, sappiamo di avere in comune, ciascuno per la propria strada, la possibilità e il dovere di andare più lontano e più in alto. Non è importante che pensiamo le stesse cose. Invece è di straordinaria importanza la comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo”.

Sergio Mattarella non si smentisce mai, è veramente l’ultimo dei giusti della storia politica italiana. Da una parte ho la sensazione che le sue parole cadano nel vuoto, dall’altra, quando lo vedo al centro di grandi manifestazioni popolari di stima e ammirazione, mi consolo. Sa leggere perfettamente il momento che attraversiamo e non si stanca di richiamare tutti al senso di responsabilità nell’interesse del Paese, dell’Europa e del mondo intero. Sa da dove partire e sa dove vuole arrivare. Questa volta ha preso la rincorsa appoggiandosi al pensiero di Aldo Moro: continuo imperterrito a pensare che non sia stato un caso meramente terroristico l’averlo fatto fuori. La vita politica italiana soffre ancora della sua mancanza. Non ho difficoltà ad ammettere di essere un vedovo inconsolabile di Aldo Moro.

Nella storia contemporanea c’è una sorta di cesura dovuta alla sua morte e mi fa oltre modo piacere che il presidente della Repubblica ne riprenda, peraltro spesso, il pensiero. Ho tanta nostalgia per la politica del dialogo. Basta contrapposizioni artificiali, basta conflitti strumentali, basta scontri demagogici, basta con la politica degli slogan, basta! Mattarella rispetta i politici di oggi, ma ne vede tutti i limiti e non può e non deve tacere. Manca il dialogo, manca il senso del futuro, manca l’impegno nelle battaglie da combattere contro il degrado ambientale e contro la disoccupazione.

La gente sente che Mattarella ha ragione, ma poi, non tutta ma troppa, si lascia irretire dai politicanti.  Dopo di lui? Spero non ci sia il diluvio e quindi ben venga la preoccupazione dell’attuale maggioranza volta a scongiurare avventurismi quirinalizi alla prossima scadenza del 2023. Sarà un passaggio delicatissimo e, se dovesse profilarsi qualche inopinata incertezza, ben venga una riconferma di Mattarella quale presidio e garanzia nella vita istituzionale e politica del Paese. Nel frattempo cerchiamo di ascoltarne i richiami e le indicazioni. Auguri presidente! Ci dia una mano come lei sa fare, senza farcelo pesare, ma senza risparmiarci critiche e rimproveri. Ogni volta che sento un suo intervento, ogni volta che la vedo presente nel tessuto culturale, ogni volta che osservo il suo modo di agire, mi commuovo e prendo una boccata d’ossigeno. Sì, perché credo nella politica e nel suo sforzo presidenziale di tenerla ai livelli più alti.

I pulpiti, le prediche e…le piazze

Se in tutto il mondo le formazioni politiche collocabili a sinistra soffrono un consistente calo di consensi e regalano alle destre categorie di cittadini, intere zone e periferie tradizionalmente schierate a sinistra, ci saranno motivazioni non solo di ordine tattico, ma di carattere ideale e politico. Non sono quindi certamente fra coloro per i quali “tutto va ben madama la sinistra”. È inoltre una caratteristica dei partiti di sinistra esercitare una forte autocritica al limite del purismo ideologico e del masochismo tattico.

Non essere soddisfatti di un certo andazzo dei partiti progressisti costituisce per me lo sfondamento di una porta aperta. In politica nessuno ha la verità in tasca, da tutti c’è da imparare e non sopporto chi con tanta supponenza spara ricette facili e decisive. Il cammino da compiere dovrebbe essere quello di ascoltare anche e soprattutto le voci critiche, rifletterci sopra seriamente e approfonditamente per poi arrivare a decisioni significative sul piano strategico, programmatico e della conquista del consenso.

Sono però stanco di ascoltare raffiche di prediche a livello giornalistico e politologico rivolte snobisticamente alla sinistra, come se fosse rappresentata e costituita ai vertici da un’armata Brancaleone di coglioni alla ricerca di mera sussistenza. Tutti questi solerti critici sputano sentenze da dubbi pulpiti e con improvvisata vena di analisti: a loro dire mancherebbe l’identità, la spinta a rapportarsi con i ceti sociali di riferimento, la capacità di incarnare i valori nella storia contemporanea, il coraggio di coniugare la tradizione con la modernità, l’abilità di tradurre in pratica le idee fondanti, l’acutezza di capire la novità e di cavalcarne gli spunti.

Sono critiche generiche ed inconcludenti, molto spesso contraddittorie, secondo le quali la sinistra sbaglia se è radicale, sbaglia se è manovriera, sbaglia se è pragmatica, sbaglia se è ideologica. In poche parole sbaglia sempre. Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’éra giovvon a säve i véc’, adésa ch’a són véc’ a sa i giovvon…». Intendeva sdrammatizzare gli insopportabili schemi sociologici, che ci assillano con le loro sistematiche elaborazioni dell’ovvio. D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente. Concludeva rassegnato: Con chil bàli chi, mi an so mai…».

Ecco perché, quando ascolto tanta e poco credibile gente, che vuole insegnare a fare la sinistra alla sinistra, cambio canale, esco da internet, chiudo il giornale. Ecco perché invece sono molto interessato alle piazze “sardinere”, che non pontificano, ma gridano un desiderio di cambiamento e vorrebbero spingere la sinistra a rivedere tanti suoi schemi di comportamento. Sono credibili queste persone più o meno giovani? Certamente più dei frequentatori abituali dei salotti televisivi, perché, a differenza dei soloni catodici, sono spontanee, vere, sincere e provocatorie. Cantare “bella ciao” per i commentatori della politica è un anacronismo imperdonabile e infruttifero e loro la cantano a squarciagola. Chiedere giustizia sociale per gli osservatori della politica è pura demagogia e loro la chiedono insistentemente. Potrei proseguire, ma penso di avere chiarito il concetto. Occorre togliere il monopolio delle piazze al populismo di destra per restituirlo al popolarismo di sinistra.

Non si tratta di fare un bagno di giovanilismo, ma di cogliere le spinte popolari e di farne tesoro. Ho ripetutamente ricordato e lo rifaccio volentieri ancora una volta: durante le animate ed approfondite discussioni con alcuni carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti. La gente preferisce comprare da chi vende facili illusioni e allora forse bisogna recuperare in magazzino la merce di qualità, quella che stupisce e affascina anche se costa cara, ma di cui vale la pena pagare il prezzo. La gente capirà? Bisogna almeno provarci seriamente.

 

 

 

Parchè il banchi, ät capì…

Torno con la mente a Roma, all’EUR, ai lavori di un lontano congresso della Democrazia Cristiana a cui ho assistito come semplice ma interessatissimo invitato. Durante l’intervento dell’allora ministro del Tesoro, Emilio Colombo, si alzò un isolato, ma forte e netto, attacco verbale all’azzimato esponente democristiano ed al suo pistolotto lungo e tecnicamente pesante: «Te lo ha scritto Carli?», gli chiesero provocatoriamente. Guido Carli era all’epoca il potente governatore della Banca d’Italia. Scaramucce, che segnavano la vivacità ma anche la profondità del dibattito. Allora come ora ci si chiedeva se l’economia dovesse essere indirizzata dal potere delle banche centrali o dalla politica governativa.

Anche oggi il tema è attualissimo ed è oggetto di vivaci discussioni a livello governativo nel momento in cui si è deciso di intervenire con soldi pubblici per salvare la Banca Popolare di Bari da un devastante fallimento. Quali e quante sono le responsabilità di Bankitalia in queste aggrovigliate vicende finanziarie: la banca centrale controlla effettivamente gli istituti di credito o dà loro una mano ad andare nel fosso?

Il compito di controllare la vita finanziaria di un ente è molto difficile ed è al limite dell’impossibile. Ciò non toglie che qualcosa di meglio si potrebbe fare. Poi viene la discussione sul salvataggio: è giusto ed opportuno intervenire con fondi pubblici a tutela dei risparmiatori? Se fossi un risparmiatore in odore di fregatura, non esiterei a rispondere con un convinto “sì”. Da semplice cittadino mi permetto di nutrire qualche dubbio: o si riesce ad intervenire nelle regole con cui funziona il sistema bancario, in poche parole, o si interviene a monte, oppure arginare a valle i torrenti in piena è impresa ardua e quasi impossibile. Si riesce tutt’al più a chiudere qualche falla in rassegnata attesa della prossima ondata di piena.

Parecchio tempo fa mi raccontavano di un incontro informale tra amministratori pubblici della provincia di Parma: un pianto cinese sulle difficoltà finanziarie dei comuni e sulle ristrettezze delle loro comunità. Ad un certo punto uno dei partecipanti sbottò e cominciò ad esprimersi in dialetto, adottando uno spontaneo e simpatico intercalare, scaricando colpe a più non posso sul sistema bancario reo di compromettere sul nascere ogni e qualsiasi intento di ripresa: «Parchè il banchi, ät capi…» diceva a raffica e giù accuse agli istituti di credito. Questo per dire che a volte la politica tende a scaricare sue responsabilità su altri soggetti, ma è pur vero che i detentori del potere finanziario tendono a condizionare scorrettamente la politica, magari dopo avere creato disastri (gli esempi sono numerosi a tutti i livelli).

Ogni volta che succede qualche fattaccio bancario spunta l’idea di una commissione d’inchiesta: facciamola una buona volta, senza però farci troppe illusioni. Il giustizialista di turno chiede sacrosante azioni di responsabilità verso gli amministratori più o meno bancarottieri: facciamole, ben sapendo che chiudere la stalla quando i buoi sono scappati serve a poco. Il garantista a tempo pieno ipotizza carenze ed omertà nel sistema partendo dall’alto, dalla stessa Banca d’Italia, che parlerebbe sempre bene e spesso razzolerebbe male: affrontiamo pure anche questo problematico nodo, ben sapendo che non lo si potrà né sciogliere, né tagliare di netto.

L’importante sarebbe non attestarsi sui massimi sistemi o rifugiarsi nella demagogia anti-sistema. Mi accontenterei di capire bene fin dove arriva l’intervento governativo e di monitorarne gli effetti nel tempo. Qui si apre un altro discorso: è ora di ripensare all’intervento pubblico diretto nelle banche, così come nell’economia in generale? Se essere liberisti vuol dire lasciare che il mercato lavori in proprio per poi colmarne le lacune a babbo morto e quasi a fondo perduto, tanto vale essere dirigisti e ipotizzare qualche investimento pubblico diretto ben mirato e ben gestito. Sempre più difficile!!!