L’apprezzabile prosopopea dalemiana

Ho ascoltato in rassegna stampa l’intervista rilasciata da Massimo D’Alema a Repubblica a commento della situazione internazionale venutasi a creare dopo la bellicosa iniziativa trumpiana che ha portato all’uccisione dell’importante esponente del regime iraniano Qassem Soleimani. Ne riporto di seguito una sintesi tratta dall’Agenzia giornalistica Italia Spa.

“Una missione dell’Unione Europea in grado di interloquire con i protagonisti per fermare l’escalation” tra Iran e Stati Uniti e “costruire una soluzione nella quale gli attori fondamentali della regione possano sentirsi garantiti”: è la proposta lanciata dall’ex premier e ministro degli Esteri. Per D’Alema è necessario più che mai “uscirne con un’iniziativa forte e unitaria per fermare la spirale” di tensioni innescata dall’uccisione del generale Qassem Soleimani.

L’ex premier, peraltro, non vede “all’orizzonte una guerra mondiale” e avverte di andare cauti “nel maneggiare certi paragoni storici” come il fatto che il mondo possa trovarsi davanti a un nuovo 1914. D’Alema più che altro vede un Trump che “vuole andare al voto a novembre in un clima di tensione, creando una situazione in cui non si può cambiare il comandante in capo” e perciò quando “le ragioni della politica interna dominano quelle della politica estera, allora la spiegazione è sempre una leadership in difficoltà!”.

Per D’Alema la vera novità sul piano diplomatico “è che la comunanza di valori di Europa e America non c’è più”. Con il risultato che “gran parte dei guai, dall’insicurezza all’aumento del prezzo del petrolio, resteranno a noi”. “Siamo di fronte a un leader che attizza il fuoco e scappa ed è l’ultima cosa che ci si aspetterebbe da un alleato”. “Clinton nei Balcani intervenne, ma per risolvere il conflitto”, ha ricordato l’ex premier, “mentre qui l’attuale presidente Usa i conflitti li lascia in eredità agli altri”.

Infine, un’annotazione su Di Maio e il suo operato come ministro degli Esteri: “Apprezzo le sue buone intenzioni anche se a volte sembra essere distratto dalle questioni di politica interna e dalle vicende del suo Movimento”, chiosa l’ex premier che ha governato anche la Farnesina.

Mi sono detto: finalmente un politico che esprime una credibile, equilibrata ma critica ed autonoma, linea di politica estera; ancor prima, finalmente un politico in mezzo a tanti baluba della politica. È un vero peccato che D’Alema, di cui riconosco peraltro limiti e difetti, sia ormai fuori dai giochi; meriterebbe di essere ancora in sella, non sfigurerebbe e non ci farebbe sfigurare. Matteo Renzi ha fatto il diavolo a quattro per rottamarlo, per poi promuovere nel suo entourage personaggi scialbi se non squallidi. I primi della classe sono certamente antipatici, però si possono sopportare quando sono veramente tali. Il brutto è quando il primo della classe si crede e sente tale senza esserlo: allora è un disastro. Nella prima categoria colloco Massimo D’Alema, nella seconda Matteo Renzi. Entrambi non sanno valorizzare gli altri, ma soltanto mortificarli e quindi non sono dei leader. Se però fossi costretto al gioco della torre, non avrei esitazione alcuna, butterei giù Renzi. Antipatici e gassati li sono entrambi, ma D’Alema ha un’intelligenza politica superiore, anche se condizionata e rovinata da un egocentrismo spropositato.

Dato a D’Alema quel che è di D’Alema, vorrei tornare solo un attimo sulla sua più ficcante dichiarazione, vale a dire che “la comunanza di valori di Europa e America non c’è più”. Si tratta di una realtà gravissima, di cui tuttavia bisogna prendere realisticamente atto ed a cui è necessario reagire. L’Europa deve trovare in se stessa le idee e la forza per svolgere il ruolo che le compete: un ulteriore impulso al processo di integrazione, senza il quale per gli Usa non saremo più dei partner, ma dei servi sciocchi.  Sissignore, dei servi sciocchi di un padrone sempre più assurdo. A meno che gli americani non si scuotano dal torpore populista e riprendano a ragionare con il cervello, nel qual caso il discorso potrà riprendere da dove era stato interrotto. Temo che non sia possibile individuare questo “dove”, tanta la confusione intervenuta nel frattempo, e sia necessario ricominciare daccapo. Ad una follia distruttiva rispondere con una follia costruttiva.

 

 

Trumpolini di guerra

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente).

Ebbene purtroppo è tornato Mussolini, per la verità ne sono arrivati parecchi, nuovi di zecca, anche in Italia, riveduti e corretti, ma il più pericoloso e potente si chiama Donald Trump. Stiamo correndo rischi enormi, ma in tutto il mondo si grida: «Aridatece er puzzone», come fecero i romani esasperati, nel giugno del 1944, invocando il ritorno di Mussolini, nonostante il fascismo e la guerra avessero lasciato solo macerie, miseria e fame. Poco importava ai romani, i quali si illudevano di ottenere pane, lavoro e la soluzione dei loro problemi. Proprio come oggi.

La scorciatoia fascista è sempre dietro l’angolo, la si imbocca senza considerare dove può portare. Gli americani (per la verità una minoranza) hanno fatto così e magari lo rifaranno, scegliendo il salto nel buio trumpiano. A distanza di parecchi decenni, dopo aver combattuto il fascismo ne sono rimasti vittime come se niente fudesse. Nella strategia di Trump il concetto fondamentale è “la guerra”: quella commerciale dei dazi, quella dei muri contro l’immigrazione, quella terroristica contro il terrorismo, quella contro l’Ue in base alla teoria degli interessi Usa prima di tutto.

Ogni suo atto ha questo macabro sottofondo bellicista, figuriamoci adesso che è nel mirino della giustizia, che rischia grosso con l’impeachment in via di esecuzione, che è impegnato a ripresentarsi alle urne con rinnovato piglio guerrafondaio. L’uccisione di Soleimani, il generale degli ayatollah iraniani di stanza in Iraq, non ha nessuna motivazione seria dal punto di vista strategico, è soltanto un colpo di teatro a livello internazionale, che costerà assai caro a tutti. Le conseguenze si profilano piuttosto inquietanti e non tarderanno a farsi vedere e sentire. Trump ha buttato benzina sul fuoco iraniano e sui rapporti incandescenti a livello mediorientale: una riconferma alla Casa Bianca val bene una terza guerra mondiale.

Non ho parole di fronte a tanta irresponsabilità da parte dell’uomo più potente del mondo. Meglio, ne ho solo una. Quella usata appena prima della Brexit dagli scozzesi.  La loro propensione verso l’Unione Europea, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’allora aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Mi associo convintamente.

 

E se facessimo un Paragone…

Mi è capitato spesso di ascoltare le dichiarazioni di Gian Luigi Paragone in concomitanza con i passaggi problematici della politica grillina: sembrava un giornalista intrufolatosi nel movimento cinque stelle, alla ricerca di scoop e di colpi di scena, sempre in atteggiamento da bastian contrario, una continua spina nel fianco di questa compagnia di (s)ventura, un infiltrato con lo scopo di creare confusione e disagio.

Il tutto veniva svolto con la levità di un inviato speciale, con la nonchalance di uno pseudo-simpatizzante, con l’ironia di un estraneo. Mi chiedevo: come fanno a sopportare un simile atteggiamento? Hanno resistito anche troppo. La corda si è strappata, Paragone è stato espulso dal M5S, se la canta e se la ride in libertà, non dà l’idea di un politico in crisi d’identità, ma di un parlamentare alla ricerca di visibilità, di uno spretato felice e sorridente.

Ha votato contro la costituzione del governo giallo-rosso, ha votato contro la manovra economica, si è dichiarato apertamente vicino alle posizioni leghiste: non poteva che finire così.  Che stupisce non è la contrapposizione all’interno di un partito, ma la farsesca diatriba all’interno di un non partito. Le scaramucce nel M5S hanno il sapore di una commedia, che sta andando fuori tempo massimo. La compagnia di giro è fuori controllo, il capo-comico latita e lascia fare, la recita impazza, il governo soffre.

Non è questione di numeri: una cura dimagrante potrebbe essere anche salutare se potesse servire a chiarire una linea politica. Si ha la sensazione invece di un’uscita alla spicciolata: tutti i fuggiaschi, alla faccia del tanto auspicato vincolo di mandato, si guardano bene dal dimettersi dalla carica e farneticano di nuovi gruppi, di nuovi partiti, che durano lo spazio di un’intervista. Ognuno va per conto suo alla ricerca di chissà cosa. Si sta profilando una fine ingloriosa di un movimento nato male, che si sta preparando a finire malissimo.

Sembra che il redde rationem decisivo sia rinviato al dopo elezioni regionali in Emilia e Calabria. Forse solo per vedere l’aria che tira e adeguarvisi opportunisticamente. Esperimento fallito nonostante la testardaggine giornalistica di Marco Travaglio, l’ultimo giapponese del M5S, simile a quel tale che, essendosi sbilanciato nel ritenere fredda la minestra, per non rimangiarsi la parola, fu costretto a ingoiarla bollente scottandosi lingua, bocca e stomaco.

In una compagnia teatrale piuttosto raffazzonata e dilettantesca, un attore, alle prese con un copione che non aveva sufficientemente studiato e imparato, si rifugiò nella ripetizione di una battuta: “questa casa va a catafascio”. Sperava che qualcuno gli venisse in aiuto per superare l’impasse. Nessuno riusciva a saltarci fuori e lui imperterrito continuava a ripetere: “questa casa va a catafascio”. A questo punto il problema non è tanto la compagnia grillina, che sembra andare a catafascio, ma l’equilibrio politico che si fonda anche sulla gamba grillina. Se vanno avanti così, tre dissidenti oggi, cinque dissidenti domani, un Fioramonti oggi, un Paragone domani, il governo Conte II, un animale che cammina con quattro zampe, dovrà fare a meno di una, dovrà cioè, come si dice in dialetto parmigiano, andär a pè sopètt.

Paragone, giornalista e conduttore televisivo prestato alla peggiore politica, annuncia il ricorso contro l’espulsione, ammettendo di essere un rompicoglioni, che però adirà le vie legali avverso i probiviri pentastellati. Alessandro Di Battista, il leader ombra del M5S, afferma che “Paragone è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali”. Vittorio Sgarbi, che di professione oltre il critico d’arte fa il soffiatore di fuoco, sta con Paragone e Di Battista, che, a suo dire, devono rifondare il movimento. Stefano Fassina, suona a sinistra una estemporanea trombetta, fa appello a Di Maio e abbraccia Paragone, in quanto il dissenso politico, motivato da ragioni serie, va affrontato con discussione e chiarimento politico, non con i probiviri.  Prima di parlare di Paragone, occorrerebbe a monte fare un Paragone con la politica seria e allora tutto si chiarirebbe. Invece ci si intestardisce a scherzare.

 

La pazienza di Francesco ha dei limiti

È simpaticamente umana l’incazzatura di papa Francesco conseguente alla strattonata di una donna ed è nobilmente e cristianamente bella la richiesta di scuse. Questo fatto innesca un ricordo evangelico: l’episodio dell’emorroissa che si fa largo tra la folla per riuscire a toccare il mantello di Gesù, che reagisce fra lo stizzito e il sorpreso chiedendo agli apostoli chi lo avesse toccato.

Una donna, che soffriva di emorragia da dodici anni e aveva consultato inutilmente molti medici, gli si avvicinò alle spalle, toccò il suo mantello e guarì all’istante. Gesù domandò chi lo avesse toccato; alcuni ironicamente ribatterono come fosse impossibile capire donde venisse il tocco in mezzo ad una simile calca, tutti negavano, ma alla sua insistenza si fece avanti una donna tremante, che dopo avere dichiarato davanti a tutti il motivo per cui l’aveva toccato, comunicò che era guarita. Gesù le disse: “la tua fede ti ha salvata, vai in pace”.

Una donna affetta da emorragia era considerata impura e per questo motivo la protagonista dell’episodio toccò Gesù cercando di non essere vista. Gesù la fece venire allo scoperto non per svergognarla, ma perché tutti ascoltassero la sua storia, in modo da lodare la sua fede e reintegrarla nella comunità. Gesù inoltre fece ciò che i medici non erano riusciti a fare. La fede è nell’episodio il mezzo per attingere da Dio la forza risanatrice e superare le forze negative che sminuiscono la vita di ciascuno.

La donna che si è attaccata al braccio di Francesco non sarà affetta da cronica emorragia, almeno si spera, e probabilmente non aveva alcun miracolo immediato da strappare, così come il papa non aveva alcuna intenzione di sottoporre la donna ad una prova di fede. È un episodio curioso anche se piuttosto normale. Francesco, come del resto anche i suoi predecessori, si sottopone ad autentici tour de force per salutare cordialmente la gente, esprimendo una carica umana notevole e assai apprezzata.

Sono gli incerti della popolarità portata all’eccesso, al limite del divismo e del fanatismo. Ho recentemente scritto e ribadisco che questa eccessiva personalizzazione della religione non è positiva: la Chiesa, la religione e ancor meno la fede non sono da identificare nella figura papale. È pur vero che nel grigiore dei personaggi pubblici, papa Francesco è l’unico a possedere ed esprimere un carisma eccezionale, l’unico a cui si può guardare con fiducia e speranza. Ma non bisogna esagerare: Gesù, quando si accorgeva di essere troppo corteggiato dalla folla, si sottraeva, scappava, si ritirava. Un po’ più di sobrietà forse non guasterebbe anche a livello papale, così come un certo autocontrollo da parte della gente non sarebbe da disprezzare. Nell’Unione Sovietica, quando volevano far fuori un leader, lo accusavano di “culto della personalità”: speriamo che i non pochi detrattori di Francesco non colgano la palla al balzo e non gli buttino addosso anche questa critica.

Al di là delle opportune scuse richieste pubblicamente ex fenestra, non dovrebbe essere difficile per papa Francesco rintracciare quella persona troppo espansiva per capirne la situazione psicologica e cristiana. Se personalizziamo tanto il discorso papale, tentiamo di personalizzare anche quello dei suoi fans. Non mi stupisco affatto dell’emozione che si può provare a contatto col papa: in giovane età feci un’esperienza analoga con papa Paolo VI, per la verità lo vidi molto più da lontano e non potei nemmeno tentare di toccarlo o di salutarlo direttamente. Ricordo tuttavia la grande e indimenticabile sensazione che riportai. Non sottovaluto quindi questi rapporti.

Sarebbe però molto meglio ascoltare quanto papa Francesco dice e ripete: costituirebbe il miglior modo per rendergli omaggio. Dai gelidi riti ai bagni di folla: vorrei chiedere al papa se, tutto sommato, si sente più a disagio in san Pietro o in mezzo alla gente; se non desideri affibbiare una manata anche al suo cerimoniere che rompe le palle certamente più di quella donna pur invadente ed esagerata che sia stata.

Quante sciocchezze riesco a scrivere partendo da un fatto banale e marginale!? Peraltro mi sembra non sia la prima volta che Francesco ha un inconveniente del genere. Ma siamo sicuri che siano fatti da passare sotto silenzio o da affrontare con l’ironia e il sarcasmo degli scatenati social? Papa Giovanni ad una ragazza paralizzata confidò: “Come vorrei dire alzati e cammina, copiando il mio più illustre predecessore Pietro…”. La religione non è fatta di regole, di comandamenti, di precetti. È fatta di rapporti fra Dio e l’uomo o la donna e fra questi e gli altri. Anche la Chiesa, meglio dire la comunità ecclesiale, è fatta di rapporti, che non devono però diventare un red carpet vaticano.

 

 

La brutta copia di Penelope

Il messaggio augurale del presidente della Repubblica, anche e soprattutto per merito dei presidenti stessi, esce dalla retorica per affondare le parole nella carne viva del Paese. Sergio Mattarella al riguardo è un maestro, perché, con la massima discrezione e senza offendere alcuno, riesce a toccare i punti dolenti, offrendo però una percorribile e positiva via di fuga.

La sintesi di questo virtuoso atteggiamento l’ho trovata nella sua sobria, ma efficacissima, citazione di un episodio: “ Due mesi fa vicino ad Alessandria, tre Vigili del Fuoco sono rimasti vittime dell’esplosione di una cascina, provocata per truffare l’assicurazione. Nel ricordare – per loro e per tutte le vittime del dovere – che il dolore dei familiari, dei colleghi, di tutto il Paese non può estinguersi, vorrei sottolineare che quell’evento sembra offrire degli italiani due diverse immagini che si confrontano: l’una nobile, l’altra che non voglio neppure definire. Ma l’Italia vera è una sola: è quella dell’altruismo e del dovere. L’altra non appartiene alla nostra storia e al sentimento profondo della nostra gente”.

Purtroppo l’altra immagine che giustamente Mattarella esorcizza non accenna a scomparire, nemmeno a diminuire, ma continua imperterrita nella sua scriteriata ascesa. A poche ore di distanza dal messaggio presidenziale, arriva una notizia: “Capodanno tragico ad Ascoli Piceno. Un ragazzo di 26 anni è morto a seguito di una caduta a Colle San Marco. Secondo una prima ricostruzione, allo scoccare della mezzanotte, dopo il lancio di alcuni fuochi d’artificio che avevano innescato un principio di incendio nella sterpaglia, il giovane ha cercato di intervenire per evitare il propagarsi delle fiamme ma è caduto, precipitando per almeno cinquanta metri in una zona impervia. Le persone che erano con lui hanno immediatamente dato l’allarme e sul posto si sono precipitati Vigili del fuoco e sanitari del 118 che, dopo averlo raggiunto con difficoltà, a lungo hanno tentato di rianimarlo, senza successo. Il ragazzo era infatti in arresto cardiaco. Intorno all’1:50 ne è stato dichiarato il decesso”.

Non so se questo ragazzo fosse coinvolto nel lancio dei fuochi d’artificio o se stesse solamente assistendo alla scena. Fatto sta che è, come al solito, scoppiata la guerra dei botti e il relativo bollettino ci comunica che c’è scappato il morto: un giovane ha cercato, con un gesto coraggioso e generoso, di riparare un danno enorme che si stava generando. Da una parte c’è chi fa irresponsabilmente e colpevolmente il danno e dall’altra chi cerca disperatamente di mettere a posto le cose. Se le due parti sono riconducibili alla stessa persona, la questione diventa ancor più paradossale e inquietante.

Qualcuno dirà che sto esagerando facendo d’ogni erba selvatica un fascio inquinante e infestante: non si può assimilare l’abuso dei botti alle truffe, alla corruzione, alle manifestazioni razziste, all’odio sociale. Sono d’accordo, ma la mala pianta dell’irresponsabilità va estirpata, altrimenti “si propaga e si raddoppia e produce un’esplosione, come un colpo di cannone…” (la calunnia dal Barbiere di Siviglia di Rossini).

Bene ha fatto il presidente a portare degli esempi concreti, altrimenti le sue parole rischiano di essere sommerse da unanimi e opportunistici applausi e nella conseguente notte pseudo-buonista tutti i gatti diventano bigi. Il suo discorso ha ricevuto un’immediata e inopinata conferma: l’Italia-Penelope, che fa e disfa continuamente. O riusciamo a far prevalere, in tutti i campi e a tutti i livelli, l’Italia nobile o sprofondiamo nell’Italia ignobile. C’è chi si fa il mazzo per accogliere, aiutare, integrare e c’è chi irride a questi sforzi e deride chi soffre. Non è una visione manichea e caricaturale della realtà nazionale, è la nitida immagine di un Paese che ha urgenza di fiducia, coesione, senso civico e cultura del dialogo. Mattarella sta facendo egregiamente la sua parte, a noi toccherebbe darci una mossa nel solco da lui tracciato.

Si vis pacem, para pacem

Giornata mondiale della pace. Le giornate internazionali e nazionali suscitano sempre in me molte perplessità: un modo elegante per mettere a posto la coscienza. Passata la festa, gabbato lo santo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Tutti siamo d’accordo sulla pace salvo fare la guerra in famiglia, nel condominio, coi parenti, nell’ambiente di lavoro. Non riusciamo nemmeno ad essere in pace con noi stessi, figurarsi se possiamo predicare bene dopo aver razzolato così male. Meglio smetterla con l’ipocrisia e pregarci su.

Preferisco quindi trattare il tema della pace, riportando il testo di una bella preghiera a corredo della “Luce della Lampada della Pace dalla grotta della natività di Betlemme”. La propongo quale impegnativa adesione alla vera pace: “Pace! La Pace verrà e fiorirà dalle nostre mani se avrà trovato posto già dentro di noi. E verrà presto, domani, se sapremo fare nostre le necessità di chi vive o passa accanto a noi, se sapremo far nostro il grido degli innocenti, se sapremo far nostra l’angoscia degli oppressi. La pace verrà se avremo posto nella nostra casa per chi non ha un tetto o non ha patria. Se avremo posto nel cuore per chi non ha affetto o muore solo. Se avremo tempo nel nostro giorno per un disperato da ascoltare. La pace verrà se non cederemo alla provocazione, se sapremo sanare ogni divisione, se saremo uniti con tutti. La pace verrà e sarà il frutto più vero dell’unità, dell’armonia tra i popoli”.

Mi accorgo però di essere stato un po’ troppo religiosamente buonista e allora corro ai ripari e riprendo il pensiero di Emmanuel Mounier, filosofo cattolico, così sintetizzato da Emilia Bea: «La borghesia si è appropriata del cristianesimo convertendolo in una “religione utilitaristica”, in cui la fede, la speranza e la carità cedono il passo al gusto della sicurezza, dell’economia, della bella vita e dell’immobilismo sociale. Le virtù cristiane si degradano fino a convertirsi in una caricatura di loro stesse: l’allegria creativa si perverte in felicità conformista, la pace in semplice tranquillità e la pienezza in mera soddisfazione».

Poi abbiamo la discussione sulla differenza tra pace e pacifismo. La vera pace, si dice, non è debolezza, non è acquiescenza verso le prepotenze, mentre il pacifismo sarebbe un’astratta ed unilaterale rinuncia all’uso della forza per puntare tutto sulla rimozione preventiva delle vere cause che alimentano la violenza. Non riesco a capire se sono un uomo di pace o un pacifista. Una cosa so per certo, che sono d’accordo con mio padre e chiedo scusa se lo cito ancora. Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guéri?”.

Nel suo piccolo non era distante da quanto solennemente affermò Paolo VI il 04 ottobre 19165 davanti all’assemblea dell’Onu: “E allora il Nostro messaggio raggiunge il suo vertice; il vertice negativo. Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!”.

La storia fatta coi “se”

Nel bel programma di Rai storia “Passato e Presente”, per gentile concessione del conduttore Paolo Mieli, ci si può esercitare facendo la storia coi “se”. Divagazione pericolosa, ma invitante e interessante. Vista la inguardabile e sconfortante attualità, ho provato, nel mio piccolo, ad applicare questo spericolato criterio a due storie politiche: una riguardante la mia città, una relativa all’Italia e all’Europa.

Nel 1998 la sinistra dimostrava di avere il fiato corto nell’amministrazione comunale di Parma: la città era piuttosto imbalsamata e burocratizzata, si respirava la voglia di novità. Il grande Mario Tommasini capì l’umore dei parmigiani e cercò di interpretarlo candidandosi a sindaco col suo impareggiabile stile provocatorio ma propositivo, ponendosi al di fuori degli schemi e tentando un’operazione di forte rinnovamento. La sinistra non lo accolse, lo snobbò e preferì rimanere presuntuosamente ancorata al suo andazzo. La scelta costrinse Tommasini a rompere la sinistra ed a spianare involontariamente e indirettamente la strada alla candidatura di Elvio Ubaldi e alla cocente sconfitta della sinistra intestarditasi sulla riconferma del sindaco uscente Stefano Lavagetto.  Da allora a Parma per la sinistra non c’è più stato verso di risorgere a vita nuova anche perché le ragioni profonde della sconfitta non furono capite e metabolizzate e furono inanellati errori strategici e tattici, che hanno trasformato l’amministrazione comunale della nostra città in un perpetuo banco di prova del nuovismo a tutti i costi.  Se Mario Tommasini fosse stato unitariamente candidato dalla sinistra avrebbe stravinto e per Parma sarebbe cominciata una nuova storia.

Nel novembre 2014, col governo Renzi in auge, all’Italia spettava in sede europea di esprimere l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, una sorta di ministro degli esteri dell’UE. Il premier italiano Matteo Renzi era alle prese con i conflitti interni al partito democratico e tra gli oppositori più scapitanti al nuovo corso renziano vi era Massimo D’Alema, che tuttavia non nascondeva il suo interesse per il suddetto incarico, per il quale oltre tutto sarebbe stato molto adatto per preparazione, esperienza, personalità e capacità. Renzi aveva la possibilità di prendere due piccioni con una fava: portare un uomo di peso all’interno delle istituzioni europee dando un respiro notevole alla politica estera della UE e togliendo la comunità europea da un improprio ruolo comprimario sullo scenario internazionale; superare brillantemente la conflittualità interna, togliendo all’opposizione nel suo partito il protagonista principale. Preferì una dignitosa quanto insipida opzione: inviò in Europa Federica Mogherini, già ministro degli Esteri italiano, più o meno riconducibile a quel famigerato “giglio magico”, che ha segnato la storia renziana condizionandone il respiro strategico. Se Massimo D’Alema avesse ricoperto l’incarico di commissario europeo alla politica estera, avrebbe sicuramente svolto degnamente e da protagonista il suo compito per il bene di tutti e avrebbe tolto il disturbo a livello di partito democratico, rasserenando il clima di contrapposizione che si è rivelato sempre più deleterio nel tempo fino ad arrivare ad assurde e perdenti scissioni.

Nel 2018, all’indomani delle elezioni politiche, se M5S e PD avessero trovato un accordo simile a quello raggiunto nell’agosto/settembre 2019 forse ci saremmo risparmiati un anno e mezzo di malgoverno, uno scivolamento verso la destra estrema, i continui e inconcludenti litigi, una esasperazione del problema immigrazione, un tira e molla paralizzante, una deriva euroscettica, etc. etc. È pur vero che del senno di poi son piene le fosse, ma a volte può servire anche il senno di poi per recuperare un po’ di umiltà e di buon senso. Mi sono fatto questi strani ragionamenti in concomitanza con la vita piuttosto stentata del governo giallo-rosso: forse non ci saremmo arrivati senza la debacle pentaleghista e non è detto nemmeno che l’approdo sia quello giusto. Magari fra un po’ di tempo ci chiederemo: e se il governo tra M5S e PD non fosse nato e si fosse andati alle elezioni anticipate? La storia ha una sua concatenazione di avvenimenti, ma rileggerla con un po’ di assurde ipotesi a ritroso può anche servire. Aspetto con una certa ansia il risultato delle ormai imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e so già come sarà il quesito per continuare il giochino: “se” non fosse mai nato il governo giallo-rosso, il partito democratico, Stefano Bonaccini e la sinistra nel suo complesso avrebbero incassato un giudizio elettorale diverso?

 

Due cuori ministeriali e una capanna scolastica

Le riforme comportano sempre e comunque delle grosse difficoltà, quella della scuola si è dimostrata nel tempo al limite dell’impossibile. Ci hanno provato in tanti, fior di politici e di addetti ai lavori. Niente da fare. Da una parte mancano effettivamente le risorse, ma ci sono anche altre difficoltà quasi insuperabili, due barriere contro cui cozzano i tentativi di cambiamento: la corporazione degli insegnanti e il mondo studentesco.

Non so se lo spacchettamento ministeriale possa agevolare l’azione di governo in campo scolastico: certamente le problematiche sono alquanto diverse fra scuola in senso stretto da una parte e università e ricerca dall’latra parte, anche se non mancano i collegamenti e le interconnessioni. Non so neanche se le indubbie qualità dei prescelti a ricoprire gli incarichi ministeriali possano essere il sufficiente viatico per avviare processi innovativi e riformatori.

Collocare sulla poltrona di ministro per l’università il presidente dei rettori, con un curriculum che fa venire il mal di testa a leggerlo attentamente, dovrebbe almeno garantire la competenza ed esperienza indispensabili e basilari. Una laurea in Ingegneria nel 1988, poi dottorato, ricerca e cattedra: Manfredi da quel 110 e lode non si è più fermato. Dal 2014 è alla guida dell’università Federico II di Napoli, l’ateneo più grande del Mezzogiorno (scadenza del secondo mandato nel 2020) ed è presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) dal 01 ottobre 2015 (acclamato nel 2018 per un secondo mandato). Lasciamo stare il fatto che sul neo ministro della Università Gaetano Manfredi penda una accusa di falso come ingegnere collaudatore di case. Il processo non è mai stato istruito per una serie incredibile di contrattempi: l’udienza preliminare per stabilire l’eventuale rinvio a giudizio è stata fissata per il prossimo 5 febbraio 2020. La cosa non è simpatica, ma nemmeno drammatica e preclusiva.

Il discorso delle competenze vale anche per la scuola al cui ministero viene insediata Lucia Azzolina, 38 anni, due lauree, una in filosofia e l’altra in giurisprudenza, una vita passata sui banchi da docente e da sindacalista. Si è occupata, a livello di pratica forense, di diritto scolastico. È parlamentare dal 2018 ed è stata sottosegretaria al Miur, il ministero onnicomprensivo.

Purtroppo non è sufficiente avere il pedigree in ordine perché la politica non è un mestiere, ma un’arte. Tuttavia dopo aver letto i profili dei due nuovi ministri mi sono sentito un po’ rassicurato. Di tecnici che hanno fatto cilecca ne abbiamo visti parecchi, ma sono certamente più numerosi i fallimenti dei politici ignoranti e impreparati. Ragion per cui la speranza in questo caso è più che mai l’ultima a morire.

Sono sempre stato convinto che il mondo della scuola non lo facciano le leggi, i burocrati e i ministri, ma gli insegnanti e gli allievi. Forse sono rimasto indietro, ma ritengo che il tempo pieno richiesto ai docenti sia una precondizione di impegno e dedizione. Certo occorrerebbe anche pagare meglio gli insegnanti qualora si richiedesse da parte loro una scelta professionale assoluta.

Poi viene il discorso degli studenti, che fanno della scuola una sorta di libro dei sogni o di pantomima goliardica, e delle loro famiglie, che scaricano sulla scuola tutte le magagne educative possibili e immaginabili. Si devono incontrare due vocazioni: quella ad insegnare e quella ad imparare. Se non esistono questi presupposti etici la scuola funziona a scartamento ridotto. Non so come funzioni il sistema scolastico negli altri Paesi. Penso che a livello qualitativo l’Italia non sia da sottovalutare; forse scontiamo una certa debolezza strutturale ed economica. Se è così, nonostante tutto, i ministri qualcosa possono farlo e qualche risultato si può ottenere. Auguri!

Le donne donne del 2019

Le 50 donne del 2019: sia La Stampa che il Corriere della Sera si sono sbizzarriti alla ricerca del contributo femminile qualificante alla vita dell’anno che si sta concludendo. È già qualcosa di significativo che si parli di donne e non di uomini. Anche se i due quotidiani non hanno avuto molta originalità, resta il fatto che il mondo si sta tingendo di rosa: difficile valutarne le immediate conseguenze, opportuno ammettere come l’influenza sia piuttosto benefica e soprattutto, anche se non del tutto, anticonformista.

Sono da sempre un estimatore accanito ed un ammiratore totale della donna, spero nei suoi carismi e nelle sue qualità per un cambiamento positivo della nostra società a tutti i livelli, temo però che sia sempre presente e strisciante il pericolo di omologare i valori della femminilità a quelli della mascolinità. Per dirla brutalmente temo che la donna stia facendo una giusta battaglia col rischio tuttavia di puntare e di ottenere più facilmente la parità dei difetti rispetto a quella dei diritti. Se è infatti vero che le donne hanno carattere e personalità per proporre il loro modo di essere e di vivere, è altrettanto vero che le sirene maschiliste sono sempre in agguato e la tentazione di fare il verso al maschio è sempre forte.

A distanza di quasi trent’anni ripropongo di seguito alcuni passaggi di quanto ebbi a scrivere quale omaggio ad alcune donne riconducibili alla storia vera, non quella dei calendari, dei rotocalchi e dei media, ma quella di tutti i giorni, in stile eticamente provocatorio ma sinceramente e seriamente estimatorio.

“Comincio, se volete, da lontano, indirizzando un affettuoso ricordo a mia nonna materna: rimasta vedova a trentacinque anni nel 1918, con otto figli, la più grande aveva tredici anni, la più piccola forse non era ancora nata, ha saputo tenere unita la famiglia, educare i figli con rigore, infondere in essi il senso del dovere e lo spirito di sacrificio. In essa voglio sottolineare la vera «emancipazione», fatta di coraggiosa assunzione di responsabilità.

Mi viene più che spontaneo rivolgere il pensiero a madre Teresa di Calcutta, una donna che ha saputo mettere la propria femminilità a servizio dei deboli e degli ultimi. In lei vorrei celebrare la «bellezza» della donna, proprio in quel volto rugoso e irregolare ed in quel corpo minuto e curvo.

Un terzo ricordo lo vorrei rivolgere alle monache di clausura nel cui monastero di Parma spesso mi reco a pregare con la liturgia delle ore. In esse celebro la «femminilità», quella autentica, fatta di dolcezza e di sensibilità unite a coraggio e coerenza.

Un ultimo pensiero alle donne «cooperatrici», a tutte le donne impegnate col proprio lavoro nelle cooperative dei vari settori, agricole, di servizi, di assistenza etc. Nelle cooperatrici vedo la «parità», fatta di impegno e di partecipazione”.

Quanti rimbrotti ebbi da amiche e colleghe! Sono ancora sostanzialmente di quel parere a costo di fare la figura del retrogrado; continuo imperterrito a correre il rischio della retorica. Incontrai allora molte critiche da chi non voleva capire lo spirito con cui avevo scritto quelle riflessioni. Forse oggi dovrei cambiare gli esempi rendendoli un po’ più attuali, ma il senso rimane quello: una donna diversa per un mondo diverso. Non sto a passare in rassegna l’elenco sciorinato per il 2019 dai giornali di cui sopra: probabilmente c’è molta più attenzione alla sostanza del vivere femminile rispetto alla forma dell’apparire. Mi accontento e mi associo.

Concludo affermando di essere, in fin dei conti, perfettamente d’accordo con Alda Merini:

“Ci sono le donne. E poi ci sono le donne donne. E quelle non devi provare a capirle, sarebbe una battaglia persa in partenza. Devi prenderle e baciarle, e non dare loro il tempo di pensare. Devi spazzare via, con un abbraccio che toglie il fiato, quelle paure che ti sapranno confidare una volta sola, una soltanto, a bassa, bassissima voce. Perché si vergognano delle proprie debolezze e, dopo avertele raccontate, si tormenteranno in un’agonia lenta e silenziosa al pensiero che, scoprendo il fianco, e mostrandosi umane e fragili e bisognose per un piccolo fottutissimo attimo, vedranno le tue spalle voltarsi e i tuoi passi allontanarsi. Perciò prendile e amale. Amale vestite, che a spogliarsi son brave tutte. Amale indifese e senza trucco, perché non sai quanto gli occhi di una donna possano trovare scudo dietro un velo di mascara. Amale addormentate, un po’ ammaccate quando il sonno le stropiccia. Amale sapendo che non ne hanno bisogno: sanno bastare a se stesse. Ma, appunto per questo, sapranno amare te come nessuna prima di loro”.

Le “barigole” natalizie

Il Parlamento, con il solito dibattito sospeso fra l’ostruzionismo delle opposizioni e la voce grossa della maggioranza, ha varato in extremis, all’antivigilia di Natale e con qualche aggiustamento, la legge finanziaria che regola la politica economica del Paese, proposta dal governo Conte II. La manovra approvata stanotte “è carbone sotto l’albero per le imprese e le famiglie italiane, speriamo sia l’ultima manovra di questo governo”. Lo ha detto il segretario della Lega, Matteo Salvini, arrivando all’ospedale pediatrico Buzzi di Milano per la consegna dei regali ai piccoli pazienti ricoverati. Lui chissà cosa avrebbe fatto. L’anno scorso era in sella e fece solo disastri, ma la gente se ne è dimenticata. Quest’anno chissà quali giochi di prestigio ci avrebbe regalato. Probabilmente, invece di colmare il buco dei 23 miliardi per evitare l’aumento dell’iva, si sarebbe sbizzarrito con la flag tax, la tassa uguale per tutti, che toglie ai poveri per dare ai ricchi. Oppure avrebbe potuto fare in grande e politico stile quanto ha fatto un simpatico ladro americano.

Con lui è arrivata la concreta versione riveduta e scorretta di Robin Hood o forse quella di Babbo Natale. Un uomo con una barba bianca e sopra i 60 anni ha rapinato una banca e poi ha lanciato in aria il bottino, augurando “Merry Christmas” ai passanti. È successo negli Stati Uniti, dove la polizia del Colorado ha confermato che un “uomo bianco, anziano” ha rapinato la Academy Bank, a Colorado Springs, lunedì, dopo aver minacciato i dipendenti della filiale con un’arma non identificata.

L’attempato discutibile benefattore ha lasciato lungo il suo cammino di fuga una somma non specificata di denaro. “Ha iniziato a tirare fuori i soldi dalla borsa e a dire ‘Buon Natale'” ha riferito un testimone ad una emittente locale. Il rapinatore è stato arrestato poco dopo in uno Starbucks vicino alla banca. Non era però armato. Alcuni passanti che avevano ricevuto il ‘regalo’ del generoso ladro hanno cercato di restituire i soldi alla banca, ma la polizia ha fatto sapere ai media locali, che mancano ancora migliaia di dollari.

Fin qui la cronaca, poi ricordo una barzelletta. Il cavaliere Silvio Berlusconi, informato su una manifestazione dei no-global, decide di andare a vedere di persona il numero dei presenti. Sale sul suo elicottero personale con la moglie ed il figlio. Arrivato a destinazione nota che la piazza è popolata da circa 300.000 persone. Ad un certo punto esclama: “Quasi quasi butto giù una banconota da 100 euro così faccio felice una persona.” La moglie allora gli dice: “Che pensiero carino, Silvio. Ma perché non ne butti giù 2 da 50 euro cosi ne fai felici 2 di persone!”. Il figlio allora esclama: “Ma, papà, perché non ne butti giù 5 da 20 euro, cosi ne fai felice 5 di persone?”. A quel punto si gira il pilota dell’elicottero e dice:
“A cavalié, ma perché nse butta lei, così ne fa contente 300.000 di persone??!!”. Ma Berlusconi è superato, adesso abbiamo Salvini, tutt’altra (peggiore) cosa…

Qualcosa del genere è capitato anche a me. Ero in odore di cambiare posto di lavoro. Un carissimo amico mi consigliò di farmi pagare bene, visto l’interesse verso la mia esperienza professionale. Conoscendo il mio atteggiamento piuttosto distaccato rispetto al denaro, aggiunse: “Semmai il di più, se proprio ti darà fastidio, lo potrai buttare dalla finestra…”. Un altro amico a cui raccontai la faccenda, mi interruppe vistosamente dicendomi: “Prima di buttare il denaro, ricordati di chiamarmi: io arrivo subito e mi metto sotto la finestra”.

Quando ai tempi della mia infanzia si giocava a figurine, poteva capitare che un ragazzo volesse disfarsi del pacchetto accumulato, per noia o per scelta di altra raccolta. Cosa succedeva? Si metteva in mezzo a un gruppetto di coetanei e lanciava in aria le figurine al grido di “barigola”. Non ho mai capito cosa significasse quella parola. Non è un termine dialettale. In francese si dice “barigoule”: un ripieno a base di funghi, lardo e cipolle. Probabilmente voleva dire sbarazzarsi di qualcosa su cui altri erano pronti ad avventarsi. Una “goduta” per chi disperde e per chi accumula, un’abbuffata per modo di dire. Non è forse così anche nelle maratone televisive di beneficenza in cui ci si diverte ad accumulare finti tesori, si gioca a monopoli o alla tombola, convinti di aver fatto del bene, mentre si fa soltanto del pietismo bello e buono. Almeno quel ladruncolo americano è stato originale e provocatorio…