Le penne sparpagliate dai voltagabbana

Due notizie si sovrappongono in ordine alle prossime elezioni regionali in Calabria. Quattro candidati del centrodestra, consiglieri uscenti in corsa per un nuovo mandato, ed un consigliere del centro-sinistra non ricandidato sono stati condannati dalla Corte dei Conti per danno erariale e dovranno restituire oltre 500mila euro per uso improprio dei fondi destinati ai gruppi consiliari.

I diretti interessati, soprattutto quelli impegnati in campagna elettorale, hanno gridato allo scandalo, sostenendo che non si tratta di spese da essi sostenute, ma di cifre attribuite ai gruppi consiliari e di cui non si è fatto alcun utilizzo. Non ho elementi e voglia per entrare nel merito. Effettivamente la Corte dei Conti poteva anticipare o posticipare la sua decisione in modo da non farla coincidere con la campagna elettorale: sono finezze a cui la magistratura non è tenuta, ma dovrebbero rientrare nei rapporti corretti fra politica e giustizia. Si vedrà come andrà a finire: da una parte occorrerebbe più rigore e attenzione da parte dei consiglieri, dall’altra mi sembra che si stia esagerando nel passare al microscopio i rimborsi spese per i quali molto spesso è difficile verificare la correlazione con lo svolgimento del proprio mandato amministrativo.

La seconda notizia è che, sempre in Calabria, transfughi in uscita da sinistra e destra hanno trovato porte spalancate. In due casi si tratta dei condannati di cui sopra, ma il fatto non è rilevante. Rilevante invece è che alcuni politici calabresi cambino partito e schieramento politico con la disinvoltura con cui si cambia camicia. Non stupiamoci poi se i calabresi si asterranno dal voto.

I voltagabbana sono sempre esistiti. Un simpatico amico di mio padre, un anti-ipocrita per eccellenza, non sopportava la falsità e l’opportunismo. Quando alcuni comunisti del giorno dopo ostentavano questa loro scelta di campo politico e dimostravano un certo accanimento in tal senso, non si faceva pregare e li sbugiardava regolarmente sbattendo loro in faccia la scomoda verità: «Sta miga fär tant al comunista, parchè a t’ sér in-t-la milissia fascista con mi…». Spegneva così i bollenti spiriti di parecchi voltagabbana.

Siamo quindi in presenza di un male antico, che, tuttavia, non giustifica certi comportamenti spregiudicati e allegri come i cambi di casacca dell’ultima ora, tanto per rimanere a galla. Delle due notizie sopra riportate, andando magari contro corrente, giudico certamente assai più grave la seconda. Mi scandalizza di più un opportunistico cambio di partito che un eventuale utilizzo “spensierato” di fondi pubblici per coprire spese “non perfettamente rientranti” nello svolgimento del ruolo di amministratore pubblico.

Chiedo scusa se mi dilungo. Mentre il furtarello politico può essere metabolizzato anche se va punito, l’incoerenza politica crea un disastro perché è la negazione della politica stessa, distolta dai valori e legata agli interessi del momento. Il voltagabbanismo crea danni irreparabili nei rapporti fra i cittadini e la politica. Non voglio fare del moralismo spicciolo riportando al riguardo un episodio che si attaglia alla severa condanna di certi comportamenti. È più facile restituire un rimborso non ammesso che ripristinare il circuito virtuoso fra elettore ed eletto.

A una donna che si accusava di frequenti maldicenze, San Filippo Neri domandò: “Vi capita proprio spesso di sparlare così del prossimo?”. Molto spesso, Padre”, rispose la donna. “Figliola, il vostro errore è grande. È necessario che ne facciate penitenza. Ecco cosa farete: uccidete una gallina e portatemela subito, spennandola lungo la strada da casa vostra fin qui”. La donna ubbidì, e si presentò al santo con la gallina spiumata. “Ora”, le disse Filippo, “ritornate per le strade attraversate e raccogliete ad una ad una le penne della gallina…”. “Ma è impossibile, Padre”, ribatté la donna; “col vento che tira oggi non si troveranno più”. “Lo so anch’io”, concluse il santo, “ma ho voluto farvi comprendere che se non potete raccogliere le penne di una gallina sparpagliate dal vento, come potrete riparare a tutte le maldicenze gettate in mezzo alla gente, a danno del vostro prossimo?”.

 

 

La tentazione del non decidere

Sembra che il tormentone dei rapporti fra lo Stato e la concessionaria società Autostrade si stia concludendo con la revoca. Il problema è sorto all’indomani del crollo del ponte Morandi a Genova, che ha causato la morte di 43 persone, oltre a 566 sfollati e danni enormi da tutti i punti di vista. A questo catastrofico evento ne sono succeduti altri di modesta entità, ma in una concatenazione che dimostrerebbe una colposa carenza di controlli e di manutenzione sulle strutture la cui gestione viene data in concessione ai privati.

Non si è capito e forse non si capirà mai fino in fondo se le indiscutibili carenze siano la causa vera e propria del crollo e a chi facciano capo tali inadempienze: certamente qualcuno ha agito male, mentre la situazione delle strutture stradali si sta rivelando un autentico colabrodo.

Sono molti i problemi conseguenti: dalla validità delle scelte di privatizzazione alla impostazione delle concessioni, dai controlli al rispetto degli obblighi contrattuali. Al di là di tutto e senza voler scaricare tutte le colpe su un capro espiatorio, credo che, come ha dichiarato il premier Giuseppe Conte, la revoca della concessione alla società Autostrade si imponga quale misura inevitabile: una sorta di punto e a capo per impostare il futuro su basi più serie e credibili in un settore delicatissimo e importantissimo.

Il discorso della revoca comporta tuttavia una serie di conseguenze dal punto di vista giuridico ed economico. Al danno dei crolli rischia di aggiungersi la beffa dei risarcimenti per la risoluzione dei contratti: non ho capito fino a che punto la revoca sia giustificata da provati inadempimenti, emergenti dal dossier elaborato dalla commissione d’inchiesta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Da una parte l’analisi tecnica delle responsabilità non lascerebbe dubbi, ma esistono perplessità sulla ricaduta finanziaria delle penali e sulle conseguenze di un prevedibile contenzioso legale. La società Autostrade andrebbe in crisi se non in fallimento con ricadute negative anche dal punto di vista occupazionale.

Si tratta di una patata bollente nella pentola dell’attuale governo e c’è l’impressione che se la stiano passando di mano in mano in modo smaccatamente strumentale. Mentre posso intuire le perplessità sul piano giuridico, non riesco a capire le titubanze politiche. Posso convenire che suonino come demagogici i proclami epici di Luigi Di Maio quando afferma che «non si devono più fare profitti sulle nostre autostrade, mettendo a rischio la vita di molti italiani»: sono parole che dicono tutto e niente, buttate solo per cercare una contromisura populistica per i propri insuccessi governativi. Di qui a coprire tutto sollevando il solito polverone la distanza è abissale e inaccettabile.

Qualcuno sventola il rischio che gli italiani debbano pagare risarcimenti miliardari per una gestione pressapochista dei rapporti giuridici in essere: può anche essere, e allora? Mi sembra che le posizioni siano sostanzialmente due: chi vuole la revoca a prescindere e chi la vuole rigidamente collegare alle pronunce legali e giudiziarie. Non invidio la ministra delle Infrastrutture che, infatti, sembra si stia spazientendo di fronte ai tentennamenti vari, in primis quelli del suo partito. Si arrivi a decisioni serie e motivate e ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Mi sta bene e posso capire dubbi e incertezze, ma mi fa letteralmente schifo chi, data ormai per scontata la revoca della concessione, si pone il problema dell’opportunità di uscire con la notizia prima o dopo il voto in Emilia-Romagna. Sono atteggiamenti che squalificano la politica in modo irreversibile. Non chiediamoci poi perché aumentino sfiducia e qualunquismo nei cittadini.

Alla sporca ricerca di un antipapa

Da credente ho sempre pensato che l’intervento dello Spirito Santo sulla Chiesa potesse essere razionalmente spiegato nello stile particolare con cui si discute (troppo poco) e si decide (troppo lentamente), nella capacità di andare oltre i normali schemi conflittuali mettendo le idee a servizio del bene comune.

Mi sto sbagliando di grosso, perché la contrapposizione all’interno della Chiesa sta prendendo una brutta piega a tutti i livelli. Il papa emerito (e già la definizione la dice lunga) non riesce a tacere e presta il fianco a capziose strumentalizzazioni; la gerarchia è divisa tra chi difende a denti stretti la tradizione e gli assetti di potere e chi sta cercando di scompigliare le carte introducendo metodi e contenuti innovativi col Vangelo alla mano; il clero si comporta in modo piuttosto omertoso, ma soffre anch’esso di nette divisioni pastorali, tra l’asettica e neutrale proposizione della fede e la coraggiosa e concreta intromissione nel mondo; il laicato è ancor più insensatamente diviso  tra una religiosità identitaria e simbolica e una testimonianza forte  e impegnata.

In mezzo a questa crescente bagarre papa Francesco, protagonista principale ma non isolato di un nuovo corso ecclesiale, può contare su un consenso popolare enorme più all’esterno che all’interno della Chiesa in senso stretto, ma deve fare i conti in casa con spinte a lui contrarie, che tendono ad assumere vieppiù i connotati di congiure di palazzo. Ogni tanto partono siluri ben architettati volti a calunniarlo, squalificarlo, combatterlo in nome di una pretestuosa fedeltà dottrinaria: il gioco è piuttosto scoperto, anche se si ammanta di argomenti civetta e finisce col preparare vere e proprie trappole.

Ultimo discorso in ordine di tempo: il celibato sacerdotale difeso in modo insensato, quale trincea di una sporca guerra per tenere la religione avvinghiata al potere interno (curia vaticana) ed esterno (sovranismi e nazionalismi vari ed eventuali). Per non parlare di sacerdozio femminile, di ruolo della donna nella Chiesa, di morale sessuale e matrimonio, di omosessualità e coppie omosessuali: ho la netta impressione che in realtà di questi argomenti non freghi niente a nessuno. L’obiettivo vero è quello di creare una cittadella dogmatica per difendere l’assetto di potere clericale e reazionario. Le lotte intestine sono fortissime negli Stati Uniti, ma non si scherza anche in Europa ed in Italia.

Il papa, al di là dello Spirito Santo che dovrebbe soffiare a suo favore (altrimenti non si capirebbe perché lo abbia portato al soglio pontificio), ha due possibilità. La prima è quella di lasciarsi condizionare, di scendere a patti, di compromettersi con gli avversari, di ammorbidire le sue convinzioni e annacquare le sue direttive. La seconda è quella di accelerare, di andare avanti spedito, di istituzionalizzare le novità, di fare squadra a tutti i livelli con chi ci sta, di non farsi impressionare dai tira e molla della falsa ubbidienza, di spingere sulle ruote comunitarie spezzando i bastoni curiali, di concentrarsi su alcune piste e percorrerle fino in fondo.

Il problema non è Ratzinger, che, tutto sommato, penso sia in buona fede e sia volgarmente strumentalizzato, fino a rischiare l’investitura di antipapa-marionetta. Non merita di finire così: se mantiene, come sembra, la lucidità, si renda conto e si tiri fuori radicalmente dalla vomitevole mischia in cui lo stanno trascinando. Il punto dolente è l’isolamento interno di cui soffre papa Francesco: lui deve sforzarsi di comportarsi da leader, che individua e valorizza le risorse umane a lui vicine; i suoi sostenitori, a tutti i livelli, devono rinserrare le fila ed aiutarlo in una battaglia assai dura, giocata contro di lui senza esclusione di colpi. Evidentemente papa Francesco sta toccando nella carne viva di una Chiesa sporca in tutti i sensi. Hanno paura di lui e lui non deve aver paura. Guai a cedere. Se guerra ha da essere, guerra sia in senso evangelico. Franceso deve mobilitare le sue truppe (i poveri, gli emarginati, i migranti, i divorziati, le donne, gli omosessuali sinceri, i volontari della carità, etc. etc.), anche se sarà uno scontro impari contro le truppe dei trumpiani, dei salviniani, dei tradizionalisti del cavolo, dei baciapile, etc. etc. Sono curioso di vedere da che parte starà lo Spirito Santo!

I cani e i gatti della democrazia

Dell’Emilia-Romagna forse non se ne è mai parlato tanto così a sproposito. Siamo diventati nostro malgrado la prova del nove della moltiplicazione dei voti alla Lega di Salvini e di conseguenza gli arbitri dell’attuale precario equilibrio governativo. Tutti aspettano il risultato delle urne delle prossime elezioni regionali, in particolar modo di quelle di una fondamentale regione come l’Emilia. Ci dovremmo sentire onorati di avere gli occhi addosso di tutti, in realtà stiamo facendo da cavia per arginare l’ondata sovranista e per recuperare la storia della sinistra. Ci viene buttata addosso una eccessiva responsabilità e temo che, comunque vada, resteremo e resteranno tutti delusi. Un illustre ed autorevole personaggio, di cui non ricordo il nome, sosteneva che la democrazia inizia il giorno dopo delle elezioni.

Sarà senz’altro così anche il 27 gennaio prossimo. Se dovesse disgraziatamente vincere, anche di strettissima misura, la finta candidata leghista capace solo di reggere il lume a Salvini, molto probabilmente ci incammineremmo in una ulteriore campagna elettorale nazionale e mi spaventa non tanto la prospettiva di un trionfo della destra, ma la messa in liquidazione della politica a favore di uno strisciante regime pseudo-fascista di cui si intravedono i contorni.

Se dovesse, me lo auguro con tutto il cuore, prevalere l’uscente governatore, esponente della pragmatica sinistra del buongoverno, si andrà avanti nel traccheggiamento del governo giallo-rosso al fine di evitare, giustamente anche se fino ad un certo punto, elezioni politiche che potrebbero comunque consegnare il Paese alla peggior destra possibile.

Elezioni per fare o per evitare altre elezioni: non mi sembra sinceramente una bella prova democratica. Non si vede cosa c’azzecchi l’Emilia-Romagna, non si nota cosa c’entrino i reali problemi del Paese, non si capisce come e dove evolva la politica italiana. Siamo chiamati a scegliere fra il certo e l’incerto: il certo di un modo democratico, anche se discutibile e migliorabile, di governare e l’incerto di un modo antidemocratico, anche se illusoriamente appetibile, di cambiare le carte in tavola. Da una parte c’è una criticabile fin che si vuole proposta di continuità, dall’altra parte c’è una volatile e velleitaria promessa di discontinuità. Sembra che l’esito della gara sia incerto e già questo è un fatto clamorosamente negativo: che in una regione come l’Emilia, con il passato e la tradizione politica che si ritrova, la sinistra rischi di vincere o perdere al fotofinish contro una signora nessuno che lavora per un signor qualunque, è una follia che non avrei mai più immaginato. Sono messi in discussione i fondamentali: come se in una partita di calcio non si riuscisse a capire se si gioca con le mani o con i piedi.

Siamo caduti in basso? E non è ancora finita. Ecco perché giudico pericoloso e sbagliato mordere il freno su queste strane elezioni regionali. Il mondo e l’Italia non finiscono e non cominciano il 26 gennaio. Cerchiamo di avere il senso delle proporzioni e non esageriamo il significato di un pur importante voto. Bene hanno fatto le sardine a reagire contro un andazzo che rischiava di trasferirci al di fuori dei confini democratici, ma attenzione a non accontentarsi di segnare il territorio democratico come fanno i gatti e di scongiurare il pericolo di essere sbranati dai cani. Il governo quindi fa malissimo a rinviare tutto al dopo elezioni. Quando una scadenza viene così impropriamente enfatizzata, mi viene la tentazione di snobbarla. Stavolta però non lo posso fare. Andrò a votare, non perché ci sia in ballo il futuro della democrazia, che è ormai in ballo da diverso tempo, ma perché occorre riprendere il filo della democrazia, pescando nei problemi e nei valori che la mia regione, nonostante tutto, riesce ancora a consegnarmi.  Votare per ricominciare comunque a fare politica dal giorno dopo.

 

In punta di scarpette

Il sant’Ilario 2020 passerà alla storia come la festa patronale della capitale della cultura. Ebbene, con tutto il rispetto e l’attenzione per la cultura passata, presente e futura di Parma e proprio per privilegiare la sofferta sostanza oltre la compiaciuta forma,  ho preferito tornare indietro per andare a rivedere cosa ho scritto in passato e ho trovato un pezzo risalente al 2010, che ripropongo di seguito, intitolato “Il mio sant’Ilario, vuoto di cerimonie e pieno di commozione”.

Cara Fathia,

ti scrivo nel giorno di Sant’Ilario, patrono della mia città, Parma, piuttosto vicina e, per certi versi, simile a quella dove vivevi tu, Mantova (per la verità Acquanegra in provincia di Mantova, ma cambia poco).

Oggi, come mio solito, non ho partecipato alle celebrazioni previste per questa ricorrenza perché ad esse sono quasi allergico, anche a quelle religiose, non mi interessano i premi e i loro destinatari, so già, più o meno, quanto diranno le autorità, sindaco in testa, vomitandoci addosso i loro vuoti programmi. Ti confesso di essere sempre meno attratto dalla politica nei suoi assurdi riti e nelle sue parodistiche liturgie e sempre più attento alle vicende delle persone, le donne in particolare.

Tu non lo sai Fathia, io sono uno scrittore, da strapazzo, ma i sentimenti e le emozioni mi riempiono la vita fino a rischiare di farmi soccombere. Ho vissuto questa giornata festiva pensando insistentemente a te al punto da decidermi a scriverti queste poche righe. La tua morte non mi ha solo colpito, mi ha sconvolto: ho evidenziato la notizia, ho ritagliato il foglio di giornale in cui compariva con l’intento di conservarlo. Non riesco a rimuovere questa vicenda dal mio animo ed allora mi sono seduto vicino a te ed ho cominciato questa breve lettera.

Avevi, anzi hai, 43 anni: sei una donna marocchina con una figlia di 5 anni, abiti assieme a questa bimba in una palazzina comunale e lavori facendo pulizie alle dipendenze di una cooperativa. Non stai bene, ma non puoi permetterti il lusso di curarti perché temi di perdere il posto di lavoro.

Pensa Fathia: nel nostro paese c’è l’idea che gli immigrati siano degli scansafatiche, carne usa e getta, dei soggetti violenti e stupratori, delle bestie da soma adatte ad essere sfruttate ben bene sul lavoro e poi macellate oppure rinchiuse in un serraglio oppure rimandate nei loro paesi d’origine. La tua salute è precaria al punto da essere colta da malore e crollare ai piedi del letto. Della tua morte se ne accorgeranno dopo alcune ore.

Pensa Fathia: definiamo le nostre città luoghi dove si vive bene, dove il benessere raggiunge alti livelli. Nel tuo condominio non si sono nemmeno accorti che stavi male e che sei morta, in silenzio, senza disturbare.

Pensa Fathia: ci riempiamo la bocca di stato sociale ed assistenziale e nessuno si era fatto carico di darti una mano, dal momento che vivevi separata dal tuo uomo, magari qualcuno pensava tu fossi una donna “poco seria”: che schifo di società, ipocritamente borghese, vomitevolmente moralista, profondamente razzista, sostanzialmente ingiusta. Tua figlia ti ha vegliato per diverse ore, forse non eri morta sul colpo ma nessuno ti ha soccorso, solo la tua piccola creatura ha avuto il coraggio e la discrezione di starti vicina. Ai tardivi e penosi soccorritori questa bimbetta ha sussurrato: «Dorme…». Ti confesso che leggendo questo particolare sono scoppiato a piangere.

Pensa Fathia: il nostro Ministro della Pubblica Istruzione, una giovane donna, vuole porre un limite all’inserimento a scuola, assieme agli altri, dei bambini extracomunitari, roba da farmi vergognare davanti a te ed a tua figlia, roba da…, mi fermo perché direbbero che istigo alla violenza. L’articolo di giornale cui faccio riferimento si concludeva con queste parole: “Il paese intanto si è mobilitato per sostenere la bambina, con doni, dolci e carezze, in modo che si senta meno sola”.

Pensa Fathia come siamo buoni con i bambini soli, come ti vogliamo bene, quale cuore grande abbiamo… Non proseguo perché della mia ironia non saprai che fartene. Ti voglio dire solo due cose. Innanzitutto sono sicuro che il Padre Eterno, il tuo Dio, non mi interessa di quale religione tu fossi, sarà sceso dal trono, ti sarà venuto incontro con le lacrime agli occhi, ti avrà abbracciato ed accarezzato a non finire. Tu però gli avrai chiesto: «E la mia bambina?» E Dio ti avrà risposto: «Stai tranquilla ci penso io!». In effetti solo di Lui ti puoi fidare. La scena me l’ha raccontata Sant’Ilario, giustamente più attento ai tuoi drammi che ai nostri “bagordi”, e gli credo perché era un uomo di chiesa molto serio. Ed infine permettimi di confessarti con un po’ di imbarazzo e con le lacrime agli occhi: «Mi sto innamorando di te. Hai 43 anni, io ne ho 60, c’è una certa differenza, ma… Sì, perché sei molto bella, sei veramente meravigliosa!»

Per qualche post in più

Ricordo che mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi diceva: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Tutto più o meno così ed è così, in forme e modi più moderni ma forse ancor più imponenti e subdoli, anche oggi.

A suo modo lo ha fatto Silvio Berlusconi, lo sta facendo la Lega di Matteo Salvini con la cosiddetta “Bestia”, la macchina social guidata dagli esperti del mondo virtuale. Per la verità anche il movimento cinque stelle non è da meno nel costruire e organizzare il consenso usando le reti. Fino a quando questi meccanismi infernali possano funzionare non è dato sapere. Prima o poi la gente apre gli occhi, ma nel frattempo cosa succede? E cosa serve per togliere le fette di prosciutto dagli occhi dei cittadini? Occorre qualcosa di traumatico (come insegna la storia) o basta inserire qualche granellino di sabbia negli ingranaggi della facile raccolta del consenso?

A margine di queste tristi considerazioni resta un profondo sconforto per l’incapacità della democrazia ad arginare simili fuorvianti fenomeni mediatici. D’altra parte non ci si può rinchiudere in una sorta di “talebanismo democratico”, ma urge saper coniugare i principi democratici con i meccanismi moderni della raccolta e della gestione del consenso. Non mi sento nemmeno di teorizzare la gufata strumentale basata sugli incidenti di percorso dei protagonisti sulla cresta dell’onda.

Mi spiego con un esempio riguardanti il salvinismo imperante.  In un video inviato in un gruppo su Whatsapp e poi diffuso sul web, Alfio Baffa, candidato della Lega al consiglio regionale della Calabria, si filma mentre è nella vasca fumando un sigaro e bevendo rum.  Il video, che imbarazza Salvini, è stato registrato in un albergo di Roma. Baffa fuma un sigaro e sorseggia rum. “Cari amici del gruppo revenge porn, volevo fare un saluto da Roma dopo la manifestazione di Salvini”, dice nel filmato invitando gli amici a fare un brindisi.

Dopo che il video ha fatto il giro della rete Baffa ha scritto un post su Facebook: «In merito al video che mi sta rendendo famoso mi chiedo: un bagno in vasca fa notizia perché i candidati delle altre liste non sono molto “puliti”? O forse è una questione di buon gusto? Perché in quel caso ci tengo a scusarmi: non si può bere del rhum in un bicchiere di plastica! Che un video mandato goliardicamente a qualche amico potesse finire sulle testate nazionali non me lo sarei mai aspettato, ma grazie a questo video avrò qualche vecchio amico in meno ma tanti nuovi amici in più che stanno esprimendo solidarietà per questo sciacallaggio».

Da un certo punto di vista non ha tutti i torti, ma chi di post ferisce di post perisce. Difficilmente Salvini di questo episodio se ne potrà fare un Baffa. Per la Bestia leghista può essere una buccia di banana? Forse sì, ma non si può giocare di rimessa fino a questo punto, aspettare l’incidente di percorso. È inevitabile che prima o poi chi si loda s’imbrodi. Bastano questi infortuni a smascherare gli inganni? A volte basta poco per mettere in crisi un successo superficiale e temporaneo, ma non ci si deve illudere.

Torno allo spaccato storico da cui sono partito. Mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie. Anche oggi occorre coraggio, lo stesso coraggio per contrastare tatticamente e strategicamente l’avversario politico che, con mezzi più o meno sofisticati e moderni, si trasforma in uomo di regime. Bisogna cioè saper usare lo “stómbel”! Sapete cos’è? Un pungolo, un bastone appuntito per spronare i buoi. E i social non ci stanno forse relegando a popolo bue…

 

 

I valori in caduta libera

Stando ai soliti inconcludenti sondaggi, il 2019 sarebbe l’anno durante il quale il consenso ai leader politici ha subito un generalizzato notevole calo. Tutti, chi più chi meno, hanno un indice di gradimento in discesa. L’eccezione che conferma la regola sarebbe costituita da Giorgia Meloni: è tutto dire… I dati in questione non sorprendono, se si considera il quadro politico in continuo subbuglio, tra cambi di governo, cambi di maggioranze, scissioni, battaglie intestine, balletti parlamentari, etc. Se poi a questo andazzo poco edificante aggiungiamo la scadente qualità del personale politico, la frittata è più che fatta. Alla personalizzazione della politica, che vorrebbe rimediare allo sfaldamento ideale, fa riscontro una penosa levatura dei presunti leader, i quali di carismatico hanno soltanto la capacità di abbassarsi al livello culturale della gente in una inquietante spirale al ribasso.

Di fronte ad un simile panorama, percepibile al di là del sondaggismo imperante, c’è di che essere più sconfortati che preoccupati. Non so se a monte o a valle ci sta un vero e proprio tracollo etico, camuffato dalle paure, ma in realtà motivato da un vuoto culturale provocato dal venir meno di tutte le entità educative, dalla famiglia alla scuola, dalla parrocchia al sindacato, dal partito all’associazione imprenditoriale e professionale. Una società vecchia, chiusa, ignorante e disperata. Ogni giorno si hanno riscontri egoistici al limite del razzismo, qualunquistici al limite del fascismo, sovranisti al limite del nazionalismo, populisti al limite dell’autoritarismo.

Il quadro è deprimente. Non bastano certi apprezzabili, ma tutto sommato elitari, rigurgiti volontaristici a mutare la situazione di fondo. In questi giorni ho ascoltato una semplice ma incisiva omelia, che giustamente teorizzava la necessità a livello religioso di entrare in rapporto costruttivo col mondo che ci circonda. Venivano fatti due esempi: l’invito dell’allora vescovo di Parma Benito Cocchi ad allargare l’azione pastorale alle osterie, ai bar, ai ritrovi, perché è anche e soprattutto lì che (non) si fa cultura; e poi l’iniziativa di un prete che tiene aperto l’oratorio nella notte fra sabato e domenica per ospitare con qualche ora d’anticipo i reduci dai bagordi e offrire loro la colazione, tentando di salvare qualche vita umana dalla sarabanda del traffico impazzito.

Bisogna cioè entrare in una logica ricostruttiva minimalista. Tempo fa il filosofo Massimo Cacciari teorizzava la rinascita partendo dai condomini, dai piccoli agglomerati, e perché no, dai bar, dalle discoteche, dai momenti aggregativi più semplici ed immediati. E la scuola? E la famiglia? Non vivo da tanto tempo il mondo scolastico e non tengo famiglia. Ricordo quanto deferente rispetto avessero i miei genitori nei riguardi degli insegnanti. Ricordo quanto impegno e passione mettessero i miei insegnanti nel loro lavoro.  Esisteva un circuito virtuoso entro cui anche il più recalcitrante dei ragazzi veniva coinvolto. E la religione? Nel sessantotto si contrapponevano due visioni diverse della parrocchia: la parrocchia chioccia e la parrocchia laboratorio culturale. Com’è cambiato il mondo!

Nel nulla socio-culturale guazza la peggiore politica, oppure, se si vuole, nel nulla politico trova la giusta collocazione il nulla etico-valoriale. Due facce della stessa medaglia al disvalore civile. Non so se abbiamo ancora toccato il fondo e cosa occorrerà per l’eventuale risalita. Il movimento delle sardine ha indubbiamente qualcosa da dire. Però per ascoltare proteste o proposte nuove bisogna essere minimamente svegli, altrimenti tout passe, tout casse e tout lasse. È successo nel 2019 e succederà anche nel 2020, a meno che…

 

Parma capitale de ché? Delle belle donne!

Mia sorella diceva di me, giustamente, che non è tutto oro quel che luccica: intendeva criticamente vedere i pochi pregi e i molti difetti della mia persona. Il discorso vale anche per Parma: speriamo che questo anno, vissuto da capitale della cultura, ne esalti i pregi, ma non ne nasconda ipocritamente i difetti ai quali bisognerebbe ovviare in prospettiva.

Non smetto mai il mio abito critico ed autocritico, anche se mi è costato e mi costa isolamento ed emarginazione. Sono fatto così e non pretendo di cambiare a settant’anni. Il mio rammarico è di non poter comunicare come vorrei il mio excursus critico verso Parma, la sua cultura, la sua storia, la sua politica. Mi piacerebbe tanto poter fare una sorta di controcanto delle celebrazioni varie che ci apprestiamo a vivere. Vedremo… L’importante è che non ci facciamo incantare e incartare dai rigurgiti del presunto fascino della ex o attuale capitale. Sono perfettamente consapevole di muovermi in controtendenza.

L’inaugurazione di questa sorta di anno sabbatico avverrà al teatro Regio con l’apertura della stagione lirica. Non poteva avvenire diversamente. Da anni non metto piede nel nostro teatro: ne ho fatto a suo tempo una notevole indigestione. Ho avuto modo di frequentare il teatro Regio da appassionato, fin da bambino, poi da “addetto ai lavori”. Vado agli anni settanta e ottanta. Allora il teatro era gestito direttamente dall’assessorato comunale tramite i suoi funzionari e con la collaborazione artistica di una commissione che lavorava a titolo gratuito. Bei tempi erano quelli: si spendeva molto, molto meno; si allestivano spettacoli di notevole livello; si coinvolgevano le risorse locali (conservatorio, artisti, scenografi, etc); si dava spazio ai giovani (audizioni e selezioni); si sognava (forse troppo) un festival Verdi in collegamento con la Scala di Milano e l’Arena di Verona; si difendeva (forse troppo) il ruolo e la tradizione di Parma dall’invadenza bolognese; si discuteva e si soffriva per un teatro ed il suo pubblico.

Il teatro Regio è sempre stato lo specchio impietoso delle virtù e dei vizi di Parma: la passione musicale unica al mondo per quantità e qualità abbinata all’illusione di essere l’ombelico del mondo in materia di opera lirica. Fin qui ci poteva anche stare, ma il tempo perso a guardarsi l’ombelico è servito solo ad imbalsamare la città costringendola allo sguardo rivolto all’ indietro alla ricerca dei fasti perduti.

Non ho ancora capito se l’ambaradan di Parma capitale della cultura sarà finalmente l’occasione per guardare avanti o se sarà l’ennesima occasione sprecata nella rianimazione del cadavere eccellente. Staremo a vedere. Vigilerò, anche se la mia vigilanza, da rompicoglioni patentato, farà sì e no il solletico. A volte anche il solletico dà fastidio dal momento che può innescare attacchi di riso. Magari cercherò, strada facendo, di rispolverare i miei scritti più critici e dissacranti. Se ne avrò voglia, perché in mezzo ai peana del “ma come siamo bravi” non c’è posto per un pierino qualsiasi che abbia l’ardire di alzare la manina per dire sommessamente: sì, ma forse non è tutto oro quel che luccica… “Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai? Vedi là Parma che s’è dritta da la cintola in su tutta la vedrai»”.

Io preferirei vederla anche dalla cintola in giù per cantare da sporcaccione evviva Parma, città delle belle donne (su questo non ho niente da eccepire, anzi…) e quindi gridare…buon anno da capitale della cultura.

 

Giuseppi, se ci sei, batti un colpo

La rubrica televisiva “cartabianca”, oltre lo spettacolo delle belle gambe esibite con una certa classe dalla petulante conduttrice, dovrebbe offrire spunti di riflessione ed approfondimento a livello politico. Dipende molto dagli ospiti intervistati sui fatti emergenti. Mi è capitato di vedere la puntata in cui, sulla crisi internazionale post uccisione dell’iraniano Soleimani, due illustri commentatori quali Paolo Mieli e Massimo Cacciari si sono espressi a ruota libera riguardo allo scompiglio venutosi a creare in conseguenza del blitz americano.

Dal dibattito è emerso un dato di fatto giustamente preso di mira: la debolezza della posizione europea all’interno della quale spicca l’assordante silenzio del governo italiano. Nessun accenno critico al di là degli stucchevoli e retorici richiami alla responsabilità, alla prudenza e al dialogo. Mentre il balbettio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio rientra nella normalità di un uomo capitato per puro caso alla Farnesina, mentre la insistita e formale diplomazia del premier Luigi Conte si giustifica con la debolezza endemica di un governo improvvisato tenuto insieme con lo scotch, il silenzio del partito democratico indispettisce  per la mancanza di quel coraggio, che storicamente , pur nella dovuta deferenza verso l’alleato Usa, la politica italiana ha dimostrato nei passaggi cruciali delle crisi mediorientali.

Mentre il filosofo (Massimo Cacciari), un tempo prestato (poco) alla politica ed ora (troppo) alla critica politica, si è giustamente scatenato contro il Pd reo di non battere nemmeno un colpo distinguendosi dal generale e paralizzante imbarazzo, lo storico (Paolo Mieli), a suo agio negli studi di “passato e presente”, ma piuttosto scialbo nei vari dibattiti in cui interviene, ha  buttato la palla nella tribuna del sarcasmo, sostenendo ironicamente come Giuseppe Conte non possa dar addosso a quel Trump che gli ha offerto un prezioso assist affibbiandogli lo storico e amichevole nomignolo di “Giuseppi”.

In effetti l’attuale presidente del Consiglio è troppo appoggiato a livello internazionale e questi appoggi forse possono finire col ritorcersi contro di lui, imprigionandolo in uno splendido isolamento acritico. Però che il rimbrotto parta dal “pulpito mieliano” mi lascia francamente molto perplesso: se c’è un personaggio che brilla per opportunismo dialettico è proprio Paolo Mieli; non manca mai all’appuntamento con l’aria fritta che tira. Quindi, come si suol dire, “medico, cura te stesso”.  Il che non toglie nulla alla sacrosanta critica verso un Conte in chiara, evidente e malcelata difficoltà.

Ascoltando i commenti più intelligenti si evidenzia un’altra incongruenza. Viene richiesta un’iniziativa forte e credibile da parte dell’Unione europea per far fronte alla pericolosa situazione in cui spadroneggiano Usa, Russia, Turchia, Cina alla ricerca di equilibri bellici e post-bellici. L’assenza dell’Europa sullo scacchiere internazionale è evidente, però non bastano gli auspici. Se all’integrazione europea si crede fino a mezzogiorno, non si può pretendere che nel pomeriggio la comunità europea trovi la forza per esprimere una posizione forte ed unitaria. Se per trovare il filo della matassa libica non basta il commissario alla politica estera, non basta tutta la commissione, non basta la conferenza dei ministri degli esteri dei paesi membri, ma bisogna riunire attorno a un tavolo i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Inghilterra a dettare una improbabile linea comune, vuol dire che siamo messi molto male e che Trump se ne potrà fare un baffo della Ue e dei paesi europei ed avrà “carta bianca” per proseguire in un’azione in cui è molto difficile intravedere una strategia complessiva in cui potersi in qualche modo inserire.

A chi sostiene come in fin dei conti sia sempre stato così e che Italia ed Europa l’abbiano sempre dovuta bere dalla botte americana rispondo con la storiella di quel padrone che manda il giovane garzone a comprare una bottiglia di vino. Lo assaggia dicendo al garzone: «Brrr…cmé l’é brusch. Par ti el ne va miga ben…». Al che il garzone risponde: «Speta un minùd. A voj fär br… ànca mi…». Non capisco i garzoni che si accontentano di guardare le bevute del padrone sperando che qualcuno possa loro regalare il buon vino. Forse in passato riuscivamo almeno a fare qualche assaggio, oggi siamo obbligati ad essere astemi di fronte alle ubriachezze moleste dei potenti.

 

 

 

 

Le modiche piraterie

Non essendo un provetto ed esperto autista cerco di essere oltre modo attento nella guida soprattutto al fine di far fronte ai comportamenti piuttosto eccentrici di pedoni e ciclisti: spesso te li trovi davanti all’improvviso, distratti e trafelati o lenti e ingombranti.

Sta assumendo i contorni di una vera e propria carneficina la sequela di incidenti stradali in cui le persone vengono falciate da auto presumibilmente condotte a velocità pericolosa e da guidatori piuttosto alticci. In certi casi esiste il fattore del dopo-discoteca, periodo di tempo in cui le persone si comportano con irresponsabile svagatezza simile a quella dei bambini che escono da scuola. È inutile nasconderlo: in discoteca si balla in modo sfrenato, si ascolta musica altisonante, si bevono alcolici e magari a volte si fa anche qualche fumatina o sniffatina e poi in piena notte oscura si esce allo sbaraglio e può succedere di tutto e infatti succede di tutto: risse, incidenti stradali, etc. etc.

Non voglio esorcizzare le discoteche (anche perché gli incidenti succedono anche su altri percorsi) come luogo di perdizione e nemmeno voglio criminalizzare l’uso di alcolici, ma quando si scherza col fuoco è fatale rimanere scottati. Ammetto che esista la componente fatalità in tutti gli incidenti stradali e non. Tuttavia un supplemento di prudenza e di attenzione non farebbe male al fine di evitare tragedie per chi muore e per chi sopravvive.

I media, come al solito, drammatizzano ulteriormente il discorso, non hanno alcun rispetto e pietà per i protagonisti di questi incidenti: le vittime vengono immediatamente e spettacolarmente santificate e i colpevoli volgarmente demonizzati. Spesso le colpe si sovrappongono e non è così facile distinguerle di fronte alla disperazione del dopo. Forse il più bel tacer non sarebbe mai scritto a sufficienza (come si vede ci casco anch’io). Una cosa è certa: se ci si aspettava il miracolo dall’inasprimento delle pene e dall’introduzione del reato di omicidio stradale, l’aspettativa è andata delusa e si è trasformata in penosa illusione.

Se mi è consentito un paragone impossibile, vorrei confrontare il comportamento degli autisti in preda ai fumi dell’alcol con quello di Donald Trump in preda ai fumi di guerra: ci sono delle somiglianze, ma anche delle profonde differenze. I primi si giustificano dicendo di aver bevuto poco (e può essere relativamente vero) e di non aver visto i pedoni mimetizzati nel buio o spuntati improvvisamente dall’angolo; il secondo sostiene di agire per legittima difesa senza cattiveria e di avere risposto alle provocazioni terroristiche.  I primi sono disperati (e ci posso credere) per i disastri più o meno colpevolmente combinati; il secondo non è affatto disperato, anzi. Dopo una giornata passata dal segretario di Stato Pompeo a rassicurare che gli Usa in ogni caso gestiranno la crisi iraniana restando nell’ambito della legalità e della responsabilità, il capo della Casa Bianca ha confermato di essere pronto a colpire i siti culturali storici della Repubblica islamica, se gli ayatollah reagiranno con la violenza all’uccisione di Soleimani. Quindi ha anche avvertito l’Iraq che verrà soffocato da sanzioni economiche mai viste prima, se davvero caccerà i soldati americani dal suo territorio, seguendo le indicazioni ricevute da Teheran. Poi ha telefonato al conduttore radiofonico conservatore Rush Limbaugh, per ripetere che l’attacco contro il capo dei pasdaran era giustificato, e sarebbe dovuto avvenire almeno quindici anni prima.

Assumere bevande alcoliche è tutta questione di misura: un ubriaco sostiene sempre di non esserlo. Bombardare un paese nemico è un fatto relativo: può essere un atto aggressivo e può essere un gesto difensivo, questione di opinioni. A questo mondo, se si vuole fare i furbi, tutto è possibile. Andiamo avanti così e poi non lamentiamoci troppo.