Il bagno papale nel lago di carezza

Di ritorno dall’uscita mattutina domenicale dedicata alla messa e al voto regionale, ho acceso la televisione, immaginando che stessero trasmettendo in diretta la celebrazione eucaristica presieduta da papa Francesco, a Roma in S. Pietro, in occasione della Domenica della Parola, istituita recentemente per invitare in modo particolare alla lettura, alla meditazione e soprattutto alla osservanza pratica delle Sacre Scritture. Infatti il papa stava terminando la messa nella solita, pomposa, e per me fastidiosa, cornice scenografica: ad un certo punto l’assistente cerimoniere ha rimesso sul capo del pontefice la papalina con tale e tanta accuratezza da evitargli anche l’istintivo, successivo auto-aggiustamento (mio padre sosteneva come, in caso di un copricapo messo sulla testa di un’altra persona, per questa fosse inevitabile  rimetterci mano; a ben pensarci è così anche quando un calciatore tira un rigore: l’arbitro magari mette il pallone sul dischetto, ma il giocatore incaricato del tiro non può esimersi dal ricollocarlo, salvo poi incespicarci sopra, come ha fatto goffamente il bomber (?) laziale Immobile).

Stavo facendo un po’ di silenziosa ironia, quando sono stato interrotto bruscamente da una scena che, con ogni probabilità, diventerà storica: tra le varie persone, di diversa provenienza, a cui il papa ha  donato il testo della Bibbia, c’era una ragazza down. Francesco le ha fatto una piccola carezza e lei, con una spontaneità invidiabile e ammirevole, lo ha ricambiato, riuscendo con la sua mano ad accarezzare dolcemente il volto papale: un delicatissimo e commovente scambio di tenerezze. Quella ragazza ricorderà per tutta la vita quell’episodio, ma forse anche e soprattutto il papa se lo sentirà attaccato alla pelle e al cuore.

Ho subito pensato che non poteva sperare una migliore ricompensa, per tutte le sofferenze patite a causa degli attacchi, vicini e lontani, alla sua persona in ordine al suo indirizzo pastorale. Credo proprio che quel gesto così dolce possa interpretare tutto l’affetto che la gente nutre per lui, quella gente che non si fa condizionare dalle dispute dogmatiche, ma va al sodo e capisce di essere amata da questo papa così evangelico e così poco dottrinario.

Quella ragazza probabilmente non saprà delle dotte e subdole contestazioni, curiali, cardinalizie, vescovili, laiche, politiche e religiose indirizzate a papa Francesco: persino il suo illustre predecessore, seppure in buona fede, è caduto nella trappola dell’impeachment strisciante verso l’attuale pontefice, reo di eccessiva aderenza al dettato evangelico e di troppa autonomia rispetto all’andazzo dottrinale e tradizionale. Lo ha però indirettamente difeso e ne ha fatto la miglior difesa possibile. Non so cosa avranno pensato i “teogolpisti”, forse avranno fatto come gli scribi e i farisei ai tempi di Gesù: da una parte avranno incassato una “figura di merda”, ma continueranno a rimestare nel torbido fino a puntare a farlo fuori del tutto (penso e spero non fisicamente, ma isolandolo e togliendogli consenso).

Certamente non basta una carezza a fare la storia della Chiesa, ma può darsi che incida più quel piccolo gesto dei documenti canonici atti a contestare le decisioni e lo stile papali. Francesco ripete spesso di essere considerato un comunista in quanto difensore dei poveri in base al Vangelo e chi tocca le persone, anche i cristiani, nel portafoglio rischia di morire. Forse è questo il punto al di là delle dispute teologiche e dottrinale, che fanno da paravento alla difesa degli equilibri di potere religiosi e politici.

Non posso esimermi dal riportare ancora una volta l’episodio narrato da don Andrea Gallo. Al noto “pretaccio” un importante Cardinale fece alcuni appunti sul modo di testimoniare la fede. Don Gallo si difese citando il Vangelo. Il Cardinale reagì stizzito dicendo: «Se la metti su questo piano…». Al che don Gallo ribatté: «E su quale piano la devo mettere?». Pensate un po’, essere molto fedeli al dettato evangelico è una colpa: «Tra i poveri e gli emarginati vediamo il volto di Cristo. Amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo. I nostri sforzi devono essere diretti a porre fine alle violazioni alla dignità umana, contro la discriminazione e l’abuso nel mondo, perché queste sono la causa dell’indigenza». Parlare troppo dei poveri dà fastidio: forse è questo il più grave “difetto” di papa Francesco.

 

Gli anticorpi della resistenza e il vaccino della democrazia

Oggi sento il dovere civico di soffermarmi un attimo sulle elezioni regionali emiliane. Lo faccio operando un paradossale e tremendo collegamento, con la cronaca che, purtroppo, mi offre un drammatico spunto, quasi a significare che la politica la porto nel sangue, è una malattia, contratta in famiglia dove mio padre mi ha impartito le prime indimenticabile lezioni di democrazia vissuta, dove mia sorella Lucia mi ha inoltrato e guidato sul sentiero impervio dell’impegno politico lontano da ogni compromissione col potere, in  “oltretorrente”, il rione dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà.

Con questi attivi ed efficacissimi anticorpi in circolazione, posso azzardarmi a parlare di virus. Siamo infatti terrorizzati dal virus cinese, che si sta inesorabilmente propagando, dandoci la peggiore delle idee sulla inevitabile globalizzazione del nostro vivere. Sono patetici i tentativi di contenere l’epidemia mettendo in quarantena città con milioni di abitanti o misurando la febbre alle migliaia di viaggiatori negli aeroporti. Siamo destinati a convivere con questi fenomeni: non capiamo da dove nascano e dove ci possano portare. Anche la scienza si rivela piuttosto impreparata e incapace di combattere queste gravissime malattie di origine virale. Nessuno se ne può considerare immune finché non arriverà un vaccino a toglierci dalla paura.

Ebbene, azzardo un paragone impossibile ed esagerato: nel mondo sta girando un virus politico, che comporta le tremende malattie del nazionalismo, del populismo e del sovranismo e che, come tutti i virus che “si rispettano”, è sfuggevole in quanto soggetto a continue mutazioni. L’epidemia dilaga: dagli Stati Uniti al Brasile, dalle Filippine all’Europa orientale finanche alla Gran Bretagna. Non pensiamo di rimanerne indenni con un’alzata di spalle o ritenendo si tratti di fenomeni che non ci riguardano. Ci siamo dentro anche noi italiani, eccome! Il nostro protagonista virale ha un nome ed un cognome, ma sta accumulando troppi insensati consensi. Prima che sia troppo tardi, cerchiamo di vaccinarci: in questo campo il vaccino e le medicine esistono, ma bisogna curarsi per tempo e in modo serio. I sintomi della malattia li conosciamo: egoismo, paura, insofferenza, intolleranza, odio, discriminazioni, razzismo, etc. La quarantena non serve, bisogna avere l’umiltà di curarsi all’ambulatorio della storia e all’ospedale della democrazia e soprattutto ricordando le cure messe in atto dai nostri padri, che hanno saputo “resistere” alla devastante febbre del fascismo e del nazismo.

Durante le sue penose peregrinazioni elettorali, Matteo Salvini, tra una stupida e vomitevole citofonata e una strafottente apparizione al mercatino, ha raccolto qualche sacrosanto insulto (bisogna infatti reagire finché si è in tempo): a Bologna, due donne (sempre le più coraggiosamente istintive) lo hanno apostrofato, facendogli chiaramente capire che in terra emiliana la libertà ce la siamo conquistata e non sarà certo lui a togliercela o a condizionarcela in modo più o meno subdolo. Abbiamo l’antidoto al suo veleno e lo ricaviamo dal sangue dei tanti martiri per la libertà ed è un sangue che, come quello di san Gennaro, non perde la sua vitalità.

Non vado oltre, ricordo solo che, quando mi accingo a votare, rivolgo sempre il mio deferente pensiero a tutte le persone che sono morte per conquistarmi questo diritto e quindi devo almeno cercare di esercitarlo in modo serio e solidale. Cercherò di farlo anche in questa occasione.

La pietra sepolcrale di un brutto film

Chissà perché mi sono lasciato prendere dalla voglia di assistere alla proiezione di “Hammamet”, un film diretto da Gianni Amelio, che racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi. Se si toglie la recente visione di una pellicola sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio don Ennio Bonati, da circa un quarantennio non entravo in una sala cinematografica, si potrebbe dire “un po’ per celia e un po’ per non morir”.

Per recarsi al cinema bisogna ormai fare i conti con gli ambaradan delle multisale inserite in moderni e disgustosi “paesi dei balocchi”, con una scarica infinita e frastornante di messaggi pubblicitari, con un autentico bombardamento acustico, in un clima situabile a metà fra il luna park e il centro commerciale. Ma come ben si sa, io sono uomo d’altri tempi e quindi…

Bando ai pur significativi preamboli. Ho visto il film che tenta la ricostruzione romanzata dell’ultima fase della vita di Craxi. Sovrapporre il cinema alla storia è operazione difficile e delicata, che a Gianni Amelio non è riuscita, nonostante la messa in campo di tutti i più banali e scontati strumenti della narrazione (il nipotino che fa da specchio alle scelte culturali del nonno; la coscienza critica impersonificata dal figlio di un collega di partito; l’amante che ritorna a disturbare la pace dei sensi; l’inaspettato visitatore salottiero; l’ingombrante presenza-assenza dei famigliari) e nonostante una minuziosa e pedante ricostruzione fisico-caratteriale del personaggio (lo fanno parlare sempre con i toni delle risposte ad una intervista). Anche la tanto osannata interpretazione di Pierfrancesco Favino finisce con l’essere una pedissequa imitazione: tutti dicono che l’attore ha fatto un capolavoro; assolutamente sì, dal punto di vista della recitazione; assolutamente no dal punto di vista dello scavo umano e psicologico. In fin dei conti, il difetto principale del film è proprio quello di appiattirsi nella insistita e stucchevole ricerca “dell’impersonificazione”, tralasciando la drammatica e sentimentale immaginazione.

Ne esce un ritratto impietosamente schiacciato su ben noti difetti umani e su altrettanto noti limiti politici, un personaggio nato, cresciuto, ingigantito dall’assenza del decisivo dialogo fra comunisti e democristiani, in gran parte dovuta all’omicidio di Aldo Moro, ma anche alle colpevoli indecisioni dei due partiti. Così Craxi seppe insinuarsi e insediarsi nella politica italiana, ricattando a sinistra i comunisti trascinati in obbligate coalizioni periferiche e a destra i democristiani avvinghiati al potere centrale: due pilastri tenuti insieme dal collante del sistema affaristico portato all’eccesso. Il disegno sostanzialmente conservatore non era certo riscattato da alcune intuizioni ideologiche (l’appoggio ai movimenti dissidenti nei paesi dell’est europeo), da alcune coraggiose scelte di politica estera (Sigonella), da alcune intuizioni moderniste e mediatiche immediatamente piegate all’imprescindibile affarismo (i nani, le ballerine, Berlusconi).

Speravo che il film ridesse dignità ad un passato storico da rileggere con spietata calma e con ritrovata obiettività, invece tutto buttato nella pentola borbottante di una rivisitazione frettolosa e superficiale. Mi illudevo che potesse ridare spessore umano alla lontananza ed alla disperazione dell’esilio. Niente, tutto inquadrato negli angusti confini del personaggio testardamente simile a se stesso.

Il messaggio del film è talmente equivoco da essere colto con tardivo, inutile ed ulteriore disprezzo dai detrattori del craxismo, ma nello stesso tempo da essere apprezzato dagli osannanti cultori dell’uomo forte che aggredisce e mangia cinicamente la politica. Non c’è la storia se non in una quasi impercettibile filigrana, non c’è l’umanità se non in una banale e scontata rivisitazione, non c’è la politica se non in un sottofondo di lettura unilaterale, non c’è giustizia se non in una comprensibile ma faziosa visione del condannato, non ci sono valori se non nella loro presuntuosa e ambiziosa relativizzazione. Un film negativo da tutti i punti di vista, che peraltro non concede a Craxi nemmeno l’attenuante della contraddizione, di cui siamo tutti, più o meno, vittime.

Peccato perché gli ingredienti potevano esserci: la ciambella non è riuscita col buco. Alla fine ero talmente irritato dal pressapochismo storico e dal superficialismo umano, da non aspettare nemmeno la fine della proiezione della pellicola, peraltro piuttosto noiosa e raffazzonata. Ho avuto l’inopinata conferma di una mia strana idea, che forse si è stratificata a copertura di una delle mie tante carenze culturali: il cinema è qualcosa di fuorviante, perché non ha l’obiettività della storia e non ha nemmeno la fantasia della letteratura, è qualcosa di mostruosamente “inculturale” e pericolosamente “antieducativo”.  Forse non è un caso se i bambini nel loro spontaneo approccio vanno al cinema per sgranocchiare i pop-corn: il resto scivola via e, se non scivola, lascia un segno pericoloso. Non mi resta che aspettare un altro quarantennio prima di varcare la soglia di una sala cinematografica (magari non ne esisteranno più…). Un po’ per celia e un po’ per non morir.

 

Le sceneggiate e i campi di patate

C’è un detto parmigiano che recita così: “In fônd a la botiglia gh’é sémpor al fiss”. Il significato è chiarissimo e non vale nemmeno la pena di esplicitarlo. Mi viene invece la tentazione di applicarlo alle ultime battute della campagna elettorale emiliano-romagnola. Matteo Salvini ne sta facendo e dicendo di cotte e di crude: chiede un digiuno preelettorale a difesa del suo operato come ministro, va persino a suonare i campanelli di probabili spacciatori per accreditarsi come una sorta di sceriffo a difesa della brava gente.

Attenzione però a non farsi trascinare in una deriva dove lui (della Borgonzoni non frega niente a nessuno) ha tutto da guadagnare e Bonaccini, candidato di un largo e fin troppo articolato schieramento di centro-sinistra, tutto da perdere. Giocando al pallone in un campo di patate è facile che vinca lo scarpone di turno, quindi occorre evitare i campi di patate, non in base ad aristocratica presunzione, ma per scelta politica.

Quando sento dire dal candidato a governatore regionale dell’Emilia-Romagna, che bisogna stare ben attenti perché la Lega ci vuole lombardi, rispolverando quello che qualche acuto giornalista ha definito “sovranismo rosso”, oppure che la Lega vuole privatizzare la sanità, radicalizzando ulteriormente il dibattito già fin troppo schematizzato, temo che ci si stia spostando sul campo di patate di cui sopra. Si eviti cioè di accreditare la vignetta dell’avversario che, tutto sommato, piace all’elettore medio. Matteo Salvini sta infatti vivendo una sorta di satira strisciante della propaganda politica: sembra funzionare.

Non dico di ignorarlo, ma di contrapporre alle sue gag elettorali qualche discorso concreto, che costringa l’elettore a ragionare uscendo dall’imbuto della sceneggiata napoletana. Il genere, del tutto peculiare della realtà artistica partenopea, nasce storicamente nel primo dopoguerra, allo scopo di unificare il genere musicale classico con il teatro. Le rappresentazioni erano infatti imperniate su una canzone di grande successo, dalla quale la sceneggiata prendeva il titolo e, attorno al tema musicale, veniva costruito un testo teatrale in prosa, risultando così un lavoro in cui canto, ballo e recitazione si fondevano in un’unica rappresentazione. Una delle cause della nascita della sceneggiata pare da imputare al Governo italiano, che dopo la disfatta di Caporetto appesantì le tasse sugli spettacoli di varietà, giudicati frivoli e degradati, stimolando gli autori, per aggirare le tasse, ad ideare uno spettacolo “misto”. Se si prova a cercare questi elementi nell’impostazione propagandistica salviniana, c’è da rimanere stupefatti.

Anche perché se ci mettiamo a suonare le campane regionali, qualche stonatura emiliana esiste e quindi meglio suonare qualche altro strumento. Così come lo spauracchio del privato non ha grande appeal in un elettorato già spesso orientato in campo sanitario a rivolgersi alle strutture private per evitare le lungaggini e le disfunzioni del servizio pubblico. Attenzione agli autogol nella foga di difendersi dagli attacchi avversari.

A snidare il salvinismo in modo intelligente e popolare ci sta pensando il movimento delle Sardine, non vale la pena rubargli il mestiere, disturbare l’elettorato; se proprio non si hanno argomenti, meglio tacere. A volte chi parla troppo finisce con l’intartagliarsi. Mi hanno appena chiesto in via amichevole di fare una previsione sull’esito delle elezioni emiliane: non ho saputo rispondere per incapacità nell’interpretare gli strani umori della gente e non ho voluto rispondere per scaramanzia. Sdrammatizziamo! Nello sport, quando non si sa cosa dire, ci si rifugia nel “vinca il migliore”. Nell’attuale fase politica mi rifugio nel “si salvini chi può”.

 

L’alfa e l’omega del M5S

A Federico Pizzarotti, sindaco di Parma da quasi otto anni, non basta essere stato lo storico, anche se casuale, iniziatore dell’epoca istituzionale grillina (primo sindaco a cinque stelle nella storia italiana, seppure ben presto sospeso dal Movimento), ora si candida a fare il profeta di sventura del suo ex movimento, prevedendone la fine politica: da una parte in conseguenza delle Sardine, che gli stanno togliendo la terra sotto i piedi, riscaldando il cuore e la mente ad una fascia di opinione pubblica di sinistra demotivata; dall’altra ad opera della Lega di Salvini, assai più credibile e spregiudicata, che gli sta rubando i voti a destra; dall’altra ancora per effetto dell’esito elettorale emiliano-romagnolo, che ridurrà irrimediabilmente ai minimi termini questo strano (non) partito.

Pizzarotti profetizza insomma che il 2020 sarà l’anno della fine del M5S. Forse sotto sotto sta anche gufando comportandosi da “spretato”, ma penso non abbia tutti i torti. Lui sta raccogliendo i rinnovati fasti parmensi di capitale della cultura, mentre i suoi ex colleghi di movimento stanno raccattando i cocci e sono allo sbando a tutti gli effetti. Sembra addirittura che la leadership dimaiana abbia i giorni contati, come sostiene Ilario Lombardo su La Stampa.

Ventisette mesi è durato il regno di Di Maio alla guida del M5S. Mesi in cui c’è stato un grande successo, alle elezioni nazionali del marzo 2018, e poi solo sconfitte. E ancora: i gruppi che lo contestano, i parlamentari che scappano, i ministri che chiedono l’adesione all’area riformista, Beppe Grillo, con il quale la comunicazione si sarebbe interrotta, che ormai parla con il sindaco Beppe Sala e sogna una nuova casa a sinistra, Giuseppe Conte che vuole guidarla.

Bisogna andare adagio a dare per persa la creatura grillina, tuttavia sembra effettivamente assai vicina al capolinea: il problema semmai sarebbe chi se ne spartirà le spoglie. Per resistere ad un ribaltone come quello combinato dai pentastellati, passati in un baleno dall’alleanza contrattualistica con la Lega al confuso accordo col Partito democratico, occorrerebbe la diabolica abilità di un Andreotti più che la spettegolante arroganza di un Di Maio. I pentastellati appaiono come pecore sperse senza pastore. Credo sempre più che, per fondare un movimento politico, inserirlo nell’agone elettorale e piazzarlo a livello istituzionale, non basti la verve grillina, ma occorra una cultura, una storia, una ideologia, un radicamento sociale, un minimo di classe dirigente. Non serve sparare contro la politica per poi andare a sbatterci contro. In questo non ha tutti i torti Vittorio Sgarbi, quando mette “sgarbatamente” in guardia le Sardine dal loro ripiegamento sul mero “antisalvinismo globale”.

Luigi Di Maio sembrerebbe orientato a fare un passo di lato, a tirarsi fuori dalla mischia per aspettare i cadaveri dei suoi colleghi e poi ritornare con una squadra nuova di zecca. Per fare simili operazioni occorrono personaggi politici di grande livello e non traghettini qualsiasi in vena di fare i Cincinnato per burla. C’era da aspettarselo: non si può andare al governo di un Paese completamente sprovvisti di preparazione, esperienza e intelligenza, sulla base e sull’onda di una generica cavalcata protestataria.

Peraltro clamoroso appare l’errore tattico di isolarsi nella battaglia elettorale emiliana, con il rischio di creare problemi a Stefano Bonaccini e quindi magari di causare indirettamente una crisi nel partito democratico, che potrebbe portare alle elezioni anticipate da cui i pentastellati uscirebbero probabilmente distrutti, e di non recuperare verginità ma accumulare ulteriore inaffidabilità.

Se Federico Pizzarotti ha il dente avvelenato, che lo porta a togliersi qualche sassolino dalle scarpe, io, da semplice cittadino, vedo con preoccupazione aumentare lo spazio politico del disorientamento popolare, che, alcuni anni or sono, fu bene o male incanalato dal grillismo ed ora è sempre più in balia delle onde salviniane. Non so cosa riusciranno a recuperare culturalmente le Sardine: qualcosa di interessante stanno dicendo e facendo. Tuttavia non mi illudo e non mi sento di affermare “morto un movimento, se ne fa un altro”, perché alla fine rischia di morire la democrazia.

 

Il kafkiano processo ai migranti

Pur con tutta l’umiltà del caso, non credo di essere proprio un principiante della politica. Ciononostante sto faticando non poco a capire cosa sta succedendo in Parlamento in merito all’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini sul caso Gregoretti, la nave bloccata in mare e sulla cui vicenda la magistratura ha individuato un reato di sequestro di persona da parte dell’allora ministro degli Interni. Già la procedura è giuridicamente piuttosto tortuosa: parte la procura competente per territorio, che investe il tribunale dei ministri; questo per procedere ha bisogno del via libera parlamentare, nel caso specifico il Senato, essendo Salvini un senatore della Repubblica. Sulla questione si pronuncia in prima battuta la Giunta per le autorizzazioni a procedere, dopo di che è l’aula ha dare o meno l’ok definitivo al tribunale dei ministri. Questo organo giudiziario speciale decide poi eventualmente se trasmettere il caso alla magistratura ordinaria (se ho fatto confusione o commesso qualche errore, chiedo scusa, ma la mia intenzione non è quella di impartire una lezione di diritto pubblico e/o penale).

Siamo quindi ancora alle prime battute: la Giunta del Senato ha votato sì al processo per Matteo Salvini e fin qui uno direbbe che, tutto sommato, è giusto che la legge sia uguale per tutti, politici compresi, anche se il problema è più delicato e consiste nel valutare se gli atti compiuti dal ministro Salvini fossero di natura politica e quindi non censurabili dal punto di vista penale. Il presidente del Consiglio di allora, coincidente con quello attuale, sostiene, con qualche formalismo di troppo e con poca credibilità, che il governo non abbia dato, né formalmente né sostanzialmente, un placet alla presa di posizione del ministro degli Interni volta a bloccare l’approdo della nave con a bordo tanti migranti. Il Senato non doveva e non deve entrare nel merito dell’eventuale reato, ma valutare se il comportamento ministeriale rientrasse o meno nell’area delle competenze politico-istituzionali.

Sembrava che le forze politiche rappresentate nella suddetta Giunta fossero orientate in modo alternativo: quelle dell’attuale maggioranza del governo giallorosso a favore dell’autorizzazione con l’evidente imbarazzo dei grillini che in un caso analogo in vigenza del governo gialloverde avevano votato contro l’autorizzazione, ponendo Salvini al riparo previa pronuncia  sul web degli iscritti pentastellati, e con titubanze più o meno dichiarate da parte di Italia viva, il nuovo partito di Matteo Renzi; quelle di minoranza, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, orientate a votare contro l’autorizzazione ed a creare un cordone di salvataggio intorno a Salvini.

Ad un certo punto parte la politicizzazione spinta, per non dire la strumentalizzazione della vicenda. Per evitarla, almeno in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, si vorrebbe rinviare la questione al dopo elezioni, ma la Giunta, complice un discutibile atteggiamento della presidente del Senato, che a sorpresa partecipa al voto, decide di procedere. Comincia a sentirsi una tremenda puzza di tatticismi. Salvini fa la furbesca mossa di aprire improvvisamente la porta quando tutti spingono per forzarla: i suoi amici in Giunta voteranno a favore del prosieguo della procedura intendendo fare del leader leghista un martire della difesa dei confini nazionali e il capro espiatorio in nome del popolo italiano con lui prevalentemente solidale. I rappresentanti di maggioranza non partecipano al voto di Giunta e i pochi presenti, i 10 senatori del centro-destra, bastano per andare avanti e votare il seppur provvisorio sì al processo per Matteo Salvini.

L’iter parlamentare non è però finito: il 17 febbraio nell’aula del Senato cosa succederà? Staremo a vedere. V’è chi prevede una strana combinazione Lega, PD e M5S per mandare Salvini sotto processo, mentre Forza Italia, Fratelli d’Italia (l’Italia c’è, ma fino a che punto?) difenderebbero l’operato dell’allora ministro ritenendolo rientrante nei suoi compiti istituzionali. Una cosa è certa: l’opportunismo politico la sta facendo da padrone. Salvini vuole la piazza a tutti i costi e in un comizio arriva a dire: «Guareschi diceva che ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione. Siamo pronti, sono pronto». Se questa non è demagogia, cos’è? Fiuta l’odore populistico del sangue e si scatena. Non sono convinto che andrà fino in fondo in questo atteggiamento strumentale e non mi stupirei se, a babbo morto, vale a dire ad elezioni regionali avvenute e magari perse (speriamo…), tentasse di ribaltare il voto della giunta con un voto segreto in aula trasversalmente a lui favorevole.

«È sempre lo stesso film. Salvini ancora una volta fa uso politico della giustizia e sta costruendo un battage politico perché pretende l’impunità», replica il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Anche Luigi Di Maio attacca: «Salvini che dice “andrò a processo, scriverò le mie prigioni” è passato dal sovranismo al vittimismo. Lui lo sa che bloccare la Gregoretti fu una scelta sua».

Sono sinceramente frastornato e l’unico commento che mi sento di aggiungere è questo: sulla pelle dei migranti si sta giocando un’indegna battaglia politica mettendosi letteralmente sotto i piedi ogni e qualsiasi principio etico. Non solo si è portata avanti una linea politica insensata e scriteriata con la sciagurata pantomima dei porti chiusi, ma la si vuole sbandierare come una conquista di civiltà per cui immolarsi contro i vandali invasori e chi li protegge. Purtroppo il M5S ha fatto e continua a fare il pesce in barile per paura di perdere i voti che ha già perso e il PD non ha il coraggio di varare una seria politica per l’immigrazione per paura di perdere ulteriori voti. I migranti per l’Italia non sono carne da cannone, ma da seggio elettorale.

I 5+5 di Angela Merkel

Negli anni cinquanta del secolo scorso esisteva un celebre gruppo musicale, i 4+4 di Nora Orlandi, che faceva un ritmico accompagnamento vocale alle canzoni: erano simpatici e bravi nelle loro semplici esibizioni agli spettacoli principali di musica leggera. Non erano interpreti principali, ma costituivano un coretto fisso che dava un certo tono alle canzoni.

A distanza di tanto tempo, me ne sono ricordato in concomitanza con la probabile nascita di un ben altro coretto, i 5+5 della commissione militare libica, previsto dalla conferenza di Berlino, tenutasi per cercare faticosamente uno sbocco diplomatico alla gravissima e delicatissima situazione della Libia. Finalmente l’Europa ha battuto un colpo e, soprattutto per merito di Angela Merkel, sembra aver ottenuto qualche risultato. Non riesco ad andare oltre rispetto ad alcune considerazione (quasi) da bar sport: ho anch’io il diritto di entrare e dire la mia in questo affollato punto d’incontro del qualunquismo politico? Me lo prendo.

Quando ho sentito parlare di un accordo in cinquantacinque punti, un brivido mi è corso lungo la schiena e a stento ho trattenuto una sardonica risata. “Ci possiamo ritenere soddisfatti – è stata invece la dichiarazione di Giuseppe Conte – perché comunque abbiamo compiuto passi avanti, 55 punti condivisi, che includono il cessate il fuoco, l’embargo sull’arrivo di nuove armi ed un percorso politico-istituzionale ben definito. È stato nominato anche il comitato militare congiunto che veglierà, monitorerà che la tregua sia rispettata, abbiamo dei passi avanti significativi”.

I due litiganti libici non hanno voluto incontrarsi né sedersi congiuntamente a tavoli plurilaterali ed hanno costretto addirittura la playmaker Angela Merkel a fare separatamente la spola come portavoce nei loro confronti. Se si potesse, andrebbero mandati al diavolo, ma meglio stare calmi e trattare fino allo sfinimento.

La palla passa ora all’Onu che dovrebbe gestire questo accordo: l’importante è che chi soffia sul fuoco la smetta. Non sarà facile chiudere il becco a Putin ed Erdogan, ma soprattutto non sarà facile riportare ad un minimo di unità una realtà divisa in tante tribù l’una contro l’altra armate.

Il premier francese Macron ha fatto il divo, ha distribuito baci e abbracci, mentre avrebbe dovuto spargersi il capo di cenere in nome e per conto del suo infausto predecessore Nicolas Sarcozy, fautore di una guerra al buio contro il regime di Gheddafi, col quale peraltro sembra avesse mantenuto opachi rapporti di carattere finanziario.

Come al solito non si capisce dove voglia parare Donal Trump che si è ben guardato dal partecipare direttamente e si è limitato ad inviare il suo segretario di Stato, il quale dà l’impressione di contare come il due di coppe e di limitarsi a fare il ventriloquo del suo capo.

Il governo italiano, pur essendo fortemente coinvolto e interessato alle questioni libiche, ha giustamente tenuto un profilo piuttosto basso: dire e fare cazzate in questi frangenti non è difficile e quindi è meglio usare molta prudenza e limitarsi ad atteggiamenti disponibili a facilitare le trattative faticosamente avviate.

Purtroppo quasi tutti i protagonisti hanno la cosiddetta “pataglia sporca”, operano in base a interessi innominabili, o meglio affari che si chiamano soprattutto petrolio, ed hanno trovato nella Libia un terreno adatto alle loro esercitazioni di realpolitik. Non ho sinceramente capito cosa dovrebbe fare quel fantomatico comitato militare paritetico dei 5 + 5. Staremo a vedere e speriamo che la Libia non diventi il focolaio permanente di guerra, una sorta di sfogatoio bellico per scolmare la pentola in perenne ebollizione. Volenti o nolenti l’Europa, o per meglio dire i governi europei, potrebbe giocare un ruolo pacificatore. Lo capiranno i due contendenti? Uno appare come un leader di cartapesta, l’altro come un mini-guerrafondaio prestato alla politica: sono sul ring. Tutti gridano ipocritamente “fuori i secondi”. Angela Merkel ha avuto il coraggio di chiedere un breve rinvio del match. Sarà il suo canto del cigno? Chissà, vedremo e speriamo bene.

 

Condannare il passato per non criticare il presente

In questi giorni, girovagando su internet, mi sono imbattuto nella riproposizione delle udienze del processo Cusani per le tangenti Enimont, celebrato quale simbolica battaglia giudiziaria portata vanti dalla magistratura milanese. Per processo Enimont s’intende il principale processo giudiziario della stagione di Mani pulite, svoltosi a Milano tra il 1993 e il 2000, che vide coinvolti i maggiori esponenti politici della Prima Repubblica, accusati, insieme ad alcuni imprenditori (tra cui molti del gruppo Ferruzzi, padrona della Montedison), di aver versato e aver intascato una maxi-tangente di circa 150 miliardi di lire: soldi utilizzati per finanziare i partiti in maniera illegale (il cosiddetto finanziamento illecito). Si scoprì che buona parte di quei soldi (circa 2/3) passò per conti detenuti presso l’Istituto per le Opere di Religione, versati sotto forma di titoli di Stato.  Le tangenti vennero pagate dal finanziere Raul Gardini perché si arrivasse alla conclusione di un accordo che non andava in porto, l’affare Enimont (fusione dei due poli della chimica, l’Eni, a controllo statale, e la Montedison privata), attraverso l’intermediario Sergio Cusani, dirigente del gruppo Ferruzzi (azionista di maggioranza della Montedison).

Ho rivisto le testimonianze di Bettino Craxi e di Arnaldo Forlani, poi condannati pesantemente anche quali capri espiatori di un sistema di finanziamento illegale della politica, che era effettivamente degenerato a livelli incredibili di corruzione e che si era allargato a dismisura coinvolgendo anche, seppure in misura limitata il partito comunista, stretto politicamente nella morsa ricattatoria del Psi: si pagavano tangenti anche sui loculi cimiteriali. Giravano cifre enormi, si trattava allora di miliardi di lire erogati ai partiti, soprattutto per ottenere il loro interessamento affaristico. Era un giro vorticoso di dazioni in cui era difficile districarsi.

Sono passati decenni, sono cambiati i protagonisti della vita politica, sono mutate le leggi, abbiamo nuovi partiti e movimenti, ma, tutto sommato, sembra che il sistema sia rimasto più o meno lo stesso, con l’aggravante che ai tempi della prima tangentopoli i vantaggi andavano ai partiti, mentre oggi vanno prevalentemente a singoli personaggi politici. Alla relativa e presumibile omogeneità affaristica tra i due periodi fa riscontro un’abissale differenza di livello culturale e politico fra la classe dirigente della cosiddetta prima repubblica e quella odierna. Resta invece immutata ed esageratamente incisiva ed invasiva l’azione della magistratura, che sembrava e sembra più rivolta a squalificare la politica che a pulirne i contenuti.

Proprio in questi giorni è stata sentita in procura a Milano, sul caso Savoini, Irina Aleksandrova, la misteriosa donna, nonché nota giornalista dell’agenzia russa Itar Tass, che il 16 luglio dello scorso anno, a tre mesi dall’ormai famoso meeting al Metropol di Mosca, ha moderato la conferenza stampa dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, dopo la sua prima visita ufficiale a Mosca. E, al termine, davanti ai tanti giornalisti presenti in sala stampa, ha ringraziato il presidente dell’associazione Lombardia-Russia ed ex portavoce del leader della Lega, che ha reso possibile quell’incontro.

Una testimonianza chiave per mettere insieme alcuni dei pezzi raccolti nel corso dell’inchiesta per corruzione internazionale condotta dai pm Sergio Spadaro, Gaetano Ruta e Donata Costa per fare luce su un affare da un milione e mezzo di dollari: la compravendita di un grosso carico di petrolio russo all’Eni, che avrebbe dovuto far confluire 65 milioni di dollari nelle casse del Carroccio per finanziare la campagna elettorale alle Europee. Un’inchiesta che parte dall’audio dell’incontro del 18 ottobre 2018 all’hotel Metropol di Mosca tra Savoini, l’avvocato Gianluca Meranda, l’ex bancario Francesco Vannucci e tre russi, tra cui Ilya Andreevich Yakunin e Andrey Yuryevich Kharchenko, legati all’ideologo di estrema destra Aleksandr Dugin e a Vladimir Pligin, uomo forte del presidente Vladimir Putin. Una registrazione finita nelle mani di un giornalista dell’Espresso, non si sa da chi effettuata. Nel frattempo, però, molte altre registrazioni audio sono state trovate dagli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria milanese sul cellulare di uno dei tre indagati, l’avvocato Meranda. Colloqui ma anche telefonate che il legale avrebbe registrato attraverso un’applicazione “spia” scaricata sul suo telefonino.

Siamo nel campo delle ipotesi di reato. L’inchiesta va avanti tra imbarazzati silenzi e sbrigative colpevolizzazioni. Oltre tutto, nel caso in cui fossero accertate responsabilità di Salvini e c., esisterebbe anche l’aggravante di affari assai poco puliti fatti con Stati non rientranti nelle nostre storiche alleanze. Mi è venuto spontaneo azzardare un collegamento fra la tangentopoli di alcuni decenni fa e quella di cui sopra, peraltro tutta da dimostrare (è doveroso ribadirlo, infatti il mio discorso è più politico che giudiziario), meno sistemica e più episodica, ma certamente molto simile. Sarebbe sempre l’Eni al centro di queste vicende equivoche, che ha funzionato in passato come pronta cassa per i partiti, fin dai gloriosi tempi di Enrico Mattei, il quale, pur nella sua grande, coraggiosa e ammirevole capacità imprenditoriale, non si faceva scrupolo di pagare spregiudicatamente i partiti come se fossero dei taxi. Sempre delicatissimi i rapporti fra economia di Stato e politica.

Mi sento di ridimensionare le responsabilità di certi personaggi politici del passato, protagonisti di una stagione complessa, che va rivista e storicamente ricollocata nella storia del nostro Paese. Forse non aveva tutti i torti Bettino Craxi nel sostenere che la politica aveva dei costi tali da essere costretta a finanziarsi illegalmente con le tangenti: «Sono sempre stato al corrente della natura non regolare dei finanziamenti ai partiti e al mio partito. L’ho cominciato a capire quando portavo i pantaloni alla zuava […] In Italia il sistema di finanziamento ai partiti e alle attività politiche in generale contiene delle irregolarità e delle illegalità, io credo, a partire dall’inizio della storia repubblicana. Questo è un capitolo, che possiamo anche definire oscuro della storia della democrazia repubblicana, ma da decenni il sistema politico aveva una parte, non tutto, una parte del suo finanziamento, che era di natura irregolare o illegale; e non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere e non ne era consapevole solo chi girava la testa dall’altra parte. I partiti erano tenuti ad avere dei bilanci in parlamento, i bilanci erano sistematicamente dei bilanci falsi, tutti lo sapevano, ivi compreso coloro i quali avrebbero dovuto esercitare funzioni di controllo […]»

Di qui a costruire un vero e proprio modus vivendi corrotto, centrale e periferico, ci passa una bella, o meglio brutta, differenza. Tuttavia non credo fossero tutti ladri e tutti stupidi i politici di quell’epoca, così come non credo siano tutti onesti e furbi i politici di oggi. Se posso essere sincero, alla fine dei conti, rimpiango i tempi passati nonostante lo schifo di tangentopoli.

 

 

 

La seria agorà pensionistica

È difficile parlare di pensioni da pensionati. Prima di tutto perché si sperimenta che la pensione non è l’agognato paese di Bengodi a cui si aspira durante la vita lavorativa. Tutto si limita alla possibilità di coltivare quegli interessi forti che abbiamo potuto solo assaporare per mancanza di tempo: ognuno se li deve cercare e guai se non riesce a trovarli.

In secondo luogo perché ci si sente, e in un certo senso si è, privilegiati per aver conquistato un diritto, che, per questioni di tempo e di leggi in continua evoluzione, molti non hanno ancora raggiunto e addirittura non sanno se e quando riusciranno a raggiungere.

In terzo luogo perché vivere, seppur seriamente e con impegno, la fase pensionistica della propria vita è comunque un freno ad analizzare fiduciosamente e concretamente il futuro: nasce una sorta di spirito di insana ed egoistica rassegnazione, che ci distoglie dallo sguardo complessivo sulla società nel suo divenire.

Certo sarebbe meglio parlare di lavoro e della costruzione di nuovi posti di lavoro, invece siamo portati a discutere partendo dalla fine e non dall’inizio. Anche i sindacati sono condizionati dai molti pensionati loro associati e quindi sono portati a privilegiare gli interessi dei pensionati e dei pensionandi a discapito, in un certo senso, di quanti stanno faticosamente cercando di entrare nel mondo del lavoro. Tuttavia il problema è grande e su di esso si gioca la stabilità finanziaria dello Stato, la prospettiva di vita dei cittadini, la serenità del presente e del futuro.

Da una parte c’è l’allungamento della vita media delle persone che costringe a rivedere i conti di un impianto scricchiolante, dall’altra parte c’è il sacrosanto diritto di avere la certezza di uno sbocco dignitoso alla fine del proprio impegno lavorativo, dall’altra parte ancora c’è la necessità di raggiungere una certa equità tra i diversi trattamenti pensionistici a livello categoriale e generazionale. Si tratta di una partita fondamentale per il cosiddetto stato sociale, che dovrebbe accompagnare il cittadino nelle diverse fasi e nelle diverse problematiche della sua esistenza.

In Francia su questo tema, forse anche in modo strumentale e pretestuoso, sta succedendo il finimondo di proteste in piazza, inquinate dal ricorso alla violenza: per ora i manifestanti sembra che abbiano ottenuto il risultato di una pausa governativa di riflessione in ordine alla riforma del regime pensionistico con i relativi sacrifici legati soprattutto all’innalzamento dell’età pensionistica. In Italia il tema, da un decennio a questa parte, è diventato terreno di scontro politico fra un obbligato rigorismo finanziario e la oltranzistica, populistica ed illusionistica difesa dei diritti a prescindere dalla loro compatibilità economica. Dal responsabile, rispettabile e non esaustivo pianto di Elsa Fornero alla sbruffonata continua di Matteo Salvini. Facile promettere a tutti pensioni migliori o comunque il mantenimento di quelle in essere, molto più difficile trovare la quadratura del cerchio nei conti dell’Inps.

Rimanere fra color che son sospesi è però il peggio che possa succedere. Si faccia una riforma seria, che metta in priorità gli interessi dei giovani e di quanti svolgono lavori cosiddetti usuranti, che trovi un giusto equilibrio tale da  garantire a tutti un minimo di sussistenza dignitosa, che abbia il coraggio di chiedere qualche sacrificio a chi lo può e lo deve fare a vantaggio di chi sta molto peggio e di chi non vede un futuro, che inserisca dei meccanismi automatici di regolazione per adeguare il sistema alle aspettative di vita ed al costo della vita.

Se la sinistra vuole recuperare credibilità, superando fattivamente il tormentone del suo distacco dai problemi della gente, penso sia questo il terreno scomodo, ma giusto e doveroso, per impegnarsi. Non per difendere tutti e nessuno, ma per ragionare di diritti e del loro mantenimento nel tempo. Se il sindacato vuole uscire dal corporativismo e dal rivendicazionismo sterili, si faccia carico di elaborare proposte serie e complessive. Lasciamo da parte la propaganda spicciola e parliamo di problemi reali e di soluzioni stabili. Forse la gente capirà, sottolineo forse.

 

Le brusche ciliegine sulla torta salviniana

Nella mia ormai purtroppo lunga vita, durante la quale ho avuto l’ardire di interessarmi di politica, da attivista prima e da osservatore esterno poi, ne ho viste e sentite di tutti i colori e quindi faccio fatica a scandalizzarmi di fronte a certi episodi, anche se piuttosto fastidiosi o disgustosi.

Nell’inchiesta di PiazzaPulita, andata in onda su La7, è venuta a galla l’offerta che a Ferrara il vicecapogruppo del Carroccio avrebbe fatto a una consigliera leghista “ribelle”: «In parole povere tu ti togli dal c…o come giustamente, ingiustamente anzi, il vice sindaco auspicava e noi ti diamo un lavoro». È questo il contenuto dell’audio, mandato in onda da PiazzaPulita su La7, che imbarazza la Lega in quest’ultimo scampolo di campagna elettorale in Emilia Romagna. La persona che dovrebbe farsi da parte e ottenere così un lavoro è una consigliera comunale “ribelle” della Lega a Ferrara. E la persona che offre l’impiego è il vice capogruppo del partito. Sul tavolo un contratto a tempo indeterminato come hostess in una società di servizi.

Non so e non mi interessa in cosa consista il ribellismo della consigliera e non sono al corrente del perché la vogliano elegantemente giubilare. In sé e per sé non c’è niente di clamoroso, sono cose che possono capitare anche nelle migliori famiglie politiche e non solo politiche. E allora? Allora c’è un piccolo, grande particolare: se roba del genere viene da chi si presenta come il ribaltatore della politica, tutto diventa oltre modo ridicolo.

D’altra parte la Lega è stata più o meno stretta alleata di Silvio Berlusconi nei suoi inqualificabili governi… Ha le sue belle grane giudiziarie come partito… Ha cambiato strumentalmente strategia passando dal separatismo nordista al nazionalismo populista… Ha governato regioni in combutta col centro-destra ed è stata recentemente al governo nazionale con i “mangiaforzitalioti”… Fa la difesa d’ufficio dei bambini vessati a Bibbiano e non fa una piega con i bambini affogati nel mar Mediterraneo… Fa una bandiera del cattolicesimo identitario e simbolistico e teorizza il respingimento dei barconi carichi di disgraziati in cerca di salvezza… Sventolava il cappio nel periodo di tangentopoli e ora è portatrice di una politica ultragarantista in campo giudiziario… Strizza l’occhio al sud e punta a rafforzare deleghe di potere al nord… Attacca con violenza il premier Giuseppe Conte ritenendolo un usurpatore del potere popolare e fino a qualche mese fa le andava benissimo a capo di un governo che suonava come presa per i fondelli degli elettori… Giudica il governo giallorosso come una sciagura, mentre tale governo non fa altro che cercare di rimediare alle sciagure  fatte dal precedente governo gialloverde… Si mette perfettamente in linea con l’indirizzo politico trumpiano salvo flirtare (sic) con la Russia di Putin.

Il tutto avviene con una sorprendente e “bestiale” disinvoltura. L’episodietto da cui sono partito non è altro che una piccolissima ciliegina sulla torta, sulla quale tuttavia potrebbero scivolare le velleità leghiste in terra emiliano-romagnola. Ma cosa volete che sia un casinetto qualsiasi combinato in un comune romagnolo di fronte ad una candidata a governatore regionale leghista, che, come suo unico biglietto da visita, presenta la maglietta esibita in Senato con l’invito a parlare di Bibbiano ( e chissà che finalmente di Bibbiano tra forzature, strumentalizzazioni, polemiche e gravi errori non si arrivi finalmente a parlare veramente per capirci qualcosa di preciso), che si presenta a fianco di Matteo Salvini e sembra quei cagnolini di stoffa, postati davanti al lunotto posteriore degli automezzi, che fanno sempre sì con la testolina.

Anche le reazioni politiche degli avversari della Lega riguardo al suddetto episodio mi sono parse esagerate e strumentali. Soffiare sul fuoco delle polemichette da quattro soldi non fa bene a nessuno. Concentrarsi sulle ciliegine non serve per rifiutare la torta.  Se proprio si vuol fare un po’ di polemica, meglio andare al sodo come, nel mio piccolo, ho cercato di fare. Sono proprio curioso di vedere cosa voteranno i miei corregionali. “No pasaran”, ma solo il fatto di ipotizzare che possano passare è qualcosa di drammatico e assurdo. Il bello della democrazia? Non ne sono molto sicuro…