Il jazz, musica da Camera

Non sono un cultore della psicologia e lasciamo perdere il fatto se gli psicologi meritino o meno l’attenzione che l’attuale società sta loro riservando. Se posso dire la mia, nutro poca stima nei confronti di tre categorie di esperti, studiosi (no scienziati): psicologi, sociologi ed economisti. Spero di non offendere o irritare nessuno perché di paradossi si tratta. Gli psicologi hanno sempre ragione in quanto, per il dritto o per il rovescio, in un modo o nell’altro, in un senso o nel suo contrario, trovano sempre una spiegazione, piuttosto campata in aria, e nessuno è in grado di confutarla. I sociologi, come detto più autorevolmente da altri, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Questa volta tuttavia, mi cospargo il capo di cenere e riporto quanto scrive la psicologa Brunella Gasperini: “Dovremmo imparare a improvvisare nella nostra vita, come fanno i musicisti jazz: inventare sul momento, intraprendere percorsi spontanei che spaziano e sorprendono, vanno oltre la rassicurante partitura, escono dai soliti percorsi. Che riescono bene proprio quando non sono pensati ma lasciati liberi di seguire le sensazioni del momento. Dovremmo “diventare jazzisti” per la nostra evoluzione personale. Immediati, spontanei, intuitivi. Accordati con il nostro mondo sommerso, intonati al nostro istinto, quell’insieme di emozioni, spinte, passioni, informazioni che sa molto di noi, dei bisogni e dei desideri. Che può indicarci la direzione per realizzarci. Perché tendiamo a essere soprattutto esecutori nella vita, spesso anche bravi, senza riuscire però a spingerci oltre lo spartito, uscire dal tema in modo creativo. Schiacciati da strati smisurati di logica, conformismo, razionalità. Viviamo in una cultura che non ci aiuta, in questo, che esalta la mente matematica e organizzata, che ritiene la ragione superiore a tutto e l’emotività solo un insieme di aspetti da contenere”.

Questo lungo preambolo mi serve per apprezzare la stizzita reazione di Nancy Pelosi, la speaker della Camera Usa, al terzo discorso sullo stato dell’Unione tenuto dal presidente Donald Trump. Nessuna stretta di mano, poco prima dell’inizio del discorso con la terza carica dello Stato, che a sua volta aveva accolto Trump nell’aula della Camera senza ricorrere alla consueta formula “è un mio onore e privilegio introdurre il presidente degli Stati Uniti”. Non solo. Pelosi è stata inquadrata mentre con un gesto di stizza strappa la copia del discorso che le era stata consegnata dal presidente. Tagliente il suo commento riportato dai media Usa: “L’ho strappata? È stata la cosa più cortese, considerando quali potevano essere le alternative”.

Da quanto ho potuto capire il presidente Trump ha inanellato una lunga e insopportabile serie di sparate demagogiche e trionfalistiche, dipingendo gli Usa come il paese dei balocchi e trattando gli americani e i cittadini del mondo come se fossero degli allocchi. Bella e coraggiosa la reazione di Nancy Pelosi, così come prefigurato dall’analisi psicologica di cui sopra. Si è sempre discusso, peraltro in tono maschilista, della istintività femminile contrapposta alla razionalità maschile: niente di scientifico e tutto di sessismo fallocratico. Alla (ir)razionale ovazione di consenso parlamentare verso le vomitevoli analisi trumpiane preferisco di gran lunga l’emozionale e clamoroso dissenso del vertice istituzionale camerale.

Il mondo sta prendendo una brutta piega: l’orchestra è diretta sulla base di una partitura inquietante e con un piglio assurdamente e sostanzialmente antidemocratico e reazionario. Quindi mi sembra molto opportuno l’invito a “diventare jazzisti”, ad adottare una musica d’urto, che scuota le menti e infiammi i cuori. Pur con tutte le cautele del caso, servirebbe una “sardinizzazione” a livello statunitense e mondiale: purtroppo negli Usa i democratici sono imbambolati e paralizzati, giocano a fare gli sparring partner di Trump. Sveglia ragazzi, perché qui stiamo andando tutti a puttane! Con tutto il rispetto per le puttane e tutto il disprezzo per Trump!

Il pelo del consenso e il vizio della “sloganizzazione”

“Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”: così recita l’articolo 95 della Costituzione. Giuseppe Conte sta esercitando questi compiti con grande serietà e crescente capacità. Basterà per dare compattezza e continuità all’azione di governo, al di là dei cronoprogrammi che lasciano il tempo che trovano? Sarà sufficiente per colmare le incertezze dei partiti di maggioranza e superare i loro contenziosi?

L’attuale governo, oltre le difficoltà oggettive dell’affrontare i problemi sul tappeto,  oltre  la defatigante ricerca di un compromesso su molte materie del contendere, si trova a fare i conti con una situazione (quasi) paradossale: l’urgenza di cambiare stile, passo e contenuti, avendo però, quale maggiore (sul piano numerico) forza politica su cui basarsi, il M5S, che dovrebbe cambiare in larga parte se stesso (una terza forza calante nel suo velleitario non essere né di destra né di sinistra), il suo modo di fare politica (un populismo informatico che rischia di rimanere senza popolo), il suo programma (una testarda serie di obiettivi demagogici).

L’arte di governare consiste, come del resto succede in tutte le umane convivenze, anche e soprattutto nel trovare compromessi ai più alti livelli: Conte ci sta provando con indubbia abilità e gliene va dato atto. Il compromesso necessità però, a monte, di chiarezza di idee e di capacità di dialogo in capo ai partner. Non vedo né l’una né l’altra. Il partito democratico porta soltanto molta pazienza, ma non è in grado di mettere alle corde gli sfuggevoli grillini. I pentastellati continuano come se niente fosse successo, come se non avessero la brutta macchia di un’esperienza governativa con la Lega, come se non vedessero i loro consensi in caduta libera, come se i loro pallini governativi non fossero andati a pallino.

I cinque stelle non hanno capito che la gente non li sopporta più nella loro stucchevole smania di cambiare il mondo politico: sono riusciti in poco tempo a perdere consensi a raffica persino laddove, come in Calabria, hanno distribuito a piene mani il reddito di cittadinanza. Volendo estremizzare i discorsi al fine di “disloganizzare” la politica, devono convincersi che i problemi della giustizia non si risolvono allungando i tempi per la prescrizione, i problemi della mancanza di lavoro non si risolvono con una mancia elargita ai poveri diavoli, il problema della manutenzione e gestione delle infrastrutture stradali non si risolve con la revoca della concessione ai Benetton, i problemi della produttività e funzionalità del Parlamento non si risolvono diminuendo gli emolumenti e il numero dei parlamentari. E, in men che non si dica, si perdono anche i voti. Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

I grillini, ammesso e non concesso che possano ancora chiamarsi così, devono avere il coraggio di cambiare pelle e carne. Finirla con la rivendicazione di un’assurda continuità, che non può esistere, smetterla col mero riciclaggio dei vaffa, che nel frattempo hanno perso incisività e credibilità, dare un taglio alla presunzione da primi della classe, perché la gente li sta retrocedendo a ruoli molto più anonimi e defilati, azzerare in larga parte una finta classe dirigente inadeguata e indifendibile. Non basta che la rapa diventi una pallida oliva per la quale non si può delirare. Non bastano i doppi salti mortali di Giuseppe Conte col rischio, alla lunga di sfracellarsi. Non basta la paura di andare al voto e di consegnare l’Italia ad una destra rissosa, penosa e pericolosa. Non ci si può permettere di temporeggiare in attesa che i grillini muoiano di morte naturale.

Qualcuno, un po’ ottimisticamente, vede il M5S incamminato verso un partito del 13-14 per cento (mi sembra lontano da questo obiettivo), capace, come il Psi di Craxi, di essere decisivo, ricattando a destra e manca (Grillo di Tacco). Se fosse così, spererei che il PD non si ispiri al CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) di infausta memoria, per fare magari un CAZ (Conte, Appendino, Zingaretti).

 

Prescrizione lunga e (non) seguitate

In Italia, diceva Vittorio Zucconi, il grande giornalista prestato per qualche tempo alla politica, si vogliono i servizi segreti pubblici. Siamo cioè il Paese del paradosso e “ci divertiamo” ad affrontare i problemi in questa chiave. Anche il dibattito sul tormentone della prescrizione ne risente.

Bisogna varare prima possibile la riforma del processo penale che accelera i tempi delle indagini preliminari e dei procedimenti. Il motivo? Con la riforma della prescrizione, in vigore dal 1° gennaio del 2020, aumenterà il carico di lavoro della corte di Cassazione. Lo ha detto il Primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, presso la corte di Cassazione alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Mammone ha spiegato cosa succederà con la riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio se l’esecutivo non dovesse approvare in tempi stretti la riforma del processo penale. “Nel momento in cui sul dato delle prescrizioni non ha ancora inciso la disciplina della sospensione dopo la sentenza di primo grado, è utile evidenziare quali conseguenze potrebbero derivare da tale innovazione al giudizio di legittimità, una volta entrata a regime e perciò non prima di cinque anni, tale essendo il termine di prescrizione per i reati contravvenzionali puniti in modo meno grave”, ha detto il presidente della Suprema corte. “Accanto ad un’auspicabile riduzione delle pendenze in grado di appello derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie, si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di cassazione di circa 20.000-25.000 processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado. Ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale (vicino al 50%) che difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato, nonostante l’efficienza delle Sezioni penali della Corte di cassazione, le quali definiscono già attualmente circa 50.000 procedimenti annui. Risulta, pertanto, necessario porre allo studio e attuare le più opportune soluzioni normative, strutturali e organizzative tali da scongiurare la prevedibile crisi che ne deriverebbe al giudizio di legittimità, ha spiegato Mammone.

Cosa vuol dire tutto ciò? Che la struttura giudiziaria è tarata sul numero dei processi al netto della inevitabile prescrizione e non tenendo conto che tutti i processi potrebbero arrivare all’ultimo grado di giudizio. Mi sovviene quanto diceva un mio carissimo collega esperto in materia fiscale: per mettere in crisi la macchina dei controlli basterebbe inondare la struttura pubblica di dichiarazioni dei redditi fasulle. Per mettere in gravissima difficoltà la Cassazione basta aprire il rubinetto dell’allungamento dei tempi della prescrizione. In pratica il sistema giudiziario è fondato sulla propria inefficienza, che manda in prescrizione i procedimenti e lascia respirare i tribunali e le corti, quella di Cassazione in particolare.

L’uovo di Colombo, che tutti vedono ma nessuno pratica, consiste nella ragionevole durata del processo: se i processi fossero più veloci si starebbe nei tempi e il discorso della prescrizione si sgonfierebbe. D’accordo, ma il rischio intasamento dei livelli più elevati rimarrebbe comunque. Quindi torniamo al gatto che si morde la coda, a meno che il potenziamento strutturale non sia tale da mettere in grado la giustizia di giudicare tutti in fretta, sperando che la fretta non sia cattiva “sentenziera”.

Una cosa è certa, e il M5S se la deve mettere bene in testa: non basta allungare i tempi della prescrizione per costringere la giustizia a funzionare e tanto meno ad assicurare alla giustizia i colpevoli. Della serie “è arrivato un altro delinquente, prescrizione lunga e seguitate”. La prescrizione risponde ad un principio costituzionale che, come tutti i principi e i diritti, può essere abusato: non per questo si giustificano le limitazioni dei diritti. È una logica pericolosissima che, portata all’eccesso, finisce col calpestare lo stato di diritto a favore della ragion di stato. Il dissesto idrogeologico non si risolve solo a valle alzando e rinforzando gli argini, ma a monte rispettando la morfologia del terreno. Il discorso vale anche per il funzionamento della macchina giudiziaria.

Il dibattito, dal livello governativo a quello parlamentare, dalla magistratura all’avvocatura, dalla dottrina al giornalismo, si sta avvitando su se stesso, radicalizzando sui massimi principi, abbassando sulle strumentalizzazioni politiche e sulle istanze corporative: sempre meglio la guerra della discussione che la pace dei sepolcri. Tuttavia un po’ più di serenità non guasterebbe.

Sì, perché, alla fine, la scuola la fanno gli insegnanti, la sanità la fanno i medici, la cucina la fanno i cuochi e la giustizia la fanno i giudici: tutto il resto è un contorno importante, essenziale, ma non decisivo. C’è troppa confusione nella cucina giudiziaria: nei ristoranti che si rispettano, c’è il viavai dei camerieri che gridano le ordinazioni, ci sono i pentolini e i pentoloni che bollono, gli sguatteri che sbucciano le patate, ma tutto dipende dal carisma dello chef. Possiamo avere una legislazione (quasi) perfetta, un ministro all’altezza del compito, tutti i computer possibili e immaginabili, tutti i migliori cancellieri ed uscieri, tutti i più bravi avvocati del mondo, se incappiamo in un giudice che non sa o non vuole fare il proprio mestiere… Non ci aiuterà la prescrizione, lunga o breve che sia.

 

Il mio ruspante antifascismo a prova di revisionismo

Se la storia è la concatenazione di fatti, comporta in sé la conseguenza di rivedere continuamente i propri giudizi alla luce delle novità emergenti. Non si tratta di senno del poi, ma di riesame critico alla luce delle verità del passato e delle situazioni presenti. La morte di Giampaolo Pansa ha scatenato la polemica sul revisionismo.

Parto, come spesso mi accade, dall’eredità culturale a livello familiare. Mio padre mi ha trasmesso una concezione inossidabile dell’antifascismo. Innanzitutto in quanto l’antifascismo era parte integrante e fondamentale della sua vita, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Su questo non si poteva discutere: quando mia madre timidamente osava affermare che però Mussolini aveva fatto anche qualcosa di buono, mio padre non negava, ma riportava il male alla radice e quando la radice è malata c’è poco da fare.

In secondo luogo perché resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), repubblica (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär“.

Tutto ciò non vuol dire santificare acriticamente la resistenza e i partigiani: anche per loro in mezzo a tante luci esistono delle ombre. Negare le ombre non vuol dire vedere meglio le luci, anzi. Ho letto diversi libri di Pansa su questa delicata materia. Ero partito con qualche pregiudizio, ma, strada facendo, l’ho superato e non ho trovato una denigrazione del movimento resistenziale, ma una sua rilettura critica alla luce di certe indubbie degenerazioni ideologiche e comportamentali. Ne sono uscito arricchito e niente affatto sconvolto.

Leggo quindi con sconcerto quanto scrive Tomaso Montanari su Micro Mega: “Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo». E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «In generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano revisionismo storico»”. Se Montanari voleva dire che non si dovrebbe scherzare col fuoco del revisionismo, sono d’accordo. Se voleva dire che forse Pansa si è lasciato trascinare in un vortice critico, rischiando pure lui di fare d’ogni erba un fascio, può darsi abbia ragione. Se voleva lanciare un appello alla cautela e alla prudenza per evitare di portare acqua al mulino della legittimazione del neofascismo, posso concordare. Non mi sento tuttavia di catalogare tout court Giampaolo Pansa tra gli amici del giaguaro della nostra storia.

Ho atteso con grande interesse l’uscita del film sulle “Aquile randagie”, il movimento antifascista nato all’interno dello scoutismo, quale coraggiosa reazione alla messa fuorilegge disposta da Mussolini dopo alcuni anni dalla sua salita al potere. È fortunatamente in atto la riscoperta di questo movimento, a cui convintamente ed operosamente aderì mio zio, don Ennio Bonati. Il film è indubbiamente un’ammirevole ricostruzione romanzata di una fase della vita dello scoutismo italiano, impegnato nell’antifascismo quale scelta esistenziale ed etica prima che politica. Il film è bello: un’occasione per conoscere e rinverdire la storia dello scoutismo anche e soprattutto nella sua generosa e coraggiosa azione antifascista e nel salvataggio delle vittime della violenza, da qualsiasi parte e in qualsiasi momento venisse. Il punto è questo: una parte di chi aveva combattuto il fascismo non è riuscito a deporre le armi, ma si è fatto trascinare in un’opera di giustizialismo spicciolo e sbrigativo, che, se da una parte può essere comprensibile, dall’altra ha innescato una spirale di inutile violenza finendo nel colpevolizzare degli innocenti e creare ulteriori vittime. Questo non toglie niente ai valori dell’antifascismo, ma chiede un supplemento di analisi critica sul post-fascismo. Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Così come è sacrosanto ammettere come dal punto di vista ideologico l’antifascismo abbia dovuto fare i conti con l’incombente macigno comunista. Il dopoguerra ha vissuto, fortunatamente in modo pacifico, il duro scontro fra l’opzione per l’impostazione democratica di stampo occidentale e il riferimento alla democrazia di tipo sovietico. La storia ha dato ragione ad una parte senza bisogno di criminalizzare l’altra: questo è il dato caratteristico dello stile democratico. Sbagliava indubbiamente chi riteneva che l’antifascismo dovesse approdare ad un sistema comunista.  Se questo vuol dire revisionismo, mi sta benissimo.

Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto stiano facendo dall’alto gli attuali aspiranti leader. Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Lasciatemi ricordare con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente. Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi. Questo vuol dire antifascismo a prova di revisionismo.

 

 

 

 

Il penoso valzer del nazionalismo

La Brexit è compiuta, almeno a livello istituzionale. Staremo a vedere la sua concretizzazione e ne valuteremo le conseguenze. Per ora mi basta e avanza osservare in lontananza le reazioni.

Il 29 gennaio 2020 la Brexit, ha avuto via libera del Parlamento Ue: gli eurodeputati cantano commossi la canzone della fratellanza. Gli eurodeputati si sono alzati in piedi per cantare il Valzer delle candele (“Auld Lang Syne”), la tradizionale canzone scozzese che viene cantata nella notte di capodanno per dare addio al vecchio anno e in occasione dei congedi, delle separazioni e degli addii. “Auld Lang Syne” è considerata la canzone della fratellanza. Il testo è un invito a ricordare con gratitudine i vecchi amici e il tempo passato insieme. In Francia è conosciuta con il titolo “Ce n’est qu’un au revoir”. Quindi c’era tanta tristezza negli europarlamentari britannici, non in tutti però.

Infatti Nigel Farage si è presentato al Parlamento Europeo con dei calzini con la Union Jack, la bandiera del Regno Unito. L’europarlamentare euroscettico, fautore della Brexit e fondatore del Brexit Party, ha mostrato orgogliosamente i calzini agli altri deputati: “Voglio che la Brexit porti a un dibattito in tutta l’Europa. Noi adoriamo l’Europa, ma odiamo l’Unione europea, spero che questo sia inizia della fine di questo progetto che non funziona ed è antidemocratico” sostiene Farage, prima di sventolare delle bandierine del Regno Unito insieme agli altri deputati, come bambini a una festa di compleanno.

Nigel Farage, da europarlamentare, ha voluto parlare chiaro anche nel suo ultimo giorno a Strasburgo. Ha affermato nuovamente la sua contrarietà all’Unione europea augurandosi un veloce smantellamento del sistema di Bruxelles e ha chiesto ad altre nazioni di seguire il Regno Unito nella missione di colpire l’Unione europea. Toni duri che hanno contraddistinti da sempre la sua campagna e che contrastano con il dolore di quei deputati britannici che invece hanno da sempre sostenuto il Remain.

Mentre il premier Boris Johnson ostenta goffamente soddisfazione, la gente ha prevalentemente reagito all’inglese, soffocando le emozioni sotto una coltre di impassibilità. Così la maggior parte dei britannici sta affrontando il momento storico in cui il paese scivolerà via dall’Unione europea. In Parliament Square e nelle altre piazze del paese si riuniranno i più appassionati: chi festeggia da una parte e chi ci tiene a far sentire la propria voce dissenziente per un’ultima volta, prima che il sipario sui quarantasette anni comunitari di Londra cali.

Che strano Paese! Ha fatto, nel bene e nel male, la storia del mondo. Di questi tempi si è arrogata addirittura il diritto di mettere indietro le lancette dell’orologio. Sono ultrasicuro che la storia gli darà torto marcio: non si può andare avanti nella divisione, il progresso richiede unità e collaborazione. Mettiamocelo bene in testa. Con l’orgoglio e l’egoismo nazionalista non si va da nessuna parte, anzi si va in malora. Evviva l’Europa Unita, evviva l’Unione Europea! Meglio uniti con parecchi difetti che separati con l’illusione di essere perfetti… Speriamo che almeno chi ha cantato il valzer delle candele abbia il coraggio di tenerle accese e chissà che in prospettiva, a lume di candela, si possa celebrare una cena di riconciliazione. Speriamo. La storia a volte impone delle veloci virate. Basta poco per cambiarne il corso. Auguriamoci che i ripensamenti non avvengano a furore di coronavirus.

I capponi pentastellati di Grillo

Pur con tutta la possibile e pietosa comprensione, pur con il doveroso rispetto verso gli sconfitti, non posso esimermi dall’osservare, con ironica ed umoristica puntualità, la reazione litigiosa all’interno del M5S dopo l’ennesima debacle elettorale, che sta portando questa formazione politica dagli altari della protesta alla polvere del consenso in via di sparizione.

Il movimento ha potuto reggersi sulla facile e generica onda protestataria, sull’equivoco del “né di destra né di sinistra”, sulla verve affabulatoria di Beppe Grillo, sulla imprenditoriale e rivoluzionaria informatizzazione di Casaleggio, sulla dabbenaggine dell’insicurezza di tanti, sulla strumentale omertà di molti. Poi, bruciando le tappe, è entrato nella stanza dei bottoni e lì è cascato l’asino: non ne hanno più indovinata una e la gente ha fatto presto a scrollarseli di dosso.

Gli osservatori ed i commentatori politici si chiedono se la sorte pentastellata sia ormai segnata o possa essere in qualche modo e in qualche misura recuperabile. Bisognerebbe, come minimo, mettere indietro le lancette del tempo, riandare al dopo elezioni del 2018 e ricominciare tutto daccapo. È impossibile, quindi…

L’unica dignitosa via di uscita sarebbe quella di ripensare una umile strategia fatta di contenuti plausibili, sulla base della quale dialogare e governare con l’unica forza politica potenzialmente disponibile, vale a dire il partito democratico, al quale occorrerebbe fare iniezioni di pazienza a base di paura elettorale. Invece la litigiosità, tenuta fino ad ora relativamente sotto traccia, sta esplodendo e dà l’impressione di chi pensa già alla spartizione delle spoglie piuttosto che l’idea di chi punta a tenere in vita il moribondo in attesa del miracolo.

Sì, perché occorrerebbe proprio un miracolo per rimettere in piedi il M5S. Ebbene a fronte di questa emergenza il penoso reggente pentastellato ha trovato il modo di rivendicare ancora il numerico primato parlamentare e il conseguente peso a livello governativo. Pura follia politica! Questi sono i testardi atteggiamenti di chi si vuol far cacciare fuori con onore (?). Luigi Di Maio, il comandante che abbandona la nave quando comincia a sprofondare, rimprovera a Giuseppe Conte di appoggiarsi troppo al Pd nella sua azione di governo. E a chi dovrebbe fare riferimento? All’armata Brancaleone dei grillini in rotta? Qualche grillino duro e puro parla di scissione? Dividere quel che non c’è risulta un’operazione molto difficile. Altri pensano di tornare al vecchio amore “litigarello” con la Lega: ve li immaginate i reduci che si presentano al nemico per chiedere pietà? I più gettonati parlano di rilancio e di ritorno allo spirito iniziale. Come detto sopra, la storia non torna indietro e quindi queste sono parole velleitarie, che servono solo a perdere tempo o, se si vuole, a guadagnare il tempo necessario per morire lentamente e nel modo più indolore possibile.

Mi piacerebbe avere un colloquio franco e amichevole con Beppe Grillo: chissà cosa direbbe fuori dai denti. Forse l’unica soluzione sarebbe proprio che Grillo riprendesse in mano la situazione, facesse pulizia di nani e ballerine, si spendesse in prima persona, si liberasse cioè in fretta dei capponi. Qualcuno si ricorderà della metafora suggerita dal Manzoni ne “I Promessi Sposi”, quando descrive Renzo che va dall’avvocato Azzeccagarbugli portandogli in dono quattro capponi, che tiene in mano stringendoli per le zampe legate insieme e a testa in giù, con le povere bestie “le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. Il problema è però che Grillo assomiglia molto all’avvocato Azzeccagarbugli e allora…

 

Neofascismo: indizi gravi, precisi e concordanti

Ogni giorno ha la sua pena: mi riferisco agli ormai quotidiani episodi di risorgente razzismo, antisemitismo, filo-nazifascismo, negazionismo e cieco revisionismo. Sono ormai sotto gli occhi di tutti e quindi è inutile richiamarli (si rischia oltre tutto di fare involontariamente una macabra pubblicità), ma è necessario invece valutarli in tutta la loro gravità.

Sono perfettamente d’accordo col professor Massimo Cacciari, che individua la causa principale e il leitmotiv di questo autentico stillicidio nell’ignoranza totale della storia recente: gente che scrive sui muri e agisce con violenza in preda ad un fanatismo completamente avulso dalla storia e quindi schiavo degli impulsi irrazionali dell’anti-storia.

Una seconda riflessione di Massimo Cacciari riguarda l’invito a sentirsi tutti in colpa per quanto avvenuto nella storia del nazifascismo, per le complicità, i silenzi omertosi, le rimozioni facili, i pressapochismi culturali, gli errori e le omissioni di ieri e di oggi. Un esame di coscienza che deve riguardare non solo la politica, ma anche il mondo della cultura, dell’istruzione, della formazione, dei rapporti con le giovani generazioni.

Aggiungo che a livello mondiale e nazionale si sta creando il brodo di coltura in cui trovano alimento questi gesti estremi frutto di un clima di individualismo, egoismo, odio che sta caratterizzando il nostro tempo: c’è chi semina vento e quindi non ci si può stupire della raccolta della zizzania.  A tale riguardo mi sembra emblematico e significativo l’episodio di un consigliere comunale leghista che si è dichiarato contrario all’intitolazione di un ponte a Sandro Pertini. Si può essere contrari a tutto, ma con motivazioni serie. Nel caso in questione invece il rifiuto è stato argomentato in modo che rivela ignoranza abbinata a cattiveria: «Elogiò Stalin, concesse la grazia al partigiano Toffanin, che uccise molte persone e lui stesso, capo partigiano, ammazzò una marea di persone considerate accusate di essere fasciste o collaborazioniste con i fascisti (una sorta di caccia alle streghe). Lo stesso Sandro Pertini che annunciò di essere “un brigatista rosso”. Ci vuole coraggio a fare una richiesta simile. Se gli verrà dedicato un ponte chiederò di dedicare una via alle stragi partigiane, o alle vittime dei partigiani e delle brigate rosse».

Vista la reazione al suo delirante post, il leghista lo ha cancellato e ne ha pubblicato uno di scuse: «Spero di mettere fine a ciò che si è sviluppato sui social in questi giorni, tra miei possibili errori, auguri di morte ed offese. Per quanto si possa rimediare visto che il sasso è lanciato. Chiedo SCUSA se qualcuno pensa io possa aver offeso la memoria di Sandro Pertini e ribadisco, probabilmente non avrei dovuto fare quel post. Chiedo SCUSA per aver sbagliato. Avevo cercato di rimediare subito, rimuovendo il post dopo 20 minuti ma era già stato fatto uno screen e quindi non ho potuto più rimediare. Quando si fa un errore l’importante è rendersene conto ed andare avanti, se ho sbagliato me ne assumo le responsabilità e fine del discorso. Tutti sbagliano nella vita, a 21 anni forse è ancora più facile sbagliare e penso anche che esistano errori molto più gravi. Comunque, non cerco giustificazioni, sono una persona seria e non sono uno scemo, per questo mi assumo le mie responsabilità».

Non bastano frettolose scuse come non basta bollare di stravagante imbecillità gli atti che scherzano coi fantasmi del passato, ma bisogna prendere sul serio l’insorgenza di certi fenomeni per combatterli fin dall’inizio e stroncarli alla radice, nella loro miseria umana, politica e culturale. Esistono indizi gravi, precisi e concordanti che denotano una risorgente e insistente opzione, soprattutto giovanile ma non solo, verso una mentalità razzista, sostanzialmente nazifascista, violenta, aggressiva. Facciamo tutti qualcosa di concreto per arginare una simile deriva.

Apprezzabile in tal senso il cartello “Juden Hier. Qui abita un ebreo, Gesù”, affisso all’esterno della parrocchia «San Giacomo» di La Loggia, nel Torinese, dal parroco, Don Ruggero Marini. Un gesto per smuovere le coscienze e far riflettere sul ritorno sempre più frequente dei gesti di antisemitismo, dopo la scritta antisemita sul muro di casa di una donna ebrea torinese. «Ne avevo affisso uno ieri – spiega il parroco -, ma poi qualcuno l’ha strappato. E così l’ho rimesso. Dobbiamo tutti fermarci e capire cosa sta succedendo e avere coscienza della gravità di certi gesti». E ha aggiunto: «Sono stato allievo a Mondovì di Lidia Rolfi, scrittrice e partigiana deportata a Ravensbruck. Mi ha insegnato l’importanza della Memoria. E in questi giorni bisogna testimoniare e fare riflettere perché il ‘non accada mai più’ sia una presa di coscienza forte e luminosa».

 

Alla ricerca dell’antivirus

“La Cina è vicina” è un’espressione slogan spesso adottata da chi vede la prossimità di un pericolo e replica il titolo di un film del 1967 diretto da Marco Bellocchio, che evocava i timori del comunismo maoista nella borghesia perbenista dell’epoca, riprendendo l’omonimo titolo del libro scritto nel 1957 da Enrico Emanuelli. Proseguo riprendendo quasi integralmente un articolo di Maura Sacher pubblicato su “egnews”.

Da quegli anni sono cambiati i condottieri al governo ma forse non gli obiettivi, infatti, ora più che mai assistiamo al fatto che la Cina è vicina, anzi è già dentro o sopra di noi, in un largo e lungimirante piano di espansione. A poco a poco ci siamo abituati a vedere nelle nostre città, e persino nei più piccoli paesi, la trasformazione o la sostituzione di fori commerciali in locali venduti a famiglie cinesi, la fioritura di ristoranti e di bar, di borsetterie, barberie e sartorie a modico prezzo, e financo pizzerie, con lanterne rosse come insegna. Come inorridire adesso se già decine di marchi industriali nostrani negli anni sono andati a far lavorare i loro manufatti ai nativi del Sol Levante, rivendendoli qui con etichetta Made in Italy, e più di qualche centinaio di aziende italiane sono state vendute ai Cinesi come migliori offerenti. “Pecunia non olet” dicevano i Romani, ovverossia a “caval donato non si guarda in bocca”, la stessa cosa: non fa differenza da dove provenga il denaro, il beneficio, il vantaggio, purché venga. L’obiettivo odierno del controllo cinese sulle rotte delle sue merci e di ogni suo interesse economico e politico è collegare la Cina all’intera Asia ed all’Europa con un ben preordinato piano di strade, ferrovie, programmi industriali quali gasdotti e oleodotti, e una possente logistica sui più strategici porti tra gli Oceani Pacifico e Indiano e del Mediterraneo. In base al progetto dell’attuale erede di quello che fu l’Impero Cinese, oggi annoverato tra gli stati antidemocratici, si dovrebbe formare una ragnatela tra l’Asia dell’Est e l’Europa passando per l’Africa. In pratica si verificherebbe un accerchiamento geopolitico e un supercontinente dominato dagli interessi cinesi. A margine, è lecito porsi la domanda: se la Cina è governata dal Partito Comunista, come mai ci sono tanti capitalisti cinesi che possono investire milioni di denari in giro per il mondo?

La risposta sta nel fatto che, seppure paradossalmente (Marx si “scaravolterà” nella tomba), l’attuale regime cinese è riuscito a coniugare il comunismo sul piano politico col capitalismo sul piano economico, operando una sintesi tra i peggiori difetti dei due sistemi. Il sogno gorbacioviano era assai diverso: far evolvere gradualmente il comunismo in senso democratico introducendo alcuni meccanismi del sistema capitalistico. Progetto fallito. In Russia sono finiti nella brace della mafia putinista, in Cina sono rimasti nella padella comunista in cui tentano di friggere con olio capitalista i più biechi interessi imperialisti.

Il coronavirus viene a scombinare le carte del progetto imperialista cinese? Me lo sono chiesto in modo piuttosto cinico, senza arrivare alla provocatoria vignetta del quotidiano danese Jjllands-Posten, che ha “ritoccato” la bandiera rossa con le immagini del virus al posto delle 5 stelle ed a cui ha reagito l’ambasciatore a Copenaghen, che si aspetta le scuse ufficiali al popolo cinese, e soprattutto rifiutando le vomitevoli reazioni razziste che si stanno verificando in giro per il mondo.

Ho colto, con relativo stupore, l’annunciato efficientismo cinese della costruzione in pochi giorni di nuovi ospedali in cui ricoverare le numerose persone colpite dalla pericolosa infezione polmonare di origine virale. Si tratta del solito e falso profilo buonista dei regimi antidemocratici: pochi giorni bastano per edificare nosocomi, molti anni non bastano per costruire un po’ di democrazia. Si nota anche la mentalità autarchica nell’approccio al combattimento di questa terribile guerra contro il coronavirus: della serie, noi siamo forti e vinceremo anche i virus.  Per tutti i regimi che (non) si rispettano vale la famosa barzelletta delle promesse politiche: vi daremo questo, vi concederemo quest’altro, vi offriremo ciò che vorrete… E l’afta epizootica? chiese timidamente un agricoltore della zona interessata. Vi daremo anche quella! rispose gagliardamente il comiziante di turno.

Se Atene piange, Sparta non ride. Se l’imperialismo cinese deve fare i conti con questa drammatica emergenza, che peraltro non potrà mancare di espandersi in tutto il mondo, l’occidente democratico (?) fa i conti coi virus recidivanti del sovranismo, del nazionalismo e del populismo. Basta vedere le quotidiane nostalgie razziste di base e le manifestazioni della prepotenza di vertice. Sembra che negli Stati Uniti siano al lavoro per trovare l’antidoto al coronavirus partito dalla Cina, speriamo trovino anche quello per combattere il virus trumpiano che sta facendo altrettanti disastri in tutto il mondo. Perché l’Emilia-Romagna, vista la prova di maturità fornita alle elezioni regionali, non si candida ad essere sede dell’Autorità per la Sicurezza Democratica? Potremmo esportare il brevetto collaudato nella battaglia contro Salvini: può darsi funzioni anche in Gran Bretagna, negli Usa e perché no, magari anche in Cina e in Russia. Emilia caput mundi! Non sto affatto scherzando.

Le convergenze parallele tra pregi e difetti

Ho ascoltato parecchi commenti all’esito elettorale emiliano-romagnolo. Alla fine mi sono presuntuosamente rifugiato nelle mie riflessioni, andando a rispolverare quanto scritto l’08 novembre dello scorso anno, quando si profilava una prova assai difficile e problematica per la sinistra. Ho deciso allora, più per onestà intellettuale che per narcisistica rivisitazione culturale, di mettere a confronto le “paure” di allora (in carattere corsivo) con i “sollievi” di oggi (in carattere normale). Ne uscirà un pistolotto più lungo del solito, ma spero di qualche interesse.

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Da funzionario, professionalmente e motivatamente impegnato nel movimento cooperativo di ispirazione cristiana, avevo l’opportunità di partecipare a convegni nazionali in cui erano presenti dirigenti cooperativi provenienti da tutte le regioni italiane. Gli emiliani, a livello espositivo e propositivo, facevano la parte del leone e talora finivano con l’infastidire i colleghi del resto d’Italia: sembrava che volessero fare i primi della classe, mentre in realtà non li volevano fare, ma li erano veramente ed erano disposti a comunicare le loro esperienze. L’Emilia-Romagna è una regione all’avanguardia non soltanto nel settore cooperativo, ma in quasi tutti i settori, in essa trovano una buona combinazione i rapporti tra un pubblico forse troppo invadente ed un privato forse troppo strutturato. Ne è uscita una situazione nel tempo sempre più lussuosamente burocratizzata e imbalsamata. Il punto di forza sta paradossalmente diventando un punto di debolezza facilmente aggredibile da chi predica liberalizzazione spinta al limite dell’anarchia.

L’aggressione si è verificata, ma ha ottenuto fortunatamente l’effetto contrario: parlare continuamente di corda in casa dell’impiccato ha infastidito l’impiccato che si è addirittura liberato dall’autocondanna e ha reagito riconquistando libertà di giudizio e di voto. Quando fu eletto segretario della DC Benigno Zaccagnini, il mio direttore editoriale di allora titolò così il suo pezzo: “Il male c’è, ma Benigno…”. Gli emiliani oggi hanno pensato: “Il male c’è, ma ce ne sono dei peggiori…”.

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Il partito democratico sta affilando le sue armi. Innanzitutto conta sull’effetto-Bonaccini, il quale dice della sua amministrazione: «In 5 anni abbiamo fatto tanto, siamo la Regione prima per crescita e la disoccupazione è scesa sotto il 5 per cento». In secondo luogo può contare sull’appoggio di una lista civica, che coinvolge 200 sindaci, alcuni dei quali di centro-destra. Poi Bonaccini avrebbe il sostegno di Confindustria e della Fiom. Inoltre avrebbe la spinta proveniente da importanti personaggi: Romano Prodi, Pierluigi Bersani, Vasco Errani, Virginio Merola. Infine la sinistra farà appello al “sentimento”, punterà sul richiamo della foresta, trasformerà l’Emilia-Romagna in una sorta di Diga, di baluardo contro l’avanzata di Salvini. Romano Prodi confida: «Il centro-sinistra ha amministrato bene e questo in tempi ordinari di solito basta. In tempi ordinari». Mi permetto di buttare una secchiata di acqua gelida sulle speranze e sugli entusiasmi della sinistra. Come ho scritto all’inizio i buoni risultati amministrativi non bastano a chiosare l’analisi socio-economica regionale: c’è quell’immagine burocratica, proveniente soprattutto dal lontano partito comunista, che rischia di rovinare la piazza. “I daviz jen cme j’insònni”, siamo d’accordo, ma l’impressione sulla società emiliana rigidamente politicizzata e bloccata è assai viva e, peraltro, non è nemmeno del tutto destituita di fondamento.

L’effetto Bonaccini ha funzionato, la lista civica pure, la Diga ha tenuto alla grande, il richiamo alla foresta della storia è tornato di moda. Ci voleva Salvini per stuzzicare l’orgoglio emiliano, che sembrava sepolto nel mare dello scetticismo, della sterile e generica protesta e dell’astensionismo.

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Il consenso a livello verticistico di sindaci, esponenti sindacali, personaggi politici non importa più di tanto: la gente non ascolta nessuno, ragiona con la propria testa e fin qui non ci sarebbe niente di male, anzi. Purtroppo però è influenzata e fuorviata dalle paure e dalle illusioni scientificamente propalate da una destra vuota e rissosa, ma efficace nella raccolta del consenso.

La gente si è data una mossa, è scesa in piazza, convocata dalle Sardine e stuzzicata da un bagno popolare come ai vecchi tempi, ha accantonato le paure ed ha rispolverato le speranze. Grazie, cari amici delle Sardine! Bene, caro Bonaccini che hai avuto l’umiltà di ricominciare dal basso.

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I sentimenti non tengono più. Personalmente non voterei a destra nemmeno se la sinistra candidasse un redivivo Adolph Hitler. Ma il sottoscritto non fa testo e i richiami alla storia ed alla tradizione influiscono pochissimo su un elettorato confuso e stralunato. Anche l’appello alla diga antifascista potrebbe rivelarsi un boomerang. E allora? Non voglio certamente fare l’uccello del malaugurio, ma la vedo molto dura per la sinistra emiliana. Personalmente scaricherei dalle elezioni regionali un po’ di significato politico nazionale. Poi punterei sulla qualità delle candidature, quella a governatore, ma anche quelle a consigliere ed assessore regionale. Non userei toni aggressivi e presuntuosi: il consenso si conquista con la pazienza delle idee e l’evidenza della realtà.  E poi farei anche un po’ di sana autocritica nel senso di aprire la politica alla gente e non solo alle forze, alle istituzioni e alle strutture intermedie.

I sentimenti hanno ripreso a funzionare. I consigli che mi ero permesso di dare sono stati sostanzialmente raccolti. Le urne, fortunatamente, hanno cantato “Bella ciao” e, una mattina, ci siamo svegliati e, anziché l’invasor, abbiamo trovato i partigiani che ci hanno portato via. Adesso possiamo migliorare la nostra democrazia e costruire anche qualcosa di nuovo e di bello. Buon lavoro!

 

Il fantoccio salviniano

Me l’aspettavo. Avevo in tasca un mio recente sondaggio che non poteva sbagliare: un’anziana coppia, alle ultime elezioni politiche, in barba alla tradizione famigliare di sinistra risalente al periodo resistenziale e alla militanza nella Cgil, aveva inopinatamente optato, lei per l’astensione, lui per il voto sguaiato e spudorato alla Lega. Zitti, zitti, ci hanno ripensato e, da quanto mi è dato sapere, hanno votato, cuore in mano, per Stefano Bonaccini e per il Pd. Non è un percorso isolato e strampalato di pochi, è molto probabilmente un risveglio politico di molti. Quando ho saputo per vie traverse di questa conversione, ho tirato un respirone di sollievo: era fatta!

La politica è fatta di storia, di valori, di ricordi, di passioni, di vita vissuta. Matteo Salvini non l’ha capito, pensava di poter ottenere un risultato diverso cambiando l’ordine dei fattori: ha verificato che il prodotto non cambia. Ha sbattuto la testa contro chi ce l’ha ben più dura di lui. Ha stuzzicato il cane che dormiva e ne è rimasto aggredito a sangue. Non so se sia stato l’effetto delle sardine, non so se abbia giocato l’orgoglio del passato, non so se abbia prevalso il buonsenso del presente, non so se Salvini, buttando la maschera, abbia spaventato gli emiliani, non so se chi aveva votato M5S abbia capito l’antifona, non so se finalmente il Pd sia riuscito a rinverdire la sua foresta. Fatto sta che posso tirare un secondo respiro di sollievo: dopo la nascita del pur traballante governo giallorosso, c’è la rinascita del pur sbiadito retroterra rosso.

Queste elezioni danno segnali politici molto netti e incoraggianti, riconducibili ad una realtà incontrovertibile: la politica non è fatta di improvvisazione e di provocazione, è fatta di valori e di proposte. In questi anni, giorno dopo giorno, lo hanno sperimentato i grillini, costretti a prendere atto dei loro fuochi di paglia. Gli emiliani lo hanno improvvisamente gridato in faccia a Salvini, costretto a mettere le pive nazionaliste nel sacco. Pensavano bastasse urlare, rendersi visibili a tutti i costi, sparare a salve, gridare al lupo, invece non è così semplice…

A Silvio Berlusconi nel 1994 gli esperti, che lo aiutarono a buttarsi nella mischia, consigliarono alcuni slogan, ma si affrettarono a dirgli che l’effetto, prima o poi, sarebbe finito. Il discorso vale, a maggior ragione per la Lega salviniana, fatta di spaventapasseri collocati nei punti scoperti della pubblica opinione. Ebbene gli spaventapasseri sono diventati i fantocci da bruciare.  Manco a farlo apposta il falò del vecchione è un’antica e consolidata tradizione della città di Bologna e dei comuni limitrofi, oltre che di alcune aree del modenese, che consiste nel rogo di un grande fantoccio dalle sembianze di vecchio (il vecchione) che avviene alla mezzanotte del 31 dicembre per festeggiare il Capodanno.

Matteo Salvini, come spesso accade, si è illuso di sbaragliare il campo con quattro fregnacce sbattute in faccia agli emiliani: lo hanno rispedito a casa sua con biglietto di sola andata. Il popolo di sinistra, in mezzo a tanti dubbi e difficoltà ha battuto un colpo. Le persone ragionevoli hanno ripreso a ragionare. Speriamo che duri a lungo. Se il buon giorno si vede dal mattino, forse, e sottolineo forse, è iniziato un nuovo giorno, dopo una nottata di paura. Per oggi può bastare.