Fra l’autopsia di un movimentone e l’incubatrice di un partitino

Il primo governo Conte aveva nel fianco una spina e mezzo: quella intera veniva dalla Lega, che non mancava occasione per mettere il premier di fronte a continui fatti compiuti e per scavalcarlo brutalmente; la mezza spina era quella pentastellata, preoccupata vieppiù del ruolo preminente che il presidente andava conquistando e dell’autonomia che egli riusciva a strappare. Ad un certo punto il fianco si è squarciato e ne sono usciti guai seri per i torturatori, costretti gli uni a mettere la coda fra le gambe e andare all’opposizione, gli altri a bere la tazza della discontinuità politica, mentre il torturato riusciva a spuntare una posizione migliore a livello istituzionale, in campo nazionale, europeo e mondiale.

Il secondo governo Conte continua a soffrire una situazione anomala nella sua maggioranza di governo: un partito, il M5S, che tende ad abbandonare l’aplomb partitico per riscoprire l’inquietudine movimentista, costretto a rifugiarsi nelle piazze per lavare in pubblico i panni sporchi e per attuare stucchevoli bagni purificatori rispetto alle ingombranti scorie  conseguenti alle tentennanti e contraddittorie scelte governative; un partitino nascente, Italia viva, alla spregiudicata e spasmodica ricerca di spazio politico ed elettorale  senza andare per il sottile e creando, un giorno sì e l’altro pure, grane al governo di cui fa parte ed a cui ha concesso la fiducia. Gli uni strizzano l’occhio alla piazza, gli altri all’opposizione o meglio all’elettorato moderato in parte controllato dal centro-destra. Siamo in presenza di una riedizione riveduta e scorretta del cosiddetto partito di lotta e di governo.

Paolo Pombeni, storico, politologo ed editorialista di chiara fama, nel marzo del 2017 analizzava acutamente la nascita e la presenza della paradossale natura di partito di lotta e di governo.  “Lo stereotipo del partito di lotta e di governo viene fatto risalire agli anni Settanta e alla leadership di Berlinguer che voleva avvicinare quantomeno il PCI all’area governativa senza che questo mettesse in crisi la sua immagine di formazione in lotta contro il “sistema”. In verità si tratta di quello che una volta si chiamava “doppiezza” comunista: ai tempi della fondazione del sistema repubblicano e dei governi di larga coalizione, quando Togliatti voleva l’accordo con la DC senza rinunciare al controllo delle proteste di piazza. Si potrebbe risalire ancora più indietro, per esempio alla partecipazione del partito comunista francese ai governi del Fronte Popolare nel 1936, perché sempre si presenta a sinistra il tema di come far convivere la spinta a qualche radicalismo rivoluzionario con la necessità di praticare qualche forma di gradualismo una volta che si entri nella famosa stanza dei bottoni. Anche qui, per essere realisti, bisogna aggiungere che il tema non va circoscritto ai partiti di sinistra. A suo modo il problema ce l’aveva anche la DC, che dovette più di una volta far convivere le richieste del massimalismo clericale (che portava voti) con l’esigenza di mostrare responsabilità nella gestione dei problemi concreti del paese (ciò che la legittimava rispetto alle classi dirigenti del paese). Si potrebbe aggiungere che la questione è stata endemica nel nostro paese in presenza di governi di coalizione: fosse una coalizione di centrodestra o una di centrosinistra c’era sempre una dialettica fra quel che si riteneva si potesse fare nelle stanze del Consiglio dei Ministri e quel che si riteneva doveroso richiamare imperiosamente nelle stanze delle direzioni di partito. Gli esempi si sprecano anche se hanno dato luogo necessariamente a tensioni ingovernabili solo nei momenti più aspri. Per il resto tutto veniva considerato come un normale gioco delle parti”.

Perché la riedizione la giudico scorretta? Perché totalmente priva di strategia, quale poteva essere quella pur problematica ed equivoca del partito comunista, e quindi bloccata su mere strumentalizzazioni elettoralistiche, perché lontana dalla vivacità culturale presente all’interno della logorante egemonia sistemica democristiana, perché culturalmente ben distante dal peso che i partiti di centro prima e il partito socialista poi hanno avuto nelle coalizioni di governo centriste e di centro-sinistra della prima repubblica. Tanto per fare qualche nome eloquente: non abbiamo i Moro, i Fanfani e gli Andreotti della DC, non abbiamo i La Malfa, i Saragat, i Malagodi dei partiti di centro, non abbiamo i Berlinguer del PCI. Dobbiamo fare i conti con i Di Maio e i Di Battista del M5S e con i Renzi di Italia viva. I grillini tornano a lanciare qualche vaffa rispolverando le loro battaglie più demagogiche (il taglio degli stipendi ai parlamentari e la drastica diminuzione del loro numero). I renziani si atteggiano a coscienza critica moderata rispetto al partito democratico (sulla prescrizione e sulla revoca delle convenzioni autostradali).

In mezzo a queste baruffe il premier Conte sta mediando a tempo pieno, ma si sta logorando: il gioco infatti è bello quando è corto. Le sue ultime mosse sembrano un ultimatum indirizzato a nuora (IV) perché anche suocera (M5S) intenda.  Il grosso dello scontro è fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi. I colpi sono sempre più bassi: Renzi accusa Conte di tenere per il giaguaro di una eventuale nuova maggioranza senza Italia viva e rimpolpata dalla truppa raccogliticcia dei fuorusciti pentastellati, forzitalioti, più vari ed eventuali; Conte e il PD temono la ripetizione del siluramento lettiano (il famoso “stai sereno”) con un benservito a Conte stesso, sostituito da un esponente del partito democratico con cui fare direttamente i conti (si fa il nome di Gualtieri che darebbe garanzie di continuità verso l’UE) o da una figura istituzionale ( rispunta il nome di Mario Draghi) dietro cui nascondere la battaglia politica estrapolata dal governo.

Ho troppa stima e considerazione per il presidente della Repubblica per pensare che possa soggiacere a simili pasticci: il gioco quindi si fa duro, perché dopo il governo Conte bis non ci potrà essere un governo Conte ter o un governo tecnico-istituzionale. La parola passerebbe agli elettori in un clima pazzesco per il futuro della nostra democrazia. Confido molto nell’asse responsabile Conte-Mattarella, nella esagerata pazienza del partito democratico, nella furbizia di Beppe Grillo e nella paura delle urne (molti le vogliono, ma in realtà molti le temono anche fra quelli che fingono di volerle). Forse ci dobbiamo abituare a un governo di lotta interna e di pace esterna? Troppo difficile per essere vero!

 

 

Il bipolarismo in piazza

Sul piano politico si parla tanto e da tanto tempo di bipolarismo e di bipartitismo. Mio padre ne era un ingenuo ma convinto assertore: si chiedeva spesso perché non si potesse semplificare il sistema contrapponendo una destra ed una sinistra democratiche. A questa mancanza di chiarezza trovava una spiegazione da buon socialista senza socialismo (almeno a livello nazionale): infatti sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese.

Ma torno brevemente al punto da cui sono partito. Si definisce bipolare un sistema politico che vede la contrapposizione di due blocchi distinti; a livello nazionale essi sono rappresentati, di solito, da due coalizioni o raggruppamenti di partiti e/o movimenti, che si contendono la conquista del potere.

Per bipartitismo s’intende un sistema elettorale dove il panorama politico è dominato da solo due partiti principali, in genere a causa di un sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sull’alternanza. Un sistema bipartitico non esclude l’esistenza di altre formazioni, ma la loro presenza in Parlamento e nella vita politica del paese è fortemente minoritaria. Il bipartitismo è la versione estrema del bipolarismo dove sono presenti numerosi partiti ma contraddistinti da una forte polarizzazione tale per cui tali partiti competono divisi in due grandi coalizioni (destra-sinistra) radicalmente opposte, ove non sono presenti partiti di dimensioni e forza politica tali da egemonizzare la guida politica entro ciascuno dei due poli.

Non mi sono mai appassionato più di tanto a questi discorsi di alchimie politico-istituzionali e quindi trascuro l’ulteriore distinzione tra bipolarismo/bipartitismo perfetto e imperfetto: perfetto quando consente una netta maggioranza capace di governare, imperfetto quando ha bisogno di ulteriori patti e accordi per raggiungere una maggioranza governante.

In quale di questi sistemi si trovi la politica italiana è difficile da stabilire anche perché la situazione è in continua evoluzione. Certamente non si può parlare di bipartitismo. Quanto al bipolarismo, nell’area di centro-destra esiste un polo, anche se assai problematico, internamente competitivo, debole e frastagliato a livello di leadership: un polo senza capo, dopo l’inesorabile declino berlusconiano, davanti agli azzardi salviniani ed alle presuntuose mire meloniane, e con molte code…di paglia. Un centro-destra sempre più destra e sempre meno di centro, dove ormai si fronteggiano due destrissime che si rincorrono goffamente ma pericolosamente sul terreno del populismo e del sovranismo.

Nell’area di centro-sinistra non c’è un polo, ma un pluripartitismo molto imperfetto e rissoso: il pilone portante è il partito democratico, che non riesce però ad assorbire le contestazioni di stampo moderato né quelle di maggiore spinta a sinistra. Si parla di sinistra plurale per coprire prospetticamente una attuale confusione di indirizzi politici e programmatici.

In mezzo a questi due imperfettissimi poli esiste la piazza. Fino a poco tempo fa era monopolizzata dal M5S, che ne interpretava gli umori protestatari e anti-sistema. Oggi esiste una seconda piazza, quella delle sardine, che potremmo definire costituzionale, alla riscoperta prepolitica dei valori fondanti della nostra democrazia. Una piazza antipolitica contro una piazza prepolitica a contendersi la rappresentanza della gente, genericamente ma fondatamente in ricerca di una politica diversa da quella attuale.

Se dovessi scegliere in quale piazza collocarmi per gridare le mie aspettative e le mie richieste non esiterei a rivolgermi alle sardine: avrei modo di sfogare le mie nostalgie ideali, di riciclare le mie scelte valoriali, di trovare un filo di collegamento fra passato e presente. Ma dopo la piazza vengono le istituzioni, perché continua ad avere ragione Winston Churchill quando sosteneva che” la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. E faccio molta fatica a trovare un idillio competitivo tra piazza e istituzioni. I grillini hanno miseramente fallito la missione. Le sardine, partendo da ben diversi presupposti, ci stanno tentando. Il grande e rimpianto Nicolò Carosio, quando presentava una partita di calcio difficile e problematica, alla fine diceva: “Sarà dura!”.

 

 

“Liftingati” e vaccinati

È il periodo dei due Matteo di cui, se posso essere scurrile, ho piene le balle! Che la politica italiana, con tutti i problemi di cui dovrebbe occuparsi, sia avvitata sui pruriti protagonistici di Salvini e Renzi è cosa a dir poco sgradevole. Che stufäda… So di fare accostamenti a dir poco paradossali, azzardati ed esagerati, ma, qualunquisticamente parlando, a volte può servire anche “fär ‘d tutt ilj erbi un fas”.

Il Matteo leghista gioca a fare il patriota, il martire, la vittima: sono mesi, per non dire anni, che riempie le istituzioni e le piazze di show, atteggiandosi a uomo della provvidenza, capace di interpretare le paure e le frustrazioni degli italiani dopo averle ispirate e coltivate. In Emilia-Romagna gli hanno consegnato il foglio di via obbligatorio e allora lui si è trasferito al Senato dove ha inscenato la commedia Gregoretti in tre atti: il primo per farsi processare, il secondo per non farsi processare, il terzo per lasciare decidere agli altri visto che comunque avrebbero deciso in modo a lui sfavorevole. Una pantomima post-governativa dopo quella imbastita al Viminale. Se la magistratura competente lo manderà sotto processo, lui ha già pronta la difesa da piazza; se la magistratura archivierà il caso, lui ha già pronto l’attacco da piazza; se si instaurerà un vero e proprio processo a suo carico, lui ha già pronta la campagna elettorale da sciorinare nel tempo. Fin che qualcuno (spero la maggioranza degli italiani) avrà il buongusto di mandarlo a casa invitandolo a fare il buffone, confinato a Milano, in via Bellerio.

Il Matteo italo-vivaista gioca a fare il garantista, il moderato, il terzo incomodo: ha operato una folle scissione dal partito democratico, volendosi distinguere dalla sinistra senza andare troppo al centro, tenendosi in una sorta di prima periferia in cui si è lontani dal governo centrale, ma da cui si fa in un attimo a tornarci dentro. L’occasione per fare casino è al momento la prescrizione dei reati penali, ma, se il pretesto non ci fosse stato e non ci sarà, lui lo avrebbe inventato e lo inventerà. Non tace un attimo, si agita in continuazione, appoggia il governo Conte bis da lui stesso prefigurato, ma si tiene le mani libere per sparargli contro. Se il governo giallo-rosso durerà, sarà merito suo per averlo sostenuto criticamente; se il governo cadrà, lui sarà il grilloparlante che da tempo ne aveva individuato i troppi limiti e difetti; se il governo vivacchierà, lui continuerà a fare il pendolo fra l’opposizione e la maggioranza, accreditandosene vigorosamente i meriti e respingendone sdegnosamente gli insuccessi. Fin che qualcuno (spero l’elettorato italiano) avrà l’opportunità di assegnarli una percentuale di voti da prefisso telefonico, pregandolo di tornare a fare il sindaco a Firenze (fiorentini permettendo).

Mentre con Matteo Salvini e la sua parte politica non ho niente da spartire, con Matteo Renzi ho un conto aperto: mi sono illuso che potesse introdurre qualche novità nel modo di governare della sinistra. È bastato il sassolino (?) referendario nella scarpa presuntuosa renziana per fargli smarrire la bussola e metterlo alla testarda ricerca di un pronto e sempre più impossibile riscatto.

Il centro-destra ha pieni i coglioni del dittatore dello stato libero di Valpadanas; il centro-sinistra non ne può più di Ghino di Tacco riveduto e scorretto. E se facessero un compromessino antistorico per mandarli a casa entrambi? Portando in trionfo Silvio Berlusconi dopo l’ennesimo intervento di lifting col miracoloso acido ialuronico e dall’altra parte riportando in pista Massimo d’Alema (Veltroni permettendo) dopo una vaccinazione a base di siero dell’umiltà. Gianni Agnelli, all’indomani dello scoppio di tangentopoli, sosteneva che per rifare una classe dirigente sarebbero occorsi vent’anni. Non è vero se dopo trent’anni si deve ricominciare quasi tutto da capo. Alla fine di un mezzo secolo si vedrà. Io non ci sarò più, meno male.

Sempre in trincea e mai all’attacco

Come ho più volte detto e scritto, la storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Quella volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile.

A ormai sette anni da quella storica sera si può tentare arditamente di trarre un bilancio? No, perché la Chiesa non è una società commerciale e soprattutto perché non è possibile “vedere di nascosto l’effetto che fa” un magistero papale.

Faccio altri ragionamenti partendo dall’esempio della tanto giustamente discussa enciclica di Paolo VI, la Humanae vitae. Il documento ribadisce la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale; dichiara anche l’illiceità di alcuni metodi per la regolazione della natalità (aborto, sterilizzazione, contraccezione) e approva quelli basati sul riconoscimento della fertilità. Ebbene leggendola mi sono trovato a respingere sarcasticamente le pedanti conclusioni sulla contraccezione, che riducono il Padre Eterno a spirituale ginecologo.

Lo scopo concreto della contraccezione consiste nell’evitare fecondazioni indesiderate. Perché mai ciò è lecito se si usano metodiche naturali, mentre diventa illecito se si usano mezzi tecnici o farmacologici. Non sono mai riuscito a capirlo. Si vuole fare un passo avanti, si vuole togliere il Padre Eterno da questo imbarazzante criterio calendarizzato?  O consideriamo la fecondità un obiettivo complessivo della vita di coppia o altrimenti ci continuiamo a disperde nel solito e ridicolo labirinto precettale per cui, se mi astengo dall’atto sessuale in certi giorni, tutto va bene, se invece in quei giorni non mi astengo ma corro diversamente ai ripari, tutto male. Ma fatemi il piacere… Pensiamo davvero che Dio sia così meschino da trattarci in questo modo. Nello stesso tempo devo ammettere che l’enciclica canta un vero e proprio sublime inno all’amore coniugale: cosa meravigliosa per poi rovinare tutto nei meandri di una precettistica da “beghe di frati”.

Gesù nella sua didattica amava andare dal particolare al generale adottando il metodo induttivo o induzione, un procedimento che cerca di stabilire una legge universale partendo da singoli casi particolari. La dottrina cattolica invece tende a seguire il metodo deduttivo o deduzione, vale a dire il procedimento che fa derivare una certa conclusione da premesse più generiche, dentro cui quella conclusione dovrebbe essere implicita. Se io parto dalla generica premessa che il matrimonio è indissolubile arrivo a dedurre che il divorzio non è mai ammissibile. Se invece parto dall’amore in crisi di certe unioni coniugali posso arrivare a ben altre conclusioni. E via discorrendo.

Era molto attesa l’esortazione apostolica papale a conclusione del sinodo sull’Amazzonia per i potenziali riflessi su due argomenti molto sentiti: il celibato sacerdotale e il sacerdozio femminile. Purtroppo papa Francesco continua ad adottare il metodo deduttivo, cioè continua a partire da una premessa di carattere dottrinale per arrivare a conclusioni deludenti. L’impegno dei laici e delle donne nella loro partecipazione alla vita della Chiesa: giustissimo! Ma la riforma del celibato sacerdotale e l’apertura del sacerdozio alle donne non sarebbero strumenti atti a favorire al massimo livello tale partecipazione? No, ne riparleremo un’altra volta. Purtroppo, dopo sette anni, su certe questioni siamo ancora al palo. Francesco non ha il coraggio di uscire dall’imbuto in cui lo continuano a spingere e/o in cui si è ficcato. L’emozione e la commozione di sette anni or sono tendono a scemare, lasciando il posto a una pur benevola analisi critica. Non sarebbe la prima volta nella storia che un’autorità religiosa o civile parte in quarta e poi rallenta, si ferma o addirittura fa marcia indietro.

Mi rendo conto si essere spietato, ma temo possa essere sprecata un’occasione irripetibile di riforma ecclesiale. L’età di papa Francesco avanza inesorabilmente, ho l’impressione che la sua salute vacilli, subisce condizionamenti e ostacoli sempre maggiori, il suo carisma rischia di appannarsi. È vero che la vita della Chiesa non dipende dalla mentalità del papa, dei vescovi e dei sacerdoti, ma dalla grazia che deriva dai sacramenti. Come noto don Lorenzo Milani diceva in modo quasi spregiudicato in riferimento ai suoi difficilissimi rapporti con la Chiesa: «E’ la croce che porto per godere dei sacramenti. Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati, e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa». Sono d’accordo.

Il cardinal Martini sosteneva: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio». E allora perché dei sacramenti e della fede dobbiamo essere costretti a fare una trincea difensiva e non un fronte di combattimento?

 

 

Insicuri e disoccupati

Qual è la vera e reale insicurezza di cui stiamo soffrendo, alla quale i famigerati decreti voluti da Salvini non fanno neanche il solletico, per la quale, anzi, le chiacchiere leghiste suonano come un’autentica presa in giro?

Parto dal titolo e dall’incipit di un articolo di Andrea Greco su La Repubblica. Unicredit: 8 mila nuovi esuberi. Dal credito all’industria, 400 mila impieghi a rischio. Al Mise ci sono 160 casi di crisi aziendali. Il lavoro che non vale più, declassato, schiacciato dal capitale con il martello della tecnologia. E il settore delle banche, dove ormai tre operazioni su quattro non passano dalla filiale, fa scuola. Così ieri Unicredit ha annunciato altri 8 mila esuberi (il 12% della forza lavoro) nel suo piano dei prossimi quattro anni: 6 mila sono stimati in Italia. Servono a risparmiare un miliardo e accelerare il passaggio al digitale.

Ricordiamo tutti come il posto di lavoro in banca fosse considerato il non plus ultra della sicurezza e della remunerazione. È cambiato tutto! La paura che caratterizza la nostra società è quella inerente l’assenza e/o la precarietà del lavoro: i giovani faticano a trovarlo, se lo trovano si devono adattare a basse remunerazioni e ad impieghi a breve termine; chi finalmente lo ha trovato non si può illudere di mantenerlo, perché tutto è in continua e rapida evoluzione e dall’oggi al domani ci si può trovare disoccupati. Le conseguenze a livello psicologico e sociale sono di enorme portata: i legami sentimentali sono messi a repentaglio, le famiglie non reggono, non si fanno figli, il malcontento cresce, le prospettive sono incertissime.

Bisogna essere matti per pensare che a tranquillizzare la gente serva il poter sparare al ladro senza soffrirne conseguenze penali. Oppure che rispedire a casa gli immigrati consenta nuovi posti di lavoro per i giovani e i disoccupati in genere. Sono barzellette che funzionano da diversivo rispetto ai veri problemi.

Spesso mi chiedo cosa si debba e si possa fare di fronte a questa situazione così preoccupante. Nessuno ha la bacchetta magica e nessuno può permettersi il lusso di promettere migliaia di posti di lavoro. Però qualcosa bisognerà pur metter in cantiere. Individuo tre piste su cui provare a camminare.

Innanzitutto la scelta dell’indirizzo scolastico deve coniugare le opzioni culturali ed esistenziali con la possibilità di effettivo lavoro. Capisco come questa logica possa rappresentare una rinuncia alle proprie vocazioni professionali, ma meglio essere concreti e puntare agli sbocchi possibili piuttosto che rimanere attaccati alle nuvole che non offrono alcuna seria prospettiva.

In secondo luogo bisogna individuare nuovi profili professionali adeguati all’evoluzione socio-economica, così come nuove metodologie in linea con i tempi e l’organizzazione del lavoro. I giovani, per dirla con una battuta provocatoria e brutale, dopo avere studiato nella giusta direzione professionale, devono “inventarsi” il lavoro. Persino concettualmente faccio fatica ad accettare un simile discorso, ma è così.

In terzo luogo occorre una spinta economica impressa dagli investimenti pubblici nei settori dell’ambiente, della cultura, della difesa del suolo, del turismo, promuovendo anche grosse riconversioni aziendali e professionali. Ma anche l’imprenditorialità privata deve essere sostenuta, aiutata e sollecitata.

Indietro non si torna, certi meccanismi sono superati: l’unico principio che non deve essere superato riguarda la centralità della persona e il suo diritto a lavorare senza rischiare la pelle e con certe tutele a livello previdenziale. La sfida alla sinistra politica è questa: riuscire a dare serie prospettive di lavoro alla gente. Probabilmente occorrono grossi sacrifici a livello finanziario. Qualche privilegio dovrà saltare. Serve diminuire le tasse? Servirebbe farle equamente pagare a tutti ed utilizzare le conseguenti risorse per crescere e non per vivacchiare. La coperta è corta, la stanza è piccola, ma non ci si può illudere di risolvere i problemi sulla pelle dei più deboli. Tutti se lo devono mettere nella testa, nel cuore e…nel portafoglio. Ci fu una discussione accesa sul primo articolo della Costituzione italiana. Ne uscì “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. A oltre settant’anni di distanza questa definizione è sempre più appropriata e valida.

Il venticello della ragionevole paura

La politica è investita da un’autentica bufera di vergognose polemiche strumentali: la prescrizione è diventata uno scontro pseudo-ideologico tra moralismo-giustizialista e pragmatismo-garantista; il coronavirus è affrontato a suon di allarmismo speculativo che investe persino il sistema scolastico; l’azione di governo è mischiata con la piazzaiola contestazione da parte degli stessi protagonisti, quelli di lotta e di governo; le sardine scattano ingenui ma pericolosi selfie di gruppo coi Benetton, prestando il fianco a chi li sta aspettando al varco un po’ per celia e un po’ per non morire; i due Matteo, Salvini e Renzi, fanno a gara per ottenere la palma del più scriteriato dei protagonismi senza bussola.

Tutto sembra sbattuto dal vento tempestoso delle provocazioni incrociate: solo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riesce ad ergersi sopra la mischia, invitando caldamente e credibilmente tutti alla ragionevolezza impegnata e dialogante, facendo la commovente spola tra un evento e l’altro con la fiaccola della Costituzione in mano per richiamare i contendenti col motto “l’importante non è vincere ma partecipare”, comunemente attribuito a Pierre de Coubertin, pedagogista e storico francese, che ha reso possibile la rinascita dei Giochi Olimpici Moderni.

Ma, dopo ogni tempesta che si rispetti, spuntano le avvisaglie della quiete più o meno disarmata. E allora ecco il ministro della giustizia che accetta di  costituire una commissione tecnico-scientifica per esaminare gli effetti della riformicchia sulla prescrizione; ecco Renzi che, dopo aver tirato il sasso dell’ostilità assoluta ad ogni compromesso sull’allungamento dei tempi della prescrizione, nasconde la mano dietro l’eventuale voto di fiducia al governo qualora venga posta sul provvedimento che dovrebbe in qualche modo segnare una tregua compromissoria sull’argomento; ecco il governatore del Veneto, Luca Zaia, che, dopo la sparatoria della circolare scolastica, ripiega sul principio di precauzione adottabile dallo staff scientifico del ministro della Salute, invitando a non farne una battaglia politica, affermando che i cinesi non sono untori e che non si deve cercare voti sulla loro pelle; ecco Luigi Di Maio, affaccendato nel disperato aggrapparsi al codice genetico del M5S in stucchevole difesa del residuo bottino elettorale, ben lontano dalle velleitarie intenzioni di far saltare il banco di Giuseppe Conte; ecco le sardine che tornano a guazzare nelle loro acque per non impantanarsi in quelle delle finezze tattiche sulla cui riva  quasi tutti ne aspettano il cadavere; per non parlare del premier Conte, vigile del fuoco sempre pronto a spegnere gli incendi prima che sia troppo tardi e le fiamme divorino il suo governo.

Si ha l’impressione che un po’ tutti vogliano accendere i toni della polemica, ma solo un pochettino, come quella famosa ragazza incinta. Quando il gioco si fa veramente duro, tutti frenano per non andarsi a sfracellare contro il muro delle elezioni politiche anticipate. Tutti le vogliono e nessuno se le piglia. Sì, anche i barricadieri novelli leader del centro-destra temono di giocare in anticipo i jolly che pensano di avere in mano: uno molto probabilmente l’hanno già sprecato nelle elezioni regionali emiliane.

La politica sembra sprofondare in questi giochini, in questi divertimenti (poco) innocui per bambini scemi (gli elettori che forse tanto scemi non sono). In mezzo a questo confuso tira e molla, confesso di nutrire una gran voglia di andare alle urne, per vedere finalmente i pentastellati ridotti alla frutta, i renziani arrivati al capolinea ancor prima di partire, i leghisti con un pugno di mosche sovraniste in mano, i fratelli d’Italia a cantare “giovinezza”, i berlusconiani a piangere e fare lutto, i democratici ad imprecare contro il destino cinico e baro. Qualcuno in quel caso vorrebbe tornare immediatamente alle urne, la bulimia del voto… ma invece spunterebbe un governo tecnico, che rischierebbe di durare in eterno, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

 

La faccia tosta trumpiana

Davanti al video, solo perduto e abbandonato, mormoravo far i denti: “Vergogna”. Usavo questa brutta parola nel chiuso del mio studio, in risposta a chi la abusava gridandola con tanta sfacciataggine in campo aperto, di fronte alle telecamere del mondo intero.

“È stata una vergogna, una grande ingiustizia portata avanti per tre anni da gente bugiarda”. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump parlando alla Nazione dopo la sua assoluzione dalle accuse che lo avevano portato all’impeachment. “Non so se un altro presidente sarebbe riuscito a superare questa situazione”, ha aggiunto Trump che ha attaccato la speaker della Camera, Nancy Pelosi, definendola come “una persona orribile”.

Alexander Vindman e Gordon Sondland, due dei testimoni chiave alla Camera nel procedimento di impeachment, sono stati rimossi dal loro incarico, il primo alla Casa Bianca, dove sedeva nel consiglio nazionale per la sicurezza. Il secondo come ambasciatore Usa presso la Ue. Cacciato anche il fratello gemello di Vindman, Yevgeny, consulente legale alla Casa Bianca.

Siamo davanti al vergognoso epilogo di una vicenda, che, al di là della striminzita e politicante assoluzione, mantiene intatti tutti i suoi contorni inquietanti. Gli americani avevano e hanno paura del comunismo? Non è forse una purga staliniana riveduta e scorretta quella messa in atto proditoriamente da Donald Trump?

Sono rimasto allibito e sbigottito. Il presidente della nazione democratica (?) più importante (?) del mondo che si comporta come il più squallido dei dittatori, mettendo in atto una vera e propria vendetta contro personaggi rei soltanto di avere testimoniato in un processo e di avere dubitato della sua fede democratica. E il mondo resta in silenzio attanagliato dalla paura verso questo squallido personaggio da fumetto. Povera America, povero mondo, povera Europa, povera Italia.

Ma il bello deve ancora venire. Donald Trump, presidente di minoranza (non dimentichiamoci che, quattro anni or sono, è stato eletto con due milioni di voti in meno rispetto alla sua competitor Hillary Clinton), si ripresenta all’elettorato americano per una conferma: altri quattro anni di martirio per tutti.  Un tempo gli Stati Uniti davano il “la” alla musica mondiale e italiana in particolare: prospettavano il futuro. Oggi il discorso è molto più complesso. Berlusconi ha sovvertito questa regola, imponendosi come paradigmatico tycoon della politica. Guardate Trump: persino nell’aspetto fisico ricorda il cavaliere nostrano. Chissà come godrà Berlusconi nel vedere il presidente americano fare quelle vendette che lui sta ancora sognando. Chissà come godrà Matteo Salvini nel vedere il suo sogno populista incarnato nel prototipo americano.

Le vendette e le congiure di palazzo un tempo avvenivano nelle stanze oscure del potere, oggi avvengono di fronte alle telecamere: sinceramente non so se sia meglio o peggio. Certe brutte cose a volte è meglio immaginarle che vedersele sbattute in faccia. Dovrebbe essere il contrario, perché la verità fa male, ma costringe a reagire. Nel caso invece la squallida verità diventa bella ed affascinante realtà. In un mondo dove gli uomini corrono dietro alle donne sceme e le donne corrono dietro agli uomini violenti, tutto è possibile, anche Trump.

Ricordo che un mio simpatico amico, ai tempi dell’impeachment intentato contro Bill Clinton, per lo scandalo sessuale scoppiato sulla base dei rapporti con Monica Lewinsky, mi disse: “C’è una bella differenza: John Kennedy scopava regolarmente Marilyn Monroe, Clinton si accontenta di molto meno…”.   Oggi si potrebbe dire: “Richard Nixon ebbe il buongusto di dimettersi per il famoso affare Watergate. Niente in confronto delle accuse contro Donald Trump, che esce pulito (?) e addirittura nei panni di giustiziere della notte politica americana”.

Dove è finito il moralismo bacchettone d’oltreoceano? È stato miseramente svelato. Abbiamo capito: agli americani, come a molti nel resto del mondo, piacciono gli uomini forti, non importa se ignoranti, non importa se assurdi, non importa se anti-democratici, non importa se traditori. Basta avere una bella faccia tosta: con questa espressione ci si riferisce a delle persone che non conoscono vergogna o timidezza, che non hanno paura di fare brutte figure, che hanno una bella faccia di bronzo, che sono sfrontate. Sì, proprio come Donald Trump.

E allora…vo gridando vergogna e vo gridando democrazia!

Parole di odio, sassi di fascismo

Davanti alle normali emergenze ne spunta continuamente una anormale. Può essere assurdo parlare di normalità e di anormalità con riferimento alle emergenze, vale a dire a fenomeni che portano in sé il dato della straordinarietà. La differenza sta nell’atteggiamento che la persona e la comunità tengono di fronte ad esse. È normale essere preoccupati ed allarmati di fronte al coronavirus dilagante, è anormale scaricare questa naturale paura sui cinesi, arrivando a discriminarli per il solo fatto di essere cinesi e quindi portatori del virus a prescindere. Dalla paura si passa all’odio transitando attraverso il museo degli orrori del passato senza fare nemmeno una piega, ripetendo gli errori del passato senza alcuna riflessione critica. Sta prendendo piede la convinzione che i problemi si possano risolvere isolandone i portatori, ghettizzandoli o respingendoli, operando sbrigative colpevolizzazioni, riducendo il problema della sicurezza a mero esorcismo nei confronti dei soggetti diversi da noi, affrontando i rapporti sociali con rancore verso intere categorie di persone.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un messaggio rassicurante e antirazzista, diretto soprattutto alla comunità cinese, recandosi a sorpresa in una scuola elementare dove è molto alta la presenza di bambini stranieri. La scuola si chiama “Daniele Manin”, nel quartiere Esquilino, istituto che si contraddistingue per la sua multiculturalità, con una presenza tra il 40 e il 50 per cento di alunni di nazionalità non italiana anche se nati in Italia. Un gesto distensivo e simbolico da parte del capo dello Stato nei confronti della comunità cinese residente da anni in Italia, colpita dalle ricadute della vicenda del coronavirus.

“Sono piuttosto preoccupata dai gesti di odio, poiché indicano un’emergenza e un fallimento”. Luciana Lamorgese esordisce così nell’intervista rilasciata a la Repubblica, nel corso della quale ha parlato della problematica relativa all’intolleranza: “Un’emergenza culturale e civile che mette in discussione le ragioni stesse del nostro stare insieme”. Il ministro dell’Interno ha elencato diversi casi recenti, dalla scritta nazista di Mondovì alla violenza verbale nei confronti di Liliana Segre, per esprimere la propria indignazione: “Dimostrano che è stato superato l’argine e dimostrano, peraltro, il definitivo divorzio tra significante e significato nell’uso delle parole. Nell’odio in cui siamo immersi c’è spesso assenza totale di pensiero. Assoluta ignoranza della storia. Io a questo fallimento non voglio rassegnarmi e penso non sia giusto rassegnarsi”.

Gesti e parole sacrosanti che dovrebbero scuoterci dall’indifferenza, dal torpore, dall’egoismo, dalla cattiveria con cui partecipiamo alle vicende della nostra comunità civile. Attenzione perché la storia insegna come tutti i peggiori regimi abbiano attinto a piene mani in questi irrazionali sentimenti, provocandoli, alimentandoli e strumentalizzandoli. Forse stiamo scivolando verso nuove forme di nazifascismo senza accorgercene più di tanto. Fermiamoci in tempo e riflettiamo seriamente.

Non mi sento di fare rientrare questa emergenza dell’odio in una sorta di naturale patologia psico-sociale dovuta alle obiettive difficoltà che la gente incontra. Tanto meno in una goliardica rincorsa a rivalutare i miti di un passato da capire e rifiutare in blocco. Ancor meno in una triste realtà con cui fare i conti e da governare al meglio o al peggio, come qualcuno si illudeva e si illude di fare con la mafia. Sì, l’odio sociale come un vizio mafioso da metabolizzare. Tutte queste colpevoli sottovalutazioni sono ben sintetizzate in una infelice battuta contenuta in un tweet di Ignazio La Russa, vice-presidente del Senato, esponente di Fratelli d’Italia, il quale poi lo ha rimosso dando la colpa a un suo collaboratore: “Non stringete la mano a nessuno, il contagio è letale. Usate il saluto romano, antivirus e antimicrobi”.

Ci sono due modi di porsi di fronte alla sub-cultura fascista. Quello di scherzarci sopra a babbo morto con una nostalgica e pericolosissima ironia nel moderno bar dei social network, così ben impersonificato da certi politici, in vena di rimpianti o, ancor peggio, in vena di ballare coi fantasmi del passato. Quello raccontatomi da mio padre: ai tempi del fascismo imperante, un popolano era solito entrare nelle osterie ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”: un semplice uomo del popolo, con un coraggio da leone, che conosceva e usava molto bene l’arte della polemica e della satira.

 

Zigzagando intorno a Sanremo

Qual è il modo giusto per contestare l’andazzo culturale della nostra società? Contrapporsi, estraniarsi, confrontarsi? Sono portato, prima ancora per carattere che per convinzione, ad isolarmi di fronte a certe derive, considerandole inarrestabili e inarginabili e quindi aristocraticamente ignorabili.

Mia sorella criticava aspramente questo mio atteggiamento dall’alto della sua opzione per il dialogo e la partecipazione a tutti i costi. A me l’opposizione ante litteram è costata spesso isolamento, a lei la battaglia è costata spesso disillusione e scoraggiamento.

Una breve premessa per arrivare al nocciolo della banale questione: rifiutare il festival di Sanremo rischiando di buttare via molta acqua sporca assieme a un bambino (Roberto Benigni)? Non me la sono sentita di contaminarmi con l’acqua sporca per estrarre il bambino, ho preferito rinunciare a tutto. Mi sono poi auto-punito rifiutandomi di leggiucchiare a destra e manca il resoconto dell’intervento di Benigni: un’altra volta impara a non mescolare il sacro col profano…

Ho preferito dedicarmi ad una edizione televisiva di Rigoletto, peraltro piuttosto scialba da tutti i punti di vista, che non mi ha dato alcuna emozione. Una persona molta anziana, che data l’età non poteva più assistere alle opere liriche rappresentate in teatro, si accontentava del resoconto degli amici appassionati, a cui rivolgeva una simpatica domanda per capire l’esito della recita: “Ani fat gnir i zgrizór?”. Anche mio padre aveva questo approccio all’opera: esigeva e si entusiasmava per la frase incisiva, per l’interpretazione trascinante, per gli interpreti che lasciano un segno forte nel personaggio più che nel ruolo.

Restando sui gusti e gli atteggiamenti paterni, devo aggiungere che non lesinava attenzione critica a tutti gli eventi, compreso il festival di Sanremo, in tempi in cui i protagonisti della kermesse erano le canzoni e i cantanti e non i conduttori e le starlette di turno. Aveva un concetto molto popolare della “canzone” leggera, forse perché la contrapponeva fin troppo alla “romanza” impegnativa. Giudicava con un criterio esageratamente tutto suo: l’indomani la donna di casa, mentre faceva le pulizie, avrebbe potuto canticchiare il motivo della canzone. Questo per lui era il termometro del successo! Così come scavava l’opera lirica alla ricerca del significato profondo e delle sensazioni forti, si accontentava della canzone nella sua consumistica portata culturale.

Ricordo una serata di Canzonissima. Mina doveva cantare la famosa canzone napoletana “Munasterio ‘e Santa Chiara”. Per una improvvisa indisposizione fu sostituita nientepopodimeno che dal tenore Franco Corelli, il quale ne diede una versione drammaticissima, come nel suo ineguagliabile stile di canto. Mio padre, che giustamente aveva un debole per Corelli, era commosso e andava ripetendo: “Al säva, al säva!”, riferendosi all’interpretazione originale e suggestiva del tenore. Ho riascoltato recentemente questa stupenda canzone, proprio tratta dalla serata di Canzonissima a cui partecipò stranamente Franco Corelli, piantando, come era solito fare, uno storico chiodo. Papà, come sempre, aveva ragione.

Sono partito da Sanremo e sono arrivato a Franco Corelli. Peccato per Roberto Benigni. Sono sicuro che se ne farà una ragione, mentre io resto col mio solito snobistico dubbio: respingere o accettare le provocazioni, chiudermi a riccio sulle indiscutibili certezze o aprirmi alle discutibili esperienze?

Il mio carissimo e indimenticabile amico Gian Piero Rubiconi, uomo di cultura a tutto tondo, collezionava dischi non per una malcelata bulimia filologica, ma per la sete inestinguibile di ascoltare, di raffrontare, di approfondire, di commuoversi. L’enorme patrimonio di incisioni e registrazioni dal vivo non lo teneva per sé, ma amava comunicarlo, metterlo a disposizione di tutti, soprattutto dei suoi giovani amici appassionati. I suoi “colleghi” collezionisti lo rimproveravano di essere troppo generoso e di non difendere a dovere il proprio patrimonio discografico, ma soprattutto quello delle preziose ed appetibili registrazioni “pirata”. Qualcuno minacciava di non fare più con lui scambi di materiale, dal momento che tale materiale veniva poi troppo divulgato. Una volta si sfogò e mi disse: «Capirai… se mi metto a fare il custode impenetrabile di nastri su cui sono incisi autentici pezzi di cultura. Se me li chiedono, glieli do volentieri: li ascoltano, discutono, si divertono. La cultura è scambio, esige di essere fatta circolare, non è strettamente riservata ad alcuno…». Da una parte aveva un alto e professionale concetto di arte, di cultura, quasi al limite dell’aristocratico, dall’altra prediligeva il senso popolare della cultura stessa, ne perseguiva la diffusione, amava divulgarla. Sane ed apparenti contraddizioni. Della serie tutto può essere cultura, anche una ricetta di un piatto gastronomico. Non ricordo però se nel suo cesto culturale avesse qualche spazio anche il festival di Sanremo…

 

 

 

Il Vangelo della discontinuità

In politica, fra un’elezione e l’altra, fra un governo e l’altro, si cerca la discontinuità a tutti i costi. Ci si vuole distinguere dai predecessori nello stile e nei contenuti e spesso non si riesce a farlo, perché certi indirizzi non possono essere facilmente invertiti, certe scelte non possono essere sbrigativamente azzerate, certe situazioni non possono essere totalmente ribaltate. E allora ci si accontenta di giocare allo scaricabarile delle responsabilità su chi c’era prima e dall’altra parte di soffiare sul fuoco delle attese andate deluse.

Poi la discontinuità deve anche fare i conti con la propria misura: radicalità o moderazione. Chi si pone in alternativa rispetto alla dirigenza in sella, deve stare attento a non esagerare evitando il rischio di passare per disfattista, al contrario deve evitare di ammorbidire troppo le proposte per non sembrare una minestra scaldata.

In Italia qualcuno sta dicendo che Salvini nella recente campagna elettorale regionale abbia alzato troppo i toni, abbia spinto troppo sul pedale dell’alternativa totale, finendo col favorire uno scatto d’orgoglio dell’avversario dimostratosi decisivo.

Negli Usa le elezioni primarie nel partito democratico alla ricerca del candidato anti Trump stanno evidenziando dubbi e tentennamenti fra scelte di radicale contrapposizione al presidente uscente e quelle di una più ragionata opposizione. Tutto sempre per non scontentare l’elettorato moderato, vale a dire quella opaca e grigia entità di mezzo, che condizionerebbe sempre e comunque l’ottenimento di una maggioranza. Mentre a destra un simile discorso può avere un suo potenziale fondamento (peraltro smentito nelle urne italiane dalla debacle forzitaliota), atto a rassicurare l’elettorato incline a non sporcarsi le mani indossando i guanti bianchi, a sinistra il corteggiamento al “moderatume” finisce con lo scontentare tutti, delegittimando sostanzialmente la politica progressista.

Protagonista di questa cantonata strategica è attualmente in Italia Matteo Renzi, preoccupato di occupare l’area di centro senza comprendere che la sinistra, eventualmente, va moderata dall’interno e non creando insane e controproducenti fratture esterne. Negli Stati Uniti le elezioni primarie del partito democratico, pur costretto al sistema bipolare, stanno rischiando di frantumare il già debole fronte alternativo alla sciagurata politica trumpiana.

Se il discorso della discontinuità, più o meno accentuata, è connaturale alla politica, costituendo il sale della competizione democratica, nella Chiesa si punta alla continuità a tutti i costi.  Qualcuno potrebbe immediatamente essere tentato dall’inquadramento della Chiesa istituzione in un regime antidemocratico e quindi dalla spiegazione della continuità ecclesiale nel solco della statica vita di una comunità irregimentata e incapsulata. In questo schematico ragionamento c’è qualcosa di vero: il mantenimento del potere clericale impone la sordina ad ogni esigenza di cambiamento.

La Chiesa però è dotata anche di una dimensione comunitaria, che non combacia affatto con quella gerarchica e istituzionale. Chi è credente, come il sottoscritto, tende ad intravedere in questa salutare dicotomia l’azione dello Spirito Santo, che scombina le carte e butta all’aria meccanismi ed equilibri di potere. Chi non è credente si smarrisce e tende a privilegiare se non addirittura ad assolutizzare l’assetto strutturale nella sua statica e inattaccabile logica.

L’elezione al soglio pontificio di Bergoglio è stata indubbiamente una sassata nella piccionaia curiale, che ha privilegiato una visione evangelica e comunitaria rispetto alla tradizionale impostazione dottrinale e istituzionale. Ed eccoci però purtroppo al discorso della discontinuità nella continuità, al dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: è un meccanismo in cui rischiano di essere schiacciate anche le migliori intenzioni riformatrici di papa Francesco.

Come noto è uscito un libro scritto da un autorevole membro della curia vaticana, sponsorizzato dal papa emerito Benedetto XVI, ingenuamente (?) trascinato in una pericolosa e scivolosa querelle sul celibato sacerdotale: è partito cioè un subdolo e furbesco fuoco di sbarramento contro il profilarsi dell’avanzata di un seppur moderato riformismo. Un messaggio chiaramente volto a interrompere sul nascere ogni e qualsiasi parvenza di discontinuità. Ebbene, come scrive Domenico Agasso jr su La Stampa, a pochi giorni di distanza è uscito un libro finalizzato a dimostrare come sul celibato dei preti Francesco la pensi come Giovanni Paolo II. Lo definisce “un dono, una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa cattolica latina. E non un limite. E se oggi c’è chi lo chiama «Papa comunista», a Buenos Aires Bergoglio è stato «percepito come un conservatore», per la sua «sintonia» con Wojtyla. Il Pontefice argentino lo dice nelle pagine di San Giovanni Paolo Magno, in uscita l’11 febbraio per le edizioni San Paolo. Dal libro, attraverso l’intervista rilasciata a don Luigi Maria Epicoco, emergono le affinità tra gli arcivescovi di Cracovia e Buenos Aires, «presi» entrambi da «Paesi lontani» per farli salire sul Soglio di Pietro. Un volume che può assumere un ruolo rilevante nelle accese dispute dentro e fuori della Chiesa, perché Wojtyla è stato «arruolato» e viene spesso utilizzato come simbolo del fronte ostile al pontificato bergogliano, soprattutto per quanto riguarda gli ambiti politici e teologici, mentre Francesco ha rispedito più volte al mittente questa contrapposizione.

Non riesco a comprendere se questa mossa editoriale sia una intelligente e improvvisa apertura di porta verso coloro che danno le spallate o se rappresenti il solito tira e molla vaticano mirante ad un anti-evangelico vogliamoci bene. Non invidio papa Francesco costretto a destreggiarsi in questo clima. Spero non sacrifichi, in nome della mera continuità, le giuste discontinuità che ha lasciato intendere suscitando tante aspettative interne ed esterne alla Chiesa. Penso sia consapevole della forza che gli può venire da gran parte (non tutta) della Chiesa-comunità, credo si affidi molto allo Spirito Santo (come interpretare diversamente i continui appelli alla preghiera pro domo sua), auspico che riesca a plasmare o almeno a ritoccare la Chiesa- istituzione. Starà cercando il compromesso al più alto livello possibile? Gesù di compromessi non ne fece nel modo più assoluto. Lo uccisero, ma Lui risorse più bello e più rivoluzionario che pria. Non pretendo la vocazione al martirio di papa Francesco, ma che, Vangelo alla mano, resti un pochettino rivoluzionario o almeno discontinuo.