La tromba italiana e la sordina tedesca

È spiacevole ma doveroso prendere in seria considerazione alcuni fatti che avvengono in Germania. Nella cittadina di Volkmarsen, in Assia, un’auto lanciata a tutta velocità piomba sulla folla in costume accorsa per partecipare al tradizionale corteo carnevalesco del lunedì: vicino ad un supermarket vengono travolte con violenza almeno 30 persone, tra cui molti bambini anche piccoli, non meno di 7 i feriti in condizioni molto gravi. Alla guida del veicolo, un Mercedes Van color argento, un 29enne tedesco – uno di Volkmarsen – apparentemente senza un background da estremista politico: a detta degli inquirenti ha puntato intenzionalmente sul pubblico accorso per assistere alla parata. Molti in costume, con indosso le maschere e truccati. Tanti, tantissimi, i bambini.

La Procura generale di Francoforte – che ha assunto il caso – “non esclude un attentato”, ma non si azzarda ancora di fare ulteriori ipotesi. A neanche una settimana dalla strage di Hanau – dove Tobias Rethjan, un estremista di destra, ha ucciso 9 persone di origine straniera scelte a caso, prima di uccidere la propria madre e infine se stesso – il Land della Germania centrale piomba di nuovo nella paura e nello choc. E per di più per un atto violento che fa tornare alla memoria l’attacco del dicembre 2016 al Breitscheidplatz di Berlino, quando il terrorista Anis Amri fece piombare il suo Tir sulla folla di un mercatino natalizio provocando 12 morti e 56 feriti.

Non è il caso di fare d’ogni episodio criminale un fascio estremistico della destra razzista, ma mi viene spontaneo confrontare la distaccata freddezza con cui la Germania reagisce a questi gravissimi episodi rispetto alla ben più calda e partecipata reazione italiana nei confronti degli episodi razzisti peraltro incruenti, ma comunque disgustosi e inaccettabili. Mi riferisco alle svastiche, alle scritte nazifasciste, agli insulti e alle minacce scarabocchiate su muri, monumenti, lapidi, porte, etc.

La differenza può indubbiamente risalire al carattere diverso della popolazione tedesca e di quella italiana. Gli stupidi e i criminali esistono in entrambi i Paesi, ma è diverso l’effetto provocato. Non vorrei che il tutto fosse dovuto, non tanto ad una certa qual tolleranza germanica verso i rigurgiti nazifascisti (se fosse così, sarebbe di una gravità inaudita), ma al vezzo d’oltralpe di coprire d’un velo pietoso le malefatte nazionali con il malcelato intento di lavare i panni sporchi in casa propria.

Quando scoppiò la prima devastante tangentopoli italiana negli anni novanta del secolo scorso, un caro amico, buon conoscitore della Germania per avervi lavorato a livello manageriale, mi disse come a suo giudizio la corruzione fosse assai presente anche in quel Paese, con la sola differenza che in un caso si va a gara per tenere riservate e ovattate le notizie, nell’altro, il nostro, si scatena la corsa a buttare tutto in pasto alla pubblica opinione. Non vorrei stesse succedendo qualcosa di analogo anche in materia di coronavirus: sono diversi non tanto i protocolli comportamentali dei pubblici poteri, ma le caratteristiche etiche nella mentalità della gente.

Rischio di ripetermi, ma in Italia, come diceva Vittorio Zucconi, il grande giornalista prestato per qualche tempo alla politica, si vogliono i servizi segreti pubblici. Siamo cioè il Paese del paradosso, del tutto sbattuto sulla pubblica piazza e “ci divertiamo” ad affrontare i problemi in questa chiave. All’estero la pubblica opinione accetta e forse desidera essere alleggerita da certe sgradevoli responsabilità comuni. Per quanto mi riguarda preferisco di gran lunga il clima italiano col rischio di cadere in una sorta di caccia alle streghe piuttosto di correre il rischio di non vedere le streghe dove esistono e operano clamorosamente.

Il presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva mille ragioni quando sosteneva che il popolo italiano non è primo, ma nemmeno secondo a nessuno. Noi invece tendiamo ad autoscreditarci irrimediabilmente. Tanti anni fa ebbi modo di pranzare occasionalmente ed in gruppo assieme a Piero Bassetti, autorevole personaggio pubblico di provenienza lombarda, ma di livello nazionale ed internazionale: sosteneva di aver girato mezzo mondo e di aver concluso obiettivamente come il Paese dove si vive meglio fosse l’Italia.  Forse è opportuno che ce ne ricordiamo, non per imbrodarci nelle autolodi, ma per osservare meglio il mondo che ci circonda.

 

Il muro di Washington

Il muro di Berlino fu considerato il simbolo concreto della cosiddetta cortina di ferro, ovvero l’immaginaria linea di confine tra le zone europee filo-occidentali, controllate militarmente dalla NATO e politicamente da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e quelle filo-sovietiche del Patto di Varsavia dell’Europa orientale, questo specialmente durante i circa quattro decenni della cosiddetta “guerra fredda”. Il suo crollo fu salutato, forse con eccessivo entusiasmo, come la vittoria definitiva della democrazia liberale.

Nel 2020 si svolgeranno le elezioni presidenziali negli Usa: sono già in atto le primarie dei partiti, repubblicano e democratico, propedeutiche alla corsa verso la Casa Bianca. Mentre in campo repubblicano è scontata la sciagurata ripresentazione di Donald Trump, in campo democratico si profila una situazione a dir poco ingarbugliata e, per certi versi, imbarazzante. I candidati sono sostanzialmente tre, con l’aggiunta di un outsider di gran lusso: eccoli di seguito.

Elizabeth Ann Warren, nata Herring, è una giurista, accademica e politica statunitense, attuale senatrice degli Stati Uniti per il Massachusetts.

Joseph Robinette Biden, Jr., detto Joe, è un politico di vecchio corso, vicepresidente degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Obama dal 2009 al 2017.

Bernard Sanders, detto Bernie, è un politico statunitense, senatore per lo Stato del Vermont e già componente della Camera dei rappresentanti. Esponente indipendente affiliato al Partito Democratico, si qualifica come un socialista democratico.

Michael Rubens Bloomberg è un imprenditore e politico statunitense, co-fondatore e proprietario della società di servizi finanziari, software e mass media che porta il suo nome, Bloomberg LP, per 12 anni sindaco di New York dal 2001 al 2013.

Il candidato alla nomination democratica per la Casa Bianca Michael Bloomberg si è detto «pronto a spendere un miliardo di dollari» per battere Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Non solo: l’ex sindaco di New York – che dispone di un patrimonio di oltre 50 miliardi di dollari – è disponibile a stanziare il miliardo anche se fosse sconfitto alle primarie: in quel caso, assicura, sosterrebbe finanziariamente uno dei suoi attuali rivali, Bernie Sanders o Elizabeth Warren, nonostante le evidenti differenze politiche.

Lo ha dichiarato lo stesso Bloomberg in un’intervista al New York Times. La sua strategia è di mettere in piedi una campagna con centinaia di attivisti pagati e un’imponente operazione sui social da mettere a disposizione di chiunque si aggiudichi le primarie del partito democratico. «Dipende se il candidato avrà bisogno di aiuto: se stanno andando molto bene, avranno bisogno di meno. Altrimenti ne avranno bisogno di più», ha spiegato. Il miliardario dichiara di aver già speso oltre 200 milioni di dollari in pubblicità: andando di questo passo, a marzo Bloomberg supererà la spesa sostenuta da Barack Obama per tutta la campagna 2012.

Se si profila, a livello del partito democratico, la solita competizione tra un candidato più radicalmente di sinistra, Bernie Sanders, e gli altri decisamente più moderati, la vera sfida sembra essere quella economico-organizzativa in cui giganteggia Bloomberg che ha dichiarato a suon di miliardi la sua guerra contro Trump. La politica, per quello che di essa rimaneva negli Usa, sta per essere definitivamente archiviata dallo scontro fra due tycoon, uno già in sella e uno che aspira, direttamente o indirettamente, a salirvi. I giochi sono molto scoperti, non c’è alcun ritegno o pudore: chi più ne ha (di soldi e di capacità imprenditoriali) più ne mette. E vinca il più ricco e il più capace di comprare i voti. Il voto di scambio, davanti al quale noi italiani giustamente ci scandalizziamo, diventa il criterio determinante delle elezioni americane. Forse in parte è sempre stato così, forse ultimamente era ancor più così, adesso è totalmente ed assolutamente così.

Se fossi un cittadino statunitense, senza conoscere le caratteristiche politiche sostanziali dei candidati, mi aggrapperei comunque a Bernie Sanders per quel poco di sinistra che lascia intendere, anche se mi dovrei turare naso ed orecchie se dovesse essere sovvenzionato dal perdente (?) Bloomberg e prendendo come obiettivo quello di mandare a casa Trump (non è molto, ma non è neanche poco). Se però la sfida dovesse essere direttamente fra Bloomberg e Trump, non mi resterebbe altro da fare che emigrare, con l’imbarazzo della scelta del Paese a cui chiedere asilo politico. Sarà ancora vero che, come diceva Winston Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”? Lo affermava circa settant’anni fa, quando io non era ancora nato. Sarà meglio che mi rimetta a studiare seriamente la storia contemporanea per sapermi regolare. Non vorrei che negli Usa crollasse il muro della democrazia sotto le picconate di Trump e Bloomberg. John Kennedy in un suo famoso discorso del 1963, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino Ovest, affermò: «Siamo tutti berlinesi!». Intendeva così garantire ai tedeschi della parte democratica l’alleanza, l’appoggio e l’aiuto. Chi potrebbe essere il leader dotato di carisma democratico al punto da recarsi in visita ufficiale a Washington per dichiarare: «Siamo tutti statunitensi, ma contrari alla vostra democrazia e al vostro presidente!»?

 

 

L’invasione leghista per la conquista dell’impero romano

La battaglia leghista si sta spostando a sud, come succede spesso per le perturbazioni atmosferiche: dall’Emilia-Romagna a Roma. Dopo la sonora batosta raccolta in Emilia, regione assai restia a farsi omologare al nordismo salviniano, al sovranismo antieuropeo ed al populismo neofascista, Salvini prova a trasferire la sua prova di forza nella capitale, pensando di sfondare la porta romana (qualcuno comincia a parlare di marcia su Roma) per una prova generale di accreditamento quale competitor per la poltrona di palazzo Chigi.

Esistono probabilmente molti motivi che consigliano questa deviazione di percorso: la persistente vocazione destrorsa dei romani, la pessima esperienza della sindacatura raggiana, la papalina tradizione reazionaria in campo religioso (i rosari e i simboli potrebbero funzionare meglio), la voglia di saltare sul carro del vincitore per rimanere aggrappati al primato della capitale e depotenziare definitivamente la spinta nordista della Lega.

Sembra che abbia però cambiato tattica: parlare un po’ meno, non sparare a vanvera, trovare una candidatura ragionevole in vista della scadenza elettorale capitolina del 2021 con un probabile anticipo di un anno. Stando alle cronache ed ai commenti (li mutuo soprattutto da “La stampa”), Salvini starebbe preparando la torta con degli ingredienti diversi: ascolto delle organizzazioni imprenditoriali romane per poi ripiegare sul tasto immigrazione (il suo cavallo di battaglia).

«Abbiamo avuto segnalazione che alcune donne, né di Roma né di Milano, si sono presentate per la sesta volta al pronto soccorso di Milano per l’interruzione di gravidanza. Non è compito mio né dello Stato dare lezioni di morale, è giusto che sia la donna a scegliere per sé e per la sua vita, ma non puoi arrivare a prendere il pronto soccorso come la soluzione a uno stile di vita incivile». E ancora: «Qualcuno ha preso il pronto soccorso come il bancomat sanitario per farsi gli affari suoi senza pagare una lira». Morale salviniana: «La terza volta che ti presenti, paghi». Siamo al delirio socio-sanitario! Una strana e impertinente allusione alla emancipazione delle donne immigrate e un buffetto agli anti-abortisti di maniera.

Roma val bene una stoccata alla UE. «Credo che si debbano cambiare le regole dal di dentro. Faccio l’esempio del condominio: se pago le spese nel mio condominio ma non funzionano il riscaldamento, l’ascensore, allora o le regole cambiano oppure io smetto di pagare per quel servizio. Non si tratta di essere euroscettici ma di non essere pirla». Siamo al bar sport di Bruxelles, visto che quello di Strasburgo non lo ha mai frequentato.

Dulcis in fundo la polemica con le sardine. «Le sardine ci sono o ci fanno? Abolire i decreti sicurezza significa togliere soldi e competenze a sindaci e forze dell’ordine, oltre che dimezzare l’Agenzia dei beni confiscati alla mafia. Forse qualcuno tifa per mafiosi e delinquenti?». E a chi gli chiede cosa risponde a Mattia Santori che lo ha definito «erotico tamarro», lui replica così: «Cosa vuoi rispondere a uno che ti dà del tamarro? Parliamo di cose serie». Tamarro vuol dire zoticone e cafone. Perché erotico? Non lo so. Forse perché della caffonaggine ha fatto un’arma di fascinosa conquista.

E per concludere ecco il discorso sul possibile candidato sindaco: «La Lega vuole un sindaco di Roma? No, no, vuole un sindaco di Roma in gamba». Risposta niente male. I soliti dietrologi pensano che Salvini abbia in testa una donna: Giulia Bongiorno, che possiede un identikit interessante. Non c’è che dire, la tattica starebbe cambiando. La tattica, non la strategia, non gli obiettivi fondamentali. Quelli rimangono in tutta la loro pericolosa consistenza. Attenzione: le sardine non devono limitarsi a fare il controcanto culturale e politico a Salvini, ma noi non lasciamole sole nella battaglia contro l’avanzata dei barbari leghisti.

Il buco politico dello sbilancio UE

Niente accordo sul bilancio: alla prima vera prova dopo la Brexit, l’Unione Europea si spacca e non riesce a trovare un accordo su come finanziare le sue politiche per il periodo 2021-2027, dal Green Deal al Digitale e Difesa. “Le scorse settimane e gli ultimi giorni abbiamo lavorato duramente per cercare di trovare un accordo. Sfortunatamente oggi abbiamo osservato che era impossibile”, ha constatato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, dopo una maratona di incontri di 36 ore. “Abbiamo bisogno di più tempo”, ha riconosciuto Michel, che ora dovrà presentare una nuova proposta e, con ogni probabilità, convocare un altro Vertice nelle prossime settimane o mesi.

I due grandi temi di scontro sono stati il tetto al bilancio e gli sconti (i cosiddetti “rebates”) per gli Stati membri più ricchi. Olanda, Austria, Danimarca e Svezia non volevano superare l’1% del Pil e, con la Germania, chiedevano sconti consistenti. Dall’altra parte, i paesi del gruppo “Amici della coesione” (che si è ribattezzato “Gli Ambiziosi), di cui fa parte anche l’Italia, hanno rifiutato di scendere sotto il compromesso proposto da Michel: 1,074% del Pil pari a 1.094 miliardi di euro in sette anni.

Michel ha cercato di ammorbidire i 4 paesi “frugali” con un consistente “rebate”: 6 miliardi l’anno. Ma i paesi del Sud e dell’Est si sono rifiutati di finanziare uno sconto per gli Stati membri più ricchi. Quando la Commissione ha messo sul tavolo un documento tecnico per cercare di sbloccare lo stallo, tenendo conto delle esigenze poste da tutti, Michel ha convocato i leader nella sala plenaria. Ma la riunione è durata pochi minuti. Nessun accordo e molte rivendicazioni.

Ho ripreso alcuni passaggi del resoconto impietoso fatto dall’Agi per aggiungere alcune brevi considerazioni. La prima riguarda l’immagine di una gabbia di matti offerta su un piatto d’argento ai fautori della Brexit, i quali avranno buon gioco populistico nel giustificare la loro fuga dall’Unione europea. Ma questo è il meno.

Il problema di fondo è l’assetto istituzionale della Ue che non consente di prendere decisioni, se non con maratone infinite e inconcludenti, puntando sempre al compromesso più basso. La Ue, in buona sostanza, non esiste, esistono 27 stati membri di un corpo in perpetua agonia. Gli antieuropeisti e gli euroscettici hanno buon gioco nel prendere le distanze.

I nodi paralizzanti sono sempre gli stessi: l’egoismo dei Paesi ricchi, il velleitarismo dei Paesi poveri, l’equivoco dei Paesi dell’Est. Non esiste un concetto di solidarietà, tutto è lasciato alle prove di forza, tutti hanno la memoria corta, tutti pensano di dare, in un modo o nell’altro, più di quanto ricevono. Se non si esce da queste reciproche diffidenze, l’Unione europea rimarrà purtroppo un bellissimo sogno nel cassetto.

Siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini e delle donne, l’Europa unita è stata ideata e sognata nel manifesto di Ventotene, che fu scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, gli ultimi due collaborarono alla sua redazione e diffusione, tra il 1941 e il 1944, al confino, da antifascisti che combatterono il fascismo, guardando avanti. Si direbbe un antifascismo profondo, di lungo e largo respiro.

Poi venne la fase fondativa di Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Jean Monnet e Konrad Adenauer, gente che ci credeva veramente. Oggi mancano questi cuori e questi cervelli: quando vedo gli attuali capi di governo e massimi dirigenti comunitari girare a vuoto nelle sale e nei corridoi di Bruxelles, scambiarsi finti baci e abbracci, sedersi intorno agli immensi tavoli della discordia, ricominciare sempre tutto daccapo, non trovare mai il vero bandolo della matassa, pensare e parlare guardando solo agli interessi nazionali, mi prende una grande malinconia. L’Europa unita è una strada obbligata e nessuno si decide a intraprenderla coraggiosamente. Forse il vero problema politico è questo, senza affrontare e risolvere il quale, le altre questioni, che ci sembrano importanti e a cui dedichiamo troppa attenzione, diventano risse da cortile.

 

Vengo anch’io…no, tu no

Leggo sul sito de La stampa che Francesca Frenquellucci, assessora all’Innovazione del Comune di Pesaro, è stata allontanata dal Movimento Cinque Stelle per avere accettato di fare parte della giunta guidata dal sindaco Pd Matteo Ricci. A dirlo è lei stessa, ex candidata sindaco grillina alle comunali di Pesaro del 2019 e consigliere comunale M5S, recentemente entrata nella giunta di centrosinistra guidata da Matteo Ricci come assessore all’Innovazione: «Ieri mi è arrivata una mail in cui il M5S mi comunica che sono espulsa. Non riesco a capire su che basi è stata presa la decisione, anche perché il link che ho inviato con la mia memoria difensiva non è stato nemmeno aperto. Farò ricorso al comitato di garanzia, vorrei fare valere le mie ragioni». «In questi mesi – ha detto Frenquellucci – abbiamo lavorato agli argomenti e portato a casa risultati per la città di Pesaro. Ho sempre pensato al bene comune, insieme agli altri consiglieri e agli attivisti che ci hanno seguito. Aggiungo che l’atto politico è stato fatto nel momento in cui ho accettato la delega e ho iniziato questa collaborazione con la maggioranza. Non capisco quindi perché vengo espulsa, ho portato avanti valori e ideali del M5s».

La notizia mi sembra effettivamente paradossale: un partito che sta al governo nazionale da alcuni mesi col Partito democratico si permette il lusso(?) di cacciare una sua esponente rea di far parte di una giunta locale guidata da un sindaco del Partito democratico. A Roma si può a Pesaro no! Valli a capire questi grillini. Non sanno dove tenere il culo e, una volta che lo hanno appoggiato in un posto, pretendono che una collega di periferia resti in piedi per non fare luce alle loro scelte di vertice. Strano concetto di democrazia.

Adesso diranno che la Frenquellucci si era candidata nel 2019 in contrapposizione a Matteo Ricci (la politica italiana è fin troppo piena di Matteo) e quindi per rispetto dei suoi elettori pesaresi non avrebbe potuto allearsi col nemico. Forse che Luigi Di Maio non si era presentato alle elezioni politiche in alternativa alla Lega e al PD per poi stipulare contratti e patti di governo prima con la Lega e poi col PD? A Roma sì, a Pesaro no! In Umbria sì: c’era un patto col PD che non ha funzionato, ma esisteva una seppur frettolosa alleanza per il governo regionale. In Emilia-Romagna no: niente alleanza con Bonaccini. Un colpo al cerchio e uno alla botte, un ministero a me, una piazza a te. Ma fatemi il piacere. Questa sarebbe la politica nuova che cambia l’Italia?

C’era un partito specialista in queste alleanze mobili, era il PSI, soprattutto quello capeggiato da Bettino Craxi. Con la DC a Roma, con il PCI in parecchi comuni: l’ago della bilancia di chi presume di potersi alleare a seconda del tempo che fa e dell’aria che tira. Però, se qualcuno si ribella a queste ondivaghe scelte di campo, osa alzare il dito e obiettare, viene buttato fuori di brutto.

A proposito di espulsioni dal M5S: credo che abbiano perso il conto, non ci si capisce più niente. Se vanno avanti così restano in pochi ma carissimi amici, con pochi ma incazzatissimi elettori. E Beppe Grillo? Quasi ammutolito e se prova a parlare fa la fine di don Pasquale con la finta moglie Norina. Il marito vede e tace: quando parla non s’ascolta. Mi dispiace per la Frenquellucci, ma meglio riderci sopra.

 

Il trucco non serve alle facce di tolla

Mia sorella era grande ammiratrice di Indro Montanelli, non per le sue idee politiche, ma per il suo approccio ai fatti e soprattutto alle persone. Quindi, quando apparve in prima battuta sulla scena fiorentina Matteo Renzi con tutto il suo profluvio di ambiziose e bellicose mire, andò a prestito dal criterio sbrigativo suggerito dal grande giornalista per giudicare le persone: “guardategli la faccia…”. E infatti mia sorella d’acchito sentenziò riguardo a Renzi: «Che facia da stuppid!». Non ebbe purtroppo tempo di vederne la scalata ai massimi livelli del partito e del governo e quindi non sono in grado di sapere cosa ne avrebbe pensato in seguito e cosa ne penserebbe oggi.

Io fui stranamente, fin dall’inizio, assai più possibilista e tentai di apprezzarne il piglio decisionista, perdonandogli la evidente e spregiudicata ansia di potere nonché la riprovevole scorrettezza nei rapporti con i colleghi a tutti i livelli. La pur breve fase governativa renziana mostrava non pochi aspetti interessanti di novità e di cambiamento. Poi, strada facendo, l’esagerazione nel personalizzare e generalizzare la spinta riformista, la chiusura nel guscio della propria cerchia di pochi e discutibili eletti, l’incapacità di tenersi collegato al territorio trascurandone la classe dirigente, la narcisistica, logorroica e irrefrenabile ricerca del consenso, la smisurata autostima e la pericolosa disistima verso gli altri hanno fatto esplodere il pallone gonfiato. Ci rimasi male, molto male, gli avevo concesso consenso e voto e mi trovavo molto deluso.

Da quando è uscito dalla scena governativa Matteo Renzi non ne ha più imbroccata una, dando libero sfogo ai suoi peggiori difetti. È costantemente alla ricerca di una ribalta fine a se stessa, ha perso il controllo e mi stupisce che tanti (per la verità pochi e non buoni) lo seguano, intestardendosi a considerarlo un leader, quando in realtà e leader solo ed unicamente di se stesso.

L’ultima apparizione a Porta a Porta, tribuna ideale per chi vuole stupire col nulla, ha portato il vaso al massimo della pienezza: ha detto tutto e il suo contrario. Da rottamatore di provata esperienza a sindaco d’Italia di velleitaria prospettiva; da dinamitardo antigovernativo a riformatore istituzionale; da uomo di parte a uomo al di sopra delle parti; da politicante a stratega, da anticontiano a vittima contiana; da pannolone assorbente a crema repellente. E non è ancora finita. Ogni giorno una polemica vecchia di zecca. Ogni occasione è buona per sparigliare le carte e cominciare un gioco nuovo.

Posso essere stanco? Tutti i media lo prendono in considerazione e mi costringono a seguirlo nel suo assurdo tourbillon politico: parla, parla, parla…Basta! Un po’ di protagonismo ci vuole, ma tutto dovrebbe avere un limite. Non mi sento più nemmeno di valutare le sue cangianti proposte. Lo lascino dire e se avrà qualche seguito, ne riparleremo. Due deputati, una proveniente da Liberi e uguali, l’altro dal Pd, hanno portato la consistenza dei gruppi parlamentari di Italia viva rispettivamente a 30 deputati e 18 senatori. Poca roba, sufficiente però a creare scompiglio e confusione. Il problema è che Renzi non vuole (per furbizia) e non può (per ostacoli procedurali e tempi istituzionali) puntare ad elezioni politiche anticipate e ravvicinate, quindi tende a tenere a bagnomaria governo e parlamento collocandoli sopra la sua pentola in continua ebollizione.

Non è l’unico politico che concepisce la politica solo in funzione della sua protagonistica presenza. All’inizio ci si può anche cascare, poi… Sono sicuro che, se oggi, a distanza di parecchio tempo, chiedessi a mia sorella un giudizio su Matteo Renzi, mi risponderebbe alla sua maniera: «Non mi ero sbagliata, aveva ragione Montanelli, quando uno ha la faccia da stupido purtroppo col tempo si rivela tale”. Giudizio politico s’intende!  Non mi permetterei mai e poi mai di parlare male della persona: ci sta pensando già lui a parlare.

I pappagalli nazifascisti

Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così). Era uno dei banali, ma eloquenti esempi della prepotenza del regime fascista: erano pillole che mio padre mi somministrava quando ero bambino e curiosavo nei meandri della storia recente.

Si è perso il conto, in questo periodo, degli episodi inerenti scritte inneggianti al nazifascismo apposte un po’ dappertutto, su monumenti, all’ingresso di abitazioni di persone le cui origini risalgono alla lotta partigiana e finanche alla deportazione nei campi di sterminio: una vera e propria gara tra negazionismi e rivalutazioni dei regimi più abbietti che la storia italiana e mondiale abbiano conosciuto e patito a prezzo carissimo.

Questi fattaci vengono sbrigativamente classificati come ragazzate o come goliardici esibizionismi: può darsi ci sia una simile feccia nei bicchieri di certe persone giovani e meno giovani. Il fascismo a chi osava dissentire anche minimamente o indirettamente dai suoi ordini di scuderia propinava, nella migliore delle ipotesi, abbondanti dosi di olio di ricino oppure, in un crescendo mussoliniano, ritorsioni pesanti a livello lavorativo, botte da orbi, torture, prigione, confino, massacri veri e propri. Non si andava per il sottile, gli “stangatori” erano all’opera: spesso si trattava di poveri diavoli assoldati dal regime per queste operazioni di pulizia contro altri poveri diavoli che osavano indossare, fisicamente, mentalmente, culturalmente o politicamente, una camicia di colore diverso.

La tentazione di ripagare questi imbecilli di ritorno con la stessa moneta potrebbe essere forte: se non che “occhio per occhio, dente per dente” non produce nulla di positivo. Sarebbe interessante riuscire ad individuare questi nostalgici graffitari da sottoporre ad una cura riabilitativa, che prevedesse la rimozione da parte loro dei “capolavori” della pura follia politica? Capirebbero qualcosa in più?  Ho seri dubbi. Un tempo le forze dell’ordine contro certa delinquenza di strada non andavano per il sottile: portavano i trasgressori in caserma e giù con una mano di bianco. Erano pessimi retaggi di regime: la medicina peggio della malattia.

A monte esistono seri problemi: di ignoranza, di clima socio-politico, di tolleranza pelosa. Vado brevemente con ordine. Mi ritengo fortunato per avere avuto un padre che mi ha semplicemente ma efficacemente spiegato cos’era il nazifascismo e cos’è la democrazia. Non ha aspettato che lo imparassi a scuola, si è impegnato ed esposto in prima persona fin dalla mia prima fanciullezza. Tuttavia il sistema scolastico, a tutti i livelli, è stato ed è carente al riguardo: è vero che quanto si apprende a scuola spesso entra da un orecchio ed esce dall’altro, ma se non ci si prova nemmeno…

C’è poco da dire, il clima politico è così confuso se non addirittura implicato in certi subdoli revival da creare un perfido brodo di coltura per far tornare a galla certi disvalori riscoperti quali scorciatoie per sistemare i rapporti nel disordine culturale e sociale. Non mi sforzo di fare esempi perché sono sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. Mi permetto solo di porre una domanda retorica: in un paese dove l’ex ministro degli Interni, pretendente ad assumere pieni poteri, si permette di imbrattare verbalmente il citofono di un cittadino dando corda a illazioni ed operando una sorta di giustizia sommaria a livello di contrada, c’è da stupirsi se qualcuno si sente autorizzato ad imbrattare fisicamente il citofono di un cittadino di origine ebraica o di un ex partigiano?

Poi viene la tolleranza di chi alza le spalle, di chi ci ride sopra, di chi sdrammatizza, di chi sottovaluta adottando il metro benaltristico. L’indifferenza, la peggiore delle nostre attuali malattie a livello psicologico (muore il vicino di case e chi lo conosce… e chi se ne frega…), a livello sociale (i diversi, gli stranieri, gli emarginati non rompessero i coglioni…), a livello politico (facciamoci i fatti nostri visto che tutti se li fanno…). E se provassimo a ragionare seriamente, sul passato, sul presente e sul futuro?

 

 

 

 

 

 

 

Il folle orgoglio del brigatista.

“Meglio avere mani sporche di sangue ma provarci”. Questa frase è stata pronunciata dall’ex brigatista Raimondo Etro nel corso della trasmissione “Non è l’Arena”, in onda su La7. Etro, 63 anni, è stato condannato a 20 anni e sei mesi di carcere per il rapimento del presidente della Dc Aldo Moro e nel 2019 è tornato al centro dell’attenzione mediatica per avere chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza. L’affermazione di Etro in studio ha scatenato l’indignazione degli altri ospiti del programma, tra cui il giornalista Luca Telese e Daniela Santanchè: “E’ inaccettabile, o chiede scusa oppure ce ne andiamo”, ha detto la parlamentare di Fratelli d’Italia in collegamento video. “Lo faccia”, ha risposto ironicamente Etro, che ha anche aggiunto: “Scusa il cazzo”. Giletti, a quel punto, lo ha invitato ad abbandonare lo studio: “Mi dispiace ma questa frase è inaccettabile, quella è la porta”.

Penso di avere capito cosa intendesse dire l’ex brigatista.  Mi sono sempre chiesto, con grande inquietudine, quali fossero le motivazioni profonde dei terroristi rossi, che in gran parte, molto probabilmente, erano persone in buona fede (?). Lo avrà loro chiesto sicuramente anche Aldo Moro, durante la sua prigionia ed avrà tentato anche di dialogare con i suoi carcerieri: tentativo fallito, perché, quando la lotta politica diventa una sanguinaria follia, non c’è più niente da discutere. Raimondo Etro ha confessato qual era la pulsione in base alla quale è arrivato a commettere dei reati gravissimi: lo ha fatto in nome di un’idea in cui credeva, ci ha provato, come ha detto a posteriori. Il dopo-follia è altra e ancor più grave follia! La frase pronunciata ha un avverbio di troppo: meglio.

Potrei accettare una frase diversa: “Ho provato a realizzare il mio ideale con la violenza, mi sono sporcato le mani di sangue, ho sbagliato tutto nel merito e nel metodo, chiedo umilmente perdono dopo aver pagato il mio debito con la giustizia”. Questo gli dovevano controbattere con calma e fermezza, anziché accettare la sua paradossale provocazione, trascinarlo in uno scontro stucchevole per poi cacciarlo dallo studio televisivo. Se poi, rifiutandosi volgarmente di chiedere scusa davanti alle insistenze di Daniela Santanché, intendeva dire che non accettava lezioni di democrazia da certi politici, penso non avesse tutti i torti, ma talmente grande è il suo torto da costringerlo a chinare il capo e chiedere scusa ora anche e soprattutto per allora, persino a Daniela Santanché.

La lezione veramente credibile ed autorevole a Raimondo Etro non la danno però né Telese, né la Santanché, né Giletti: la dà la storia, la dà Aldo Moro con il suo pensiero, la danno tutti coloro che, pur contestando il sistema, hanno rifiutato categoricamente la violenza rimanendone in certi casi essi stessi vittime. Proprio in questi giorni è stato celebrato il 40°’anniversario della barbara uccisione di Vittorio Bachelet da parte di brigatisi rossi. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto: “Vittorio Bachelet era convinto che nell’impegno sociale, in quello politico, in quello istituzionale, proprio attraverso il dialogo fosse possibile ricomporre le divisioni, interpretando così il senso più alto della convivenza”.

Un tempo, quando un alunno testardo e scorretto commetteva errori a ripetizione, gli si imponeva di scrivere per tante volte una reprimenda fino ad impararla a memoria. Potrebbe valere la pena che Raimondo Etro fosse sottoposto ad una simile punizione. Costretto altresì a rivedere come l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, lui che aveva fatto ricorso alla lotta armata contro il nazifascismo, fosse letteralmente sconvolto per i terribili atti del terrorismo brigatista e come il giovane figlio di Bachelet fosse capace di esprimere parole di perdono verso chi stava sbagliando tutto in nome di chissà quali assurdi ideali.

La prego signor Etro, se proprio non sopporta i rimbrotti degli e negli studi televisivi, parli con Giovanni Bachelet, con i famigliari delle vittime delle brigate rosse, con i figli di Aldo Moro: scavi nella storia democratica, nella Costituzione italiana e troverà seri motivi di ripensamento per la sua coscienza di cui comunque renderà conto al Padre Eterno. A lui non potrà rispondere: “Scusa il cazzo”.

 

Le sardine protestano contro l’inscatolamento di Zaki

Gli studenti, da che mondo è mondo, sono sempre stati in prima linea nelle battaglie contro i regimi autoritari di destra e di sinistra. La loro età, i loro strumenti culturali, il loro entusiasmo, il loro coraggio li portano a ribellarsi e quindi ad esporsi a gravi rischi di repressione personale e sociale. La regola è confermata dal recente caso di Patrick George Zaki, il ragazzo egiziano studente a Bologna arrestato al Cairo.

Come scrive “Il fatto quotidiano”, il team difensivo di Patrick George Zaki è passato al contrattacco, dopo che il tribunale del riesame di Mansoura ha respinto la richiesta di scarcerazione, e denuncia ufficialmente le torture da parte della sicurezza egiziana nei confronti dello studente dell’università di Bologna. E proprio per stabilire la verità sull’arresto, si chiede l’acquisizione dei filmati di sicurezza dell’aeroporto del Cairo nella giornata del 7 febbraio scorso, quando lo studente è stato fermato dagli uomini di Abdel Fattah al-Sisi. Una mossa che ha permesso loro di entrare in possesso delle accuse ufficiali, messe nero su bianco sul verbale di fermo, mosse nei confronti dello studente: “Tentativo di rovesciare il regime”, “uso dei social media per danneggiare la sicurezza nazionale, propaganda per i gruppi terroristici e uso della violenza”. Inoltre, nelle due pagine si trova anche la smentita del Cairo alle accuse di tortura avanzate da più parti e la richiesta ai media di non diffondere informazioni in contrasto con quelle ufficiali. Tutto come da solito copione.

Dalla piazza romana delle sardine è venuta una forte protesta: i quattro fondatori bolognesi all’ultimo minuto hanno dato forfait perché bloccati a Bologna, a preparare con l’ateneo una manifestazione in sostegno del giovane. «Di Maio era vergognosamente qui a farsi i selfie mentre ogni ora che passa Patrick è nelle mani dei suoi torturatori e l’Italia perde l’occasione di essere capofila in difesa dei diritti umani», attacca Donnoli: «si fanno prevalere gli interessi commerciali». Un attacco violentissimo al ministro degli Esteri: «Gli chiediamo di ritirare il nostro ambasciatore e lavorare perché lo facciano anche gli altri Paesi democratici, e che si attivi a dichiarare l’Egitto Paese non sicuro».

In questi casi rispunta sempre la dicotomia tra la difesa dello stato di diritto e il ripiegamento sulla ragion di stato. Diventa poi oltre modo difficile coniugare la fermezza della protesta con la morbidezza della diplomazia. Sono portato istintivamente, anche se non sono affatto giovane, a schierarmi a favore di una linea decisamente forte e chiara. La storia insegna che le vie troppo diplomatiche hanno creato autentici disastri ai danni della democrazia. Si stanno alzando voci di condanna verso i comportamenti antidemocratici di questo Paese, anche considerando i precedenti della gravissima vicenda della morte in Egitto del giovane ricercatore Giulio Regeni.

Attenti però a non farne una questione di polemica politica di carattere interno, solo una occasione di attacco contro il pur penoso ministro degli Esteri, il grillino Luigi Di Maio, tutto intento alle proprie tattiche movimentiste più che alla difesa della dignità nazionale. Capisco perfettamente l’ansia distintiva delle piazze sardine rispetto a quelle grilline e la volontà di allargare la visuale critica, fino ad ora troppo schiacciata su Matteo Salvini e la sua Lega, per arrivare a chiedere che destra e sinistra cambino strada. Se i decreti sicurezza targati Matteo Salvini «vanno abrogati», il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è «indecente» e anche il Pd ha la sua parte di colpe per il memorandum Italia-Libia che è una vergogna.

Ho la netta impressione che le sardine urlino in piazza ciò che il popolo di sinistra pensa da tempo. Governare però è qualcosa di diverso e di molto più problematico: ciò non toglie che il partito democratico debba accettare la sfida e che le sardine debbano dialogare dignitosamente col PD. E con chi dovrebbero confrontarsi, se non col PD. I furbetti intravedono il movimento delle sardine come una costola barricadiera del PD e le sardine più barricadiere temono di essere strumentalizzate dal PD. Lasciamo che ognuno faccia il proprio mestiere: mi sembra presto per fare una sintesi. Intanto proviamo a fare qualcosa per Zaki, anche se dobbiamo ricordare che le battaglie per la libertà non sono passeggiate e chiedono purtroppo di mettere a repentaglio anche la stessa vita. Contestare i regimi dittatoriali, più o meno camuffati, non è uno sport, è una testimonianza durissima a cui tutti dobbiamo partecipare nei limiti del possibile, facendo magari anche un pensierino all’impossibile.

L’infanzia abbandonata

Durante la mia fanciullezza giocavo in cortile con alcuni miei coetanei abitanti nel condominio: pallonate contro i garage che fungevano da ipotetiche porte del campo, grida, litigi, etc. etc. Fortunatamente a quell’epoca quasi tutte le famiglie avevano figli che si sfogavano nelle aree cortilizie: eravamo ancora piccoli per andare in un campetto di periferia. Arrecavamo indubbiamente qualche (?) disturbo agli abitanti del palazzo. Uno, in particolare, persona buona ma pignola, che, guarda caso, non aveva figli, si lamentava parecchio. Veniva addirittura a parlare con mio padre di sera, magari all’ora di cena. Si sentiva suonare il campanello e scattava l’allarme: era il signor…che veniva a reclamare la fine della ricreazione. Mio padre non si scomponeva, lo accoglieva con simpatia e col suo impeccabile humor alla parmigiana; come si faceva un tempo, gli offriva da bere, lo coinvolgeva in un’allegra chiacchierata prima di arrivare al dunque: «Co’ gh’ volol fär, me fjól  a n’al pos miga ligär in ca, al gh’à diritt ‘d zugär. Al vedrà che quand al gh’arà la sò etè al ne zugrà pu». Poi dopo aver stemperato il clima lanciava un simpatico affondo: «Po, ch’al staga aténti che chi ragas chi, si se stuffon, igh zbuzisson il gommi d’la machina…». Risata…un secondo bicchiere…una stretta di mano…una sana e realistica raccomandazione a gridare un po’ meno durante il gioco in cortile.

Ebbene anche a Palermo sta succedendo qualcosa di simile, ma assai più spiacevole: non si può più giocare in oratorio dopo la decisione dei magistrati di vietare l’uso del pallone nel cortile in conseguenza delle cause intentate da alcuni condomini dei palazzi limitrofi.  L’ordinanza del tribunale è infatti arrivata dopo che alcuni vicini hanno fatto causa, lamentandosi del rumore generato dai giochi dei bambini. Sullo sfondo di questo episodio, è inutile nasconderlo, si intravede indirettamente il pericolo della mafia, sempre pronta a mettere le grinfie addosso anche ai ragazzi. Mi auguro che le lamentele siano emerse in buona fede, ma bisogna avere il coraggio di contestualizzare i fatti e di affrontare le situazioni con la dovuta attenzione psicologica e sociale.

È scoppiata una rivolta gentile che ha visto l’intervento del vescovo Corrado Lorefice, il quale, dopo aver giudicato le misure come troppo restrittive, ha rivolto un caldo invito a far prevalere buonsenso e dialogo.  “L’oratorio è un luogo fondamentale per la crescita dei ragazzi, non solo spirituale, soprattutto nella nostra Palermo”, ha continuato il capo della diocesi, facendo autorevole eco al parroco, che ha sconsolatamente affermato: “Adesso l’unica alternativa è la strada”. Ad accogliere il vescovo tutta la comunità parrocchiale: i bambini, le mamme, i religiosi. “L’oratorio è un punto di riferimento per le famiglie della zona. Vederlo così senza ragazzini che giocano è triste”, dicono alcuni genitori. Il vescovo e i fedeli si sono riuniti in un’assemblea per confrontarsi su quello che è successo.

“Questo oratorio è un luogo in cui si celebra la vita in tutte le sue fasi. Non possiamo e non dobbiamo fermare le sue attività”, aggiunge il parroco, presidente dell’associazione che gestisce l’oratorio.  “Siamo pronti a dialogare per arrivare a una soluzione. In questo momento i nostri bambini hanno solo l’alternativa della strada”, ha aggiunto davanti all’arcivescovo Corrado Lorefice venuto in visita tra i fedeli, i volontari e i ragazzi.

Non è un fatto eclatante, ma, senza esagerare e fare della facile poesia, significativo di una mentalità che tende a chiudere la società: tutti parlano di denatalità e di misure per invertire la tendenza, ma poi i bambini danno fastidio e allora meglio emarginarli o, ancor peggio, confinarli in strada, laddove trovano chi è magari pronto ad accoglierli in senso deteriore. Sacrosante le parole del parroco e del vescovo. Una nuova e diversa società si costruisce partendo dai bambini: lo aveva ben capito il beato don Pino Puglisi, un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto. Così lo ha ricordato papa Francesco.

I bambini, al tempo di Gesù, non godevano di grande considerazione, essendo dei non-ancora uomini. Anzi, infastidivano i rabbini intenti a spiegare i misteri del Regno. È comprensibile, allora, il gesto rispettoso degli apostoli che temono di disturbare il Maestro il quale, invece, dimostra enorme simpatia verso i bambini: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, ponendo le mani su di loro.