Un ignobile ping-pong sulla pelle dei disperati

Chiodo scaccia chiodo: è un modo di dire antichissimo, una locuzione entrata ormai nell’uso comune. Ma cosa significa realmente? L’espressione ha un significato intuitivo piuttosto semplice: per cacciar via un chiodo piantato male bisogna spingerlo via battendolo dall’altra parte con un altro chiodo. Generalmente il meccanismo funziona: quando sopraggiunge o immettiamo nel nostro circuito psicologico un nuovo forte evento, questo attutisce od elimina l’effetto di un fatto precedente che ci angustiava o preoccupava. Una sorta di rimozione artificiale di un problema tramite un altro generalmente più attuale.

Mi sto chiedendo se il coronavirus stia funzionando come chiodo di ribattuta nei confronti del problema immigrazione. Da quando è esplosa l’epidemia se ne parla pochissimo nonostante proprio in questi ultimi giorni si stia riaprendo il fronte caldo al confine tra Turchia e Grecia. Scene da inumanità conclamata: da una parte i turchi che spingono strumentalmente gli immigrati presenti sul loro territorio verso l’Unione europea, utilizzando la porta d’ingresso greca; dall’altra parte i greci che non ne vogliono sapere di fare da carta assorbente di questo nuovo flusso e reagiscono in modo brutale contro i disperati che tentano il passaggio.

La Turchia si impegnò nel 2016 ad ospitare in modo umanitariamente corretto i migranti siriani in base ad una sorta di contratto d’appalto, stipulato in modo piuttosto strano e inaffidabile a suon di miliardi pagati dalla Ue. Ora, per motivi economici (probabilmente ci saranno ritardi nei pagamenti o si vorrà alzare il prezzo) e per motivi di realpolitik (si cercano appoggi per la schizofrenica e vomitevole politica turca nei confronti della Siria), sembra sia partito il “liberi tutti” ed i migranti, evidentemente e disperatamente insoddisfatti della loro attuale sistemazione, stanno tentando di forzare i blocchi per entrare in territorio europeo.

I patti del 2016 erano sicuramente poco chiari e poco lungimiranti, roba fatta per guadagnare tempo, senonché il tempo è passato e il problema si sta riproponendo, finendo addosso, in prima battuta, alla Grecia. Il dittatore di fatto della Turchia, Erdogan, si sta rivelando squallido personaggio alla ricerca di alleati per le sue squallide politiche interne ed internazionali. Qualcuno sostiene che occorresse a suo tempo accogliere Erdogan in Europa per tentare di tenerlo al guinzaglio: un cane aggressivo e pericoloso è meglio averlo nel cortile di casa piuttosto che vederlo aggirarsi intorno a casa. Io rispondo che i cani di un certo tipo andrebbero messi in un canile tentando di calmarli con potenti farmaci ad hoc.

Qualcun altro ha preferito blandire il cane offrendogli invitanti ed abbondanti pasti, illudendosi, come si dice avvenga per le bestie feroci nei circhi, che, placata la fame, l’aggressività diminuisca e quindi possa essere controllata e domata. Altro errore perché l’appetito vien mangiando ed Erdogan di appetito ne ha parecchio. Fatto sta che la Grecia si trova ad affrontare un’emergenza, che diventerà presto, anzi è già europea e italiana. La polizia spara contro i migranti: si dice stiano avvenendo robe da chiodi, per rimanere in linea con il detto da cui sono partito. L’Europa, come al solito, a livello istituzionale, fa il solletico al problema con sopraluoghi inutili e dichiarazioni generiche; i singoli stati membri fanno, come al solito, i pesci in barile, considerato il fatto che in questo momento, oltre tutto, il barile è strapieno di coronavirus.

Non esiste una politica verso l’immigrazione, si naviga a vista, si vivacchia voltandosi dall’altra parte rispetto alle situazioni inumane che si vengono a creare. Le difficoltà non mancano, ma possibile che non si possa trovare un minimo di strategia di accoglienza basata sul rispetto dei principi umanitari ed una politica di integrazione basata sul ruolo che questi immigrati possono avere in Europa a livello lavorativo e sociale? Non penso possa valere il discorso del “chiodo scaccia chiodo”: i chiodi sono parecchi e tutti ben piantati. Forse sarebbe meglio trovare un nuovo modo di dire: “emergenza chiama emergenza”.

 

Tamponi a tutto…risparmio

Non voglio metterla sul patetico e infatti parto cinicamente con una battutaccia per sdrammatizzare il clima che sta montando ogni giorno di più. Un amico di mio padre, quando la compagnia slittava verso argomenti piuttosto tristi, reagiva con questa uscita: “Ragas, parläma ed còzi alégri: co’ costarala ‘na càsa da mòrt?”.

Però non posso rimanere sul tragicomico e devo per forza virare sul drammatico: mio padre stava per arrivare al traguardo, aveva ormai poche ore di vita, aveva perduto conoscenza e assieme a mia sorella manifestammo l’intenzione di rimanere al suo capezzale in ospedale per quella che per lui ormai sembrava l’ultima notte. Niente da fare. La regola voleva che rimanesse solo una persona per, come disse sarcasticamente mia sorella, “divertirsi a veder morire il proprio padre”. Non ci fu verso. Ricordo di aver detto al medico responsabile, peraltro giovane componente di una famiglia amica: «Pur con tutto il rispetto per la vostra professione, voi state facendo una sanità a vostra misura e non a misura d’uomo». Mio padre quella notte morì, rimasi io vicino a lui fino a quando si intravide la fine e telefonai a mia sorella, che era tornata a casa ad aspettare una mia chiamata definitiva.

Perché ho ricordato questo triste episodio? Perché ho avuto l’impressione che, dal punto di vista sanitario, la lotta contro il coronavirus fosse partita di gran carriera puntando sulla diagnosi precoce e sulla difesa delle persone: tamponi a tutto spiano (l’unico strumento per individuare il contagiato, isolarlo, curarlo adeguatamente anche a difesa dell’incolumità altrui).  Poi, strada facendo, il discorso si è ridimensionato per motivazioni strutturali: la spesa eccessiva dei tamponi, l’impiego di troppo personale, gli ospedali intasati, il sistema a rischio collasso.

In Italia, si dice, abbiamo il miglior sistema sanitario esistente al mondo, con punte di eccellenza soprattutto nelle regioni più colpite dal coronavirus. Sarà anche vero, ma alla prova emergenziale le strutture sembrano andare in tilt. Si scarica il discorso sulla “inutil precauzione” e ci si limita a fare accertamenti solo in casi di conclamata e grave sintomatologia: se andiamo avanti così, faranno probabilmente il tampone solo a chi è in coma. L’ordine sembra esser quello di dedicarsi solo ai casi obiettivamente più chiari e gravi.

Della serie non si può andare al bancone dei bar, ma si può avere la febbre a trentanove gradi, aspettando che passi con la tachipirina. Misteri del coronavirus.  Da una parte ho l’impressione che si intenda coprire, per lo meno in parte, la verità, sfoltendo la processione dei tamponi, dall’altra vedo un allarmismo pazzesco fomentato da misure preventive da tempo di guerra. Il filo logico, se può mai esservi, ha tentato di trovarlo il premier Giuseppe Conte, in una equilibrata e finalmente non più troppo reticente dichiarazione pubblica. Ha ammesso che l’obiettivo di fondo è quello di contenere la diffusione del virus (di più non si può fare) e di renderla compatibile con le nostre strutture sanitarie al collasso. Meglio saperlo, per sapersi regolare.

Mettiamoci d’accordo! Di fronte a tutto ciò v’è chi cerca di fregarsene altamente e di continuare la propria vita nella normalità. V’è chi si fa prendere dal panico e dalla paura e non vive più. Conte ha proposta una terza via della ragionevolezza e del buon senso. Non so se ci riusciremo. Una cosa è certa: alla fine dei colloqui, che si hanno con persone amiche, durante i quali la lingua va sempre a finire su questo argomento, non è un caso che si concluda sempre il discorso con uno “speriamo bene”, che la dice lunga non sulla virtù della speranza, ma sul realismo della rassegnazione.

E pensare che non volevo scrivere niente sul coronavirus…

Grillourlanti senza voce

Si sono svolte a Roma, pur nel clima a dir poco influenzato dai timori del coronavirus e dal blocco del traffico, le elezioni suppletive per scegliere il sostituto in Parlamento di Paolo Gentiloni, nominato commissario europeo. Alle urne è andato il 17,66% degli aventi diritto al voto, ovvero 32.880 persone su 186.234. Ha stravinto Gualtieri, ministro dell’Economia del governo Conte, supportato dal centrosinistra unito, che ha incassato il 62,2% dei consensi. Maurizio Leo, sostenuto dal centrodestra ha raccolto il 26% dei voti, mentre il M5S che si è presentato con Rossella Rendina ha ottenuto poco più del 4%.

La limitatissima portata quantitativa del test ed il suo condizionamento da fattori esterni alla politica non danno un grande significato ai risultati. Tuttavia qualche segnale si può cogliere anche in coerenza con l’esito delle recenti suppletive di Napoli. Il residuale e frastagliato popolo di sinistra si sta ricompattando e sta ritrovando un certo filo conduttore a livello ideale, sociale e politico: nonostante tutto la sinistra rimane un punto di riferimento irrinunciabile. L’elettorato di destra, dopo la brutta scottatura emiliana, preferisce stare sotto l’ombrellone, fare melina in attesa della stagione migliore e definitiva. I pentastellati non sono più in movimento, si sono fermati a guardarsi l’ombelico non osando scendere al di sotto per vergogna e non avendo la forza propulsiva per salire verso il cuore ed il cervello della gente: si stanno sciogliendo come neve al sole; sono spuntati a suo tempo come funghi e, passato quel tempo favorevole, i funghi si sono rivelati poco commestibili. E pensare che a Roma stanno (male) amministrando il comune.

I commenti non si sprecano, la politica è in tutt’altre pericolose faccende affaccendata, anche se mantiene ancor più la sua importanza vitale. I successi della sinistra, ad urne quasi vuote, da una parte non devono illudere i suoi esponenti considerata la bassa affluenza alle urne, dall’altra però stanno a dimostrare che le restanti forze politiche pescano in un elettorato assai superficiale e distratto al limite del qualunquismo, un elettorato in balia degli eventi e delle sensazioni momentanee. La politica italiana è molto fluida ma poco consistente. Non mi rallegro affatto del declino pentastellato e non mi iscrivo alla categoria dei grilloparlanti contro i grillourlanti: abbiamo malamente sprecato una possibilità di rinnovamento e non c’è niente da ridere. Dove finiranno i voti regalati frettolosamente al M5S? Temo restino in balia delle onde alla disperata ricerca di una scialuppa di salvataggio, disposti a salire sulla prima che si renda disponibile. Queste scialuppe vengono storicamente approntate dalla destra, capace di corrispondere alle paure ed alle frustrazioni della gente.

Beppe Grillo se ne è reso conto: si sta aggrappando alla tanto bistrattata sinistra rappresentata dal partito democratico, in attesa che si calmi la tempesta per poter riprendere ad urlare. Temo sarà troppo tardi e si dovrà accontentare di salvare politicamente la pelle e la faccia sulla barca democratica. Tanto andò il grillo all’urlo che ci lasciò la voce.

Nel pallone coronavirale

Mia madre osservava in modo attento, ma disincantato, le vicende del mondo del calcio: mi faceva compagnia mentre guardavo le partite in televisione, se ne usciva con osservazioni e domande simpatiche ed acute. A volte, davanti al vortice degli eventi calcistici accompagnati dalle solite ed insulse sbornie mediatiche, si lasciava andare ad una sferzante domanda/commento: «Cò farisla tùtta cla genta lì, se neg fis miga al balón?».  Ben detto dei protagonisti principali, secondari e terziari di un mondo sempre più paradossale ed assurdo: quelli che io amo chiamare “magnabalón”.

Il coronavirus ha il “macabro merito” di portare il fenomeno allo scoperto con tutte le contraddizioni al limite della buffonata, con tutti gli interessi al limite della sporcaccionata, con tutti i difetti al limite del bordello. Il mondo del calcio sta dando una dimostrazione della sua pessima capacità di autogoverno: ordini e contrordini, baruffe interne, privilegi e conflitti. Sui media viaggia la domanda: il campionato di calcio verrà falsato dal coronavirus così come è gestito, in modo a dir poco dilettantesco da un management super-pagato e super-impreparato? Ma il campionato di calcio è di per se stesso una falsificazione dei valori sportivi ridotti a rissa miliardaria! L’attuale emergenza non fa che evidenziare i mali preesistenti, non è che la ciliegina su una torta sofisticata e avvelenata.

Ho molto apprezzato il commento del ministro Spadafora sulla querelle “si gioca, non si gioca, si gioca a porte chiuse, si rinvia a data da destinarsi” etc.”, in risposta al tentativo di scaricare sul governo responsabilità tutte pallonare. Cito a senso: “Non mi preoccupo dello stress dei milionari calciatori costretti ad un super lavoro per ricuperare i rinvii; sono molto più interessato alle fatiche di medici, infermieri, operatori sanitari costretti ad un superlavoro, a turni faticosi, a rischi di contaminazione, etc.”. Finalmente, mi sono detto, il M5S, di cui Spadafora è un esponente, fa il suo mestiere di denuncia delle cose che non vanno: un pizzico di demagogia, questa volta, ci sta benissimo. Bravo Spadafora!

Il fronte sportivo è scombussolato dall’emergenza coronavirus: nei primissimi giorni dell’acclarato contagio sono stati sospesi gli avvenimenti sportivi localizzati nelle regioni più a rischio. Partite di calcio bloccate. Si doveva giocare la finale della coppa Italia di basket in un palazzetto dello sport sito in un comune del bolognese. Ero interessato a questo evento un po’ per uscire dalla routine calcistica dedicandomi alla pallacanestro. Mio padre la chiamava “palla al cesto” con un finto strafalcione ironico, ne era tuttavia interessato, anche se lo riteneva sarcasticamente lo sport inventato per gli spilungoni (“Pistolón”, per dirla in modo schietto e netto), che altrimenti non avrebbero saputo come e dove giocare per guadagnare fior di quattrini (sempre la solita storia).

Ebbene quella partita di basket si è giocata (in un ambiente chiuso ed affollatissimo, certamente molto più a rischio di uno stadio all’aperto) alla faccia dell’emergenza coronavirus, con tanto di dichiarato ed espresso ringraziamento al governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Guardando quell’incontro, peraltro bello e coinvolgente, mi chiedevo brutalmente e polemicamente, senza alcun intento offensivo: Bonaccini o è un delinquente o è un cretino… Propendo per la seconda ipotesi limitata a questo fatto (lo dico anche perché l’ho votato convintamente). Al di là dello smarrimento di Bonaccini e di tutti i pubblici amministratori, è emersa subito una confusione di idee del mondo sportivo incapace di autogestirsi ed autoregolarsi.

So benissimo che lo sport rappresenta una quota importante del pil nazionale, che ha una grossa portata umana e sociale, ma cerchiamo almeno di essere seri in occasioni come questa. Qualcuno dubita che il tira e molla sulle partite di calcio e la volontà di giocare col pubblico e non a spalti deserti siano dovuti alla preoccupazione di non dare all’estero dell’Italia un’immagine di paese contaminato ed appestato. Ebbene stiamo dando un’immagine ben peggiore, cioè quella di voler affrontare i più gravi problemi all’italiana, cioè “saltandoci fuori ad una qualche maniera”.

Ho cominciato il pezzo con mia madre e lo chiudo con lei. Fra le gustose chiacchiere, di cui mi onorava a margine delle partite di calcio, c’è una domanda sibillina, retorica, ma molto profonda e, per certi versi, molto attuale: se il pallone entra in porta e poi esce, il gol è valido? A parte il fatto che nella sua semplicità probabilmente profetizzava la cosiddetta “goal line Technology”, il marchingegno inventato per vedere se il pallone supera la linea di porta, certamente intendeva sdrammatizzare il calcio e ridurlo a quello che dovrebbe essere, vale a dire un gioco. Chi lo vuole enfatizzare e portare a fenomeno vero e proprio finisce col farne una buffonata virale.

Non fermate il mondo, io non voglio scendere

Era il 26 settembre 2001, cioè poco più di due settimane dopo gli attentati alle Torri Gemelle, quando Michele Serra, su Repubblica, lanciò il suo appello affinché i giornali ricominciassero ad occuparsi anche di altro, oltre che della notizia unica del momento, allora Ground Zero. Oggi, bisognerebbe farlo col coronavirus, non per nascondere la sporcizia sotto il tappeto, ma per smettere di battere la lingua solo dove il dente duole. I denti sono 32 e non si può curarne solo uno, lasciando andare in malora gli altri.

Purtroppo sono costretto a tornare sul dente che monopolizza la bocca mediatica. Cerco almeno di farlo cum grano salis, anche perché, indipendentemente dalla classificazione del rischio che comporta il coronavirus, mi sembra si stia prendendo la direzione sbagliata: non so se stiamo sparando con un cannone al moscerino, sicuramente ci stiamo sparando cannonate sui piedi. Si fa un gran parlare, discutere e decidere sul discorso di sostenere l’economia, come si fa, nel caso di chemioterapie per bloccare il tumore, al fine di rafforzare il fisico indebolito dalle cure necessarie, ma spesso devastanti.

Il paragone però non tiene: nel fisico si sa dove si può intervenire per compensare i deficit provocati nella lotta contro il tumore; nel tessuto economico non si sa da che parte voltarsi e si rischia di spargere risorse inutili e inefficaci. Il problema di fondo è infatti il crollo della domanda, provocato dalla paura e dai provvedimenti restrittivi: non si viaggia, non si gira, non si consuma, si sta rintanati in casa, si evitano gli spostamenti, si annullano gli incontri di tutti i tipi. Il gioco della domanda e dell’offerta è sempre e comunque falsato, in questo momento è interrotto.

O ripristiniamo, seppure in modo equilibrato e sensato, il clima economico-sociale in cui viviamo, oppure non ci saltiamo fuori. Non accetto il discorso della pubblica amministrazione delegata all’istituto superiore di sanità: la scienza, come sostiene giustamente il presidente della Repubblica, deve essere un riferimento forte e imprescindibile, ma non basta perché occorrono scelte di altro tipo. La politica è fatta di compromessi ai livelli più alti fra le diverse opzione delle forze in campo, ma è anche fatta di compromessi fra il bene maggiore e il male minore. E non è detto che il male minore a lungo andare non si riveli come il bene maggiore, mentre incaponirsi sulla difesa oltranzistica del bene maggiore può significare paralizzare la situazione sul punto di difesa senza più poter andare all’attacco. Sarebbe come se una squadra di calcio giocasse solo nella propria metacampo per la paura di subire dei gol: prima o poi i gol si subiranno comunque, meglio correre il rischio per ripartire e rimediare il risultato finale.

Che senso ha chiudere le chiese e vietare le celebrazioni comunitarie? Scrive autorevolmente Andrea Riccardi: «Un forte segnale di paura. Ma anche l’espressione dell’appiattimento della Chiesa sulle istituzioni civili. Le chiese non sono solo “assembramento” a rischio, ma anche un luogo dello spirito: una risorsa in tempi difficili, che suscita speranza, consola e ricorda che non ci si salva da soli».

A proposito di risorse in tempi difficili, il mio caro amico e grande uomo di cultura, Gian Piero Rubiconi, senza avere intenti megalomani e spendaccioni, riteneva che la cultura, la musica in particolare, fosse una opportunità imprescindibile anche e soprattutto nei periodi di crisi. «Proprio quando l’economia va male è il momento di investire nella cultura, per fare argine alla crisi che trascina in basso i valori e per stimolare i consumi di prodotti che non si logorano nel tempo». Sono stranamente d’accordo co Vittorio Sgarbi quando stigmatizza gli interventi penalizzanti sulle istituzioni culturali, musei, mostre, rassegne: la cultura, senza fare demagogia a rovescio, è il miglior antidoto al coronavirus, che si combatte più impostando un clima di serena convivenza e di solidarietà che alzando impossibili barriere e isolando la gente con assurde quarantene o peggio ancora scatenando un clima di caccia alle streghe e/o agli untori.

Sono quasi sicuro che, gira e rigira, riapriremo prima gli stadi delle chiese, delle scuole, dei musei. Niente contro i campionati di calcio e degli altri sport, ma in una scala di valori socio-culturali c’è qualcosa che viene prima e su cui vale la pena di rischiare qualcosa. Invece di fare a gara a chi combatte meglio contro il coronavirus, provino a fare discorsi seri alla gente, non prendendola in giro, ma trattandola come si fa con le persone serie: si ragiona, si valuta, si collabora e si decide per il meglio. A volte tutto il male non viene per nuocere, purché serva a scuoterci e a responsabilizzarci. Proviamoci, lasciando da parte le polemiche e mettendo nel cassetto le bacchette magiche.

Il profeta Daniele fa dire a Dio in occasione di situazioni gravissime, di fronte ad autentici disastri combinati dagli uomini: «Su, venite e discutiamo». Se lo fa Dio, forse lo possono fare anche i nostri governanti, alle prese con certe emergenze: “Discutiamo, prima di partire in tromba”. So che è difficile, ma proprio per questo conviene discutere e trovare soluzioni al minor rischio possibile e non alla maggiore garanzia impossibile.

A piedi nudi nel porcile di Johnson e Trump

Scrive Antonello Guerrera, corrispondente da Londra de “La Repubblica”: “Premesso che nessuno sa come andrà a finire la Brexit oppure se sarà benefica o malefica per il Regno Unito (e per l’Ue), c’è già chi ha calcolato il costo dell’uscita dall’Ue per il Regno Unito: secondo un’analisi di Bloomberg Economics, il conto sarebbe di almeno 200 miliardi di sterline. In pratica, Londra avrebbe già bruciato più o meno l’equivalente dei contributi versati a Bruxelles nei 47 anni di appartenenza all’Ue (1973-2020): una cifra che, secondo i calcoli dalla Biblioteca della Camera dei Comuni di Londra, sarebbe di 215 miliardi.

 Il problema, secondo Bloomberg Economics e l’autore dello studio Dan Hanson, è l’incertezza di questi ultimi anni oltremanica che avrebbe generato “molti meno investimenti di quanto vi sarebbero stati in caso di appartenenza all’Ue”, oltre alla fuga di vari imprenditori spaventati dal limbo, come ha dimostrato qualche tempo fa anche uno studio di Ernst e Young che ha addirittura quantificato in un triliardo di sterline la perdita potenziale e totale di asset in Regno Unito. Secondo Bloomberg, queste circostanze avrebbero abbassato la crescita britannica dal circa 2% all’anno all’1%, ovvero la metà. E la forbice potrebbe continuare. 

Tuttavia, secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale, il Regno Unito potrebbe crescere comunque di più di Francia e Germania nonostante la Brexit, qualora dovesse strappare un accordo favorevole nelle prossime trattative con l’Ue. Ecco perché ora siamo a un punto decisivo. Dal 01 marzo, infatti, inizieranno i delicatissimi negoziati tra Regno Unito ed Unione Europea sui rapporti futuri tra i due blocchi.

C’era da aspettarselo, anche se questi dati hanno tutto il carattere della provvisorietà e della parzialità. Gli inglesi si sono infilati in un brutto tunnel, non c’è stato verso di farli ragionare, stanno perseverando nei loro errori. Se lo scotto di questa scelta sbagliata lo pagassero solo i diretti interessati, me ne rammaricherei fino ad un certo punto: chi si loda s’imbroda! Lo hanno voluto e ne soffrano tutte le conseguenze.

La brexit soffre però di due caratteristiche molto inquietanti. La prima riguarda la sua irreversibilità: è pur vero che al mondo non esiste niente di immutabile, ma tornare indietro sarà quasi impossibile e quindi l’Europa dovrà ripensarsi in aperta conflittualità economica, e non solo economica, con il Regno piuttosto disunito della Gran Bretagna. La domanda impertinente è: l’uscita della Gran Bretagna spingerà i restanti paesi europei a stringere nuovi e più importanti patti fra di loro oppure aprirà culturalmente e politicamente una breccia attraverso la quale tenteranno di passare altri, quanto meno per allentare i già deboli vincoli comunitari e retrocedere la UE a mero coacervo di affaristi in vena di scannarsi a vicenda?

La seconda caratteristica della brexit è quella di globalizzare i danni e le beffe di una scelta sconsiderata operata da un solo paese. Come per la elezione di Donald Trump, anche per l’uscita dalla UE molti ributtano la palla nella tribuna inglese: si arrangeranno, l’hanno voluta, se la godano tutta. I dati richiamati in premessa potrebbero ulteriormente indurre in questa tentazione dello scaricabarile. Purtroppo gli effetti saranno a cascata su tutti i paesi europei, anche perché la brexit coincide, non a caso, con l’avvento dell’era trumpiana, con lo spirare cioè di un vento sovranista le cui raffiche si sentono e si soffrono in tutto il mondo. Trump ha soffiato e continua a soffiare sul fuoco antieuropeo, mettendo a soqquadro la storica alleanza tra il vecchio continente e gli Usa, pilastro dei pur faticosi equilibri post bellici.

L’ultima considerazione la riservo alla classe dirigente protagonista della brexit e del suo svolgimento. C’è modo e modo per uscire di casa: si può farlo in punta di piedi, si può chiedere scusa, ci si può separare rimanendo più o meno amici. Si è scelto di sbattere violentemente la porta fregandosene altamente di tutto e di tutti. Gli ultimi dettagli contrattuali li gestirà Boris Johnson, garanzia di trivialità, irresponsabilità e incompetenza. Fra qualche mese avremo purtroppo la rielezione di Trump e tutto sarà ancor più difficile. Quando osservo le facce e gli atteggiamenti di questi due personaggi, mi prende una sorta di angoscia: non riesco a fregarmene, lasciando la palla alle giovani generazioni. Ci vorrebbero le sardine anche a livello europeo e mondiale. Battere Salvini in Emilia-Romagna è stato relativamente semplice. Per mandare a casa Johnson e Trump la vedo dura.

Non mi stancherò mai di ricordare cosa successe in Scozia durante la campagna elettorale referendaria sulla brexit.  Per quanto concerne gli scozzesi assistiamo infatti al paradosso di un acceso indipendentismo che si spegne sulla soglia dell’Europa, come se un individuo non sopportasse di vivere in una casa con tre o quattro abitazioni e finisse col preferire un grosso condominio: ma non è così semplice, anche se risulta curiosa la rabbia degli scozzesi, i quali si  butterebbero volentieri nelle caute braccia dell’Europa, a sua volta preoccupata di innescare processi a favore di tutti gli indipendentismi sparsi nel continente. La propensione scozzese, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi, hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. Adesso la porcilaia è aumentata nei protagonisti: si è aggiunto Johnson.

Rimanendo in tema di porcilaie, riprendo la gag tra due supponenti progettisti, due ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati di prevedere l’uscio della porcilaia.  “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna. Individuare i due goffi costruttori non è difficile, più problematico è il discorso della “zana”, la recalcitrante scrofa che dovrebbe entrare: speriamo non si tratti dell’Unione europea…

 

 

 

 

 

Il granguignolesco coronavirus

Mi ero ripromesso di non commentare l’emergenza coronavirus sforzandomi di non incaponirmi in una sorta di delirio collettivo e di pensare anche ad altri fatti. Non ci sono riuscito anche perché, da qualsiasi parte mi volgo, mi imbatto direttamente o indirettamente in discorsi riguardanti il virus. Tanto vale allora scrivere le mie impressioni al riguardo.

Innanzitutto, come è stato affrontato il coronavirus a livello informativo? In Cina hanno spietatamente cercato di coprire l’emergenza perdendo tempo prezioso nella lotta contro questa insorgente epidemia; in Italia dell’informazione sull’andamento preoccupante del dilagare del virus se ne sta facendo una vera e propria sbornia mediatica di tipo spettacolare, capace di creare più panico che consapevolezza, più curiosità che sensibilità, più morbosità che attenzione. Dalla silenziosa padella del regime cinese alla garrula brace dei media nostrani in sadica ricerca della spettacolarità. Si sta infatti creando un clima di confusione e panico, che nulla ha da spartire con una seria consapevolezza dei rischi e dei rimedi. Oltre tutto arrivano anche opinioni e analisi contrastanti atte a confondere ancor più le idee della gente.

Sì, perché il secondo punto critico è quello dell’equivoco sulla natura dell’emergenza: autorevoli medici affermano che trattasi di una epidemia influenzale, che va affrontata come tale e combattuta con le armi normali del caso, senza drammatizzare sulla pericolosità e la mortalità che rimarrebbero in media con le infezioni virali di questo tipo.  “A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così”. A scrivere queste parole sulla sua pagina Facebook è Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus Covid-19 in Italia. “Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni, è scritto nel post della direttrice del laboratorio in Lombardia. “Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1!!!”, recita un post pubblicato da Gismondo.

Il virologo Roberto Burioni replica senza mezzi termini: «Niente panico, ma niente bugie. Attenzione a chi, superficialmente, dà informazioni completamente sbagliate. Qualcuno, da tempo, ripete una scemenza di dimensioni gigantesche: la malattia causata dal coronavirus sarebbe poco più di un’influenza. Ebbene, questo purtroppo non è vero» scrive sul sito Medical Facts. «Leggete i numeri – indica – uno dei nostri cardini è stato il tentare di informare nella maniera più corretta i nostri lettori. Mai allarmismi, ma neanche si possono trattare i cittadini come bambini di 5 anni. Non dobbiamo omettere nessuno sforzo per tentare di contenere il contagio».

Mi risulta che le caratteristiche della pandemia siano accertati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità: ho provato a capirci qualcosa, ma non ho concluso niente. Mi pare tuttavia che anche a quel livello ci siano pareri discordanti. È pur vero che la medicina non è una scienza esatta. Un medico amico, qualche tempo fa, mi confidò di assimilare la medicina più alla letteratura che alla matematica. Ricordo le parole di un altro medico sul problema della verità da rivelare al malato: non serve la bugia pietosa, ma una informazione equilibrata, leale e fiduciosa. Le bugie totali o parziali di regime, le verità mediatiche gonfiate ed enfatizzate, le contraddittorie analisi scientifiche buttate in faccia alla gente sono modi per mentire o per spaventare o per confondere le carte.

Resta il fatto che l’emergenza coronavirus si sta fronteggiando con provvedimenti estremi come isolamenti, cordoni sanitari, quarantene, mobilitazioni generali, etc. etc. Forse non stiamo facendo della prevenzione, forse non stiamo solo usando prudenza e cautela, ma stiamo esagerando, presi nel vortice della spettacolarizzazione ad ogni costo e di ogni evento, forse stiamo mettendo le mani avanti più per coprire le spalle alle pubbliche autorità (le quali non hanno tutti i torti a temere ripercussioni: è un attimo finire nei guai seri per omissione di atti d’ufficio) che per proteggere la salute delle persone. Non vale del tutto il discorso che si fa generalmente: meglio eccedere in prudenza che subire gli eventi. Va bene finché la prudenza non diventa allarmismo e la cautela nei comportamenti non sfocia nel panico: diversamente, come dicono in Veneto, “xe pèso el tacòn del buso”.

Sembra esista molta attenzione e tanta volontà di impegno a livello istituzionale, le prime mosse si collocavano al di sopra delle parti (anche se l’evento coronavirus si presta ad essere utilizzato dagli uni per esibire sul campo patenti di bravura e dagli altri per indirizzare accuse di incapacità o leggerezza). Il clima collaborativo è durato poco. Qualcuno non ha resistito alla perfida tentazione di strumentalizzare l’emergenza per insinuarsi nei normali corto-circuiti del problematico coordinamento e del reciproco rispetto delle competenze (i rapporti del governo con le regioni). Non mi scandalizzo se in questo clima infuocato si verificano scontri ai massimi livelli della pubblica amministrazione centrale e periferica: sarebbe tuttavia molto meglio evitarli. Si intravedono anche questioni di realpolitik nei rapporti internazionali (con la Cina, con la stessa Europa, con l’OMS). Ci si chiede come mai emerga questa forte presenza del virus in Italia a differenza degli altri stati europei: troppi controlli in Italia o troppo pochi controlli altrove? Troppa smania di trasparenza nel nostro Paese o troppa riservatezza nazionalistica negli altri Paesi? Bisogna poi considerare anche il fatto che si stanno rincorrendo due emergenze, di cui è forse difficile stabilire cinicamente quale sia la più grave: quella sanitaria e quella economica. Gli andamenti economici sono messi a repentaglio e non sarà facile riparare gli incalcolabili danni provocati all’economia da questa situazione emergenziale: occorrerà molto tempo per ripristinare le normali regole produttive, commerciali e di mercato.

Il dato positivo è quello del funzionamento delle istituzioni e delle strutture preposte alla sanità: lasciamoli lavorare e non subissiamoli di chiacchiere inutili se non dannose. Nelle conferenze stampa e nelle interviste parte una raffica di domande volte non tanto ad ottenere ulteriori chiarimenti, ma ad estorcere qualche notizia choc da spendere nei notiziari. Uno di questi giorni, accendendo il televisore, mi sono imbattuto in una trasmissione mattutina su una TV privata, in cui si sarebbe dovuto dibattere l’argomento coronavirus, che esponeva in bella evidenza il titolo, il leitmotiv della discussione stessa: “Conte attacca le regioni”. Tutto perché il presidente del Consiglio aveva chiesto alla regione Marche e a qualche altra regione di soprassedere a certi provvedimenti esagerati e non in linea con gli schemi di intervento adottati in generale e perché si era permesso di mettere in dubbio il comportamento di un ospedale nell’occhio del ciclone. Ho cambiato canale e sono passato alla TV pubblica: ebbene, dissertavano sull’effetto che avrà l’emergenza coronavirus sulla tenuta del governo (autentica spazzatura culturale e politica).

Un vero e proprio sciacallaggio informativo, una gara allo scoop della paura. Alla fine tutti, dopo questa sarabanda di notizie, lanciano paradossalmente appelli al senso di responsabilità e alla collaborazione delle persone stordite e impaurite. Sappiamo che il peggior modo per tranquillizzare una persona è quello di invitarla a stare calma dopo avergli prospettato una realtà drammatica. Non stupiamoci quindi se è scattata la irrazionale corsa all’accaparramento di generi alimentari a lunga conservazione.

Il quadro è complesso, estremamente delicato e molto difficile. Ebbene, non sciupiamo tutto su un macabro e granguignolesco palcoscenico. Per favore, usiamo al meglio gli strumenti che abbiamo e non facciamone un colpevole abuso. Che Dio ce la mandi buona e, da parte nostra, cerchiamo di comportarci seriamente e di non chiacchierare inutilmente. Grazie a chi sta lavorando e silenzio a chi sta blaterando.

I pugni in tasca

L’Unione europea ha promosso la riforma della prescrizione del ministro Bonafede, ritenuta idonea a ridurre i tempi della giustizia italiana. Le forze politiche italiane però continuano a non essere d’accordo, anche se, dopo un mese e mezzo di trattative, la maggioranza è riuscita a trovare una soluzione di compromesso: il lodo Conte bis.

La decisione è stata inserita in un emendamento del ddl sulla riforma del processo penale, che ha appena ottenuto il via libera in Consiglio dei Ministri. Il lodo Conte bis prevede lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado di condanna, con la possibilità di ottenere un ricalcolo retroattivo dei termini se in secondo grado la sentenza viene ribaltata in una assoluzione. Il testo originale di Bonafede, invece, prevedeva l’interruzione dei termini sia dopo la sentenza di condanna che di assoluzione.

Evidentemente la Ue, non so fino a che punto in modo approfondito e argomentato, ritiene i provvedimenti in questione rispondenti all’esigenza di combattere la corruzione allungando i tempi della prescrizione e riformando il processo penale: difficile trovare il nesso fra i due approcci, ma, a giudizio europeo, saremmo sulla strada giusta.

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a  guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Le cose nel caso di cui sopra sembrano andare diversamente. I litiganti italiani, dopo lunga e penosa trattativa, hanno raggiunto un compromesso, ancora tutto da approvare in via definitiva e che dovrà soprattutto passare sotto le forche caudine dei renziani in versione ultragarantista: non si scontravano, almeno lo spero, tanto per ridere, forse faceva ridere (o piangere) l’intento disfattista degli uni e la smania populista di altri. Tanto meno l’Unione europea si è intromessa ironicamente o sgarbatamente: si è limitata a ribadire la necessità di una linea legislativa seria in materia giudiziaria (Dio sa quanto ce ne sia bisogno).

Non entro nel merito della questione perché mi manca la competenza e perché di questo argomento ho già scritto. Aggiungo solo una considerazione squisitamente politica. Cerchiamo di ascoltare i consigli e gli inviti che ci vengono dal livello europeo, non facciamo i saputelli e tanto meno gli scettici. Abbiamo sempre e comunque da imparare: niente va preso a scatola chiusa, ma niente va presuntuosamente scartato o disprezzato. In Europa ci si sta a ridere, a piangere, ad ascoltare e a parlare.

Quando uscivo professionalmente dai confini provinciali per approdare al contesto regionale, adottavo il criterio suddetto; partecipavo convintamente, facevo tesoro delle esperienze altrui, esprimevo le mie idee, lavoravo con impegno. Alla fine portavo a casa dei risultati alla faccia di chi mi consigliava atteggiamenti duri e settari: c’è l’idea che si debba andare giù duri per farsi rispettare. Non è mai vero, soprattutto quando si è consapevoli di essere deboli. Il ministro Marcora, quando si sedeva ai tavoli europei in materia di agricoltura, sapeva quel che andava a dire, ascoltava attentamente le ragioni degli altri e poi magari, in un clima di rispetto e collaborazione, sapeva anche piantare i pugni sul tavolo al momento giusto. Molti invece, nei rapporti con l’Europa, vogliono partire dai pugni per poi…finire al tappeto.

 

 

 

La sinistra che “ruotola” verso l’alto

Sarà il giornalista Sandro Ruotolo, volto noto della tv per anni al fianco di Michele Santoro, a sedere sugli scranni del Senato al posto dello scomparso Franco Ortolani (M5s). Questo il verdetto delle suppletive nel collegio uninominale 7 della Campania, oltre 300 mila elettori e una vasta area della città di Napoli al voto, dal Vomero a Scampia. Ruotolo si è candidato come indipendente e senza simboli di partito sulla scheda.

Ha avuto il sostegno di una larga coalizione di centrosinistra appoggiata anche da Dema, il movimento che fa capo al sindaco di Napoli Luigi de Magistris, e senza l’appoggio dei Cinquestelle che non hanno accettato, preferendo correre da soli nel collegio che solo due anni fa avevano conquistato con il 53% dei consensi e dove adesso si fermano poco sopra il 22%. Il neo senatore – che in campagna elettorale ha detto di voler confluire, una volta eletto, nel gruppo misto – si è aggiudicato la competizione con oltre 16 mila preferenze superando il 48%, battendo il candidato del centrodestra Salvatore Guangi, fermo al 24%, e quello dei Cinque stelle, Luigi Napolitano (22,5%) al termine di una consultazione caratterizzata dal forte astensionismo. Solo il 9,52% degli aventi diritto al voto, infatti, si è recato alle urne: un napoletano su dieci. Un dato che non si può paragonare con il 61% che alle Politiche del 2018 votò in quello stesso collegio, ma comunque indice di scarsa partecipazione.

“Questo risultato è straordinario – le prime parole di Ruotolo da senatore – la sinistra in questo collegio partiva dal 20%. L’altro dato è che insieme abbiamo vinto. Questa sinistra dovrà impegnarsi e occuparsi delle persone, delle comunità, delle periferie che sono state totalmente abbandonate. Dobbiamo chiedere al governo un piano per le periferie per il Mezzogiorno. Nulla sarà più come prima”.

La notizia è passata quasi sotto silenzio complice il clima totalmente orientato sul discorso coronavirus. Merita invece molta attenzione e qualche riflessione. Solo il 10% dei napoletani è andato ai seggi: percentuale provocatoriamente bassa al limite della soglia sostanziale di rappresentatività. Le logiche meridionali e napoletane di partecipazione al voto sono molto strane: in senso negativo sono spesso ossequienti al potente di turno, alquanto influenzate della malavita organizzata, molto qualunquisticamente lontane dagli schemi politici; in senso positivo sono sensibili ai movimenti civici ed a quanto si muove nella società per un riscatto autenticamente popolare e di sinistra della società.

Questo voto ha un significato emblematico: la sinistra, se vuol essere vincente, deve coraggiosamente partire dai bassifondi del territorio, dare voce a chi non ne ha e aspetta di poterla alzare. Mi ha colpito il fatto che Ruotolo parli lo stesso linguaggio di papa Francesco: non credo ci sia una strumentale sintonia, né un rischio di clericalizzazione della politica. Piuttosto un forte richiamo a valori ed idealità da cui la politica non può prescindere, pena il suo snaturamento.

Non so se, come dichiara Ruotolo, “nulla sarà più come prima”, ma un sasso in piccionaia è stato lanciato e speriamo che i piccioni volino alto. La mia tesi di laurea era stata apprezzata anche perché sostenevo, nell’ormai lontano 1968, che il problema meridionale andava affrontato in una dimensione europea, perché solo così poteva trovare un ampio contesto in cui crescere uscendo da logiche clientelari e meschine. Occorre certamente un piano del governo a favore delle periferie meridionali, ma un piano rigorosamente collocato in una prospettiva europea di crescita e sviluppo e condiviso dalla gente speranzosa nel buongoverno e da chi la rappresenta.

I deboli in discarica

Tre fatti (crepi tristemente l’avarizia!), pubblicati contemporaneamente, qualche tempo fa, dal quotidiano La Stampa, con un unico ed inquietante filo conduttore: l’intolleranza violenta verso i soggetti deboli in quanto diversi. Donne, clochard, lesbiche.

  • Erano fidanzati da meno di un anno. Avevano trascorso la serata insieme, cenato e ascoltato un po’ di musica prima di andare a dormire. Nel cuore della notte lui si è svegliato dicendo di non stare bene ed è rimasto molto agitato fino al mattino. Poi è andato in cucina, ha preso un coltello affilato sulla tavola ancora da sparecchiare dalla sera prima e ha puntato dritto verso la donna dicendo di volerla uccidere. Lei ha fermato la lama con le mani, riportando tagli ai palmi, ma evitando una ferita più profonda al ventre. Poi è scappata ed è riuscita a chiamare aiuto. È successo ad Alba, la mattina del 4 gennaio. Protagonista una coppia di trentenni italiani, entrambi impegnati nelle rispettive attività di famiglia, lei albese, lui residente in un paese di Langa. L’uomo ora si trova ai domiciliari per tentato omicidio.

 

  • Una cabina telefonica serrata con un nastro adesivo arrotolato a più mandate. Bloccata da due pedane in truciolato, di quelle usate al mercato per scaricare cassette, pacchi e scarti d’ogni genere, anche umano. Perché come un oggetto da scartare, rifiutare e allontanare con una barriera fisica, ben visibile, è stata trattata una donna senza fissa dimora, che lì aveva trovato riparo. Dormendo all’addiaccio protetta da pochi stracci a mo’ di coperta alla periferia sud di Roma. In via Tor de Schiavi, nel quartiere di Centocelle, lo stesso che a pochi passi ospitava la libreria antifascista “La Pecora Elettrica” data un mese fa alle fiamme e da allora mai più riaperta. La gente di qui si era ribellata, era scesa in piazza per dire no alle intimidazioni e alle violenze di ogni tipo. E lo ha fatto anche stavolta, anche se in maniera diversa, senza manifestare in corteo, ma segnalando un «fatto vergognoso»: il mancato aiuto alla persona che sopravviveva in quella cabina. Hanno cioè segnalato la presenza di una giovane donna che dormiva in una cabina telefonica e la prima risposta, che è quella che conta, è stato lo sbarramento della cabina stessa per togliere a quella poveretta anche quel ricovero di (s)fortuna.

 

  • Il volto insanguinato, le ginocchia sbucciate, lo sguardo spaventato: sono le immagini di Charlie Graham, ragazza di vent’anni di Sunderland nel Nord dell’Inghilterra dopo essere stata aggredita per la quinta volta, perché lesbica. Le foto sono su Facebook e le ha pubblicate la madre di Charlie, Michelle Storey, perché questa volta madre e figlia sono determinate a trovare i responsabili. La vicenda rimbalza su tutti i principali media britannici che danno conto della testimonianza di Charlie e del suo grido di dolore: a Sky News ha riferito di essere stata colpita con un pugno alla testa e di essere stata spinta al suolo, aggredita da due uomini. “Quando ho tentato di rialzarmi – ha spiegato la ragazza – sono stata spinta di nuovo a terra. Mi sono scorticata il volto, tutto tagliato”. E non è la prima volta: “L’ultima volta sono stati necessari punti di sutura per un taglio al sopracciglio. Due volte prima i tagli erano alla guancia, ho avuto occhi neri, mi sono state urlate contro cose”, ha raccontato Charlie, “E’ spaventoso ed è un colpo duro per la fiducia in se stessi”. “Ho avuto attacchi di panico: solo pensare di uscire, pensare di dover rientrare a casa, adesso mi fa paura”.

La nostra società di fronte a certe categorie in difficoltà umana, psicologica, economica, non solo alza le spalle o si volta dall’altra parte, atteggiamento già di per sé deplorevole, ma fa molto di più, con le buone (si fa per dire) o con le cattive (si fa sul serio) vuole spazzare via i casi ingombranti, come si dovrebbe fare (e non si fa) con i rifiuti veri e propri.

Papa Francesco, unica voce autorevole che si alza in difesa di questi soggetti, viene considerato un pontefice prestato alla politica ed invitato a chiudersi in Vaticano ed a preoccuparsi di rendere belle le anime lasciando perdere i corpi martoriati.  Coloro che si impegnano volontariamente in soccorso delle persone in difficoltà vengono etichettati come inutili e fastidiosi buonisti del cavolo. I politici, se mai hanno il coraggio di prendere in seria considerazione certe scomode problematiche, vengono cordialmente invitati a preoccuparsi della sicurezza dei forti messa in discussione dalla disperazione dei deboli. Questa è la follia perbenista (nazifascista) in cui stiamo precipitando.