Metti un Draghi nel motore

In questi giorni le conversazioni telefoniche diventano ancor più numerose, intense e profonde. Durante una di questa, un colloquio a trecentosessanta gradi con un mio cugino/fratello, ho affrontato, assieme al mio interlocutore, il problema del futuro politico di Mario Draghi.

In uno degli ultimi commenti ai fatti del giorno mi sono permesso di mettere il dito nella piaga della mancanza di leader a livello della politica italiana. Il discorso può essere tranquillamente esteso al mondo intero: checché se ne dica, l’unico vero leader protagonista a tutti gli effetti sulla scena di questo mondo è attualmente papa Francesco. Ce ne stiamo accorgendo. Oggi però non desidero fare uno stucchevole panegirico del Papa, anche perché la sua leadership è talmente evidente da non aver bisogno di sottolineature.

Nel popoloso deserto che chiamiamo politica italiana può avere ancora un ruolo Mario Draghi? Come mai è così defilato e invisibile? Ho provato a ragionarci sopra. Innanzitutto, dopo le estenuanti fatiche europee, avrà pure il diritto di riposarsi, di staccare la spina, di dedicarsi alla famiglia e ai suoi interessi. Il suo carattere schivo ed il suo modo di essere discreto lo stanno mettendo nell’ombra, ma ciò non vuol dire nel dimenticatoio. Sta peraltro dimostrando grande classe nel rimanere fin troppo silenzioso e anche nel non esprimere giudizi sul suo criticatissimo successore alla Bce: le sue riflessioni critiche penso le riserverà sicuramente ai colloqui riservati con le massime cariche dello Stato, che lo vorranno interpellare sul futuro dell’economia in questo drammatico momento.

Nessuno penso osi negare come Mario Draghi rappresenti una risorsa disponibile per il nostro Paese: la sua preparazione, la sua esperienza, il suo stile, la sua competenza non possono andare perduti. E allora, senza cadere nel giochino di chi lo vuol bruciare sparando il suo nome a vanvera ovvero inserendolo nei propri disegni di bassa strategia politica, come potrebbe Draghi continuare ad essere utile all’Italia e all’Europa? Azzardo due ipotesi, la prima di carattere istituzionale, la seconda di tipo governativo.

Draghi potrebbe essere il degno successore di Sergio Mattarella. Se l’attuale presidente della Repubblica ha svolto e sta svolgendo un ruolo unificante per la gente e di equilibrio per la politica, Draghi al Quirinale potrebbe connotare la presidenza di una spinta socio-economica necessaria come il pane. Sull’economia si gioca sempre una partita fondamentale, ma nei prossimi anni probabilmente la partita sarà ancor più necessaria, dura e coraggiosa: lui la potrebbe impostare al meglio senza improprie invasioni di campo, ma imprimendo orientamenti fondamentali alla nostra repubblica.

Una seconda ipotesi potrebbe vederlo non tanto a capo del governo, ma alla responsabilità di ministro plenipotenziario all’economia. Guardando all’attuale governo, pur con il massimo rispetto per Giuseppe Conte e per Roberto Gualtieri, si nota una certa debolezza nel manico economico: questa debolezza potrebbe accentuarsi con l’evoluzione immaginabile nella situazione economico-finanziaria nazionale, europea e mondiale. Da una parte la necessità di ricostruire il tessuto economico nel dopo-coronavirus, dall’altra il bisogno di rilanciare il patto europeo su basi coraggiose di sviluppo, dall’altra ancora la prospettiva di riacquistare un ruolo importante a livello mondiale. Non faccio l’indovino, ma penso ad un equilibrio nella compagine governativa simile a quello che avvenne tra Prodi e Ciampi e che ci consentì di entrare nell’Euro con grande dignità e convinzione. Massimo D’Azeglio durante il Risorgimento disse: “Abbiamo fatto l’Italia, adesso facciamo gli italiani”. Un compito tuttora in sospeso. Mario Draghi potrebbe dire: abbiamo fatto l’Europa, adesso la dobbiamo rifare molto meglio, dobbiamo riformarla e rilanciarla alla grande, facendo sentire tutti cittadini europei. Sono sicuro che Draghi creda in una simile prospettiva. Dio voglia che possa esserne protagonista con le maggiori responsabilità possibili.

 

Le carte truccate dell’Europa disunita

Mentre a livello nazionale l’emergenza coronavirus sta comportando una importante anche se relativa catena di solidarietà, a livello europeo stanno emergendo le solite differenze e divergenze tra i diversi Paesi. Nel raffronto tra le cifre dell’epidemia si riscontrano degli sbalzi tali da insospettire: l’incidenza del numero dei decessi su quello dei contagiati vede percentuali molto distanti, tali da far pensare che in questa macabra contabilità in Italia si usi un criterio molto più corretto rispetto alle altre nazioni. Nel nostro Paese infatti vengono fatte risalire al coronavirus anche le morti intervenute su soggetti afflitti da altre croniche e gravi patologie; negli altri Stati probabilmente non è così e il coronavirus viene considerato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Anche sul numero dei contagiati insorgono non poche perplessità: già questa quota non tiene conto degli asintomatici, ma soprattutto tiene conto solo dei casi accertati, quindi, se si effettuano meno tamponi e quindi meno controlli, come sembra stia avvenendo negli altri Paesi europei, è ovvio che risulti inferiore la triste quote delle persone colpite dal virus.

Di conseguenza le politiche governative adottate nel resto d’Europa risultano assai più blande e morbide rispetto a quelle adottate in Italia. È pur vero che da noi si è arrivati solo gradualmente a misure rigide, ma la situazione non è mai stata presa sotto gamba. Si poteva intervenire ancor più sbrigativamente, ma nelle prime fasi dell’epidemia, si era condizionati dal rischio di danneggiare fortemente l’andamento economico e quindi si è cercato un difficile equilibrio tra la difesa della salute e la difesa del posto di lavoro. Strada facendo si è capito che bisognava dare priorità assoluta alla guerra contro il contagio a prescindere dagli effetti devastanti sull’economia: prima arginare l’alluvione e poi fare i conti con i danni arrecati.

In secondo luogo emettere immediatamente provvedimenti duri avrebbe creato delle reazioni altrettanto dure al limite della insofferenza nei cittadini, abituati ad un regime di vita libero ed autonomo: non siamo in Cina, dove il regime si può permettere linee di azione cogenti e riesce a mettere in atto meccanismi “persuasivi” molto efficaci. Quindi è stata scelta ed è tuttora in vigore una linea gradualista sempre più rigida e coinvolgente.

Sentivo nei dibattiti, peraltro non sempre utili e seri, che in Francia la cittadinanza sarebbe addirittura ben più allarmata delle pubbliche autorità ed avrebbe spontaneamente adottato comportamenti improntati a grande cautela e rigore. Questo probabilmente sta succedendo anche negli altri Paesi europei: non si capisce se si vogliano evitare allarmismi, preoccupazione ormai purtroppo superata dagli eventi, se si intenda assurdamente fare i primi della classe anche in questa materia o se si desideri difendere un’immagine a scapito della sostanza dell’enorme problema.

L’Unione europea, che mai come in questo caso dovrebbe funzionare da stanza di compensazione e da meccanismo di collaborazione, sta facendo cilecca, non solo e non tanto per le incaute uscite della sua più alta autorità monetaria, ma per la solita sfilacciata e finta concordia: non si vede una netta presa di posizione delle istituzioni europee seguita da gesti ed atti concreti a sostegno di una politica comune contro la pandemia. Si fa, sì e no, il minimo indispensabile, attenti a non disturbare e a non urtare la suscettibilità di nessuno, mentre occorrerebbe rimboccarsi le maniche in tutti i sensi, mandando finalmente in soffitta il rigorismo per aprire una fase nuova di difesa comune e di ripresa solidale.

In Italia, manco a farlo apposta, stanno riprendendo fiato l’antieuropeismo e l’euroscetticismo: forse qualcuno non aspettava altro che di fare il grillo parlante nei confronti dell’Europa unita. Ripiegare sul sovranismo sarebbe oltremodo delinquenziale in questa situazione gravissima e difficilissima. Anche la sfida del coronavirus non si vince da soli: mettiamo tutti le carte in tavola e giochiamo pulito. Questa è l’unica strada plausibile, possibile e utile.

 

 

 

Un Papa fatto in casa

Papa Francesco ha sette anni. Li dimostra? Mantiene tuttora la freschezza della ventata con cui ci ha inondato la sera del 13 marzo 2013. Ha operato tanti cambiamenti nella mentalità della comunità ecclesiale più che nella Chiesa-istituzione. Ha fatto una cosa molto semplice: ha preso in mano il Vangelo ed ha cominciato a declinarlo nelle situazioni mondane al di fuori della Chiesa e nelle situazioni interne ad essa. Il percorso tipico dei Santi, san Francesco in particolare, che prendevano sul serio il messaggio evangelico, senza se e senza ma, e cercavano di incarnarlo nella loro vita.

È partito con una espressione laica e banale: buona sera. Da un papa ci si sarebbe aspettato un clericale “Sia lodato Gesù Cristo”, invece: “Cari fratelli e sorelle…buonasera”. Era l’inizio di un’epoca, si è capito subito che qualcosa di grosso era stato messo in pentola.  Erano talmente tanti i desideri e le aspettative di novità che strada facendo è spuntata qualche delusione: era umanamente ed ecclesialmente inevitabile. Tra l’altro si fa molto in fretta a dimenticare i passi avanti con l’ansia di andare sempre più avanti. E poi, non è tipico aspettarsi tutto da chi promette molto ed accontentarsi del nulla di chi promette poco? Anch’io avrei voluto e vorrei qualcosa di più in tanti campi, soprattutto in quello della morale sessuale, anche se questa morale, considerati i ritardi centenari della Chiesa, me la sono costruita in proprio senza aspettare i pronunciamenti papali. Devo ammettere comunque che è cambiata l’aria che tira, si respira meglio all’interno della Chiesa, ci si vede meglio fuori dalla Chiesa. Si respira Vangelo a pieni polmoni, si vedono con chiarezza i bisogni dei poveri del mondo.

La mattina del 13 marzo 2020 ho seguito in televisione la celebrazione della messa di papa Francesco a casa santa Marta. Dopo l’offertorio, un ministrante si è avvicinato all’altare per il “lavabo”: il papa dopo essersi brevemente sciacquate le dita ha sussurrato (almeno così mi è parso di capire) un “grazie”. Fatto insolito per gli ingessati riti degli ambienti vaticani, ma anche per tutte le chiese, laddove sembra che la messa debba essere celebrata a prescindere dalla nostra quotidiana umanità.   Dopo sette anni dal richiamato “buona sera” al semplice “grazie”. Il genio della semplicità nei modi, ereditato da papa Giovanni XXIII. Se guardiamo invece al contenuto delle riforme avviate su base conciliare, dobbiamo ripensare a papa Paolo VI.

Sul volto di papa Francesco, oltre il normale invecchiamento dovuto all’età, si scorgono i segni di una fatica improba nel condurre ad unità una Chiesa in parte a lui contraria e ostile. Come Gesù, non profetizza in patria e qualcuno forse lo vorrebbe far fuori dal punto di vista culturale e pastorale. Mi fa tanta tenerezza con quel suo stile semplice e profondo, mi fa tanta paura che possa essere disturbato e tacitato. Stiano però ben attenti i suoi detrattori perché le sue parole non si potranno facilmente dimenticare, stanno lasciando un segno indelebile nelle coscienze di tutti, cristiani e non, credenti e non. E poi, non dimentichiamoci di pregare per lui.

Don Abbondio in Bce

Il mio medico di famiglia, al quale non sarò mai sufficientemente grato per lo spirito di dedizione dimostrato nella cura a me e soprattutto ai miei genitori anziani e molto ammalati, sosteneva, in ossequio agli insegnamenti ricevuti da suo padre pure medico e dai suoi maestri a livelli universitario, che, di fronte anche alla più grave e disperante malattia, non si può e non si deve mai pensare e dire che non c’è niente da fare, c’è sempre qualcosa da fare. Non a caso sua madre, tra il serio e il faceto, definiva il figlio paradossalmente come il medico che non voleva che i propri malati morissero. Atteggiamento esemplare e ammirevole.

Da quanto ho letto nei resoconti di cronaca economica, sembra che Christine Lagarde, presidente della Bce, sia entrata nel negozio di cristalleria europeo contagiato dal coronavirus non con la delicatezza di un elefante, ma ancor peggio, vale a dire con l’incertezza di un pivello o, ancor meglio, con un coraggio alla don Abbondio. «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire queste questioni»: queste le sue parole nel pieno dell’emergenza, che hanno sollevato il polverone e hanno dato una ulteriore botta in testa alle borse già stordite dalla difficilissima situazione economica conseguente alla pandemia in atto. In parole povere: la Bce non può fare niente.

Nessuno pretende la bacchetta magica, ma che la Banca centrale europea non possa fare niente per riequilibrare la situazione finanziaria nelle quotazioni dei titoli di stato dei paesi europei è affermazione grave, irresponsabile e pilatesca.  L’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale in conferenza stampa è riuscito a fare affondare i titoli di Stato italiani ed a fare esplodere lo spread. Le dichiarazioni sopra citate rappresentano l’opposto del draghiano “Whatever it takes” (Credetemi sarà abbastanza) del 2012 quando la Bce si dimostrò pronta a fare tutto il necessario per preservare l’Euro.

Come spiega il Corriere della Sera, i rendimenti dei titoli di Stato italiani sono esplosi dall’1,22% sulle scadenze decennali delle 14:42 fino a un picco dell’1,88% alla fine della conferenza della Lagarde. La presidente Bce ha sostanzialmente detto: non aspettatevi Mario Draghi. Lo ha ammesso: “Avevo detto che speravo di non dover mai fare un ‘whatever it takes’ e non intendo passare alla storia per un ‘whatever it takes due’”. Non era ciò che i mercati si attendevano, non è riuscita per nulla a convincerli di avere il controllo della situazione. Le misure annunciate hanno deluso. Le aspettative dei mercati per le mosse della Banca Centrale Europea sotto la guida Lagarde all’alba di una nuova crisi come quella del 2008 sono state ampiamente disattese, quasi ignorate a guardare l’andamento dei principali listini del Vecchio Continente. Il pacchetto di misure annunciato da Lagarde è stato valutato gravemente insufficiente: un Quantitative Easing aggiuntivo da 120 miliardi in tutto, poco più di 13 miliardi al mese (in media) rispetto al minimo sindacale atteso, i 20 miliardi aggiuntivi a quelli già previsti; tassi che restano fermi, e poi nuove aste per immettere liquidità nel sistema bancario e condizioni più favorevoli per i prestiti mirati alle banche dell’eurozona.

Non sono in grado di affrontare i tecnicismi di funzionamento della Bce, ma resto perplesso dall’atteggiamento del successore di Draghi. Forse ci eravamo abituati “male”, con un governatore centrale che credeva all’Europa e interveniva con garbo, ma con altrettanta decisione a sostegno dell’economia europea. Coloro che si stanno stracciando le vesti e chiedono le dimissioni della Lagarde, dovrebbero però fare un profondo esame di coscienza dal momento che in passato misero in non poco imbarazzo Mario Draghi con attacchi sconsiderati e masochistici. Forse lo andrebbero a riprendere in ginocchio col capo cosparso di cenere.

L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione. È quanto afferma una nota del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che, come ben si sa, non sbaglia un colpo.

Il contagio economico che si è esteso alle borse europee fortunatamente starebbe per indurre la Ue a sospendere di fatto il patto di stabilità: la Commissione europea sarebbe pronta a utilizzare la clausola anticrisi 1466/97 sulla sorveglianza dei bilanci che di fatto sospende gli aggiustamenti di bilancio in caso di grave contrazione dell’economia. Dal canto suo la Fed, reagendo a un nuovo crollo di Wall Street, ha annunciato un’iniezione di liquidità di 1500 miliardi nei prossimi giorni. Risultano quindi oltre modo censurabili la presa di posizione e la tattica attendista della Bce. Non voglio scaricare la tensione su Christine Lagarde “promuovendola” a capro espiatorio, ma non posso evitare di rifugiarmi nel noto proverbio secondo il quale “le disgrazie non vengono mai da sole”. Facesse un corso accelerato on line con Mario Draghi: sono sicuro che con delicatezza e serietà le farebbe notare come sia squallido mettersi semplicemente al coperto e come qualcosa di utile si possa fare in mezzo alla bufera dei mercati. Provarci almeno è d’obbligo.

 

Leader carismatico cercasi

Un tempo, quando, durante una discussione che stava prendendo una brutta piega, si voleva cambiare discorso, le persone, affette da schifoso maschilismo, lanciavano l’idea di mettersi a parlare di donne (in che senso lo lascio immaginare). Oggi, affetto da penoso politicismo, provo timidamente a parlare di politica, per due intuibili motivi: per staccare un attimo dalla ossessiva cappa virale che ci opprime e perché la politica non è evasione, ma attenzione a tutto e tutti.

Intenzioni di voto: si accorciano le distanze fra il Partito democratico e la Lega. Secondo l’ultimo sondaggio di Ixè per il programma Cartabianca su Rai Tre, il partito di Nicola Zingaretti è in rimonta, distanziato di soli 4 punti e mezzo da quello di Matteo Salvini. Rispetto alla precedente fotografia, la Lega risulta infatti in calo al 27%, mentre il Pd guadagna mezzo punto e sale al 22,4%. In discesa anche il M5S, al 15,6%. Fratelli d’Italia rimane stabile al 13,4%, Forza Italia in calo al 6,1% così come Italia Viva di Matteo Renzi al 2,6%.

Quanto al grado di fiducia degli italiani nei leader, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte resta saldamente in testa e cresce di due punti rispetto al precedente sondaggio (42%), seguito dalla leader di Fdi Giorgia Meloni che sale al 34%, Salvini stabile al 31%, Zingaretti recupera un punto e sale al 29%. Luigi Di Maio è fermo al 22%. Renzi guadagna un punto e si attesta al 13%, così come Berlusconi che dal 18 arriva al 19%.

Piccoli spostamenti, talora quasi impercettibili, che meritano tuttavia un seppur timido commento. Si va verso un bipolarismo? A destra sembra proprio di sì: Lega, FdI e Forza Italia arrivano al 46,5% e non è poco; a sinistra il discorso è molto più problematico, ma volendo semplificare, includendo il pur riottoso M5S e l’indisponente Renzi, si arriva ad un 48% e non è poco. La partita quindi sembra aperta, nonostante le sbruffonate salviniane e le smanie meloniane. Penso sia sovrastimato il 15/16% dei pentastellati, anche se ultimamente si fanno notare per una certa qual ragionevolezza di governo che fa a pugni con la sguaiatezza di piazza.

Molto più strampalato è il discorso dei cosiddetti leader e il sondaggio assume la natura di un gioco di società (forse sarebbe meglio chiedere addirittura agli intervistati chi vorrebbero buttare giù dalla fatidica torre). I leader non ci sono e, se ci sono, non li vedo. Con tutti i suoi imperdonabili difetti, Berlusconi era un leader. Salvini e Meloni, come leader mi fanno scappare da ridere (o da piangere). Il Pd, dopo la breve e strana parentesi renziana, è alla ricerca di un personaggio di riferimento che sappia rimotivare e rimodulare la sinistra italiana. Pur con tutto il rispetto non ritengo Nicola Zingaretti all’altezza di un tale compito. Sul M5S il discorso è di livello assai più elementare: sono alla ricerca di loro stessi, dopo essersi rapidamente smarriti. Renzi, se mai aveva qualche residua chance leaderistica, se la è sbrigativamente e scriteriatamente giocata con la sciagurata mossa scissionista.

In questo vuoto pneumatico di personaggi in quota, Giuseppe Conte finisce col giganteggiare e la gente lo ha capito. Tuttavia, se gli togliamo la testata d’angolo di Mattarella, la volubile stima conquistata nei rapporti internazionali, la considerazione goduta negli ambienti dalla gerarchia cattolica, resta poco: Conte non brilla di luce propria, anche se faranno molta fatica a toglierlo di mezzo e mi riferisco sia agli avversari che agli alleati. I leader non si inventano, non si improvvisano, li dovrebbero forgiare la storia e la cultura. I due leader degli ultimi decenni, Berlusconi e Prodi, sono stati seppure in diverso modo, improvvisati. Berlusconi sta facendo una bruttissima fine al di là dei suoi enormi demeriti. Prodi è stato diabolicamente bruciato sul rogo dell’elezione a presidente della Repubblica: è diventato un pallido notabile. O la politica ritrova una sua dimensione forte o è costretta a vivacchiare senza identità e senza leader. Speriamo bene.

Da coronavirus a cerebrovirus

Si può morire per eccesso di informazione? Paradossale, ma direi proprio di sì. Il nostro sistema sanitario è al collasso, quello informativo è drogato. 24 ore su 24 a parlare di coronavirus, facendo uscire messaggi contrastanti, notizie allarmistiche, incutendo panico, salvo poi lamentarsi perché la gente è presa dal panico. Gli allarmi si susseguono ininterrottamente, lo scopo non è quello di dare consigli utili, ma di vomitare previsioni disastrose e analisi spaventose. Nessuno che dia un segnale di speranza, tutti si rincorrono a chi la spara più grossa e tragica. Una vera e propria istigazione alla paura.

Anche i governanti centrali e periferici potrebbero fare di meglio a livello comunicativo: parlare meno, dire cose essenziali e certe, non lasciare trapelare indiscrezioni, smetterla con i bollettini di guerra, dare consigli utili e soprattutto non dare l’impressione che la sanità non sia più in grado di far fronte nemmeno alle necessità più gravi dei malati. Gli esperti e gli operatori sanitari dovrebbero allontanarsi drasticamente dalle passerelle loro offerte, anche perché spesso non sono in grado di dare certezze e di dubbi non abbiamo decisamente bisogno.

In questi ultimi giorni si parla di due possibili provvedimenti: un black out generalizzato e la nomina di un commissario che prenda in mano le redini della situazione. Non entro nel merito, mi limito a farne una questione di metodo. Ipotizzare un fermo totale della nazione per un certo periodo svaluta automaticamente i provvedimenti adottati finora, lasciando intravedere la loro insufficienza ed inefficacia, instillando il dubbio che la situazione sia ben più grave di quanto si pensi e che si stia brancolando nel buio. Parlare di un commissariamento per affrontare l’emergenza mette in cattiva luce e indebolisce le istituzioni impegnate: se si parla di un’autorità extra vuol dire che quelle intra non sono in grado di affrontare il problema e di governarlo. Mi chiedo se questo sia il modo di collaborare e remare nella stessa direzione…

Si è scatenato un gioco al massacro, che va ben oltre la gravità del virus, aggiungendone un secondo, e da cui usciremo con le ossa stritolate. Il messaggio è quello di stare tappati in casa (e fin qui ci si arriva), di stare incollati al televisore a sorbirsi una gigantesca tortura mediatica (e questo non lo accetto), di essere isolati da tutto e da tutti (e questo è peggio del coronavirus), di misurarsi la febbre in continuazione mandando in tilt i termometri (da persona ansiosa ci sto cascando alla grande), di spaventarsi all’insorgere di qualsiasi disturbo (ipocondria di importazione), di stare male anche se si sta bene (autosuggestione bella e buona).

Dopo di che arrivano i migliori fichi del bigoncio a dirci di non avere paura, di non farci prendere dall’ansia, di non cadere nelle crisi di panico, di stare calmi e ragionare, di pensare ad altro, di cercare di distrarci, di sconfiggere la paura con la fiducia.    Se andiamo avanti di questo passo nelle ventimila e più assunzioni programmate tra medici, infermieri e personale ausiliario, la parte del leone la dovranno fare gli psicologi e financo gli psichiatri. È pur vero che i laureati in psicologia vanno di moda e non trovano lavoro, ma rischiamo di fare il rovescio di quanto faceva durante la seconda guerra mondiale l’occupante tedesco del nostro territorio.  Per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, facevano lavorare gli uomini “al canäl”, vale a dire nel greto del torrente per fingere opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe. Noi per occupare gli psicologi distruggiamo, a margine del coronavirus, l’equilibrio mentale delle persone per poi affidarle alle loro cure nel post coronavirus, che nel frattempo sarà magari diventato cerebrovirus. E noi rimarremo, se vivi, cerebrolesi.

 

 

L’irrinunciabile solidarietà

La sconvolgente emergenza che stiamo vivendo forse dovrebbe indurci più a riflettere che ad agitarci alla ricerca di impossibili difese e sicurezze. Non sottovaluto l’impegno di tutti quanti a vincere questa autentica guerra contro un invisibile e subdolo nemico: si tratta di assumere atteggiamenti e comportamenti virtuosi, che purtroppo tendono a considerare le altre persone come possibili anche se involontari untori a nostro danno. Le inevitabili regole dettate dalle autorità hanno una immediata e fortissima valenza divisiva: ne voglio passare rapidamente in rassegna alcune.

Mantenere una distanza di almeno un metro, qualcuno aveva addirittura proposto due metri, dalle altre persone, salutarsi da lontano senza baci, abbracci o strette di mano: un invito all’isolamento, a considerare l’altro come un pericolo, un soggetto da tenere a distanza.

Evitare i luoghi affollati, rimanere il più possibile a casa, sono vietati incontri pubblici, convegni, congressi: un invito a chiudersi nel proprio guscio, a optare, come sosteneva ironicamente un mio simpatico zio, per la compagnia in numero dispari inferiore a tre.

Volendo approfondire paradossalmente queste indicazioni, dobbiamo evitare di chiedere ai nonni di accudire ai nipoti, consigliare di andare al lavoro se è proprio indispensabile. Siamo costretti a ribaltare le regole della civile convivenza. Sinceramente mi chiedo se non sia peggio il rimedio della malattia, rischiamo di infettarci tutti di egoismo e individualismo.

È la fine del nostro vivere civile? Regrediamo in una jungla? Desertifichiamo la nostra società? E i nostri affetti, i nostri amori, le nostre amicizie? Facciamo tutto al telefono? Non sarà per caso la rivincita dei telefonini se mai tentavamo di ridimensionarne la portata? La paura, da che mondo è mondo, andrebbe combattuta parlando con gli altri, confrontandosi con loro, socializzando: ora va combattuta chiudendosi in se stessi ed elevandola all’ennesima potenza.

Il bagno di sangue del coronavirus con la morte di tante persone rischia di diventare la morte famigliare e sociale. Sto esagerando? Forse sì. E allora che fare? Ricordo come ai tempi dell’emergenza Aids ebbi un colloquio con un infettivologo al quale chiedevo utili consigli per una vita sessuale protetta e non repressa. Ad un certo punto si lasciò andare e mi disse (cito a senso): «Se devo essere sincero, io a certe “cose” non rinuncio, le considero il sale della mia vita». Era stato fin troppo chiaro. Il coronavirus è di gran lunga peggio dell’Aids a livello epidemiologico, ma anche in senso umano: per evitare il contagio nel primo caso era sufficiente astenersi da certi comportamenti sessuali trasgressivi, nel caso coronavirus, volendo estremizzare, non si può stringere la mano ad un amico né dare un bacio alla propria compagna.

Mi ripeto: e allora che fare? La risposta esatta sarebbe, è solidarizzare. Sì, ma senza gesti di solidarietà?! Ricordo quel paragone impossibile che diceva di un tale: aveva un alito talmente fetido che non si poteva nemmeno parlargli al telefono. Già essere solidali è difficile, ora diventa quasi impossibile! Gesù toccava i lebbrosi, noi non possiamo nemmeno stringere la mano al più caro amico.

A proposito di strette di mano, nell’opera lirica “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi, un giudice chiede a Riccardo di firmare l’atto di condanna a morte della maga Ulrica, ma il governatore preferisce conoscerla di persona e si reca in incognito nel suo antro, accompagnato da Oscar un giovane paggio e da un gruppo di amici, chiedendole di predirgli il futuro. La maga gli predice che sarà’ ucciso dalla prima persona che gli stringerà la mano, ma l’arrivo di Renato e la sua amichevole stretta di mano sembrano tuttavia fugare ogni timore. Finì invece molto male perché Riccardo venne ucciso da Renato per avergli insidiato la moglie.

Scherzi del destino a parte, penso che i gesti di amore, amicizia e solidarietà siano a prova di coronavirus. Chiedo scusa se sono stato molto provocatorio, quasi disfattista, ma a fin di bene. Non intendo fare alcuna (auto)istigazione alla disobbedienza, ma riempire di significato l’ubbidienza.  Volendo estremizzare eticamente il discorso, preferisco morire per un gesto d’amore che vivere (?) per l’effetto di tanti gesti di egoismo.

Al spetacol l’è fnì e al stadio ‘l s’vuda

Mio padre non era un soggetto che seguiva le partite in modo distaccato; era molto coinvolto, amava il calcio, (lo considerava lo sport più bello del mondo, perché semplice, giocabile da tutti, molto comprensibile, affascinante e trascinante nella sua essenzialità, spettacolare nella sua variabilità ed imprevedibilità), sentiva fortemente l’attaccamento alla squadra della sua città (soprattutto nelle partite stracittadine con la Reggiana soffriva fino in fondo) e non sottovalutava il fenomeno “calcio” (fotball come amava definirlo in una sorta di inglese parmigianizzato). Era però capace di sdrammatizzarlo, di razionalizzarlo, di criticarlo e ridimensionarlo. Chissà cosa direbbe in questi giorni osservandolo con gli occhiali del coronavirus.

Sulla scena ci sono ben cinque protagonisti: vediamone il comportamento. Iniziamo dagli attori principali: i giocatori. Ebbene, questi professionisti spesso superpagati, vezzeggiati e osannati, hanno paura del coronavirus. Fin qui niente di strano, tutti abbiamo paura e cerchiamo di difenderci, di non cadere però dalla prudenza al panico. La loro professione indubbiamente li espone al rischio contagio: il calcio è fatto di contrasto fisico, di contatti ravvicinati, di rapporti strettissimi. Lasciamo perdere le effusioni assai poco professionali, che sanno di incitamento più che di soddisfazione. Risulta però che i calciatori siano costantemente controllati da medici, sottoposti a test e difesi con l’adozione di prassi igienico-sanitarie negli ambienti dove si svolge la loro attività.  La domanda è: deve prevalere la cautela o è meglio interrompere completamente la loro attività in attesa di tempi migliori? Non voglio fare demagogia, ma tante altre categorie di lavoratori, pubblici e privati, sono a rischio eppure lavorano adottando misure protettive. Ma il calcio non è essenziale, non fa parte delle attività di pubblica utilità, quindi sarebbe opportuno sospendere il tutto? La faccenda si fa pirandelliana. E se sospendere volesse dire bloccare tutto per un lungo periodo, mettere in crisi un sistema per non riprendere mai più alle stesse condizioni?

Secondo protagonista: la dirigenza delle società calcistiche e delle loro federazioni e leghe. A questo livello il sistema sta esprimendo il peggio di sé. Tutti guardano la cassetta e difendono scriteriatamente i propri interessi di bottega. Giocare senza pubblico è un danno. Rimborsare gli abbonati forse non è obbligatorio. I contratti con le tv a pagamento vanno difesi con le unghie e coi denti. Rivoluzionare i calendari può falsare i campionati. Non si riesce a trovare un minimo di accordo sul da farsi. Si naviga a vista in una assurda incertezza, che aggiunge confusione e apprensione al clima già surriscaldato di per sé.

Ed eccoci al terzo protagonista: i media. Questi, come sta avvenendo per tutta l’emergenza coronavirus, più che informazione fanno uno squallido show. Ci marciano a più non posso, fanno sfoggio di protagonismo, soffiano sul fuoco delle polemiche, si autocandidano a perno attorno a cui far girare il circo pallonaro. Sotto sotto hanno una paura folle di perdere il loro ruolo, si ergono a difensori del sistema, sputano sentenze, fanno sfoggio di ricette miracolistiche, dicono e disdicono tutto e il contrario di tutto. Fin che la barca va…

Il quarto incomodo protagonista: il ministro dello sport. Vincenzo Spadafora è passato da un giusto scetticismo verso il sistema calcio (vedi “Non mi preoccupo dello stress dei milionari calciatori costretti ad un super lavoro per ricuperare i rinvii; sono molto più interessato alle fatiche di medici, infermieri, operatori sanitari costretti ad un superlavoro, a turni faticosi, a rischi di contaminazione, etc.”) alla proposta della trasmissione televisiva in chiaro delle partite giocate senza pubblico (una sorta di circenses al posto del pane), dalla scelta di rinviare all’autogoverno calcistico le opzioni di fondo pur nell’ambito delle indicazioni governative globali ed universali (della serie vedetevela voi, perché a me scappa da piangere…) alla tentazione di sospendere il tutto per decreto (dando ascolto a quei calciatori che qualche giorno prima non meritavano attenzione). Evviva la coerenza!

Il quinto protagonista è il pubblico, quello degli spalti vuoti, quello delle tv a pagamento, quello del tifo sentimentale e quello del tifo sbracato e violento. Non c’è più, non si vede e non si sente. Soffre e tace. Si esprime solo sui social aizzato dai media, in una sorta di ignobile connubio fra chi mangia il pane a tradimento e chi lo ha fino ad ora pagato a caro prezzo. Dove sono finiti i cori razzisti, gli sfoghi pseudo-politici, le guerre fra curve, le scaramucce intorno agli stadi, le violenze annesse e connesse al calcio? Pausa: non di riflessione, ma di autocompassione. Volendo parafrasare Renzo Pezzani, si potrebbe dire:”Al spetacol l’è fnì e al stadio l svuda”.

Ho cominciato, come spesso accade, citando gli insegnamenti paterni. Concludo con un episodio tutto mio (mio padre non c’entra perché riguarda il periodo del Parma in serie A ed era ormai troppo anziano per frequentare lo stadio). Il Parma era stato promosso in serie A dopo un campionato trascinante ed entusiasmante, finalmente salivamo nell’Olimpo: da parte mia non ripudiavo gli anni difficili, quelli gloriosi e sofferti. La partita d’esordio in serie A ci metteva in soggezione davanti alla Juventus ed un pubblico strabocchevole si preparava a varcare i cancelli del “Tardini”, ampliato, ristrutturato, messo a nuovo anche se non ancora pronto per un ruolo diverso. Si respirava un’aria di attesa ma anche di confusione e di disorganizzazione da esordio, tale da creare una ressa pazzesca all’ingresso ed una lunga coda sotto un sole ancora cocente, in un clima nuovo a cui non si era abituati. Mi venne spontanea una battuta, molto meno bella rispetto a quelle che elargiva mio padre con la sua solita nonchalance, che tuttavia risultò abbastanza buona e fu accolta con una risata generale: “Mo se stäva bén quand al Pärma l’era in serie B o C. A s’ gnäva al stadio a l’ultim minud, sensa còvvi e sensa confuzjón. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”.

Non vorrei che, dopo un lungo periodo di chiusura degli stadi o, peggio ancora, di sospensione dei campionati, alla ripresa della kermesse mi capitasse di pensare amaramente ad alta voce: “Mo se stäva bén quand an gh’era miga il partidi par via dal coronavirus. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”. Volete scommetterci che andrà a finire così? Anzi, speriamo vada a finire così: vorrebbe dire che abbiamo passato la nottata, senza perdere il giusto spirito critico, anzi accumulando ancor più spirito critico verso il nostro sistema, che va ben oltre il calcio, senza poterne fare a meno.

 

 

 

 

Così bravi, così…

Quando facevo parte della Commissione teatrale del Regio di Parma, a volte mi scoraggiavo di fronte agli esperti, che criticavano il nostro operare vantando titoli accademici e preparazione culturale tali da farmi vergognare e sentire un usurpatore di un ruolo che sarebbe spettato a loro. Mi consolava un collega, assai più convinto e battagliero di me, che mi rassicurava: non preoccuparti, ascoltiamoli, ma poi andiamo avanti per la nostra strada; se fossero loro al nostro posto, con la smania perfezionista che si ritrovano e la radicalità del pensiero che hanno, probabilmente il sipario non si alzerebbe mai, perché loro continuerebbero a discutere su scelte che non avrebbero mai il coraggio di compiere. Non aveva tutti i torti.

Ha perfettamente ragione il presidente Mattarella a consigliare di affidarci alla scienza, ad avere fiducia in essa, ma quando si arriva al dunque…Dopo aver ascoltato gli agognati e seri pistolotti di Giuseppe Conte e Sergio Mattarella mi ero rassegnatamente e responsabilmente calmato di fronte alla valanga di notizie sempre più allarmanti sul coronavirus. Senonché poi arrivano i nostri, scienziati ed esperti, a rimettere in discussione tutto, a scontrarsi su tutto, ad esprimere pareri contrastanti. Sta succedendo sulla chiusura delle scuole: la gaffe del tira e molla sulla decisione adottata dal governo sarà stata indubbiamente una conseguenza delle titubanze ministeriali, ma anche di quelle scientifiche.

Una cooperativa sociale aveva un serio problema amministrativo da risolvere: fui invitato alla riunione e diedi un consiglio dettato più dal buon senso e dall’esperienza che dal rigoroso rispetto della teoria. Il consiglio di amministrazione era composto da fior di professionisti, avvocati, notai, commercialisti, che si sbizzarrirono a prospettare soluzioni tanto sofisticate quanto inagibili. Il presidente, uomo impegnato in prima linea, tra lo spazientito e il realistico, mise fine alla discussione, sposando in toto la mia proposta, che era stata massacrata dagli esperti, ma alla fine si rivelava quella più concreta e attuabile. Al di là della legittima soddisfazione personale, mi sembra che l’episodio abbia un significato: va benissimo la scienza, ma poi bisogna vivere, convivere e affrontare la cruda realtà.

Tutte le critiche possibili e immaginabili si possono rivolgere all’attuale consiglio dei ministri al quale riconosco tuttavia grande impegno e dedizione indiscutibile. Proviamo a immaginare se al posto della compagine ministeriale ci fosse il gruppo dei «magnifici otto», che comprende scienziati e tecnici di primo livello: a partire da Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, Agostino Miozzo, braccio destro di Borrelli alla Protezione civile, Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, Claudio D’Amario, direttore della prevenzione al ministero della Salute, Giuseppe Ruocco, direttore generale dello stesso dicastero. Per arrivare a Mauro Dionisio, direttore della sanità marittima e di frontiera, Francesco Maraglino, direttore della prevenzione alla Salute e Alberto Zoli, a capo dei servizi di emergenza lombardi. Metterebbero a confronto le loro opinioni, ma non ci salterebbero mai fuori. A ciascuno il suo mestiere. Che mi infastidisce è però il tono da salvatori della patria che questi signori assumono: brancolano nel buio tanto come noi e quindi stiano un tantino più controllati, moderati e magari a volte anche zitti, soprattutto a livello mediatico. A quanto pare il primadonnismo non è monopolio dei politici.

Dopo aver letto i pareri discordanti degli esperti sull’efficacia e la durata della chiusura delle scuole, ho perdonato tanti errori ed omissioni ai nostri governanti. Sono tornato sui discorsi di Conte e Mattarella per ritrovare un minimo di serenità. Ho sentito però dentro di me una vocina, che mi sussurrava: “È la scienza, stupido!”. Chiedo scusa e mi ritiro in buon ordine.

 

Emergenza continua e totale

Esiste una categoria di persone che non sa un cazzo, ma lo dice bene. Era la specialità di Gianfranco Fini, a detta degli uomini di cultura della sua area politica. La categoria è in continua espansione soprattutto in periodi in cui i problemi si fanno drammatici e aumenta il numero di quanti dettano ricette miracolose e sfoderano bacchette magiche.

Grazie a Dio e a lui, il professor Massimo Cacciari appartiene ad un’altra categoria, che effettivamente si esprime un po’ su tutto, ma non solo dice bene, ma dice cose intelligenti e profonde. Un tuttologo di grande rispetto, che merita di essere ascoltato. Sul tema coronavirus ha fatto due ragionamenti molto interessanti: li riprendo brevemente, aggiungendo qualche mia ulteriore valutazione, che mi auguro non stravolga il pensiero dell’illustre filosofo prestato alla società.

Il primo parte dalla necessità conclamata, per la nostra società e per chi la governa a tutti i livelli, di fronteggiare le emergenze continue e di vario genere, tipiche del mondo globalizzato in cui viviamo: dalle mastodontiche crisi finanziarie agli inarrestabili flussi migratori, dalle rovinose situazioni climatiche al degrado dell’ambiente, dalle guerre tra ricchi a quelle tra poveri, dagli insorgenti e sbracati razzismi alle emergenze sanitarie come il coronavirus. Bisogna cioè essere sempre e costantemente preparati al peggio e tarare conseguentemente strutture, strumenti, risorse umane e finanziarie in modo da farvi fronte. Una sorta di protezione civile totale.  A ben pensarci si tratta di un ribaltone culturale: dobbiamo passare da prospettive di miglioramento e progresso a sforzi di contenimento dei rischi e di mantenimento del positivo esistente.

Il secondo è un discorso etico: è inutile, retorico e fuorviante dichiarare, come avviene in questi giorni, che prima viene il contrasto alla malattia epidemica e poi viene l’emergenza economica. L’economia in grave crisi, infatti, soprattutto con i suoi contraccolpi a livello lavorativo, genera altrettante malattie psicologiche e sociali: disoccupazione, frustrazione, squilibri famigliari, devianze, etc. Non si può affrontare la situazione a fette, va vista nel suo complesso e come tale va governata. Tradurre in pratica questo ragionamento è di una difficoltà estrema, anche se diversamente si rischia di sbagliare la mira e creare panico su panico.

Tento di fare due esempi per riflettere sulle provocatorie ma imprescindibili analisi cacciariane. Il sistema sanitario dovrebbe essere tarato sulle possibili e probabili emergenze a livello di strutture, di personale, di organizzazione, senza sprecare nulla, ma senza risparmiare niente in termini di risorse umane e finanziarie. In campo economico, se crolla la domanda interna ed internazionale non basta iniettare qualche miliardo a sostegno della produzione, ma occorrerebbe una gigantesca cassaintegrazione capace di assorbire nel tempo e nello spazio gli aggiustamenti necessari a livello imprenditoriale. E i bilanci pubblici dove andrebbero a finire? Se vogliamo essere e rimanere uomini, dobbiamo trovare le risorse, considerando che tali indirizzi governativi a loro volta potrebbero e dovrebbero creare sicurezza, qualità di vita, salute e quindi rimettere in moto, seppur diversamente l’economia. Questi discorsi non valgono solo per l’Italia, ma per l’Europa e per il mondo. In questi anni ci siamo riempiti la bocca parlando di globalizzazione economica, sarà il caso di cominciare a parlare di globalizzazione sociale piuttosto che retrocedere nello sciocco sovranismo antivirale.

Al professor Cacciari è stato chiesto se ha paura di essere contagiato dal coronavirus, dal momento che ragionava di massimi sistemi e sembrava prescindere dal panico dilagante. Ha risposto di non avere alcuna paura, pur ammettendo che anche la paura è un elemento che contribuisce a creare il contesto su cui la politica in generale e chi governa in particolare devono intervenire. Mi permetto di aggiungere una mia affermazione personale: anch’io non avrei alcuna paura del coronavirus, se il rischio rimanesse circoscritto alla mia persona, alla mia vita, alla mia malattia ed eventualmente alla mia morte. Ma purtroppo non è così e la mia sorte è strettamente legata a quella altrui, sono connesso agli altri, a chi amo, a chi conosco, a chi non conosco e il mio disinvolto comportamento potrebbe creare guai seri a chi mi circonda. Ragion per cui non devo avere paura, ma devo stare ben attento a quel che faccio!