Grande coalizione e piccola politica

Si comincia a parlare di grande coalizione a livello governativo per guidare il Paese oltre l’emergenza in una lunga fase di vera e propria ricostruzione da tutti i punti di vista. Dovrebbe essere normale che in una situazione di gravità e complessità eccezionali si pensi a trovare una certa unità d’intenti, a puntare sulle competenze, a mettere in campo le migliori personalità.

I reiterati appelli all’unità da parte del presidente Mattarella, lasciano intendere che anche lui stia pensando a livello istituzionale ad una simile prospettiva pur continuando a sostenere la compagine ministeriale in carica. È una carta da giocare con grande prudenza, ma con altrettanta convinzione, senza tuttavia indebolire o peggio delegittimare l’attuale governo (sarebbe una conseguenza pazzesca). Lo stato di necessità imporrebbe di prevederla, ma non è detto che la politica si adegui.  Quali sono le perplessità e le difficoltà che una simile evenienza potrebbe incontrare?

Siccome non è possibile e non è nemmeno giusto prescindere dalla politica, bisogna ammettere che i suoi protagonisti non sembrano all’altezza di questa strada: per le faziosità e le strumentalità imperanti e per il basso livello del personale politico. In questi ultimi tempi la politica ha ceduto il passo alla propaganda, l’arte del governare è stata soppiantata dall’abilità del comunicare, l’ancoraggio ai valori forti è stato sacrificato sull’altare del consenso immediato. Questo andazzo si è radicato e non sarà facile sradicarlo.

La classe politica, che non viene selezionata ma improvvisata, salvo qualche rara e per questo ancor più ammirevole eccezione, soffre di una notevole carenza a livello etico, culturale, esperienziale e professionale. La botte dà il vino che ha e quindi i partiti danno i personaggi che annoverano fra le loro fila. Prevalentemente roba di bassa macelleria in un progressivo e impressionante decadimento qualitativo. Non so se il popolo italiano meriti tutto ciò. Forse sì, direttamente o indirettamente lo vuole, interpretando la politica come un arnese ingombrante da usare solo per difendersi egoisticamente dalle proprie paure.

Fare le nozze (grande coalizione) con i fichi secchi (partiti e classe politica attuali) è una gara dura. Non so se il coronavirus, fra le tante disgrazie che sta procurando e procurerà, potrà avere l’effetto di ricondurre la politica a miti consigli e soprattutto a volare alto. Per i miti consigli occorrerebbe un bagno di umiltà molto difficile, per volare alto necessiterebbero ali adatte per non ripiombare immediatamente nelle solite scaramucce. La gravità dei problemi imporrebbe una visione strategica ed una capacità di governo francamente quasi assenti dalla scena. Ho il timore che non basti cambiare gli attori, ma si debbano mutare il copione, il capo-comico e il regista oltre l’intera compagnia.

Il regista dell’operazione non può che essere Sergio Mattarella: ha i poteri costituzionali, la conoscenza politica, l’esperienza istituzionale, la sensibilità umana e culturale, la credibilità popolare. Partiremmo col piede giusto. Il capo-comico? L’unico personaggio del giusto livello, a disposizione della Repubblica, è Mario Draghi: saprebbe calcare la scena interna e internazionale con la dovuta padronanza, non alla ricerca dell’applauso, ma di una strategia economico-sociale. E gli altri attori? Non esistono personaggi emergenti e quindi si dovrebbe ripiegare su criteri selettivi che privilegino la competenza, che non vuol dire solo appartenenza all’establishment, tecnicalità o peggio ancora, burocrazia.

Dulcis in fundo: il copione. Tutto da costruire per affrontare un mondo disastrato ed un sistema, che non potrà più essere quello classicamente liberista e forse nemmeno quello riformista. Il mio compito in classe al momento finisce qui. Tanto per cominciare può bastare. Non penso di essere andato fuori tema. Non credo di avere fatto errori clamorosi. Mi sono fermato sul più bello. Dovremo tutti fare tesoro delle tristissime e cruente esperienze fatte, pensare, riflettere, studiare, rileggere la storia e…credere nella politica.

Il vizio burocratico a prova di coronavirus

Un’amica mi ha confidato di impiegare parte del tempo di clausura alla riscoperta de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Il suo racconto della peste a Milano è di un’attualità e profondità sconcertanti. Mi permetterei di aggiungere e sottolineare anche il discorso delle “grida” manzoniane, vale a dire le comunicazioni ufficiali (disposizioni, editti, avvisi pubblici) emesse dall’autorità e “gridate” sulla pubblica piazza da apposito banditore. Queste servivano solo a dare una parvenza di ordine e governabilità, ma in realtà erano disattese e lasciavano le cose come stavano, anche perché spesso si rivelavano confuse e inapplicabili.

Non voglio essere spietato, ma, a parte i difetti e le strumentalizzazioni a livello comunicativo, le incertezze e i tentennamenti a livello decisionale, il casino di decreti governativi, ministeriali, regionali e comunali, emanati in conseguenza del coronavirus, sta diventando grottesco: un ginepraio di regole, che cambiano in continuazione, che si sovrappongono, che impongono la compilazione di moduli su moduli, che aggiungono problema a problema. Non mi azzardo a sostenerne la inutilità, ma mi sento in dovere di sottolinearne l’assurda complessità. Abbiamo un presidente del consiglio insigne giurista, un ministro degli interni alto funzionario dello Stato, fior di tecnici a livello centrale e periferico che traducono in disposizioni legali gli indirizzi di governo: alla fine emerge, mi ripeto, un gran casino, che si aggiunge alle drammatiche e tragiche preoccupazioni di tutti. La situazione imporrebbe poche regole chiare e tempestive, mentre abbiamo troppo regole confuse e tardive. Siamo stati forse fin troppo sbrigativi nel bypassare il Parlamento, forse abbiamo bellamente stravolto le fonti del diritto, abbiamo praticamente commissariato tutto e tutti, poi ci blocchiamo con i decreti in mano, ne stiamo facendo un mix ingestibile e ci meravigliamo che la gente continui a”riempire” le strade.

Per la mia collaboratrice famigliare si tratta del terzo modulo che compiliamo insieme: roba da matti. Se è vero che la vena trasgressiva degli italiani non muore nemmeno di fronte al coronavirus è altrettanto vero che mettere sul piatto una pletora di provvedimenti è un portare a nozze chi vuole irresponsabilmente trasgredire agli ordini. Per non parlare della task force messa in campo per i controlli: si parla più di questa che di quella impegnata sul fronte sanitario. Energie e risorse sprecate in un momento di così grave emergenza? Almeno in parte sì. È pur vero che se tutti si comportassero correttamente non ci sarebbe bisogno di simili sguinzagliamenti a livello di controllo e di conseguenti denunce e ammende. Vorrei sapere come fa, umanamente parlando, un poliziotto a verificare che la persona controllata stia effettivamente andando a fare acquisti di generi di prima necessità o di farmaci. Al ritorno potrebbe essergli richiesto di esibire scontrini e merce, ma all’andata? Con tutto il rispetto e la comprensione per le forze dell’ordine, siamo poi sicuri che chi controlla abbia la conoscenza e la preparazione per farlo. Non succederà che partano denunce assurde per poveri cristi sorpresi sulla strada e incapaci di giustificare al meglio la loro presenza?! Di tutto abbiamo bisogno meno che di un contenzioso legale e burocratico a margine della pandemia.

Il coronavirus finirà, almeno si spera, ma non finirà il vizio burocratico del nostro Paese: la mentalità, non tanto di chi governa, ma di chi organizza e gestisce le strutture pubbliche, è irrimediabilmente legata allo sportello dietro cui si annida un cerbero, che ci assilla con moduli, dichiarazioni, procedure e formalità. Non voglio nemmeno pensare al casino che ci sarà per l’assegnazione e la distribuzione dei fondi a sostegno di quanti sono stati danneggiati dalle restrizioni dovute al coronavirus. Non voglio esagerare, ma potrebbe succedere, come per i terremoti: quando arriva un altro terremoto, la gente sta ancora aspettando gli aiuti del precedente.

Molti sostengono a ragione che i fondi stanziati per ora siano pannicelli caldi: forse non hanno tutti i torti. Servono interventi massicci senza guardare alle coperture di bilancio. Cosa potrebbe succedere però? Ottenere a gran voce aiuti dalla Ue, stanziare fondi a tutta canna, chiedere l’aiuto anche dei privati, per poi impantanarsi nelle pastoie burocratiche, mentre ci sarebbe bisogno di grande celerità per rimettere rapidamente in moto la macchina. In questi giorni sono preoccupato, si fa per dire, per la batteria del mio automezzo, costretto all’immobilità nel garage di casa. Quando girerò la chiavetta, probabilmente non andrà in moto e dovrò far intervenire un qualche amico dotato dei cavi per la ricarica o un elettrauto che mi venga a sostituire la batteria stessa. Problema piccolo, seppure fino ad un certo punto. L’ho introdotto per far capire che probabilmente, quando sarà il momento di riavviare il motore dell’economia, potremmo avere le batterie scariche, vale a dire i fondi ancora nella casse in attesa del modulo, della dichiarazione, delle firme, dei controlli etc. etc.

Per chi suona la campana

Quando si è in gravi difficoltà, basta poco per sentirsi risollevati e confortati. Stamani, aprendo il televisore, dopo aver seguito in diretta la messa celebrata a Santa Marta da papa Francesco (un’autentica giornaliera iniezione di fiducia), le trasmissioni di Tv 2000 sono state praticamente aperte dal suono delle campane, che in Belgio riecheggiavano l’inno di Mameli in segno di solidarietà verso il nostro Paese. Mi sono sinceramente commosso: finalmente un piccolo, ma significativo, segno di vicinanza dell’Europa verso l’Italia. Molto più e molto prima degli stanziamenti di carattere finanziario. Cosa sto dicendo? Forse è il caso di andare a prestito da Rodolfo dell’opera Bohème di Giacomo Puccini: Chi son? Sono un poeta.
Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo. Oso rubare il mestiere ad un mio cugino/fratello, lui è veramente un poeta, io solo un apprendista.

Oltre tutto questo fatto del suono delle campane ha coinciso temporalmente col viaggio di ritorno di un carissimo amico dal Belgio, dove sta faticosamente inserendosi nel mondo del lavoro nel settore culturale: viaggio difficile, per le note barriere alzate nei collegamenti tra i diversi Paesi, obiettivamente rischioso, per i contatti che, pur adottando tutte le possibili precauzioni, inevitabilmente si hanno su aerei e treni, e complicato dalla obbligatoria quarantena successiva al rimpatrio. Ebbene, ho interpretato il suono delle campane come un buon viatico per lui finalmente in arrivo, che ha, speriamo solo temporaneamente, abbandonato un percorso all’estero interessante dal punto di vista culturale e professionale.

Alcune piccole e semplici riflessioni sulla solidarietà, parola tanto abusata quanto tradita. Solidarietà, vocabolario alla mano, è rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda o, se si vuole, un atteggiamento spontaneo, o concordato, rispondente a una sostanziale convergenza o identità di interessi, idee, sentimenti. Le difficoltà, come detto all’inizio, dovrebbero essere il terreno fertile per far attecchire e crescere questa pianta balsamica: non sempre è purtroppo così, anche se a volte è necessario toccare il fondo della disperazione per far scattare la molla della solidarietà. Sembra essere il caso del coronavirus: non illudiamoci, ma speriamo che la lezione possa insegnarci qualcosa in tal senso, qualcosa che parta dai rapporti più stretti per andare oltre i confini degli Stati e dei continenti.

L’Europa ha bisogno di rilanciarsi su queste basi solidaristiche: smettiamola di irrigidire e burocratizzare i rapporti, usciamo dagli schemi dei forti e dei deboli, interrompiamo la gara a sentirci i primi della classe, abbassiamo le barriere, rimuoviamo i muri, apriamo i porti, collaboriamo senza impantanarci nelle partite di bilancio. L’Europa è nata dalla fantasia politica di alcuni sognatori antifascisti confinati su un’isola, si è costituita ed è cresciuta sulla scommessa di alcuni leader politici democratici e cristiani, capaci di guardare oltre i confini nazionali, poi ci siamo, strada facendo, chiusi e smarriti. Ora siamo tutti confinati e bloccati da una tremenda pandemia e possiamo provare a sognare una Europa dove le campane di un Paese possano suonare l’inno nazionale di un altro Paese, dove il coronavirus suoni le sue trombe di morte, mentre noi suoniamo le nostre campane di vita. Diventiamo tutti campanari in tal senso.

In un paesino della collina parmense vi era un anziano contadino, che fungeva da campanaro della chiesa parrocchiale, un santuario dedicato a santa Lucia: lo faceva con destrezza, passione e dedizione, tali da far presagire una sua possibile morte attaccato alle “sue” campane. Venni a sapere che fu proprio così: lo ritrovarono morto ai piedi della torre campanaria. Vediamo di dare anche noi una simile testimonianza: le campane per risvegliare il senso comune del vivere insieme nella solidarietà fatta istituzione.

Nel frattempo un bentornato di cuore all’amico di cui sopra: lui ha avuto il coraggio di abbattere le barriere in nome della sua cultura e del suo lavoro. Possa anche lui tornare presto, il più presto possibile a suonare le sue campane, in Belgio, in Italia, laddove comunque avrà l’opportunità per farlo proficuamente, culturalmente e professionalmente.

 

 

 

 

Ma l’amore, no

Per alleggerire la tensione mi viene in simpatico soccorso una gustosa gag di mio zio. Affermava con enfasi: «Al gh’arà un bel dir al me dotor… “ormai col malé chì al mora”, parchè mi continuarò a respirär e vedrema chi la vensa». Assomigliamo un po’ tutti allo zio Mario in questo periodo in cui un virus si permette di attentare alla nostra vita, ma lui non sa che noi abbiamo sette vite come i gatti. Al di là della testardaggine respiratoria, che purtroppo non regge (proprio lì il virus infatti ci colpisce), abbiamo altre frecce al nostro arco, poco sanitarie ma molto efficaci.

In un serrato dialogo ho detto al coronavirus: “Caro nemico, tu mi puoi togliere, anzi mi stai togliendo, la serenità d’animo, la voglia di ridere, quel po’ di ottimismo che mi rimaneva. Se proprio insisti, puoi compromettermi la salute fino ad isolarmi in un letto d’ospedale. Vai pure avanti e prenditi anche la mia vita, negandomi persino una sepoltura in terra consacrata. Io però ho due cose che non potrai mai rubarmi. Quali? Te le posso confessare tranquillamente perché contro di esse non puoi fare nulla, sono vaccini che funzionano a prova di bomba e davanti alle quali non ti resterà che arrenderti: avrai l’illusione di avere vinto, ma in realtà avrai sempre e comunque perso la tua schifosa guerra. Si tratta dell’amore che do e ricevo attualmente da una persona in particolare, ma anche da tante altre che mi hanno voluto e mi vogliono bene nonostante i miei limiti e difetti. Se ti piacciono le canzoni, anche se hai già capito benissimo dove voglio arrivare, te ne canticchio una che fa così:

Ma l’amore, no. L’amore mio non può disperdersi nel vento, con le rose. Tanto è forte che non cederà, non sfiorirà! Io lo veglierò, io lo difenderò da tutte quelle insidie velenose che vorrebbero strapparlo al cuor!

E l’altra arma? Ancora più potente e invincibile! Si chiama fede in Dio e nel suo amore. Tu pensi di togliermela? Levatelo dalla testa! Ti faccio rispondere nientepopodimeno che da san Paolo, il quale nella sua lettera ai Romani scrive così:

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.

Nell’opera lirica “La gioconda di Amilcare Ponchielli su libretto di Arrigo Boito, il doge Alvise, scoperto il tradimento della moglie Laura, giura di vendicarsi («Si, morir ella de’!»). Sarà una vendetta terribile, degna di un Badoéro: che le danze (la famosa danza delle ore) della festa gioiscano pure, lì il marito tradito deve vendicare il proprio onore. Decide però di non sporcarsi le mani, sarà lei stessa a darsi la morte con un veleno. Quindi fa convocare Laura e la lusinga nascondendo a malapena la sua ira: egli accenna ironicamente appena al suo tradimento («Bella così madonna, io non v’ho mai veduta»), e Laura, insospettita, gli chiede il motivo di tale comportamento («Dal vostro accento insolito cruda ironia traspira»). Alvise, al massimo dell’ira, la costringe a dire la verità, e poi le urla che morirà subito. Mentre Laura lamenta il suo destino («Morir, morir è troppo orribile»), Alvise le mostra la sua bara. Da fuori risuona una canzone intonata dai gondolieri («La gaia canzone fa l’eco languir e l’ilare suono si muta in sospir»). Alvise la obbliga a bere un veleno prima che il canto giunga alla sua ultima nota, ma di nascosto Gioconda sopraggiunge e convince Laura a bere da un’altra boccetta, che contiene un potente narcotico che «della morte finge il letargo».

Sì, questo è il controveleno fantasioso, efficace e, in un certo senso, sacrificale di Gioconda. Come ti ho detto, io ne ho ben due che si possono mescolare insieme e diventano ancor più potenti ed irresistibili. Sappiti regolare: quel che vale per me, vale per tutti, quindi forse è meglio che tu lasci perdere, ci lasci in pace e non sprechi il tempo in lungo e in largo”.

 

 

La fuffa delle parole e la carità dei gesti

In questi giorni ho partecipato, solo inizialmente, ad un confronto a livello web sulle problematiche ecclesiali “emergenti dall’emergenza”. Ho offerto il mio modestissimo contributo, tentando di esprimere, come un solo interlocutore ha riconosciuto, il turbamento, i sentimenti, gli interrogativi, i dubbi che sono dentro di me di fronte a questa prova quasi insopportabile (vedi precedente commento del 18 marzo). Poi il dibattito, pur interessante e dotto (fin troppo, perché non è questo il momento di esibire preparazione teologica e biblica, ma di aprire il cuore), ha preso una piega intellettualoide, che mi ha sinceramente bloccato. E allora ho preferito appartarmi per non disturbare e per non sembrare patetico.

Però non si può, quando uno sta morendo di fame, fargli un panegirico dietologico, bisogna dargli qualcosa da mangiare perché non muoia di fame. Gesù alla folla che lo seguiva ha offerto pane e pesci, solo dopo si è azzardato a fare il discorso sul pane di vita. In questo momento siamo affamati di salute, attanagliati dalla paura, siamo sempre più angosciati per un morbo che non ci fa solo morire, ma che impone un disumano modo di morire. È questo il punto sconvolgente: sono terrorizzato, come penso in molti, al solo pensiero di essere isolato dalle persone che amo, di non poter comunicare con esse, di essere lasciato umanamente solo a combattere e tragicamente solo a morire.

Il problema è questo: possono la fede, la speranza e la carità, mie, dei miei fratelli e delle mie sorelle, della comunità cristiana, venire in mio soccorso? Non mi interessa se a templi aperti o chiusi, a messe celebrate o immaginate, a carico dei preti o dei laici, a Concilio ignorato o incarnato: seppure in buona fede, queste dissertazioni hanno un sapore farisaico che mi disturba. Ci sarà qualcuno a tenermi la mano mentre soffrirò e morirò? Questo è il problema. Le lezioncine teologiche, bibliche e liturgiche le lascio al dopo-coronavirus, adesso ho bisogno di sopravvivere o di morire con un poco di pace interiore. Qualcuno me la può donare? Canonicamente temo proprio di no: solo papa Francesco dimostra di avere il carisma di cuore e infatti seguo con le lacrime agli occhi le sue omelie da Santa Marta. Mi sento unito a lui anche perché credo si stia caricando di tutte le angosce al fine di presentarle a quel Dio di cui è vicario in terra. Umanamente, amichevolmente e cristianamente, un po’ di pace la trovo solo nelle parole di chi mi ama, di chi mi è in qualche modo vicino. Sarà forse questa la superiorità, teorizzata da san Paolo, della carità su tutto?

Anche la preghiera, in cui tuttavia mi viene spontaneo rifugiarmi, mi appare comunque inadeguata (per colpa mia) a rasserenarmi l’animo, a togliermi dalla disperazione prima ancora di essere disperato. Senza voler esagerare, era in questa drammatica situazione Gesù nell’orto degli ulivi. Poi arrivò un angelo a confortarlo. In quel momento non bastava la preghiera, non era sufficiente la fiducia in Dio, occorreva che una creatura intervenisse in suo aiuto. Quindi prego, ma aspetto che mi vengano accanto due creature in particolare. Mia madre, che prima di morire mi ha promesso di essermi vicina; mio zio Ennio sacerdote che ha promesso con le parole e coi fatti di essere mio protettore. Non uno, ma due angeli. La comunione dei Santi! In questo momento, chiedo scusa a tutti coloro che imbastiscono bei discorsi, il resto è fuffa.

Farneticazioni da isolamento

Se è vero che non esiste vera fede senza dubbi, dovrei essere sulla strada giusta del credente: di dubbi ne ho tanti e, in questo periodo stanno diventando sempre più angosciosi. Riguardano il vivere civile e religioso in un doloroso e sconvolgente passaggio epocale come quello che stiamo attraversando in compagnia di un virus, che ci sta mettendo a nudo nelle nostre debolezze e vergogne.

Per certi versi questi interrogativi sono simili a quelli che ci turbarono durante la prigionia di Aldo Moro. Si doveva trattare coi sedicenti rivoluzionari delle brigate rosse oppure si doveva resistere all’attacco schierandosi in strenua difesa del sistema? La ragion di Stato esigeva il sacrificio del prigioniero e fu la morte di Aldo Moro, che non portò peraltro alcun bene alla nostra democrazia, privandola di quella terza fase evolutiva nei rapporti politici della cui mancanza soffriamo tutt’oggi e, forse, soffriremo per sempre.

Il coronavirus ci sta prendendo in ostaggio e noi gli abbiamo dichiarato guerra aperta a tutti i costi, costi quel che costi: una strana ed eticamente sensibile versione della ragion di Stato, che esige l’isolamento di tutti, dalla culla alla bara, la sospensione della vita per difendere la vita, la pausa esistenziale per proteggere l’esistenza.

Il filosofo Massimo Cacciari, nel primo periodo epidemico, sollevò un interrogativo alquanto profondo: per difenderci dalla malattia a livello personale attenzione a non creare i presupposti per il diffondersi di malattie sociali. Si riferiva alla mancanza di lavoro con tutti i conseguenti effetti negativi facilmente immaginabili.  Il discorso si può allargare ad altri mali sociali quali la discriminazione, il razzismo etc. etc. Il primo dopoguerra ci regalò il fascismo, il secondo fu incanalato sui sentieri della democrazia ad opera dei reduci resistenziali. Sarebbe in un certo senso come sperare che il tessuto sociale devastato dalla guerra al coronavirus possa essere ricomposto dai resistenti operatori socio-sanitari impegnati nelle montagne ospedaliere dell’unica vera guerra che conta. Sono loro a tenere alta la fiaccola della solidarietà, mentre noi aspettiamo “l’arrivo degli alleati”, cioè degli scienziati che sbarchino ad Anzio col vaccino.

Oltre tutto vedo in atto una strisciante saldatura tra “ragion di Stato” e “ragion di Chiesa”. Papa Paolo VI fu bloccato davanti alla Brigate rosse, costretto ad emendare il suo appello con l’inserimento dell’espressione “senza condizioni”, che chiudeva ogni spazio residuo di trattativa: si piegò in modo sofferto al partito della rigorosa e frontale guerra al terrorismo. Papa Francesco rischia di rimanere bloccato davanti al coronavirus ed alle regole imposte per sconfiggerlo (?). Come interpretare la sua uscita stradale verso l’adorazione del Crocifisso, se non come il segno di una impossibile sfida agli schemi inglobanti e devitalizzanti del potere, pur assistenziale che sia. Papa Montini si inginocchiò di fronte ai brigatisti per chiedere pietà, papa Bergoglio si inginocchia di fronte al Crocifisso per chiedere pietà di una Chiesa così attendista, ripiegata su se stessa e incapace di incarnare la sfida all’emergenza.

C’è poco da fare, il rischio di una disgregazione sociale post coronavirus lo vedo molto alto. Non saremo più gli stessi, così si dice giustamente. Ma come saremo? Ci rialzeremo in piedi pur con le ossa rotte o rimarremo a terra sani, ma soli e disperati. E chi avrà la capacità di rialzarci? Un commissario unico alla ricostruzione senza anacronistici piani Marshall, senza un De Gasperi a ritessere i rapporti con l’Europa, senza un Palmiro Togliatti a rappresentare i senza lavoro ed i senza diritti, senza un Giorgio La Pira ad interpretare il ruolo di sindaco d’Italia e di ricercatore disperato di pace internazionale? Per oggi le farneticazioni possono terminare qui. Qualcuno penserà che l’isolamento mi stia facendo impazzire: meglio impazzire subito e da solo che collettivamente a babbo morto.

 

La certezza e il diritto di avere tanti dubbi

Il discorso della lotta contro il coronavirus parte, a detta di tutti, dalla priorità assegnabile alla difesa della salute fisica della persona. Innanzitutto però ogni persona non è un’isola, semmai insieme costituiamo un arcipelago. Quindi, la persona va vista in tutte le sue componenti esistenziali e in tutte le sue relazioni umane e sociali. Espongo di seguito i miei atroci dubbi in modo anche assai provocatorio e sconsiglio la lettura non tanto ai deboli di cuore, ma a chi non ha tanta santa pazienza. Invidio chi snocciola certezze etiche, della serie “Siamo in guerra e bisogna ubbidire alle autorità”, “Tutto può succedere in guerra”, “Anche la religione deve cedere il passo”, “Il senso di responsabilità è parte integrante della carità cristiana”. Mi permetto di mettere in discussione tutte queste perentorie affermazioni, dando libero sfogo alla mia anarchia umana e forse anche cristiana. Ecco i miei dubbi, nessuno mi può negare il sacrosanto diritto di averli e di esprimerli a costo di sembrare uno sclerotico bastian contrario. E non mi si chiedano ricette alternative immediate, perché non ne ho.

È difesa della persona isolarla per poterla curare, al punto da vietarle ogni e qualsiasi contatto con le persone della sua famiglia, al punto da lasciarla morire sola come un cane, al punto da impedirle ogni e qualsiasi corrispondenza religiosa, al punto da seppellirla anonimamente, prima in un reparto ospedaliero e poi in un cimitero? La migliore risposta me l’ha fornita un amico dopo la morte della moglie: “Caro Ennio, ti ringrazio delle tue parole di conforto, lo sapevamo che poteva succedere repentinamente, ma non poterla vedere e dirle che io l’amavo più della mia vita sarà una tristezza che mi porterò fino alla fine dei miei giorni, ciao e grazie”.

È difesa della persona spargere a piene mani un folle panico, costringendo le persone ad una sorta di quarantena indiscriminata e generalizzata, bombardandola di notizie contrastanti e di suggerimenti pedanti e contraddittori? Oltre che multare i trasgressori del coprifuoco non sarebbe il caso di multare i media che stanno facendo affari d’oro seminando zizzania in un vomitevole circo della paura? La Rai, anziché torturarci con il sacrosanto invito a rimanere in casa, non svolgerebbe meglio il suo compito di servizio pubblico cercando di offrire sane occasioni culturali, pescando il meglio nei suoi abbondanti archivi: ci aiuterebbe ad allentare la tensione e a puntare su discorsi positivi.

È difesa della persona snocciolare dati più o meno significativi in una apocalittica escalation informativa, che non serve a niente se non ad auto-elogiare lor signori, che, in realtà, brancolano nel buio più fitto e a dimostrare di avere sotto controllo una situazione che non si sa da che parte prendere e che sfugge da tutte le parti?

È difesa della persona ascoltare le vuote dissertazioni scientifiche in un dibattito surreale fra addetti ai lavori, che esibiscono soltanto ipotesi astratte per non ammettere umilmente di non avere spiegazioni e ricette plausibili? Se non sanno cosa dire, se ne stiano zitti. Sono capaci di andare sulla luna, ma mi sembra siano rimasti là.

È difesa della persona sparare provvedimenti a salve in una girandola di conferenze stampa senza riuscire ad affrontare i problemi più semplici e banali, quali la disponibilità di mascherine, la possibilità di eseguire tamponi su larga scala e la disinfestazione delle strade?

È difesa della persona incensare gli operatori sanitari (tutti vediamo che sono commoventi nella loro dedizione al limite dell’eroico e li ringraziamo) dietro i quali nascondere le falle di un sistema bello in teoria, ma precario in pratica, che si sta rivelando insufficiente a fronteggiare le emergenze? E cosa deve fare il sistema sanitario se non è capace di affrontare le emergenze? Non è forse questa la sua perpetua e continua vocazione?

È difesa della persona distruggere i rapporti sociali, desertificare il territorio, come si fa nella cura del tumore con la chemioterapia? Non c’è la sensazione che si stiano sparando cannonate alle mosche per devastanti e pericolose che siano? Non ci stiamo predisponendo ad infettarci con i virus sociali dell’egoismo, della guerra tra poveri, dell’escalation dei senza lavoro?

È difesa della persona chiudere il mondo per lavori in corso, in attesa che i progettisti dicano di quali lavori abbiamo bisogno, se sia possibile eseguirli ed a cosa possano effettivamente servire? Il mondo non lo si può fermare pena una catastrofe planetaria.

È difesa della persona confinare la comunità cristiana, la Chiesa, costringendola a “pregare in casa”, ma vietandole di fatto di esercitare il proprio mestiere, di aiutare chi è nell’estremo bisogno, lasciando al papa l’impossibile compito di garantire la libertà religiosa sospesa nel vuoto di una guerra senza nemico e senza esercito?

È difesa della persona gridare al lupo senza trovare un filo internazionale per individuarlo e combatterlo insieme? Ci si sta muovendo in ordine sparso. L’Italia sta facendo da apripista. Armiamoci e partite!

È difesa della persona quella che Vittorio Sgarbi ha definito fin dall’inizio una colossale “presa per il culo”? Se intendeva negare la gravità della situazione si è sbagliato alla grande. Se voleva stigmatizzare la presuntuosa ignoranza del comando generale, dello stato maggiore, dell’intendenza etc., forse non si è sbagliato di molto. Se immaginava lo sparpagliamento delle truppe senza guida ha mirato giusto. Se ipotizzava il casino totale che ne sarebbe uscito, gli do la patente da profeta.

A chi mi chiede come reagisco personalmente a questa situazione rispondo: senza troppa convinzione, resto in casa, leggo, prego, scrivo (finché resisterò, poi si vedrà…) e cerco di coltivare al meglio i miei sentimenti e di fare anche un po’ di autocritica. Non mi si dica, per cortesia, che questo è un modo di essere cittadini modello e financo di fare Chiesa. Il cristianesimo è l’arte dell’impossibile e non dell’accontentarsi del possibile. Ciò che stiamo facendo forse è solo un modo di fare i cazzi propri, bloccati da una paura fottuta, con l’alibi di non poter fare niente di più. Pregare, leggere, scrivere fa comunque bene e mi sta aiutando a rimodulare tanti atteggiamenti forse troppo schematici: da questa esperienza emergenziale viene infatti l’invito a volersi bene col cuore e non col buonismo, senza rinunciare al diritto di critica.  È quanto ho fatto sopra in modo implacabile.

 

 

 

 

 

 

L’arte di approcciare l’arte

Esistono due modi di intendere e vivere la cultura: l’ostentazione di una mera erudizione che punta ad apparire al di fuori della realtà; l’impegno ad approfondire il pensiero per meglio porsi di fronte alla realtà. Nel primo caso si fugge dalla realtà della vita per farne una raffinata e snobistica parodia, nel secondo caso per cultura si dovrebbe intendere quanto concorre alla formazione dell’individuo sul piano intellettuale e morale e all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società o più comunemente il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, ai fini di una specifica preparazione in uno o più campi del sapere e del vivere.

Questa premessa dovrebbe servire a cogliere il senso di due fatti di pur diversa natura e portata. Da una parte il discorso di “Parma 2020 capitale della cultura”, dall’altra parte la sospensione delle procedure culturali a causa dell’emergenza coronavirus. Cosa voglio dire? Abbiamo la tendenza a esaltarci o a deprimerci sulla base della presenza o dell’assenza della pur importantissima ritualità culturale, come se la cultura dovesse prescindere dalla realtà o prevalere su di essa, asservendola a sé invece di influenzarla positivamente.

Con tutto il rispetto per chi ha lavorato per programmare e sta lavorando per allestire i numerosi (troppi) eventi riconducibili alla celebrazione di Parma, faccio fatica a intravedere un disegno di vera crescita culturale al di là dell’enfasi sulle potenzialità parmensi. Tento di fare un esempio per spiegarmi. Cosa produce una sbornia museale? Una sorta di obbligo ad ammirare l’opera d’arte, ma non serve a creare nella gente la capacità di porsi di fronte all’opera d’arte per cavarne un messaggio veramente culturale.

Durante la mia lunga e bella esperienza all’interno della commissione teatrale del Regio di Parma ebbi l’occasione di incrociare episodicamente il professor Luigi Magnani, noto critico d’arte. Avevamo programmato un’insistita incursione nelle opere del cosiddetto “primo Verdi”: pensavamo di fare un’operazione culturale interessante proponendo al pubblico il Verdi minore, tutto da scoprire nelle sue affascinanti premesse alla produzione musicale matura. Mi gelò il sangue, complimentandosi ironicamente per queste scelte d’avanguardia, annotando acutamente, come stessimo portando acqua al mulino della genericità e superficialità critica. Disse fuori dai denti (cito a senso): «Andrà a finire al Regio come spesso succede nei musei: il superficiale visitatore di pinacoteche si sofferma a lungo davanti ad un quadro “di scuola” e passa velocemente oltre davanti al capolavoro. Grave sintomo di impreparazione ed incompetenza, ma anche e soprattutto di carenza educativa in materia artistica».

Faccio un secondo esempio per il coronavirus: è certo molto negativo che l’educazione artistica subisca una brusca sforbiciata a causa delle concomitanti proibizioni delle gite scolastiche e chiusura dei musei al pubblico. Ma siamo proprio sicuri che sia un disastro? Cerchiamo di essere (pro)positivi. Perché non pensare di rimettere in circolo le risorse forzatamente risparmiate, promuovendo qualche corsetto extra-curriculare in cui insegnare l’arte di approcciare l’arte. Lo si fa, se non erro, nelle università degli anziani. Le agenzie turistiche non ne saranno immediatamente soddisfatte o rimborsate, ma alla lunga il turismo troverà comunque un alimento più nutriente e sostanzioso e soprattutto i giovani ne ricaveranno qualche utile elemento di formazione culturale in progress.

A volte tutto il mal non vien per nuocere: il discorso può valere per lanciare lo smart working, che viene tradotto come “lavoro agile” e consiste nel poter lavorare da casa. Nel resto d’Europa è una pratica consolidata ma in Italia, anche se ne sentiamo parlare ormai da anni, solo meno del 5% dei lavoratori può affermare di poter lavorare davvero da casa. La nuova emergenza sanitaria ha portato il tema in prima pagina e ha legittimato e instaurato uno smart working de facto che sta salvando numerose imprese del Settentrione. Non potrebbe succedere così anche per una sorta di “smart making culture”. Pensiamoci…

 

Fantasia, scienza e fede

La fantasia non manca: nei momenti difficili può servire a trovare inedite soluzioni ai problemi emergenti, ma può anche essere occasione per evadere dalla realtà alla ricerca di fuorvianti e pericolose spiegazioni. In materia di coronavirus ne stanno circolando due di carattere dietrologico. Siamo ad un mix fra film dell’orrore e film di fantascienza. Le ho prese superficialmente, amaramente e provocatoriamente in considerazione solo perché partono da un dato eticamente e politicamente estremo, ma interessante e paradossalmente plausibile: il fine giustifica il virus.

Non sto impazzendo di coronavirus, sto solo spostando il discorso sui massimi sistemi, consapevole dei rischi, ma altrettanto desideroso di guardare oltre il naso dell’emergenza. Si sa che la guerra ha un suo volto di carattere batteriologico: le grandi potenze hanno laboratori impegnati a predisporre armi chimiche distruttive. Sono già state utilizzate e non si può escludere che lo siano anche in futuro. Quando si scherza col fuoco ci si può anche scottare e, secondo qualcuno, il coronavirus potrebbe essere una devastante scottatura. Dice un noto aforisma di Pietro Metastasio: “Voce dal sen sfuggita poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì”. Se vale per le parole, figuriamoci se non può valere per i virus.

Il coronavirus quale tragico incidente di percorso, tanto come succede per le fughe di radioattività dalle centrali nucleari. Un clamoroso autogol cinese. C’è però una versione ben più maligna: non si tratterebbe di un pazzesco errore, ma di una scelta estrema contro qualcuno: nel caso specifico contro la Cina che sta spadroneggiando nel mondo. Quindi un attacco batteriologico in piena regola contro lo strapotere cinese. Ad opera di chi? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: in molti avrebbero il movente per un simile delitto. Insomma il virus verrebbe da un laboratorio o per un tragico e fatale errore o per una apocalittica scelta bellicosa.

C’è poi una versione leggermente diversa non tanto all’origine ma negli effetti: il virus quale arma per mantenere il controllo sulla società da parte del regime cinese. Una bestiale macchinazione di spaventosa autodifesa di un assetto post-comunista, forte ma sempre fortemente in bilico e quindi bisognoso di cure preventive a livello di paura e panico.

Altra fantasiosa e farneticante ricostruzione pseudo-filosofica riguarderebbe l’invenzione del contagio criminalmente utilizzato da media e governi per imporre eccezionali misure di emergenza, forse per passare dalla globalizzazione di un mondo contaminato alla riscoperta dei sani orti nazionalistici. Tesi deliranti anche se affascinanti, da cui non è poi così facile difendersi.

Alla impura fantasia dovrebbe rispondere il sapere, la difesa dovrebbe consistere nella scienza e qui andiamo nel difficile. Sì, perché la scienza offre relativi strumenti di contrasto al periodico incalzare dei virus, ma non ne trova l’origine, se non in una provocatoria e generica denuncia della suicida opera dell’uomo volta alla distruzione degli ecosistemi. La vendetta della natura contro chi da tempo la sta disturbando e distruggendo. Se fosse così, e sicuramente almeno in parte lo è, per rimettere a posto le cose dopo secoli distruttivi occorreranno secoli costruttivi. Il problema di fondo sarà che mentre la distruzione dà immediati anche se illusori benefici, la ricostruzione lascia intravedere benefici in tempi lunghissimi e sacrifici a breve termine.

La scienza aiuta, ma non può risolvere. Dipende infatti da chi la maneggia. Stiamo aspettando con ansia un vaccino contro il coronavirus: arriverà, se non altro per la concorrenza che si stanno facendo i diversi centri di ricerca e le case farmaceutiche. Passato il virus, gabbato il proposito di cambiare indirizzo. Poi magari arriverà ciclicamente un’altra pandemia e giù a batterci il petto e a scervellarci per trovare un rimedio. Disastro dal sen sfuggito poi richiamar non vale: non si trattien lo strale, quando dall’arco uscì.

Anche se non trovo contrasto ed incompatibilità tra scienza e fede (mancherebbe altro!), pur con tutto il rispetto per i ricercatori e tutta l’ammirazione e la gratitudine per chi combatte sul campo (è il dato umano più confortante), in questi giorni, a livello di massimi sistemi, preferisco avere fiducia soprattutto in Dio, facendo riferimento al Vangelo e all’episodio della tempesta sedata. Gesù dorme e gli apostoli in barca con lui se la vedono brutta in mezzo ad un’autentica bufera. Lo svegliano e gli dicono in preda al panico: “Maestro, non ti importa che moriamo?”.  Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». Forse abbiamo l’impressione che Dio si stia disinteressando di noi: anche a costo di fare brutta figura gridiamo anche noi: “Non ti importa che moriamo o che la nostra vita sia comunque sconvolta?”. Qualcosa ci risponderà. Ci crediamo forti e indipendenti e siamo tanto deboli e condizionati. E Lui, pur rassicurandoci di non volerci punire, aggiungerà: “Se non vi convertite perirete tutti”.

La drammatica difficoltà del buon samaritano

Oggi il commento ai fatti del giorno si mescola alla riflessione religiosa in un mix drammatico e angosciante. Ho letto quanto scrive Enzo Bianchi davanti alla paralisi ecclesiale conseguente alle disposizioni comportamentali per arginare il dilagante virus. Da una parte l’obbligo civile di rispettare le regole imposte dalle autorità per il bene comune, dall’altra l’imperativo di continuare ad essere, come comunità cristiana, vicini ai fratelli che soffrono e muoiono.

È angosciante pensare ai malati confinati, nella migliore delle ipotesi, nel proprio appartamento o addirittura in una stanza della propria abitazione, ben peggio in una camera ospedaliera, o peggio ancora in un letto di un reparto di terapia intensiva o peggio ancora in una solitaria agonia. La solitudine è rotta dalla presenza dell’eroico personale ospedaliero, costretto ad un lavoro massacrante, a rischiare la pelle per aiutare i malati, a vederli morire, a fare scelte terapeutiche probabilmente drammatiche e paradossali.

L’isolamento riguarda e paralizza i rapporti umani con i propri famigliari, con i propri amici ed anche con la comunità cristiana di appartenenza. Quanti fratelli e quante sorelle sono morti e stanno morendo senza nemmeno “un cane che gli lecchi le ferite”, ancor più soli del povero Lazzaro, senza il conforto delle persone amate, senza il viatico sacramentale, senza un sacerdote che li assolva dai peccati, senza qualcuno che li accompagni nell’ultimo viaggio, persino senza un rito esequiale dopo la morte. Ho pensato a questo e ne sono rimasto letteralmente sconvolto. È il più brutto aspetto di questa tremenda epidemia.

Il paradosso è che la società civile riesce a fare qualcosa tramite le sue strutture pur insufficienti e i suoi operatori pur limitati, mentre la comunità cristiana, la Chiesa, rischia di “pregare in casa”, ma di non aiutare chi è nell’estremo bisogno. Paradossalmente è costretta (?) ad una nuova modalità da buon (?) samaritano: stare dall’altra parte della strada, guardare in lontananza, impietosirsi, pregare, ma non accostare, non soccorrere, non farsi carico.

Sinceramente non so se sia richiesto, ai pastori, cioè ai sacerdoti, e ai cristiani che si professano tali, di essere eroicamente a fianco di chi muore a costo di violare i protocolli sanitari e fino al punto di mettere a rischio la propria e l’altrui vita. Certo, Gesù toccava i lebbrosi e li guariva toccandoli e non in lontananza. Forse al mistero della sofferenza si sta sovrapponendo il mistero della carità verso i sofferenti.

Papa Francesco mai come in questo momento è punto di riferimento, capace di esprimere tenerezza e sensibilità umana accompagnata da una limpida visione evangelica: guardando a lui ci sentiamo tutti meno soli, in lui scorgiamo la vicinanza di Dio, la sua presenza orante ai piedi del crocifisso ci rende più sicuri e fiduciosi. Lui ha usato il termine “fantasia” e ha lasciato intendere la necessità del “coraggio”, per invitare i pastori e le loro comunità a non rassegnarsi all’isolamento: diversi stupendi esempi stanno emergendo anche nelle aree più a rischio. Forse è la fine ingloriosa della Chiesa tradizionale e dogmatica ed è l’inizio speranzoso di quella ruspante e calda, che dalle frontiere potrà contaminare e riscaldare il freddo centro istituzionale e gerarchico.