Cavalieri solitari di Gran Croce

Chiese aperte a Pasqua. È la proposta del leader della Lega Matteo Salvini: “Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria. Sostengo le richieste di coloro che chiedono, in maniera ordinata, composta e sanitariamente sicura, di farli entrare in chiesa. Far assistere per Pasqua, anche in tre, quattro o in cinque, alla messa di Pasqua. Si può andare dal tabaccaio perché senza sigarette non si sta, per molti è fondamentale anche la cura dell’anima oltre alla cura del corpo. Spero che si trovi il modo di avvicinare chi ci crede. C’è un appello mandato ai vescovi di poter permettere a chi crede, rispettando le distanze, con mascherine e guanti e in numero limitato, di entrare nelle chiese come si entra in numero litato nei supermercati. La Santa Pasqua, la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, per milioni di italiani può essere un momento di speranza da vivere”. Fin qui Matteo Salvini, che non perde occasione per attaccarsi furbescamente agli umori della gente: questa volta dal di fuori della Chiesa, cioè dal pulpito politico lancia una provocazione alla Chiesa stessa, con ragionamenti di mero buon senso in una materia dove il buon senso non basta, anzi rischia di farci deviare.

Il 16 marzo scorso Enzo Bianchi, dal di dentro della Chiesa e da un pulpito molto più credibile e sincero, lanciava anche lui la sua provocazione: “Un cristiano avrebbe obiezioni da fare di fronte ai vari atteggiamenti che si manifestano in questa emergenza, soprattutto riguardo alla liturgia eucaristica, che deve sempre essere azione di tutta la comunità, senza surrogati che smentiscono la realtà umana del corpo di Cristo che è la comunità e la realtà sacramentale del corpo di Cristo nel pane e nel vino. È vero che si può pregare in casa, nel segreto — come chiede anche Gesù —, ma senza eucaristia domenicale per i cristiani non è possibile vivere”. Immaginiamoci se questo discorso non dovrebbe valere per la Pasqua.

Innanzitutto chiediamoci: il coronavirus ha risvegliato il senso religioso e comunitario della gente o è soltanto una epidermica sensazione di vuoto, la domenica delle Palme senza ulivo benedetto come succede per il Natale senza neve? A mio modesto avviso l’angosciante problema umano e religioso non è tanto l’impossibilità di partecipare fisicamente alle celebrazioni pasquali, ma essere costretti a vivere e morire senza poter esprimere l’amore, confinato nel nostro intimo e che grida per uscire e che chiede aiuto per farsi ed avere spazio. La vera tragedia della situazione che stiamo vivendo consiste nel soffrire, nel morire e nel veder morire in disperante solitudine: questa è la demoniaca sfida del virus, che ci costringe e ci condanna ad un capovolgimento del comandamento della carità.

A questo non posso rassegnarmi, in questo sta la paradossale contraddizione della sofferenza, che porta sempre alla solitudine, ma non totale. Gesù sulla croce si sente solo e abbandonato, ma c’è sua madre Maria, sua zia Maria di Cleofa, c’è la Maddalena che lo ama svisceratamente, c’è il discepolo amato, c’è la sua umana famiglia da cui Lui fa scaturire la Chiesa. Anche allora vi era il divieto di avvicinare i condannati a morte, di toccare i cadaveri, in un mix umano-etico-religioso di regole per evitare un diverso, ma ben più paradossale, contagio.

Il mistero della sofferenza, che rimane tale, è stato comunque squarciato dalla lancia, che ha trafitto il costato di Gesù fino a fargli versare anche l’ultima goccia di sangue che gli rimaneva: Gesù ha sofferto tutta l’umana sofferenza e se ne è caricato per darle un senso redentivo e prospettico con la Risurrezione. Era solo nell’orto degli ulivi, ma arriva un angelo a sostenerlo; era solo lungo il percorso che porta al Calvario, ma c’erano le donne che piangevano, la Veronica che gli asciugava il volto, il Cireneo che lo aiutava a portare la croce; era solo inchiodato al legno, ma oltre alle presenze amiche c’era persino un ladrone che solidarizzava con lui. Forse che il coronavirus sta esagerando, facendoci vivere la più atroce delle sofferenze? La solitudine assoluta? Non è un caso se tendiamo a santificare e/o “angelizzare” gli operatori sanitari: sono le uniche presenze o parvenze di una carità di fatto nella desolazione dell’isolamento.

Torno a Enzo Bianchi, il quale pone interrogativi pertinenti, ma senza evidente risposta: “Chi si ammala e va verso la morte ha bisogno dei sacramenti, della consolazione cristiana, di vivere la speranza della resurrezione con i fratelli e le sorelle, senza sentirsi abbandonato. Se la Chiesa non sa essere presente alla nascita e alla morte delle persone, come potrà mai esserlo nella loro vita? Pastori senza pecore e pecore senza pastori? Pastori salariati meno disposti alla cura dei fedeli e dei loro bisogni spirituali rispetto a medici e infermieri del corpo? Per grazia conosco preti che non abbandonano le pecore malate, anzi le vanno a cercare e a curare affinché vivano in pienezza”.

Siamo soli, chiusi in casa e fin qui niente di drammatico. Il problema è che abbiamo dentro la tristezza di vacillare di fronte al bisogno d’amore che viene dalla Pasqua e non sappiamo come viverla: il video è consolatorio, lo capiamo; la preghiera è troppo solitaria, lo sentiamo. Ci resta la sofferenza, che nemmeno una furtiva presenza in chiesa potrebbe risolvere. Quella sofferenza che nessun vaccino al mondo può risolvere. Ci resta solo la possibilità di guardare il Crocifisso, di fissarci solo su di Lui e di sentirci uniti a Lui per risorgere con lui dopo tre giorni, alla faccia del coronavirus.

Le messe trasmesse

Avete presente le vecchiette che, cascasse il mondo, di prima mattina si recavano a messa? Il mondo sta cascando e io mi limito a seguire in televisione la messa mattutina, celebrata da papa Francesco, sul canale 28 di TV 2000 e da qualche giorno proposta persino su Rai 1. Mi sento molto più vicino alle vecchiette di un tempo piuttosto che alle scosciatissime e petulanti conduttrici televisive di oggi.

In linea con questa opzione culturale un po’ retró e un po’ gourmet, come ho già avuto modo di scrivere, nella bagarre mediatica scatenatasi sul coronavirus ho fatto la scelta difensiva di guardare poca televisione e, per quella poca, di sintonizzarmi su TV 2000, il canale televisivo della Conferenza Episcopale Italiana. Questa scelta non significa per me una ricaduta nell’integralismo o ancor peggio nel bigottismo: non amo la scuola cattolica, figuriamoci se faccio il tifo per la televisione cattolica.

Sono perfettamente coerente con gli insegnamenti di due maestri: don Dagnino prima e di don Scaccaglia poi, i quali avevano uno spiccato senso laico della religione, meglio dire della fede.  Erano piuttosto contrari alla scuola privata, anche quella cattolica. Sarebbe comodo, diceva don Dagnino, avere una scuola a propria misura ideologica. Nossignori, bisogna avere il coraggio di mettersi a confronto con i non credenti, testimoniare la fede in campo aperto. E poi chi ha detto che i cattolici siano migliori degli altri, ma lasciamo perdere…

Seguo TV 2000 perché mi illudo di trovare una correttezza e positività di proposta maggiore rispetto ai canali televisivi normali. Nella Rai vorrei trovare equilibrio, misura, obiettività garantiti dalla natura pubblica del mezzo, ma purtroppo tutto è condizionato dalle mere esigenze di audience legate ai contratti pubblicitari: c’è il canone, ma, a quanto pare, non basta a sdoganare la Rai dalla logica commerciale. Lo stile televisivo è molto simile a quello delle tv private, se escludiamo le reti di carattere storico e culturale. Figuriamoci cosa mi aspetterei dalla Tv dei vescovi…

Invece registro abbondante ricorso alla pubblicità prettamente commerciale ed anche a quella etica, intendendo con essa l’insistente e stucchevole propaganda verso enti ed istituzioni impegnate in campo socio-culturale. Ormai non manca più che, durante le numerose messe, si faccia una breve pausa pubblicitaria fra la liturgia della parola e quella eucaristica e durante i rosari fra la contemplazione di un mistero e l’altro. Già comunque infastidisce assai che prima e dopo trasmissioni di riti religiosi ci si precipiti a lanciare messaggi pubblicitari: mi dispiace ma non ci sta!

E che dire dell’autopromozione dei riti stessi, ripetuta con insopportabile insistenza o della strumentalizzazione delle immagini sacre o delle figure di Santi per accalappiare audience su trasmissioni a sfondo religioso. Cos’è? Una mediatica forma di proselitismo? Una propaganda religiosa riveduta e scorretta? TV 2000 sta diventando un autoreferenziale carrozzone religioso? Il papa è la star ed attorno a lui vengono fatti ruotare programmi e talk show di dubbia validità? Si salvano le dirette ed infatti sempre più mi limito ad esse, facendo la tara a tutto il resto. Rimane comunque un gap di positività rispetto alle altre televisioni, ma si potrebbe pretendere molto di più.

Perché non chiedere ai cattolici un contributo che si sostituisca agli introiti pubblicitari? Perché non inserire un po’ di sana austerità nella scelta dei palinsesti: non voglio una televisione “pallosa” e “bigotta”, ma nemmeno una TV che si preoccupi di diffondere la voce ufficiale della gerarchia costi quel che costi. Il coronavirus da una parte ha offerto la buona occasione di distinguersi dal fanatismo mediatico generale e qualcosa di questa opportunità è stato fortunatamente colto; occorre tuttavia uscire da una certa patina clericale e soprattutto da una certa subdola commercializzazione delle attenzioni religiose. La qualità dei programmi è abbastanza buona da tutti i punti di vista, quindi ci sarebbe spazio per un bel passo avanti: un po’ di laicità in più e un po’ di clericalismo in meno. Boccaccia mia statti zitta!

 

Gli slogan più virali del virus

“Andrà tutto bene” è lo slogan che va per la maggiore, più demenziale che incoraggiante, scritto in buona (?) fede su striscioni e cartelloni. Circola, così mi hanno detto, un video/bufala in cui un balcone, su cui era esposto lo slogan di cui sopra, crolla, lasciando un cumulo di macerie sul terreno sottostante. L’assurdità della frase, balcone a parte, è abbastanza evidente. Come possa andar tutto bene, con centinaia di morti al giorno, con sofferenze pazzesche di chi muore e di chi sopravvive, con angosce generalizzate, è difficile da immaginare anche per i più alienati e alienanti ottimisti.

Forse nel bel mezzo di una vicenda, a mio giudizio al momento senza vie d’uscita, bisogna sfoderare le illusioni per sopravvivere. Abbiamo vissuto di paure: per l’invasione degli immigrati, per l’insicurezza da delinquenza, per l’incertezza del futuro. Improvvisamente, rintronati dallo shock da pandemia, proviamo a vivere di illusioni.  Slogan per slogan, si dovrebbe trovare un’espressione un po’ più ragionevole, un “ce la faremo”, un “non molliamo” o roba del genere. Non sappiamo nemmeno farci coraggio seriamente, preferiamo evadere: lo stiamo facendo da molto tempo e non riusciamo a liberarci da questo stato d’animo deresponsabilizzante.

Da una parte siamo martoriati da una pioggia battente di fake news: non so se siano più fake quelle che girano sui social, esorcizzate da tutti e bevute da (quasi) tutti, o quelle ufficiali provenienti delle autorità competenti (?). Dall’altra parte siamo invogliati a negare la drammatica evidenza per sfuggire al “brutto sogno” che stiamo facendo.

La triste realtà è che del coronavirus non abbiamo capito ancora niente e stiamo brancolando nel buio: non sappiamo da dove venga, come si propaghi, come si possa combattere e, ancor meno, come si possa vincere. Sappiamo solo che si muore di polmonite e, se andiamo avanti così, di paura. Mi fanno incazzare le previsioni arzigogolate sull’andamento dei contagi e sulla mortalità conseguente. Stando alla protezione civile, il dato ultimamente incoraggiante sarebbe quello dell’aumento delle guarigioni: pazienza se avvengono con l’accompagnamento dell’aumento dei decessi.

L’altra sera, in una delle stucchevoli conferenze stampa, il premier Giuseppe Conte ha fatto una lezioncina sul rapporto tra indicazioni scientifiche e scelte politiche. Non bastano le une e non possono viaggiare autonomamente le altre: giustissimo! La questione è che mancano sostanzialmente le une e le altre. Basti pensare che gli esperti non sono d’accordo nemmeno sulla distanza da tenere fra le persone per difendersi dal contagio: un metro? due metri? La politica può scegliere un metro e mezzo!  Vogliamo smetterla di prenderci per i fondelli?

In un clima del genere è normale che aumenti la trasgressione alle regole imposte. Il ragionamento sbagliato, ma spontaneo, che probabilmente e desolatamente si sta facendo strada, anche in me, è il seguente: se l’isolamento forzato e tutte le altre menate varie non funzionano, non danno risultati, tanto vale…I tempi stanno diventando infiniti e tali da chiedersi se il gioco valga la candela. Ecco allora che spunta l’altro slogan che va di moda, sui canali televisivi, negli inviti dei vip, negli hashtag sui social: “io resto a casa!”. Da uno slogan all’altro, tutto sempre più demenziale ed opportunistico. L’unico invito accettabile e realistico potrebbe essere: “siamo seri e responsabili!”. Sì, perché la serietà e il senso di responsabilità sono al momento gli unici antivirus di qualche efficacia.

Grillo all’ultimo vaffa

Mi ero illuso che i grillini avessero finalmente ripiegato sul silenzio operoso, invece a squarciare il cielo pentastellato ci ha pensato Beppe Grillo con un vaffa sistemico. Beppe Grillo torna sulla scena. E lo fa con un articolo sul suo blog in cui lancia una proposta: “E’ l’ora del reddito universale per tutti”. Come scrive “la repubblica”, Il leader cinque stelle afferma: “E’ arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito di base universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi”.

Nel suo lungo post Grillo parte dalla premessa che “l’Organizzazione mondiale del lavoro stima che la disoccupazione globale potrebbe colpire 25 milioni di persone (la crisi del 2008 ha comportato un aumento di 22 milioni di disoccupati). Milioni di persone cadranno sotto la soglia della povertà”. Guardando al nostro Paese “milioni di italiani non avranno nei prossimi mesi un’entrata garantita”. Ma, continua, “se nel 2007 avevamo affrontato una crisi finanziaria, che si era propagata all’economia italiana, qui siamo di fronte a qualcosa di molto più radicale, una crisi che investe tutti i settori. Forse alcune filiere non si riprenderanno mai o non torneranno più come prima”.

Le profezie “grilline” potrebbero dunque avverarsi in tempi molto rapidi: “Abbiamo sempre detto che circa il 50% dei posti di lavoro negli anni sarebbe scomparso per l’automazione e i cambiamenti tecnologici. Quei cambiamenti adesso sono avvenuti non in anni, ma in un solo mese. Con un colpo di tosse”. A Grillo risponde il leader di Italia Viva Matteo Renzi: “Il disegno di Beppe è decrescita felice e reddito di cittadinanza, il mio crescita e lavoro”.

Non mi sembra uno scontro fra titani del pensiero politico. Mentre Grillo postula una politica di stampo sabbatico, Renzi si arrocca in difesa del riformismo classico. Il primo fa la parte del più lapalissiano dei Lenin, del comunista massimalista di ennesimo pelo, il secondo interpreta il ruolo turatiano a circa cent’anni di distanza. Se il coronavirus serve a rimbalzare sugli schemi del passato, è finita. Innanzitutto è necessaria una pausa di riflessione: l’azione politica deve essere volta a salvare il salvabile in vite umane e in strutture economiche. Poi sarà il tempo della elaborazione dei nuovi modelli post-coronavirus.

Grillo, come sempre, le spara grosse, fa concorrenza al papa, si candida a gestire il nuovo che dovrà venire, sta riciclando il suo movimento, che sembra spento e sfilacciato. Non si può essere in disaccordo con lui, perché fa la scoperta dell’acqua calda del cambiamento radicale. Dal bar del vaffa è passato al bartaliano “tutto sbagliato, tutto da rifare”, con la differenza che Bartali sapeva prendere la bicicletta e salvare migliaia di persone: Grillo al massimo prenderà la sua bella automobile per salvare un po’ di voti.

Matteo Renzi, altro comunicatore di razza, non può starsene zitto, non resiste alla tentazione e fa la sua generica boutade, che vuol dire tutto e niente. Forse varrebbe la pena che il presidente della Repubblica, oltre che mandare pressanti e sacrosanti inviti all’unità e alla collaborazione, oltre che preparare sotto-traccia nuovi scenari governativi indispensabili come il pane, chiedesse un po’ di religioso silenzio ai chiacchieroni ed ai cialtroni di cui siamo pieni zeppi. Il più bel tacer non fu mai scritto. Speravo che lo avesse scritto il coronavirus, ma mi sono sbagliato.

 

La macabra danza delle cifre

Tutti hanno capito che i numeri ufficiali delle persone contagiate dal coronavirus sono sottostimati, perché vengono fatti i tamponi solo ai sintomatici sufficientemente gravi, ma non ai sintomatici che stanno a casa, e agli asintomatici. Anche i decessi, molto probabilmente, non sono registrati con precisione e completezza. Alla fine uno si chiede se valga la pena continuare a sparare cifre, che lasciano il tempo che trovano e ancor più se sia serio imbastire su di esse proiezioni e previsioni.

Nei giorni scorsi Luca Foresti, amministratore delegato del Centro Medico Santagostino, fisico e matematico, ha dimostrato insieme al sindaco di Nembro Claudio Cancelli che i decessi causati dal coronavirus sono almeno quattro volte quelli ufficiali. Dopo di che ha elaborato una stima dei contagi che li pone molto al di sopra delle cifre ufficiali: «Secondo i miei calcoli gli italiani che hanno contratto il virus al 27 marzo sono almeno 11 milioni e 200 mila. Visto che i casi accertati alla stessa data con i tamponi sono 86.498, significa che stiamo vedendo lo 0,7% dei contagiati reali».

Il calcolo è stato fatto in modo indiretto: partendo dalla letalità del virus, che si sa essere intorno all’1% anche se in Italia sembra più alta. Come si arriva ai contagiati? Partendo dai decessi il cui numero sembrerebbe essere sottostimato perché non tiene conto delle persone che muoiono a casa o nelle residenze per anziani. Al 27 marzo i morti ufficiali per Covid-19 erano 9.134. Per avere quelli reali li hanno moltiplicati per 4 (un moltiplicatore emergente da un’indagine a campione sul comune di Nembro): sono 36.536 decessi. Se muore solo l’1% dei contagiati, vuol dire che quel numero di morti corrisponde a 3.653.600 persone positive. Il tempo medio che passa tra quando una persona viene contagiata e quando muore sono 23 giorni. Nel frattempo però le infezioni continuano a diffondersi. Quindi 3.653.600 è il numero di contagiati di 23 giorni prima. Stimando un aumento medio dei contagi del 5% al giorno, si arriva a 11.222.119. Circa un italiano su sei sarebbe quindi contagiato dal virus.

Da profano, prendendo con beneficio d’inventario e con tutti i dubbi del caso le suddette stime e magari considerandole al ribasso e facendo loro la tara, posso azzardare che il virus sarebbe soprattutto e prima di tutto molto più contagioso di quanto si pensi, probabilmente al di là dei meccanismi fino ad ora considerati: il dubbio viene anche vedendo, checché se ne dica, lo scarso e lentissimo risultato ottenuto finora dalle ristrettezze imposte ai comportamenti della gente. Non voglio pensare che le regole varate siano inutili, ma che forse non siano assolutamente risolutive. Se poi il contagio è così largo e diffuso, la mortalità, molto alta in assoluto, diventa percentualmente assai più contenuta e meno disastrosa.

Valutando superficialmente e banalmente la lezione cinese, si evidenzia come in quel Paese abbiano combattuto il virus con tre fondamentali strumenti: mascherine e altri presidi; screening allargati; disinfestazione di locali, ambienti e finanche strade. Manco a dirlo i tre punti critici nell’azione delle autorità italiane. Le mascherine dovrebbero essere distribuite gratuitamente o almeno a prezzo accessibile nelle farmacie (come si fa con i preservativi), mentre invece, a distanza di oltre un mese dallo scoppio dell’epidemia, sono ancora scarse persino per gli operatori sanitari; i tamponi vengono eseguiti col contagocce (ad esempio e clamorosamente, i soggetti che superano la malattia a casa propria spesso non vengono testati né all’inizio né alla fine del periodo e quindi possono ulteriormente mettere a rischio loro stessi e gli altri); di disinfestazione poi nemmeno un barlume.

Non voglio fare la parte del saputello, di quelli che mio padre sferzava da par suo: “Coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”. Qualcosa che tocca però c’è. Le cifre che ci vengono propinate hanno una portata molto, troppo limitata se non addirittura fuorviante; l’azione di contenimento è burocratica e pressapochista; la cura degli ammalati è drammaticamente insufficiente e confusionaria, coperta con l’abbondante retorica cucita addosso ai pur valorosi operatori sanitari; i cittadini hanno la crescente sensazione di non essere adeguatamente guidati, supportati e curati; non esiste un minimo di lucidità strategica per il futuro; alla valanga di informazioni fa riscontro una carenza di precise indicazioni. So benissimo che il quadro è di una complessità pazzesca, ma proprio per questo occorrerebbe maggiore attenzione e soprattutto maggiore capacità di governare la situazione a livello interno ed internazionale. Non invidio chi governa, anche se non posso evitare di vederne limiti, difetti e carenze.

 

 

 

Ossigeno e diete

Al vescovo di Bergamo, la diocesi più colpita dal coronavirus, monsignor Francesco Beschi, è stata posta la domanda sui bisogni delle persone in conseguenza della drammatica situazione in cui sono inserite. In modo laicamente cristiano e cristianamente laico ha sintetizzato la sua analisi nel bisogno di “ossigeno”. Ossigeno in senso fisiologico per i polmoni dei malati curati all’ospedale o in casa; ossigeno nella vita civile, nelle relazioni umane e sociali, nell’economia; ossigeno per l’anima, per i sentimenti interiori e per poter sperare nonostante tutto. Anche uno dei suoi interlocutori, nel dibattito a “otto e mezzo” sull’emittente privata la Sette, Beppe Severgnini, autorevole e brillante giornalista lombardo, la regione clamorosamente e disgraziatamente colpita dal virus, ha parlato di più empatia e meno numeri, di più fiducia e meno bollettini di guerra, di più coraggio e meno rassegnazione.

Sono perfettamente d’accordo su questi bisogni da declinare a livello personale, comunitario, sociale e politico. In questa fase dobbiamo respirare nel corpo (curando al meglio i malati e organizzando al meglio le difese a livello immunitario e sociale) e nell’anima (aprendo i cuori alla solidarietà, alla condivisione, ai migliori sentimenti, alla speranza e costruzione del futuro).

Quando saremo fuori, in tutto o in parte, dall’emergenza, di cosa avremo bisogno? Provo anch’io a sintetizzare con una parola: avremo bisogno di “diete”. Alcune saranno purtroppo imposte in senso proprio dalla miseria e dalla fame che si scateneranno. Altre dovranno essere scelte in senso figurato, ma ugualmente scomodo ed incisivo. Ne elenco di seguito alcune.

Dieta da parte dei pochi che detengono la stragrande maggioranza dei beni, che dovrebbero metterli a disposizione dei molti che soffrono e soffriranno ancor di più; dieta da parte di coloro che puntano al lusso sfrenato e al consumismo spietato, non per chiudere tutti in un’economia di prima necessità, ma per puntare sui bisogni che fanno crescere anche culturalmente e socialmente la comunità: la salvaguardia del territorio, la difesa ambientale, l’ecologia, l’equilibrio degli ecosistemi, la valorizzazione del patrimonio naturalistico ed artistico, l’istruzione permanente, la ricerca scientifica, il miglioramento del sistema socio- sanitario ed assistenziale; dieta di chi lavora nel campo dello spettacolo per abbattere cachet favolosi, che gridano vendetta al cospetto di Dio e degli uomini, abbandonando criteri meramente economicistici e di mercato; dieta nel mondo dello sport con la moralizzazione dei compensi a chi opera in esso, con la potatura e la razionalizzazione delle strutture, degli eventi sportivi e di tutto ciò che vi ruota intorno; dieta nel mondo dell’informazione e dei media, e Dio sa quanto ce ne sia bisogno, non per coartare le libertà di stampa e di conoscenza, ma per sgrossare il circo mediatico fine a se stesso; dieta nel mondo della politica e delle istituzioni, non per impoverire la democrazia, ma per valorizzarla e renderla funzionante e funzionale ai bisogni della gente; dieta nel mondo della Chiesa e delle religioni, per applicare finalmente criteri di equità, giustizia e solidarietà a cominciare da chi predica e crede in questi principi.

Si potrebbe continuare, ma non è il caso di parlare troppo di corda in casa dell’impiccato, anche se la corda non serve ad impiccare nessuno, ma dovrebbe servire a legare i sacchi e a far star meglio tutti.  Si dovranno spendere ed investire enormi risorse pubbliche e private, ma i soldi, senza diete rigoristiche e monetaristiche e con tabelle nutrizionali sviluppiste, non andranno buttati a vanvera e finalizzati non tanto a ricostituire meramente quanto vi era in precedenza, bensì a rifare un modello di società, che superi la pura acquiescenza al liberismo economico, all’economia di mercato, alle privatizzazioni tout court, alla mentalità efficientistica, arrivistica e competitiva a tutti i costi. Le diete alimentari dovrebbero servire a stare meglio, anche se inizialmente fanno soffrire per i sacrifici che impongono. Parlare di sacrifici in un momento in cui siamo tutti sacrificati al massimo, sembra un paradosso, eppure…

 

Presto e bene devono stare insieme

Credo che la luna di miele della gente col governo stia per finire. I segnali che capto dalla “mia prigione” vanno in tal senso. Provvedimenti adottati col contagocce, moduli a go-go, stanziamenti grossi in assoluto ma piccoli in relazione alla problematica da affrontare, tempi troppo lunghi, mascherine che stanno diventando una macabra telenovela, certo qual scollamento tra le esigenze pubbliche della periferia e le risposte che (non) arrivano dal centro, confusione crescente dovuta a incertezze che sono peggio delle brutte certezze,  insofferenza montante verso un quadro normativo di cui non si riesce a trovare il filo.

La situazione non è difficile, è difficilissima al limite dell’impossibile, ma proprio per questo occorre essere concreti e precisi. Si ha invece la sensazione che anziché affrontare i problemi si stia rincorrendoli. Siamo partiti dallo stucchevole presupposto del “prima le persone rispetto ai problemi economici”: va bene, anche se le persone sono toccate dalla malattia ma anche dalle serie prospettive di “miseria”. Ora è stato introdotto un altro criterio di priorità: prima il rilancio dell’economia rispetto ai parametri di bilancio. Su questo discorso Mario Draghi ha dato autorevolmente un inequivocabile “la”: non è poco!

Tutta la vicenda ha però l’imprescindibile esigenza di adottare tempi strettissimi per le decisioni e per la loro esecuzione: non perdono tempo i medici e gli infermieri negli ospedali, non possono perdere tempo i detentori dei pubblici poteri in materia socio-sanitaria ed economico-finanziaria. Devo ammettere che su questo piano il leader leghista Matteo Salvini (che peraltro farebbe molto bene a pensare ai suoi svarioni culturali, ai suoi strafalcioni etici, ai suoi atti e gesti inqualificabili,  ai suoi miserevoli calcoli politici) non ha torto quando critica il passo lento e felpato del governo. Occorre darsi una mossa, prima che sia troppo tardi. Devono circolare quattrini e non moduli. Il capo della polizia può dire quel che vuole, ma sfornare in pochi giorni quattro diversi moduli, per accompagnare e giustificare le uscite indispensabili da casa, è una colossale “presa per il culo” (chiedo scusa ma la realtà è questa!). A forza di stampare moduli e cestinarli ho ormai esaurito la cartuccia dell’inchiostro e come faccio a uscire per andarne a comprarne una nuova?

Sinceramente non vedo quel fervore d’iniziativa e di presenza sul pezzo che mi sarei aspettato: speriamo che il Presidente della Repubblica non sia costretto ad entrare a gamba tesa, così come fece Sandro Pertini in occasione dei colpevoli ritardi nei soccorsi per il terremoto dell’Irpinia del 1980. Capisco lo smarrimento iniziale, capisco le titubanze nell’adottare provvedimenti drastici e dolorosi, comprendo gli errori di fronte ad una situazione completamente nuova e drammatica. Adesso però basta! Gambe in spalla e pedalare! Paradossalmente è meglio sbagliare per eccesso di zelo che traccheggiare per evitare errori. E poi basta con gli annunci, le interviste, le preoccupazioni comunicative: parola d’ordine è fare. Lasciamo stare la solita latitanza europea, ma anche la macchina del nostro Stato, dopo un’iniziale impressione di relativa prontezza, sta segnando il passo e ha bisogno di una forte scossa. Anche perché la risposta della popolazione è positiva, così come quella di chi opera in prima linea. Se da una parte vedo amministratori regionali e locali interventisti al limite dell’impazienza e a costo di creare confusione, dall’altra parte vedo ministri e ministeriali un po’ troppo rilassati, che fanno le punte ai lapis (spero di sbagliarmi e chiedo scusa, ma l’ansia è tanta…).

Animo, perché qui andiamo tutti a fondo. Se qualcuno non se la sente, è stanco, non ha le idee chiare, si faccia da parte: non lo biasimerei. Se uno ha il coraggio di rimanere in pista deve correre all’impazzata, perché ciononostante rischia sempre di essere in ritardo. Si dice che la politica ha i suoi tempi: nossignori, non c’è tempo! Non ho mai avuto un debole per i decisionisti e per i “fasotutomi”. Stavolta però pensare e fare vanno di pari passo. Non vedo, al momento e purtroppo, cervelli e personalità (a meno che…) capaci di dare direttive esaurienti ed imprimere un movimento dinamico di carattere propulsivo, come il razzo vettore che imprime una forte velocità al satellite. Non servono bacchette magiche, anche perché nessuno le ha, ma non serve nemmeno aspettare un momentino, come diceva un mio collega che metteva le pratiche nel cassetto.

Papa Francesco e il drago

In questi giorni, senza voler peccare di integralismo cattolico (chi mi conosce sa che non è nelle mie corde), è sotto gli occhi di tutti come la personificazione dell’antidoto al coronavirus risieda in papa Francesco, nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi atti, nelle sue preghiere. Lo dico subito, chi teme di contaminarsi, oltre che col coronavirus anche con la religione, interrompa pure la lettura di queste povere righe, perché sto per aprire i rubinetti della poca fede a cui tento disperatamente di fare riferimento in mezzo alla tempesta, senza intravedere nemmeno in lontananza che “il sereno rompe là da ponente, alla montagna”.

Un caro amico mi ha chiesto un commento alla preghiera universale papale davanti al mondo presente-assente nel silenzio di piazza San Pietro. Ci siamo scambiati rapide impressioni e abbiamo concluso con una espressione, che potrebbe sembrare addirittura blasfema: “provocazione a Dio”. Sì, con la sua umile autorevolezza, con il suo nascosto carisma, con il suo cuore così umano, con la sua fede così orizzontale, si è messo in gioco, chiedendo a Dio quello che gli apostoli chiesero a Gesù sulla barca che stava affondando: “Signore, non ti importa che moriamo?”; mettendoci la faccia quale vicario di Cristo; tentando di costruire rapidamente e coraggiosamente un ponte fra cielo e terra. In quella preghiera c’era tutta la realtà e la storia della Chiesa: la parola evangelica, la devozione verso i simboli e le icone, la forza dei sacramenti, la nostalgica osservanza dei riti, la preghiera formulata in latino (tradizione) e italiano (concilio), l’adorazione tradizionale al Santissimo Sacramento, il perdono e la benedizione di tutto e di tutti, la lontananza dalla eclatante cattiveria del mondo, la vicinanza alla nascosta carità degli uomini credenti e non credenti, la condivisione del dolore e la prospettazione della salvezza.

La mattina dopo, quasi a chiedere perdono a Dio ed agli uomini, per questa sfida orante e supplichevole, quasi a chiarire che la sera precedente non aveva voluto esagerare con atteggiamenti di stampo religioso, ha fatto l’elogio dell’anticlericalismo, autoproponendosi ed autoproclamandosi non capo inflessibile e forte di una Chiesa infallibile nella sua dottrina e nel suo “libro”, ma pastore dolce e debole di un gregge sempre più allo sbando ed alla ricerca della vita vera.

La domenica immediatamente successiva ha sottolineato il pianto sincero di Gesù davanti al dolore umano quale unica, paradossale ed efficace risposta divina al grido sofferente dei suoi figli: la domenica del pianto, con la chiara allusione alla situazione tragica che stiamo vivendo, con la paura che cresce, con le difficoltà che si stanno concretizzando, col dramma di chi assiste in lontananza alla morte altrui, con la battaglia a mani nude di chi prova a difendere la vita. Con quel pianto e il successivo grido di battaglia (Lazzaro vieni fuori!) Gesù compie la risurrezione dei cuori, dopo aver tolto dall’animo umano la pietra tombale dell’egoismo, che lo chiude nella morte. Dulcis in fundo, in coda all’Angelus domenicale, il solito delicato invito a pregare per lui, accompagnato questa volta da un rassicurante “io prego per voi”.

Scrivendo ad una cara amica ho recentemente confessato il mio crescente senso di solitudine: io sono fatto così, non riesco ad alleggerire la tensione, prendo tutto sul serio, con ansia al limite dell’angoscia. Non riesco a cambiarmi e quindi spero solo di reggere con l’aiuto di Dio e l’amorevole pazienza di chi, nonostante il mio egoismo, mi vuole bene. Faccio fatica a leggere, perché il pensiero va sempre nella stessa direzione; mi sfogo a scrivere e insisto a pregare. Cerco di vedere poco la televisione e di navigare poco su internet: tutto infatti è coronavirus, visto peraltro con accanimento informativo. Arriva qualche telefonata dai cugini e dagli amici, che serve a costringermi a parlare, a sentirmi vivo. Fitto e importante è il mio rapporto pressoché quotidiano con un meraviglioso cugino/fratello. Quanti ricordi, quanti scambi di idee ed esperienze, quanta comunanza di valori, quanta solidarietà!

Allora, caro papa Francesco, mi aggrappo a te, mi attacco alla tua forte fragilità, alla tua calda umanità, alla tua rassicurante fede, alla tua attenzione ai poveri, alla tua impostazione esistenziale ed ecclesiale; vicino a te mi sento più sicuro. Non hai la presunzione di avere la verità in tasca: hai fatto riferimento all’appello del segretario generale delle Nazioni Unite per chiedere la fine di ogni e qualsiasi focolaio di guerra. Più laico di così, più anticlericale di così, più universalmente umano di così (anche in questo momento non ti accontenti, come noi, di esorcizzare il coronavirus, pensi agli immigrati, alle vittime delle guerre, alle case di riposo, alle caserme, alle carceri), più buono di così (chiedi a Dio il perdono per tutti). Se il Padre eterno non ascolta te, siamo veramente perduti. Ma tu non sei il vicario di Cristo? E allora, un briciolo di fiducia e di speranza possiamo averla. E se ti sei fatto sentire in alto loco, hai fatto benissimo: “Signore, non ti importa che moriamo?”. Anche Giobbe si spazientì: “Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo?”. Anche Gesù sulla croce si sentì solo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Quindi…

 

Francesi e italiani, vicinanza emotiva

Conoscevo una persona che aveva rapporti alquanto litigiosi con la moglie al punto da soprannominarla “Francia”. La simpatica trovata la dice lunga sulla difficile coesistenza pacifica coi cugini francesi. La storia è ricca di contrasti tra Italia e Francia anche a livello di convivenza europea: i governanti francesi, e Macron non è da meno, hanno sempre cercato alleanze tattiche con la povera Italia, salvo strizzare l’occhio alla ricca Germania tentando di sfruttarne opportunisticamente la scia. Tenere i piedi in due paia di scarpe è un comportamento deplorevole, nel quale i francesi si sono dimostrati maestri.

Basterà il coronavirus a convertirli ad una strategia lineare e coerente a livello europeo?  Macron ha dichiarato: «La Francia è al fianco dell’Italia. L’Europa smetta di essere egoista. L’Ue rischia di morire se non agisce. Con Conte e Sanchez diciamo: debito comune e aumento del bilancio». Il Presidente francese ha accettato di rispondere a una serie di domande scritte di Stampa, Repubblica e Corriere della Sera nella prima intervista a media stranieri da quando è cominciata l’emergenza sanitaria, nel momento cruciale in cui l’Europa si divide sulla risposta da dare alla crisi.

Gli è stato chiesto: “Con il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte avete chiesto al Consiglio europeo la creazione di eurobond per fronteggiare una crisi epocale. Germania e Olanda hanno fatto blocco. C’è un rischio d’implosione dell’eurozona e dell’Unione europea?”. Macron ha risposto: «Con Giuseppe Conte, Pedro Sanchez e altri sei capi di Stato e di governo, abbiamo indirizzato, prima del Consiglio europeo, una lettera a Charles Michel per inviare un messaggio chiaro: non supereremo questa crisi senza una solidarietà europea forte, a livello sanitario e di bilancio. Questo è il punto di partenza. Gli strumenti vengono in seguito e dobbiamo essere aperti a questo proposito: può trattarsi di una capacità di indebitamento comune, quale che sia il suo nome, oppure di un aumento del bilancio dell’Unione europea per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi Dieci Paesi dell’eurozona, rappresentanti del 60 % del suo PIL, hanno esplicitamente sostenuto quest’idea, è la prima volta! Alcuni Paesi, tra cui la Germania, hanno espresso le loro reticenze. Abbiamo deciso di continuare questo fondamentale dibattito, al più elevato livello politico, nelle prossime settimane. Non possiamo abbandonare questa battaglia. Preferisco un’Europa che accetti divergenze e dibattiti piuttosto che un’unità di facciata che conduce all’immobilismo. Se l’Europa può morire, è nel non agire. Come Giuseppe Conte, non voglio un’Europa del minimo comune denominatore. Il momento è storico: la Francia si batterà per un’Europa della solidarietà, della sovranità e dell’avvenire».

Finalmente!? Staremo a vedere. Resta il problema di ottenere un cambio radicale di indirizzo da parte della Ue, rimane il forte rischio di una vergognosa spaccatura con i Paesi rigoristi ancorati ad una visione manichea ed egoistica, che nemmeno la tragedia sanitaria comune riesce a scalfire. La tentazione di mandare al diavolo i sedicenti primi della classe è forte, ma purtroppo l’Italia non può, oserei dire non deve, pensare di fare da sola. Non riesco a capire quale siano le motivazioni dell’atteggiamento reticente di certi Paesi, tra i quali spicca la Germania. Forse l’idea di poter essere risparmiati dalla pandemia? Forse il pensiero della formica che non vuole aiutare la cicala nemmeno quando sta morendo? Forse la paura di essere trascinati nel gorgo di un sistema finanziario alla deriva? Forse l’illusione di salvarsi isolando le mele ammaccate se non marce?

Fatto sta che i perbenisti hanno preso tempo e persino il presidente della Repubblica Italiana, seppure con il garbo e lo stile che lo contraddistinguono, ha dovuto fare pressing dicendo: «La risposta collettiva che il popolo italiano sta dando all’emergenza è oggetto di ammirazione anche all’estero, come ho potuto constatare nei tanti colloqui telefonici con Capi di Stato stranieri. Anche di questo avverto il dovere di rendervi conto: molti Capi di Stato, d’Europa e non soltanto, hanno espresso la loro vicinanza all’Italia. Da diversi dei loro Stati sono giunti sostegni concreti. Tutti mi hanno detto che i loro Paesi hanno preso decisioni seguendo le scelte fatte in Italia in questa emergenza. Nell’Unione Europea la Banca Centrale e la Commissione, nei giorni scorsi, hanno assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi dei governi nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni. Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse».

Cosa posso aggiungere? Niente, se non l’auspicio che almeno “i poveri” sappiano fare veramente fronte comune per costringere “i ricchi” a ragionare. Temo però che qualche povero possa correre a raccattare le briciole che cadono dalle tavole più o meno imbandite. Spero tuttavia che qualche ricco capisca come a tavola si stia bene quando si va d’accordo, diversamente il cibo, prima o poi, può andare di traverso.

 

 

Quando i debiti salvano l’economia

Il premier Conte e altri otto leader europei, tra i quali il presidente francese Emmanuel Macron, hanno firmato una lettera congiunta per chiedere alla Unione europea la creazione dei “Coronabond” per fronteggiare la crisi economica dovuta alla pandemia. La missiva è stata siglata da Italia, Spagna, Francia, Portogallo, Slovenia, Grecia, Irlanda, Belgio e Lussemburgo. La lettera dei nove leader europei indirizzata al presidente del Consiglio d’Europa, il belga Charles Michel, chiede in sostanza l’adozione di misure urgenti per contrastare l’emergenza coronavirus e crea di fatto un fronte contrapposto a quello del rigore rappresentato da Germania e Olanda.

“Dobbiamo riconoscere – scrivono i leader – la gravità della situazione e la necessità di un’ulteriore reazione per rafforzare le nostre economie oggi, al fine di metterle nelle migliori condizioni per una rapida ripartenza domani. Questo richiede l’attivazione di tutti i comuni strumenti fiscali a sostegno degli sforzi nazionali e a garanzia della solidarietà finanziaria, specialmente nell’Eurozona. In particolare, dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da un’istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia”.

Ecco allora che la sfida posta dall’emergenza sanitaria e l’arrivo dei “corona bond”, emessi eventualmente dalla Banca Europea per gli Investimenti, per finanziarie tutte le spese destinate all’emergenza da non includere nel deficit, potrebbe riaprire la strada agli Eurobond, costituendone un “antenato” ed un precedente importante per disegnare il futuro dell’Unione fiscale.

I coronabond diventerebbero il veicolo comune per raccogliere le risorse finanziarie al minor costo possibile, superando le difficoltà dei Paesi più deboli e più indebitati, che singolarmente farebbero fatica a trovare le risorse monetarie se non a prezzi esorbitanti. Speriamo che i Paesi cosiddetti rigoristi, vale a dire i difensori intransigenti di una finanza pubblica austera, comprendano che quando la casa brucia non si può dissertare sul chi debba spegnere l’incendio e a chi spetti sostenerne i costi.

Da parte sua l’ex presidente della Bce in un intervento sul Financial Times suggerisce ai governi di intervenire subito a sostegno dell’economia, perché perdere tempo potrebbe significare sprofondare in una recessione dalla quale sarebbe molto difficile venir fuori. Tutte le risorse devono essere mobilitate per proteggere le imprese e i lavoratori, comprese quelle del settore finanziario.

“Una tragedia di proporzioni bibliche”: è in questi termini che l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi parla della pandemia da coronavirus. Non solo per la perdita di vite umane, ma anche per le conseguenze economiche. I governi, scrive Draghi, devono mobilitare tutte le risorse disponibili, non importa se il costo è l’aumento del debito pubblico perché l’alternativa, “una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, sarebbe ancora più dannosa per l’economia” e in futuro per la credibilità dei governi.
Agire, agire subito, senza remore per i costi del debito anche perché, “visti i livelli attuali e probabilmente anche futuri dei tassi d’interesse”, rimarranno bassi. “Livelli più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica economica e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”, ribadisce Draghi, il quale
elogia le azioni intraprese finora dai governi europei, definendole “coraggiose e necessarie” e sicuramente degne di sostegno. Ma non bastano: il costo economico sarà enorme, e inevitabile. “Una profonda recessione è inevitabile”. L’importante è che non diventi la tomba dell’Europa: “è il compito specifico dello Stato – scrive Draghi – utilizzare le proprie risorse per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock dei quali il settore privato non è responsabile, e che non può assorbire”. È sempre successo, e non a caso Draghi cita la Prima Guerra Mondiale. Di fronte a una guerra non resta che una mobilitazione comune. E “come europei” siamo chiamati “a darci supporto l’un l’altro per quella che è, in tutta evidenza, una causa comune”

“In primo luogo bisogna evitare che le persone perdano il loro lavoro”, raccomanda Draghi, altrimenti “emergeremo dalla crisi con un livello di occupazione stabilmente più basso”, e le famiglie faranno fatica a ritrovare un loro equilibrio finanziario. Per questo non è sufficiente rinviare il pagamento delle tasse: bisogna immettere subito liquidità nel sistema, e le banche devono fare la loro parte, “prestando danaro a costo zero alle imprese” per aiutarle a salvare i posti di lavoro. Subito: “i costi dell’esitazione potrebbero essere irreversibili”. La memoria delle sofferenze degli anni 20 “dovrebbe metterci in guardia”.