Tristezza, trepidazione, anormalità

In questi giorni si parla tanto di normalizzazione, di ritorno alla normalità: il discorso è a mezza strada fra illusione ed equivoco. Stiamo infatti negando a noi stessi che, se per normalizzazione intendiamo il ritorno alla vita di prima, possiamo abbandonare questo desiderio anormale: la nostra vita sta cambiando e cambierà, che lo vogliamo oppure no. Saremo tutti più poveri di beni e di certezze, saremo tutti più insicuri e precari: andiamo verso una sorta di precariato di massa.

Per restare in ambito nazionale, nonostante le draconiane misure di salvaguardia adottate, tutti i giorni si ammalano migliaia di persone delle quali centinaia muoiono. Le attività economiche, pur dando per acquisiti gli aiuti promessi, ballano sull’orlo del baratro. L’assetto sociale, nonostante le più buone intenzioni di utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, è sconvolto: non si sa se e come riapriranno le scuole, se e come si produrrà cultura, se e come ci si potrà riunire per discutere, se e come potremo lavorare e impiegare il tempo libero.

Blaterare di normalizzazione rischia di essere un espediente di evasione dalla realtà: le fasi pensate dai governanti assomigliano a quelle lunari. Stiamo aspettando che riaprano le attività economiche e non ci rendiamo conto che molte di esse non potranno riaprire perché mancherà il mercato, l’eventuale offerta di beni e servizi non troverà più la domanda, l’offerta di lavoro a sua volta non troverà la domanda a livello di imprese e di entità pubbliche e private. Non penso di essere catastrofico, ma la vedo molto brutta e, se devo essere sincero, mi paiono patetiche le prospettive di un mondo “mascherato” in una sorta di carnevale globale e perpetuo.

E allora? Che fare in una vita in cui i rapporti umani saranno ridotti all’osso? Forse vivremo in un contrappasso dantesco in cui saremo costretti a stare in isolamento dopo la sbornia della futilità relazionale allargata. Vivremo di poche e indispensabili cose dopo lo sperpero perpetrato dei beni terreni. Pensiamoci un attimo: l’obbligo di non uscire di casa ha contribuito a risolvere i problemi del traffico e dell’inquinamento, lo stress del sentirsi prigionieri in casa ha sostituito quello delle code autostradali, la mancanza di evasione turistica pasquale ci ha sollecitato il desiderio di vivere il senso autentico dei misteri pasquali, la difficoltà a riempire il tempo improvvisamente svuotato delle nostre abitudini ci ha imposto di fare qualcosa di insolito e diverso, riscoprendo magari la bellezza di scelte culturali abbandonate da tempo.

Qualcuno dirà che sono alla poetica rivalutazione dell’anormalità per fuggire all’impossibile normalità. Può essere, ma se non ci sforziamo di trovare a livello privato una possibile, nuova e diversa normalità di mentalità e di vita, non possiamo pretendere che ci caschi addosso dall’alto un impossibile, vecchio e strambo stile di vita in cui aggirarsi come automi blindati. È inutile pensare che un vaccino possa cambiare o, meglio, rimettere indietro il mondo. Siamo tutti ridotti a Diogene con la lanterna in mano alla ricerca del come vivere, visto che siamo improvvisamente e inopinatamente tornati ad essere uomini.

Ecco perché mi sento invaso da una profonda tristezza. In un’omelia pasquale ho ascoltato una riflessione particolare sui discepoli di Emmaus e la profonda tristezza di cui erano rimasti vittime: la tristezza assecondata porta al disastro dal punto di vista umano e al peccato sul piano religioso. Il peccato è infatti la reazione illusoria alla tristezza, dopo di che la tristezza diventa ancora più grande e va avanti una perversa spirale negativa.

Mi sono chiesto: forse sto assecondando la tristezza e il pessimismo? Non lo so, fatto sta che anche gli affetti più profondi non riescono a scuotermi. La fede nel Risorto, pur scaldandomi il cuore, non toglie le difficoltà: non è e non può essere questo infatti l’eclatante miracolo della Risurrezione. Mi rifugio nella scrittura, che riesce a distogliermi almeno parzialmente dallo scoraggiamento e che mi consente di sfogare positivamente (?) la troppa sensibilità che mi ritrovo (croce e delizia della mia complessa personalità).

Sento che la trepidazione è grande e il cuore si fa pesante, come sostiene una carissima amica: la parola giusta non è tristezza, ma trepidazione! C’è da soffrire e da sperare che questo periodo ci rafforzi nel coraggio, nella sapienza e nel cuore: la sofferenza – la mia vita lo insegna – serve a questo. E la mia sofferenza è niente a confronto degli amici morti in solitudine o a cui sono stati strappati i propri cari in modo drammatico (il solo pensarci mi angoscia).

Il bravo e compianto Mike Bongiorno nelle sue trasmissioni televisive aveva adottato un simpatico, anche se molto superficiale, incipit: allegria!  Come cambia il mondo…io mi presento con “tristezza e angoscia!”. Spero abbia ragione l’amica di cui sopra a parlare di trepidazione: sì, molto meglio. A volte una parola può salvare la vita…

 

Vestivamo alla pallonara

Prima o poi doveva arrivare ed è arrivato il redde rationem del calcio professionistico, che vive ben al di sopra delle proprie possibilità in un mercato economicamente fasullo, a metà strada fra sport e industria dello spettacolo, sempre meno sport e sempre più industria, sempre meno industria e sempre più show room pedatorio “sgolosato” dai tifosi senza dignità, sempre meno competizione e sempre più carrozzone per i mangiapane a tradimento. È arrivata la falce a imporre una inderogabile cura dimagrante.

I calciatori si sono sentiti toccati nel vivo di un portafogli stragonfio, che sta per esplodere: purtroppo il discorso non vale per tutti. Siamo abituati a generalizzare i super ingaggi dimenticando i tanti calciatori che guadagnano molto meno rispetto alle star del pallone. È sempre così: davanti all’ingiustizia clamorosa e insostenibile si rischia di fare giustizia sommaria. Non ci si può tarare sui Ronaldo, ma si deve comunque bonificare un mercato dell’assurdo.

Mi sono da tempo chiesto perché i presidenti delle società calcistiche non abbiano tentato un tacito accordo di gruppo per calmierare il mercato degli ingaggi: forse sarebbe stata una sacrosanta manovra in barba alle regole della concorrenza, ma un taglio benefico si imponeva da tempo.  A latere c’era da regolamentare anche il pazzesco mercato dei diritti televisivi e pubblicitari: una jungla in cui spartirsi il bottino costituito dalla malata passione sportiva degli aficionados del pallone. Si parlava da tempo di una ristrutturazione su scala europea dei campionati a due velocità: il calcio dei ricchi collocato sul piedistallo internazionale e quello dei poveri relegato in ambito nazionale. A margine c’è la pletora mediatica ed autoreferenziale del giornalismo pallonaro: come si ricollocheranno le infinite schiere di commentatori del piffero? Andranno a fare i facchini o troveranno la maniera di riciclarsi? Si è aperta una fase critica con la prospettiva di un cinico ma necessario disboscamento.

Sempre meno gente andrà allo stadio, diventato mero sfogatoio degli irriducibili ultras. Anche le partite sulle televisioni a pagamento finiranno col venire a noia. Il mercato pubblicitario soffrirà, le sponsorizzazioni caleranno. Minori entrate, minori spese. Prima del coronavirus si pensava di coprire i deficit, oltre che con i trucchi di bilancio, studiando una nuova dimensione socio-economica degli stadi: oggi questa prospettiva sembra a dir poco velleitaria con le vacche magre che si intravedono all’orizzonte.

Al punto in cui siamo arrivati si capisce l’imbarazzo dei calciatori trattati come capro espiatorio (sarà durissima per loro scuotersi di dosso l’immagine di soggetti privilegiati e superpagati), ma non si vede alternativa ad un drastico ridimensionamento dei loro guadagni (non sarà facile tagliare con equità). Sarebbe un fenomeno curioso se nel post-coronavirus soffrissero tutti meno i protagonisti del mondo del calcio. Il pallone ha sempre avuto un effetto magico distrattivo dalle vicende della società, non penso fino a questo punto. Cosa ne direste di una cassa integrazione per i calciatori finanziata dai sacrifici degli ultras delle curve? In questo pazzo, pazzo mondo tutto è possibile! Ci dovremo rassegnare ad un unico cronista che ci commenterà la partita in radio. Sarà bellissimo e socialmente utile. Tutti gabbati, o meglio tutti liberati dalla sindrome pallonara di Stoccolma.

Una voce che grida nel deserto

È umano di fronte a problemi comuni rinchiudersi nel proprio particolare? È politicamente serio davanti ad una crisi globale guardare all’interno dei propri confini nazionali? Il presidente Donald Trump ha detto che aiuterà l’Italia, ma prima vengono gli Usa. Grazie, ma che ragionamenti sono? Aiutare qualcuno non vuol forse dire rinunciare a qualcosa per sé stessi? Papa Giovanni XXIII disse: «Il superfluo si misura dal bisogno degli altri». È accettabile rimanere in un ordine mondiale fondato sugli egoismi e sulle discriminazioni? È tollerabile che l’Unione Europea, in un momento così drammatico e tragico, continui a discutere di corda in casa dell’impiccato o del “sesso dei bilanci” mentre “un virus sta espugnando il pianeta”, mettendo in ginocchio tutte le popolazioni?

Bisogna ammettere che l’unica autorevole voce veramente in controtendenza rispetto all’inqualificabile andazzo, che nemmeno la pandemia riesce a scalfire, è quella di papa Francesco. Ecco perché oggi cedo a lui la parola riportando di seguito alcuni passaggi del suo messaggio pasquale, che non ha bisogno di commento, ma solo di essere letto per andare in benefica, positiva e costruttiva crisi. Non temo, in questo momento, di affermare che solo nella Chiesa e nei suoi pastori, pur con tutti i limiti e difetti, trovo lo spirito giusto per andare avanti: non è integralismo, ma attaccamento all’unico autentico salvagente a portata di uomo e di mondo.

“Non è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i poveri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattutto, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria. In considerazione delle circostanze, si allentino pure le sanzioni internazionali che inibiscono la possibilità dei Paesi che ne sono destinatari di fornire adeguato sostegno ai propri cittadini e si mettano in condizione tutti gli Stati, di fare fronte alle maggiori necessità del momento, riducendo, se non addirittura condonando, il debito che grava sui bilanci di quelli più poveri.

Non è questo il tempo degli egoismi, perché la sfida che stiamo affrontando ci accomuna tutti e non fa differenza di persone. Tra le tante aree del mondo colpite dal coronavirus, rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, questo continente è potuto risorgere grazie a un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda l’occasione di dare ulteriore prova di solidarietà, anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni.

Non è questo il tempo delle divisioni. Cristo nostra pace illumini quanti hanno responsabilità nei conflitti, perché abbiano il coraggio di aderire all’appello per un cessate il fuoco globale e immediato in tutti gli angoli del mondo. Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite. Sia invece il tempo in cui porre finalmente termine alla lunga guerra che ha insanguinato l’amata Siria, al conflitto in Yemen e alle tensioni in Iraq, come pure in Libano. Sia questo il tempo in cui Israeliani e Palestinesi riprendano il dialogo, per trovare una soluzione stabile e duratura che permetta ad entrambi di vivere in pace. Cessino le sofferenze della popolazione che vive nelle regioni orientali dell’Ucraina. Si ponga fine agli attacchi terroristici perpetrati contro tante persone innocenti in diversi Paesi dell’Africa.

Non è questo il tempo della dimenticanza. La crisi che stiamo affrontando non ci faccia dimenticare tante altre emergenze che portano con sé i patimenti di molte persone. Il Signore della vita si mostri vicino alle popolazioni in Asia e in Africa che stanno attraversando gravi crisi umanitarie, come nella Regione di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Riscaldi il cuore delle tante persone rifugiate e sfollate, a causa di guerre, siccità e carestia. Doni protezione ai tanti migranti e rifugiati, molti dei quali sono bambini, che vivono in condizioni insopportabili, specialmente in Libia e al confine tra Grecia e Turchia. E non voglio dimenticare l’isola di Lesbo. Permetta in Venezuela di giungere a soluzioni concrete e immediate, volte a consentire l’aiuto internazionale alla popolazione che soffre a causa della grave congiuntura politica, socio-economica e sanitaria.

Cari fratelli e sorelle,

indifferenza, egoismo, divisione, dimenticanza non sono davvero le parole che vogliamo sentire in questo tempo. Vogliamo bandirle da ogni tempo! Esse sembrano prevalere quando in noi vincono la paura e la morte, cioè quando non lasciamo vincere il Signore Gesù nel nostro cuore e nella nostra vita. Egli, che ha già sconfitto la morte aprendoci la strada dell’eterna salvezza, disperda le tenebre della nostra povera umanità e ci introduca nel suo giorno glorioso che non conosce tramonto”.

 

Campane solidali e trombe governative

Uno degli effetti positivi dell’epidemia, che ci sta brutalmente quanto invisibilmente aggredendo, lo si può registrare sul piano etico: un ridimensionamento della nostra presuntuosa autosufficienza che ci porta alla umana solidarietà, alla condivisione, alla consapevolezza di essere tutti uguali e bisognosi di aiuto. Di fronte ai cataclismi naturali o volontari, l’uomo trova insperate risorse che lo spingono a fraternizzare nella sofferenza. Mi limito a registrare, senza soverchie illusioni, questa conseguenza positiva della nefasta esperienza del coronavirus: non si tratta di un ripiegamento all’indietro, ma della vera e forse unica luce, che si intravede alla fine del tunnel.

La politica, almeno quella in cui io credo da sempre, dovrebbe governare democraticamente la società partendo proprio dai valori e dai sentimenti positivi e costruttivi della gente. L’attuale vicenda purtroppo sta dimostrando la incapacità della classe politica ad interpretare la gente, sprecando l’occasione per rinsaldare i vincoli unitari e solidali della popolazione. Al di là delle enormi difficoltà, chi ci governa sembra molto preoccupato della difesa della propria immagine, di annunciare rimedi, di sparare dati più o meno attendibili. Alla, tutto sommato, disciplinata attesa dei governati alla ricerca di qualche chiara indicazione, risponde una scombinata, confusa e contraddittoria risposta dei governanti.

Prendiamo il continuo susseguirsi di stucchevoli conferenze stampa: non servono a rassicurare la gente, ma soltanto a creare alibi, più o meno attendibili, di fronte alle proprie responsabilità. Meno chiacchiere e più fatti concreti.

Guardiamo i provvedimenti di legge snocciolati: cosa sta arrivando e cosa arriverà al cittadino di tutto ciò non è dato ancora capire. A cifre da capogiro corrispondono, almeno per ora, miserevoli aiuti. Si abbia il coraggio di promettere quel che si può e di non gonfiare le concrete possibilità, creando deleterie e illusorie aspettative.

Esaminiamo le decisioni adottate in sede governativa centrale e quelle prese a livello regionale: una collaborazione scoordinata e continuativa frutto di scaricabarile e di corsa a ben figurare di fronte ai cittadini. Quando il governo decide di aprire i cordoni, le regioni li stringono, quando le regioni chiedono riaperture, il governo risponde con la reiterazione delle chiusure. Non si fa così! Si discuta, ci si scontri in riservata sede e poi si cerchi di parlare ad una sola voce. Non mi preoccupa la diversità delle idee, ma il modo scorretto di portarle avanti. Facciamo un esempio. Il governo decide di rimediare ad una demenziale discriminazione fra esercenti attività di vendita al pubblico: tabaccherie sì, librerie no. Apriamo quindi le librerie, anche perché acquistare e leggere libri in questo momento non può che fare particolarmente bene. Nossignori, in Piemonte e Lombardia le librerie non riapriranno, perché i dati del contagio non lo consentono: come se il virus si annidasse fra le pagine dei libri…

Pensiamo alla problematica combinazione fra scienza e politica: bisogna tenere conto delle indicazioni degli esperti, i quali tuttavia farebbero bene a parlare meno ed a trovare maggiore unitarietà nelle analisi e nelle indicazioni. Attenzione però a non creare governi paralleli, che potrebbero finire col deresponsabilizzare l’unico governo che deve esistere e col creare attese esagerate e miracolistiche verso la scienza al momento, peraltro, piuttosto brancolante nel buio.

Vogliamo infine parlare di trasparenza? Non sarà certo la superficiale ed insistente sbornia mediatica a garantircela. Meno interviste, meno salotti, meno futilità! E chi ci governa non strizzi l’occhio alle varie casse di risonanza in competizione fra di loro. Nella gente aumenta la stanchezza anche per l’autentico logorio della (dis)informazione.

Veniamo da ultimo ai rapporti con l’Europa: non è possibile che il presidente del Consiglio dia l’impressione di seguire una linea dura, mentre il ministro dell’Economia segue una linea morbida. La tattica del poliziotto buono e cattivo non dà risultati seri quando l’indagato è forte e si sa difendere molto bene. E il nostro commissario Ue la smetta di fare il panegirico di un brodo lungo e insipido. Per non parlare dell’opposizione, che spara a vanvera alla ricerca di qualche cadavere da mettere in cassaforte.

Sono stato poco complimentoso? Pur riconoscendo le difficoltà oggettive e la buona fede soggettiva, ho espresso soltanto grossi dubbi e perplessità. Credo che gli Italiani, i quali, tutto sommato, stanno facendo la loro parte, almeno in questa fase, meritino governanti più seri, autorevoli e credibili, che rispondano presente alla domanda di solidarietà e condivisione proveniente dal basso.

 

Il mes non è finito, andate in pace

Come volevasi dimostrare: la montagna europea ha partorito il topone, il compromessone. In politica la ricerca del compromesso è scontata, ma occorre vedere come e perché ci si arriva. Prendo l’esempio della Costituzione Italiana. Forse non è un compromesso? Certamente sì, ma ai livelli più alti, vale a dire partendo dai valori presenti nelle culture di ispirazione cattolica, socialista e liberale. Non è facile mediare in tal senso, ma se si prescinde dai valori, cosa rimane su cui cercare un accordo politico? Gli interessi di bottega: anche se la bottega è grande e prestigiosa, sempre bottega rimane e gli affari che ne escono sono o carta straccia o carta vetrata, roba che dura poco, irrita, fa baccano, ma non costruisce.

In Europa, dove le istituzioni comunitarie non contano e sono spesso ridotte a parodia democratica, gli Stati membri cercano un accordo, non lo trovano, entrano nella bottega dell’Eurogruppo e contrattano su tutto anche sul disastro del coronavirus. C’è chi vince e chi perde? Alla fine perdono tutti, perde soprattutto la Comunità europea. Nel comunicato finale l’Eurogruppo riconosce la necessità di una «strategia coordinata e globale» per far fronte alla pandemia di Covid 19, che costituisce «una sfida senza precedenti con conseguenze socio-economiche molto gravi» e si impegna a fare «tutto il necessario per affrontare questa sfida in uno spirito di solidarietà». Sembra un libro dei sogni: la verità è che il piano approvato, peraltro ancore in attesa del via libera del Consiglio europeo, è solo un primo passo, non ancora sufficiente, per sostenere le economie dei Paesi più colpiti dal virus come Spagna e Italia, che sono anche quelli con minore spazio di manovra fiscale.

Faccio riferimento ai resoconti giornalistici più autorevoli ed attendibili. Il compromesso raggiunto dall’Eurogruppo, che aveva ricevuto il mandato a trovare un accordo con le proposte economiche per rispondere all’emergenza coronavirus dopo il nulla di fatto del Consiglio europeo tra i capi di Stato e di governo del 26 marzo, è composto da 23 punti. L’Europa rende disponibili circa mille miliardi di euro di risorse: 500 miliardi subito, altri 500 miliardi in un futuro prossimo attraverso il lancio di un fondo per la ripresa o Recovery plan con «strumenti finanziari innovativi» non meglio specificati.

L’intesa non ha vincitori e vinti, ma come tutti i compromessi assomiglia piuttosto a un pareggio, dove tutti i Paesi possono portare qualcosa a casa. Il ministro delle Finanze olandese Woepke Hoekstra tira acqua al suo mulino: «C’è una maggioranza contro gli eurobond e la condivisione del debito all’Eurogruppo. È stato fatto questo testo che è «deliberatamente vago» e riguarda gli strumenti finanziari innovativi. Ognuno ci può leggere quello che vuole, ma è importante non ingannare noi stessi: è impossibile leggerci qualcosa che si riferisca ad una condivisione del debito», così afferma con vomitevole cinismo l’olandese assai poco volante.

In pratica, i pilastri dell’accordo tra i ministri europei dell’area economica e finanziaria sono quattro: la Bei, la banca europea degli investimenti, prestatore e garante di fondi e liquidità per le aziende; il Sure, ovvero la nuova formula di cassa integrazione e assicurazione per i lavoratori che possono perdere il lavoro per la grave crisi economica; il Mes, per sfruttare i finanziamenti del fondo al fine di sostenere l’assistenza sanitaria diretta e indiretta così come i costi relativi alla cura e alla prevenzione dovuti alla crisi provocata dal Covid 19; infine, è stata accolta la proposta francese di creare un fondo finanziato da obbligazioni comuni per finanziare il rilancio dell’economia: si tratta del fondo per la ripresa economica.

Detta così sembrerebbe una cosa seria e storica:  aiuti per 1.000 miliardi di euro. Il commissario europeo agli affari economici Paolo Gentiloni ha sottolineato che si tratta di «un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese» e per evitare una divergenza tra le economie più colpite dal virus. E non ha tutti i torti.

Ma ci sono due equivoci di fondo: rimane un concetto limitato e limitante dell’uso del Mes, il cosiddetto “fondo salvastati”, confinato a sostegni per l’emergenza sanitaria, cioè aiuti di mera sussistenza; la ripresa economica rimane a mezz’aria senza una condivisione finanziaria e con strumenti tutti da inventare. Occorrerebbe una spinta eccezionale e ci si accontenta di una seppur robusta spintarella, bisognerebbe andare tutti in una stessa direzione, mentre invece ognuno va per i fatti suoi, senza rompere i rapporti, ma senza buttare il cuore oltre l’ostacolo.

Punto cruciale dell’accordo è l’uso del Meccanismo europeo di stabilità o fondo salva Stati. Per i Paesi del Nord, il Mes era lo strumento principale a cui attingere per far fronte alla crisi del coronavirus. L’Olanda avrebbe voluto legare le linee di credito a una forte condizionalità, cioè prestiti in cambio di riforme e rigidi controlli, come è avvenuto in passato per la Grecia. La Germania era più morbida e fin dalla vigilia, attraverso il suo ministro delle Finanze Olaf Scholz, aveva aperto alla non condizionalità delle linee di credito del Mes, escludendo quindi qualsiasi intervento della Troika, cioè la supervisione di Commissione Ue, Bce e Fmi, in caso di aiuti, ma con erogazioni limitate. In pratica, se non ho capito male, il fondo viene liberalizzato, ma fortemente contenuto fino a metterne in discussione la capacità effettiva di rispondere alle esigenze finanziarie dei Paesi più colpiti.

Vi è poi la vaghezza del Fondo per la ripresa economica, l’impegno cioè a lavorare «su un fondo di recupero per preparare e sostenere la ripresa, fornendo finanziamenti attraverso il bilancio dell’Ue a programmi progettati per rilanciare l’economia in linea con le priorità europee e garantire la solidarietà dell’Ue con gli Stati membri più colpiti. Tale fondo sarebbe temporaneo, mirato e commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi. Gli eurobond, fortemente voluti dall’Italia ma respinti da Olanda e Germania, non compaiono mai nel testo. Però non vengono esclusi del tutto. Indicando il lancio di strumenti innovativi, si lascia infatti la porta aperta alla possibilità di creare prodotti di debito europeo, garantiti quindi dall’Unione e non più da un singolo Paese. L’Eurogruppo scrive che i nuovi strumenti avranno una durata limitata nel tempo e saranno alimentati con misure «innovative». Non si dice però quali siano. Se ne parlerà nei prossimi mesi. Ma il tempo in questo momento è la variabile cruciale.

Purtroppo il bicchiere mezzo pieno in Italia sta dando adito a polemiche politiche piuttosto squallide, creando un clima di scontro, che sicuramente non farà bene al prosieguo delle trattative in sede europea. Senza la bottega europea non possiamo fare. Cerchiamo di entrarvi senza riserve mentali sovraniste presenti nei maggiorenti dell’opposizione e in certi esponenti pentastellati della maggioranza, ma con la dovuta convinzione valoriale, la necessaria credibilità esperienziale e l’auspicabile autorevolezza professionale e politica, pretendendo e meritando rispetto. Non siamo gli accattoni che scialacquano le elemosine, abbiamo i nostri gravi problemi (e chi non ne ha?). Saremo capaci di comportarci non da clienti insoddisfatti, ma da soci compartecipi? La posta è altissima, rendiamocene conto.

 

È sempre l’ora dei pavesini burocratici

Mi trovavo per impegni professionali nell’anticamera della Commissione Tributaria di secondo grado di Parma (la Corte d’Appello del fisco) e partecipavo al gossip di attesa, vertente sulle solite lamentele riguardanti la complessità degli adempimenti fiscali per il contribuente e la loro scarsissima chiarezza. Teneva banco un esperto professionista di Milano, il quale, ad un certo punto, stupì tutti con una rivelazione dal sapore scandalistico. In riferimento al contenuto delle risoluzioni del Ministero delle Finanze (le risposte che gli uffici centrali danno ai quesiti dei contribuenti singoli o associati) chiese ai presenti se conoscessero il perché di tanta ambiguità e di così poca chiarezza. Nessuno ebbe una risposta pronta e questo pretenzioso commercialista sputò la sua motivazione: «Dal momento che le risoluzioni vengono redatte da funzionari di alto livello, responsabili di quanto affermano, esisterebbe una norma ovviamente segreta, una sorta di patto corporativo in base al quale verrebbero introdotti nel corpo delle risposte espressioni ambigue, parole contraddittorie, incisi fuorvianti in modo da rendere interpretabile in modi diversi il testo e da evitare quindi spiacevoli responsabilità ai funzionari stessi. Questi quindi solleverebbero comunque un po’ di polvere per coprirsi le spalle da errori o da leggerezze interpretative».  Tutti i presenti rimasero di stucco. Anch’io non reagii, la discussione cadde, ma il dubbio rimase ed ogni volta che leggevo una risoluzione ministeriale poco chiara mi ricordavo di quell’illustre signore: l’aveva sparata grossa, ma forse non era andato lontano dalla verità.

Sarà così anche nell’applicazione delle disposizioni di legge anticoronavirus e per agevolare i soggetti danneggiati da questa terribile e lunga emergenza? Se il buon (brutto) giorno si vede dal mattino, abbiamo cominciato sfornando in pochi giorni ben quattro versioni dei moduli con cui il cittadino deve giustificare le sue eventuali uscite in deroga al lockdown. Poi il sito internet dell’Inps è andato in tilt nel recepire le numerose domande di accesso al poco più che simbolico aiuto di seicento euro per i lavoratori autonomi in difficoltà: alla faccia della informatizzazione dei servizi pubblici. Tutta colpa di quei maledetti computer che ci rovinano la vita?

Dovevo registrare un importante e consistente atto di una cooperativa ed era fortunatamente appena stato approvato un provvedimento di legge agevolativo, che prevedeva la registrazione di un simile atto a tassa fissa anziché proporzionale. Diedi l’incarico al collega che si occupava dei rapporti burocratici con gli uffici fiscali, dopo averlo opportunamente indottrinato sulla novità di legge introdotta. Dopo un’ora ritornò deluso e imbarazzato: l’addetto all’operazione non aveva accettato di registrare l’atto a tassa fissa misconoscendo la norma agevolativa. Andai allora di persona, assieme al direttore della cooperativa interessata, all’ufficio competente per verificare il caso e ottenni un reiterato quanto ingiustificato diniego: l’impiegato non conosceva il testo della norma; glielo feci leggere, ma affermò di darne una interpretazione restrittiva che escludeva il caso in questione. Abbandonai il reparto, ma non mollai l’osso, anche se il responsabile della cooperativa fremeva per l’eventuale perdita di tempo che rischiava di essere più dannosa del pagamento non dovuto di una somma, peraltro notevole, richiesta in sede di registrazione. Mi recai dal direttore dell’ufficio, che gentilmente e tempestivamente mi ricevette (era già un primo piccolo passo avanti). Spiegai l’oggetto del contendere, consegnai il testo della norma di legge: lo lesse e rilesse per alcuni minuti e me lo restituì dichiarando onestamente che avevo ragione nella mia richiesta di trattamento agevolato. A quel punto fiutando quanto avrebbe potuto succedere chiesi la cortesia al direttore di chiamare al citofono il suo sottoposto per fornirgli l’indicazione necessaria. Niente da fare: l’addetto alla registrazione non si voleva convincere e allora…il direttore fu costretto a scendere al piano per parlargli direttamente e, solo dopo aver impartito un ordine ufficiale con tanto di assunzione di responsabilità, riuscì a sbloccare la situazione. La mia testardaggine ebbe la meglio sulla presuntuosa ignoranza di un burocrate di bassa lega.

Mi auguro vivamente che non si debbano fare trafile simili per ottenere i prestiti agevolati varati con apposito decreto dal governo per le imprese in chiare e gravi difficoltà finanziarie. Sarebbe una beffa dopo il danno. Non ci giurerei comunque sui tempi brevi dell’erogazione, nel groviglio di rimpalli tra banche ed Ente di Stato fornitore delle consistenti garanzie.  Non voglio fare il menagramo, ma l’esperienza purtroppo mi insegna.

Ricordo, durante un convegno in cui tenni una relazione in materia fiscale, di avere inventato di sana pianta il “ministero del buon senso” e di avervi fatto riferimento nelle risposte ai quesiti che mi venivano posti: operazione rischiosa, ma altrettanto proficua in mezzo ad uno strabiliante ginepraio di norme, interpretazioni e sentenze. Al convegno precedente un giovane ed alto funzionario ministeriale, interpellato su una norma piuttosto controversa, non aveva azzardato una risposta e fin qui la cosa poteva essere spiegabile: fu la motivazione ad irritarmi al limite dell’aperta e pubblica contestazione. Sostenne che prima di rispondere, avrebbe dovuto avere il tempo per valutare l’impatto economico della sua risposta: della serie, il ministero non applica le leggi secondo i dettami del legislatore, ma a seconda della convenienza per le casse erariali. Se il ministro fosse stato presente, avrebbe fatto una colossale ramanzina al suo “fervoroso” funzionario per essere andato ben oltre i limiti del suo stato giuridico oltre che del buon senso di cui, durante la mia vita professionale, non finii mai di chiedere l’applicazione.

Speriamo che l’emergenza coronavirus abbia smorzato i bollenti spiriti della burocrazia e consigliato atteggiamenti di buon senso in linea con le necessità del momento: certe mentalità temo che non cadranno nemmeno sotto i colpi del terribile virus. Virus per virus, chi la spunterà? Dando una sbrigativa occhiata ai rinvii disposti per i versamenti e gli adempimenti fiscali e contributivi, mi sono immediatamente incavolato: non ci si capisce niente in mezzo a rinvii diversificati per imposta e per territorio. Alla fine, se un soggetto vuole stare nel sicuro deve ricorrere al consulente (categoria di persone che non invidio) e allora paradossalmente forse converrebbe osservare le scadenze normali per risparmiare sui costi della consulenza, che rischiano di mangiarsi i vantaggi delle dilazioni di pagamento.

Molto tempo fa il ministro della riforma burocratica Massimo Severo Giannini, dopo qualche tentativo andato a vuoto, vista la difficoltà al limite dell’impossibilità di cambiare le cose, diede le dimissioni preannunciando di voler emigrare negli Usa. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo rimproverò aspramente. Avevano ragione entrambi?! Il primo si arrendeva di fronte alla forza degli apparati, il secondo strigliava la politica incapace di superare gli apparati.

Forse non è il caso di emigrare, perché alla nostra demenziale burocrazia gli Usa rispondono con la loro demenziale politica: se in Italia le leggi vengono sostanzialmente disattese dalla lenta e parassitaria macchina burocratica, in America la macchina burocratica applica con sollecitudine leggi sbagliate e contraddittorie. Ognuno ha le sue gatte da pelare. Nel nostro Paese, tutto quanto fatto da una pur debole, confusionaria e discutibile classe politica e di governo a tutti i livelli (anche le poche cose buone e tempestive) rischia comunque di infrangersi contro gli scogli burocratici. Anche la riforma regionale ha finito con l’aggiungere ulteriori catafalchi burocratici (la colorita ed eloquente espressione non è mia e non ricordo da chi venga) alla già pesantissima jungla degli uffici pubblici. Se arriviamo ai comuni le cose peggiorano ulteriormente, perché non conta la vicinanza con il cittadino, ma la professionalità, l’esperienza, la competenza che diminuiscono nettamente andando dal centro verso la periferia. Forse è tutta questione di buon senso. A tal proposito mi viene spontaneo ricordare don Dagnino, un prete che sapeva essere ad un tempo rigoroso e aperto, radicale e dialogante, laico e sacerdote, il quale diede un incoraggiamento sui generis ad un’amica a cui era nato un figlio con un’imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär», sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta.

 

 

 

 

 

Al portafogli non si comanda

Quando è iniziato il periodo emergenziale con tutte le intravedibili conseguenze del caso, mi sono detto: forse è la volta buona per ricominciare a collaborare a livello di partner europei, dopo aver superato annose e incallite diffidenze reciproche. Voglio vedere, pensavo, chi si sfilerà da un patto comunitario per superare le enormi difficoltà che nessuno a casa propria riuscirà ad affrontare autonomamente.

Non sta andando così. Uno straccio di accordo finanziario lo troveranno dopo gli indecenti tira e molla, ma la solidarietà che doveva scattare non è scattata. Ogni Paese europeo ha ottenuto grossi vantaggi nel passato recente e remoto: tutto dimenticato. Vale più che mai, anche in questo caso, la sindrome del beneficiato, che porta a dimenticare e rimuovere dalla propria coscienza i benefici ricevuti. Mia madre mi ha dato un prezioso insegnamento al riguardo: quando ricevi anche il più piccolo aiuto, te ne devi ricordare per tutta la vita per contraccambiarlo nel momento giusto.

Messo da parte lo spirito di collaborazione, si ricade in una logica meramente mercanteggiante in cui trova posto soltanto quel che torna egoisticamente e immediatamente utile. La cosa grave è che la difficoltà a quadrare il cerchio degli aiuti reciproci non dipende forse tanto dalle sfiducie interconnesse (i Paesi del Nord virtuosi e rigorosi, quelle del sud spendaccioni e inaffidabili), ma dai calcoli di pura convenienza a cui non si riesce neanche minimamente a rinunciare.

Scrive Enrico Grazzini su MicroMega: “In Europa, e nell’Eurozona in particolare, si litiga sugli eurobond, le obbligazioni comuni europee che verrebbero garantite con i soldi della Banca centrale europea: la cosa buffa (apparentemente) è però che i soldi non costano nulla alla Bce. La moneta è fatta al 95% di bit che costano zero, e al 5% di carta che costa quasi nulla. Stampare moneta è gratis ma la moneta ha un formidabile potere magico: può fare ripartire l’economia, l’occupazione e i redditi. La Bce potrebbe stampare tutta la moneta necessaria per rilanciare l’economia europea che si avvia verso una recessione a precipizio. Invece è frenata e congelata dalla Germania che ha tutto l’interesse all’austerità monetaria. Infatti, più i Paesi mediterranei cadono in recessione, più i capitali fuggono verso Deutschland. Così lo spread – il differenziale del costo del debito con la Germania – sale per i Paesi più fragili. In questo modo l’economia tedesca può avvantaggiarsi dalla speculazione finanziaria e indebitarsi a tassi negativi o irrisori.
Prima della moneta unica, se i capitali fuggivano verso il marco questo si rivalutava, e la corrispondente svalutazione della lira faceva sì che l’Italia rimanesse a galla grazie all’aumento dell’export. Ora invece, con la moneta unica, la pressione di mercato sui titoli del debito pubblico fa sì che i Paesi periferici dell’euro – come l’Italia – rischiano di non potersi più finanziare e di fallire, o di dovere ricorrere alle “amorevoli cure” della Troika”
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Chiedo scusa per la lunga ma opportuna ed autorevole citazione. Tempo fa mi raccontavano di un personaggio assai ricco e molto avaro. Se qualcuno dei suoi debitori osava chiedergli di mettersi una mano al cuore, lui rispondeva all’interlocutore di mettere la mano al portafogli. Non voglio essere patetico, ma siamo più o meno a questo punto. Il coronavirus ha colpito duro l’Italia, sta colpendo duramente la Spagna e la Francia. Nessuno però è direttamente e/o indirettamente esente da questa tremenda situazione. Nei momenti gravi c’è sempre chi specula o almeno approfitta delle disgrazie altrui. Se, sul piano finanziario, chi sta meglio riesce a sfruttare una sorta di rendita di posizione, sul piano economico e commerciale il discorso è alquanto diverso. Se i deboli si indeboliranno ulteriormente, andranno fuori mercato, non consumeranno e non offriranno opportunità produttive ai ricchi: andrà in crisi l’intero sistema e anche i ricchi piangeranno.

Questo discorso è stato ben sintetizzato e provocatoriamente lanciato alla virtuosa Olanda: chi acquisterà in prospettiva i suoi tulipani? Se li mangeranno in casa? Li butteranno in mare? Mio padre, arrivando in modo colorito al dunque della solidarietà, lanciava la sua regola d’oro e sosteneva: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”.

Qualcuno pensa che la durezza dei Paesi nordeuropei sia dovuta a motivazioni politiche interne: la forte presa dei nazionalisti e sovranisti, che lucrerebbero consensi e voti reazionari rispetto ad un’apertura di credito europea verso il sud. Calcoli miopi, quasi vomitevoli. A proposito, come la mette Salvini con questi finti alleati, che gli si ritorcono contro nel momento del bisogno? Forse pensa al tanto peggio tanto meglio per dare la picconata definitiva all’Europa? Qualcuno farnetica minacciando che il nostro Paese possa fare da solo: si sbaglia di grosso. Chi fa da sé, fa per tre, dice un noto proverbio. Preferisco quello che dice: l’unione fa la forza. Questione di gusti…

 

La piccante similitudine delle quindicine

Ho titolato il commento di ieri usando (im)propriamente il termine “casino” riferito alla situazione che costituisce il contesto in cui si inseriscono le restrizioni adottate per il comportamento dei cittadini in chiave anti-coronavirus. Ebbene, nei bordelli italiani ogni 15 giorni “ruotavano” le ragazze (per offrire ai clienti una certa varietà, ma anche per evitare complicazioni sentimentali). E quando arrivava la “nuova quindicina” trovava il modo di farsi vedere in giro per eccitare la fantasia dei maschi del paese…

Proseguo quindi la piccante similitudine (che non vuole essere offensiva, ma soltanto incisiva) alla luce delle novità legislative sfornate dal governo a sostegno delle imprese bastonate dall’emergenza e in piena crisi produttiva, commerciale e fiscale: sembra che siano stati adottati provvedimenti di una certa consistenza a livello di ricorso e sostegno al credito. Bene, speriamo sia terminata la quindicina delle “ragazze” inconcludenti ed iniziata quella delle “ragazze” che eccitano la fantasia delle imprese. La strada è quella della concretezza con iniezioni di fondi e fiducia.

Non mi iscrivo mai al partito dei disfattisti o dei brontoloni, ma il diritto di critica me lo conservo gelosamente e lo esercito generosamente: bisogna smetterla di fare confusione e agire con tempestività e precisione. Adesso si aprirà la partita dei tempi entro cui persone e aziende riusciranno a concretizzare gli aiuti previsti e stanziati. Speriamo che la burocrazia non entri in campo con le solite lungaggini, costruendo intorno agli aiuti il solito ginepraio di cervellotiche e incomprensibili regole applicative, perché il tempo, più che mai, è denaro. Non cominciamo, per pietà, a sfornare moduli a raffica, a tempestare la gente con inutili procedure: danaro fresco prima che sia troppo tardi.

Si parla tanto di fasi: da quanto ho capito, quella dell’emergenza difensiva, quella della convivenza costruttiva, quella della normalizzazione progressiva. Mi sembra inopportuno schematizzare per non creare aspettative azzardate se non colpevoli illusioni. La scienza e la medicina dovranno fare il loro percorso a supporto della battaglia. Speriamo non subentrino paralizzanti competizioni, assurde gelosie, affaristiche manovre. Aspettiamo con fiducia il corso virtuoso della ricerca, della sperimentazione e della auspicabile vaccinazione.

Nella mentalità corrente mi sembra si scontrino due atteggiamenti, magari aggrovigliati o sovrapposti: da una parte la comprensibile voglia di tornare in fretta ad un simulacro di normalità, che renda vivibile l’esistenza alquanto sconquassata, con tutti i rischi di una frettolosa ed irresponsabile fuga dall’emergenza; dall’altra parte la consapevolezza che purtroppo (?) la situazione non sarà più la stessa: anche un eventuale vaccino non potrà passare un colpo di spugna sull’esperienza e sulla sofferenza drammaticamente vissute.

Mentre le prime due fasi di cui sopra si misureranno in termini di quindicine di mesi, l’ultima la vivremo, se andrà bene, in quindici anni o più. Non so cosa cambierà, ma prepariamoci a rivedere schemi di ragionamento, sistemi di organizzazione sociale, regimi di mercato, assetti produttivi, rapporti internazionali, etc. etc. Potrebbe essere una epocale opportunità se vissuta in modo positivo, una ulteriore causa di insofferenza e difficoltà se subita in modo negativo. Prepariamoci tutti, perché il bello (almeno speriamo sia così) deve ancora venire: sarà un mondo più giusto ed equo o avremo una società sfilacciata e sbracata? Per tornare alla similitudine iniziale, si aprirà una nuova quindicina, probabilmente di anni. Lasciamo perdere con quali e quanti ruoli e protagonismi. Chi vivrà, vedrà e soprattutto agirà. Dovremo far funzionare la fantasia possibilmente eccitata da una classe di governo caratterizzata, come sostiene Walter Veltroni, dalla competenza: sì, probabilmente alla fame di valori si dovrà rispondere anche con il cibo e il fascino della conoscenza e della capacità realizzativa.

Un casino chiamato lockdown

Vedo grosse difficoltà nelle difficoltà: mi preoccupa lo stato confusionale in cui vivono i cittadini, che si aggiunge allo stato d‘ansia, al limite e spesso oltre il limite dell’angoscia. La gente è presa in mezzo tra la rissosa e parolaia inconcludenza dei governanti a tutti i livelli, il chiacchiericcio morboso dei media e l’altezzoso e contrastato sputasentenze degli esperti.

Il ministero degli Interni dice che si possono, entro certi limiti, portare a spasso i bambini, indicazione subito smentita dal governo e successivamente corretta dal ministero stesso; il presidente della regione Lombardia emette un provvedimento per l’uso obbligatorio di mascherine a carico di quanti escono di casa, disposizione accolta con molto scetticismo e con un garibaldino “obbedisco” da parte del sindaco di Milano; tutti i giorni cambia la distanza di sicurezza da cui tessere rapporti  con le persone: un metro, due metri e chi più ne ha più ne metta; l’Organizzazione mondiale della sanità lascia intendere ciò che in molti (compreso il sottoscritto) temono, vale a dire che la presenza del virus resista nell’aria e che quindi occorra fare attenzione a dove si passa, perché qualcuno in quel punto potrebbe avere sternutito per poi dileguarsi più rapidamente del virus (non ho capito se fosse una fake news cucinata molto bene o una chicca scientificamente buttata nell’agone): sciocchezze comunque per l’Istituto superiore di sanità; il responsabile della protezione civile azzarda un pronostico sulla durata del cosiddetto lockdown, subito tacitato e costretto a fare marcia indietro (ha pisciato fuori dal vaso e ha dovuto pulire immediatamente il pisciatoio). Si tratta solo di alcuni esempi in una serie di tira e molla: una contraddizione al giorno leva la calma di torno. Ma chi li obbliga a parlare se non hanno niente da dire?

In qualsiasi canale televisivo e in qualsiasi momento ci si sintonizzi si parla di coronavirus alla spasmodica ricerca di audience in un tourbillon di voci e di pareri. Sul coronavirus si fa salotto e la tentazione di parteciparvi è grande. Sempre le stesse cose ripetute in modo diverso e condite con l’aggiunta di opinioni speziate, di pareri pepati e di consigli salati. Il palato dello spettatore è sicuramente rovinato.

Se passiamo agli esperti, quelli che le fanno cadere dall’alto, il clima si fa ancor più pesante e minaccioso: ognuno fornisce una versione diversa, con ottimismo o pessimismo a seconda dei casi, ma senza realismo, perché purtroppo nessuno conosce davvero questa tremenda realtà, nelle cause, negli effetti, nei rimedi e nelle soluzioni.

In mezzo a questo traffico impazzito si pretende che il cittadino stia buono e fermo, imperterrito di fronte a chi lo governa, che dà dimostrazione di non avere assolutamente in mano la situazione, davanti alle vetrine mediatiche piene di prodotti adulterati e sofisticati, in religioso ascolto dei sacerdoti del sapere, che balbettano le loro improvvisate analisi.

Come ho già scritto, la tentazione di sentirsi presi per i fondelli e di mandare tutti a quel paese, o se preferite di “buttare il prete nella merda”, è forte e crescente. Ma ci potrebbero essere rischi ben maggiori: di passare cioè da una trasgressione personale a una sorta di rivolta sociale del “tutti contro tutti”, istigata da professionisti della violenza e/o da burattinai di stampo mafioso. Qualcuno sta dicendo che questi ultimi siano già all’opera con distribuzione gratuita di beni di prima necessità, pagati con un certo qual contraccambio di tolleranza o connivenza con i fenomeni mafiosi. È inutile nasconderselo, in Italia c’è la mafia, che va a nozze laddove le pubbliche istituzioni dimostrano la loro debolezza, pronta a coprire i vuoti di Stato con i pieni di delinquenza.

Il governo centrale e le regioni avevano dato l’impressione di partire col piede giusto, ora sembrano in stato confusionale in difesa della loro immagine: sembrano quelle donne, più o meno belle, che reagiscono ai gravi problemi nei rapporti coi loro uomini, truccandosi in modo vistoso e provocante per accalappiare i recalcitranti compagni di avventure in ben altre faccende affaccendati. Fate tutto il possibile, fatelo bene, fatelo in fretta, prima che alla polmonite virale si aggiunga quella sociale in attesa di quella economica. Nessuno pretende miracoli, ma invece della difesa oltranzistica della propria (in)azione, della propria (in)competenza, della propria (in)coscienza, bisognerebbe provare, nei limiti del possibile, a difendere i cittadini dal coronavirus.

I tamponi in difesa dell’europeismo

Tra le forze politiche rappresentate nel parlamento europeo ho da sempre pensato che la più affidabilmente e veramente europeista sia il partito dei Verdi. Li ho anche votati in un paio di elezioni europee. In Italia purtroppo lo spessore culturale e politico di questo movimento si affievolisce. La dimostrazione sta anche nell’iniziativa lanciata da tre esponenti verdi, Sven Giegold, Alexandra Geese e Franziska Brantner: un appello italo-tedesco rivolto alla cancelliera tedesca Angela Merkel e alla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen per spingere sull’emissione dei coronabond. La proposta parte appunto dai tre eurodeputati Verdi tedeschi ed è stata sottoscritta anche da molti eurodeputati, politici e intellettuali italiani come Enrico Letta, Mario Monti, Tito Boeri, Fabrizio Barca, Emma Bonino, Leoluca Orlano, Carlo Feltrinelli, Angelo Bonelli, Gad Lerner, Giulia Maria Crespi e altri. Io, quale signor nessuno, lo firmerei convintamente.

“L’avvento della pandemia del Corona virus è una prova che nessuno di noi in Europa si è mai prima d’ora trovato a dover fronteggiare”, si legge nel testo dell’appello. “L’Italia è stato il primo Paese europeo a essere colpito profondamente da questa pandemia e ha pagato un prezzo elevatissimo, sacrificando un gran numero di vite umane” è la premessa. “Abbiamo bisogno ora di una maggiore solidarietà europea. È un momento cruciale per la cooperazione in Europa. Dobbiamo dimostrare ora di essere una comunità di valori in cui ci si aiuta vicendevolmente e con un destino comune nel quadro di in un mondo globale turbolento. È il momento di compiere con coraggio passi comuni per superare la paura. È il momento dell’unità europea e non della divisione nazionale. Chiediamo quindi ai nostri governi di superare i vecchi schemi di divisione in Europa e nell’Eurozona”.

Quindi la richiesta di dare subito il via ai coronabond: “Auspichiamo quindi l’emissione di European Health Bonds (Titoli Obbligazionari Europei a supporto della Sanità), che abbiano un obbiettivo comune, chiaro, definito e soggiacente a linee guida stipulate congiuntamente. Ciò permetterebbe di sostenerne l’intero onere congiuntamente e democraticamente”.

Due brevi riflessioni di seguito a ruota ultra-libera, a mente libera e a cuore aperto. Perché mi interessano i Verdi? Perché in essi vedo uno stimolo, un pungolo, una possibilità di coniugare i valori storici della democrazia con i problemi storici del presente e del futuro: le libertà, la giustizia sociale, il lavoro, assieme al rispetto per l’ambiente, alla salvaguardia del territorio, allo sviluppo sostenibile, a cui aggiungo l’europeismo quale stanza di compensazione ideale di tutte queste spinte virtuose per l’uomo e per la società.

Ed eccoci infatti all’Europa: penso che il post-coronavirus sia l’ultimo treno per rilanciare un’idea di Europa solidale nello sviluppo. In questo momento storico non si può scherzare o giocare al rinvio: chi ci sta, ci sta! Forse è anche il momento di fare delle verifiche: il tampone va fatto anche ai politici per verificare se sono affetti dai virus del nazionalismo, del populismo e del sovranismo. Lunga e irreversibile quarantena per i contagiati. Il vaccino non può essere che l’Europa, capace di delineare un futuro accettabile per il mondo intero. Come diceva Nicolò Carosio: sarà dura!