I Portoghesi non sono in Portogallo

Il presidente americano Donald Trump ha indicato le iniezioni di disinfettante e l’esposizione ai raggi ultravioletti, come una possibile strategia per contrastare il Covid-19. ”Vedo che il disinfettante lo distrugge in un minuto. Un minuto. Non c’è un modo di fare qualcosa di simile, iniettandolo? Sarebbe interessante verificarlo”, ha detto Trump nel corso del briefing quotidiano sul Covid-19. Invitando gli americani a ”prendere il sole”, Trump ha quindi suggerito l’uso di raggi ultravioletti per contrastare il coronavirus, facendo riferimento a uno studio secondo il quale il Covid-19 sparirebbe più velocemente alla luce del sole e ad alte temperature. ”Non sono un dottore”, ha aggiunto il presente Usa, affermando che ”sono qui per illustrare delle idee”.

La macchina del consenso sembra funzionare così. Il populismo, dice Massimo Cacciari, sta prendendo il posto della liberal-democrazia in tutto il mondo. Anche in Europa ci sono esempi clamorosi come quello del premier ungherese Victor Orban. Per fortuna attualmente i populisti nei Paesi europei sono prevalentemente all’opposizione, ma anche da quella posizione possono fare gravissimi danni.

In Italia la destra sovranista che fa? Strepita. Così il duo Salvini-Meloni gioca all’attacco e tiene un atteggiamento bellicoso nei confronti del governo. Sulle trattative in corso in sede europea gufa e urla al fallimento. “Approvato il Mes, una drammatica ipoteca sul futuro dell’Italia e dei nostri figli”. Lo scrive Matteo Salvini su Fb. “Le promesse del governo di non usare il Mes? Gli impegni, gli attacchi, le promesse di Conte? Erano solo Fake news. Ladri. Ladri di Futuro, di Democrazia, di Libertà. Noi ci siamo e non ci arrendiamo, viva l’Italia libera e sovrana”.

Nel resto d’Europa c’è qualcosa di molto meglio, ad esempio la nota che il leader dell’opposizione in Portogallo ha inviato al presidente Costa nella quale si sottolinea come «la minaccia che dobbiamo combattere esige unità, solidarietà e senso di responsabilità. Per il governo in questo momento non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di collaborazione. Signor primo ministro Antonio Costa conti sul nostro aiuto».

Di fronte all’innegabile debolezza del governo Conte, da tempo si ipotizza di sostituirlo con una sorta di governo di unità nazionale formato da personaggi competenti e autorevoli, in grado di guidare il Paese nella rinascita post-coronavirus. Ci sarebbe pronto anche il candidato premier. Per una tale prospettiva mancano però i presupposti politici, cioè la capacità di mettere da parte gli interessi di parte e di guardare all’interesse comune. Forse quindi vale la pena rispettare almeno l’attuale compagine governativa. Mi ricordo il calzante aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. «Fischiate me? Sentirete il tenore!». Chi siano il tenore ed il baritono non saprei: ognuno è libero di adattare la scena a suo piacimento. Tra l’altro il pubblico non sta protestando clamorosamente contro il governo Conte: qualcuno sostiene che lo zoccolo del consenso sia duro in quanto è normale che in situazioni di gravissime difficoltà ci si stringa alle istituzioni indipendentemente da chi le occupa. Tra l’altro il tenore (Draghi) che verrebbe dopo il baritono (Conte) non sarebbe certo un solista da prendere sotto gamba. Il quadro politico però è quello che è: bisogna tenerne conto.

Sono rimasto francamente sconvolto da una notizia circolata, che ha dell’incredibile: se fosse vero avremmo veramente toccato il fondo della politica a livello internazionale. Donald Trump vorrebbe corrompere un’azienda tedesca che sta sviluppando il vaccino per il coronavirus offrendo “fino a un miliardo di euro” per comprare la cura “solo per gli Stati Uniti”. Secondo il quotidiano tedesco Die Welt il presidente americano ha contattato l’azienda farmaceutica di Tubinga che lavora al vaccino, la CureVac, per averlo in esclusiva. Ma la società ha smentito la notizia: “Non abbiamo ricevuto un’offerta”, ha detto un portavoce di CureVac, precisando che la questione della distribuzione di una potenziale cura contro il coronavirus è ancora totalmente aperta. “L’esclusività del vaccino non è in discussione”, ha aggiunto oggi una portavoce dell’economia tedesca in conferenza stampa a Berlino. Il governo tedesco, ha aggiunto la portavoce, ha grande interesse nel far restare il vaccino in Germania e in Europa. “Ci sono diversi strumenti” per evitare che ci sia un’acquisizione che è contro gli interessi della sanità e della sicurezza pubblica, ha proseguito la portavoce.

Se il clima a livello mondiale fosse veramente questo, se in Europa si continuasse a fare tanta fatica a trovare il bandolo della matassa della solidarietà, se in Italia l’opposizione proseguisse nelle sue sovraniste e populiste gufate dando del ladro di futuro, democrazia e libertà al presidente del Consiglio, ci sarebbe veramente o da chiudersi in un lock down perpetuo oppure da uscire di casa buttando, come si suol dire, “il prete nella merda”. Speriamo non sia proprio così, anche se il quadro non è troppo incoraggiante. Speriamo in Joe Biden, in Angela Merkel, in Sergio Mattarella. Alla più buca si potrebbe emigrare in Portogallo. Ci accoglieranno?

 

Ora e sempre RESISTENZA

Don Giovanni Barbareschi, sacerdote impegnato nella Resistenza, protagonista del movimento scoutistico delle “Aquile Randagie”, sosteneva: “Non ci sono liberatori. Ci sono uomini che si liberano e diventano liberi”. Questo stupendo motto, scritto peraltro nelle pagine del giornale clandestino “Il ribelle”, che circolava a costo della vita dei promotori nonostante i divieti di regime e comunicava idee e discorsi di libertà in pieno clima fascista, ci invita a celebrare con grande impegno la festa della Liberazione.

Mio padre mi ha insegnato che l’antifascismo nasceva dalla ribellione delle coscienze degli uomini liberi, era un atteggiamento culturale prima che politico. Egli era figlio dell’Oltretorrente, ne conosceva tutti gli abitanti, contava moltissimi amici nel quartiere, ne aveva frequentato le osterie (dove si osava parlar male del fascismo e di Mussolini), le barberie (luogo allora di ritrovo e del gossip più antico e leale), aveva cantato e discusso di musica nei covi popolari e verdiani, aveva respirato a pieni polmoni un’aria sana e democratica e quindi non poteva farsi intossicare dal fascismo.

Dopo mio padre ecco mio zio Ennio: un sacerdote di fulgida vocazione senza alcun tratto di clericalismo, un uomo profondamente legato alla storia della sua famiglia senza esserne condizionato, un prete dei giovani senza fondo tinta giovanilista, un democratico senza tentazione di protagonismo, un antifascista generoso senza faziosità, un partigiano convinto senza partigianeria, un uomo di Chiesa con una mentalità laica, un cristiano capace di portare la croce della sofferenza amando la vita senza indulgere al dolorismo.

Amo collocare l’antifascismo e l’anelito alla libertà entro queste inossidabili coordinate famigliari anche per evitare il rischio di perderne tutta la freschezza e l’attualità in un momento storico molto particolare, che potrebbe anche indurci a sottovalutarne la portata considerandolo un fatto anacronistico in tempo di coronavirus. Al contrario, quando si vivono gravissime difficoltà, bisogna rifarsi alle risorse provenienti dalla cultura e dalla storia, collaudate a prova di bomba e quindi anche di coronavirus.

Dobbiamo sforzarci di trasferire i valori resistenziali e costituzionali nel contesto socio-politico attuale, idealità che forse, anzi certamente, abbiamo tradito strada facendo fino a sfornare un mondo ingiusto, discriminatorio, egoistico e persino razzistico. Occorrerebbe ripartire dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza per capire lo scempio che abbiamo perpetrato. Se il coronavirus mette impietosamente a nudo tutti i difetti del nostro sistema di vita senza darci una via d’uscita, il grido dei martiri della Resistenza ci rimprovera ma ci offre l’alternativa negli ideali di giustizia, uguaglianza, solidarietà e progresso civile.

Raccogliamo questa sfida e proviamo a ricominciare daccapo: lo stare chiusi in casa diventi la prigione in cui maturarono i sogni resistenziali. Poi verrà di nuovo il tempo della battaglia secondo tempi e modalità tutte da scoprire. Non illudiamoci che ci venga a liberare un vaccino. “Non ci sono liberatori. Ci sono uomini che si liberano e diventano liberi”.

 

 

È utile piangere sui virus versati

Nei prossimi mesi il mondo rischia “una serie di carestie di proporzioni bibliche” a causa dell’emergenza Coronavirus, con poco tempo a disposizione per intervenire prima che “milioni di persone muoiano di fame”. L’allarme è stato lanciato da David Beasley, capo del World Food Programme (WFP), secondo cui “è necessaria un’azione urgente per evitare una catastrofe”. “Devo avvertirvi – ha detto davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu – se non ci prepariamo e non agiamo ora per garantire l’accesso, evitare carenza di finanziamenti e interruzioni degli scambi, potremmo trovarci ad affrontare più carestie di proporzioni bibliche nell’arco di pochi mesi”. Sono oltre 30 i Paesi a rischio fame, e in 10 di questi già oggi più di un milione di persone è a un passo della fame. “Non stiamo parlando di persone che vanno a letto affamate – ha precisato al Guardian – stiamo parlando di condizioni estreme, stato di emergenza, le persone stanno letteralmente andando incontro alla fame. Se non procuriamo cibo alle persone, le persone moriranno. Questa è più di una semplice pandemia: sta creando una pandemia di fame. Questa è una catastrofe umanitaria e alimentare”. Un rapporto del WFP stima che il numero di persone che soffrono la fame potrebbe passare da 135 milioni a oltre 250 milioni a causa della pandemia. I Paesi più a rischio sono quelli colpiti da conflitti, crisi economiche e cambiamenti climatici: in particolare, Yemen, Repubblica democratica del Congo, Afghanistan, Venezuela, Etiopia, Sudan del Sud, Sudan, Siria, Nigeria e Haiti. Ma “se riceviamo il denaro e teniamo aperte le catene di approvvigionamento, possiamo evitare la carestia – ha rimarcato Beasley – possiamo fermare tutto questo se agiamo ora”.

Noi siamo tutti presi, e giustamente, dalle nostre mascherine, ma se alziamo lo sguardo, troviamo una catastrofe mondiale che ci aspetta dietro l’angolo. Si prepara uno scenario apocalittico, che fa pensare alla fine del mondo. Sono lontano da queste visioni catastrofiste e non credo nelle punizioni di un Dio vendicativo e tremendo, ma ricordo che Gesù alla fine di una sua risposta sull’origine delle disgrazie, dopo averle sganciate dalla logica punitiva conseguente al peccato degli uomini, aggiunge una frase sibillina: “Però, se non vi convertite, perirete tutti”. Non sarà la fine del mondo, ma sicuramente è la fine di un mondo profondamento sbagliato, che abbiamo costruito e che sta scoppiando. Sono talmente tante le cose che non vanno da non riuscire a individuare i punti di attacco per i necessari e  profondi cambiamenti.  Non c’è però tempo da perdere in discussioni accademiche e in dibattiti politici. Ci aspettano sacrifici enormi da tutti i punti di vista. Prima che arrivi un eventuale vaccino e che possa essere distribuito e applicato alle persone passeranno mesi e poi, di vaccini, ne occorrerebbero altri, contro la miseria, la fame, le denutrizioni, le ingiustizie, le guerre, i disastri climatici e ambientali. Questa seconda categoria di vaccini dipende da tutti noi e non dai laboratori di ricerca.

Dallo Spallanzani di Roma arriva uno studio sulla trasmissione del Covid-19. I ricercatori hanno isolato il virus nelle lacrime di una paziente, arrivando alla conclusione che è attivo anche nelle “secrezioni oculari” e “potenzialmente infettivo nelle lacrime anche quando i campioni respiratori della paziente, a tre settimane dal ricovero, risultavano ormai negativi”. In pratica il virus è in grado di replicarsi anche nelle congiuntive, non solo nell’apparato respiratorio: “Si tratta di una scoperta che ha importanti implicazioni anche sul piano della salute pubblica, tant’è che il risultato è stato comunicato all’Oms”. Ma soprattutto lo studio dello Spallanzani dimostra che gli occhi sono una delle porte di ingresso del virus nell’organismo, ma soprattutto una potenziale fonte di contagio. Per questo motivo gli esperti consigliano fortemente un uso appropriato di dispositivi di protezione in situazioni potenzialmente pericolose. Non è invece ancora chiaro fino a quando il virus continui ad essere attivo e potenzialmente infettivo nelle lacrime: saranno necessari ulteriori studi.

Ho messo in amara correlazione il discorso carestia con quello della presenza del virus nelle lacrime, andando a prestito da notizie di agenzia e articoli pubblicati sui quotidiani.  Non so cosa possa significare il risultato della ricerca sulle lacrime: se oltre le mascherine dovremo portare anche gli occhiali protettivi, se d’ora in poi sarà vietato piangere, salvi i casi previsti con apposito Dpcm. Per il momento credo che le lacrime di fronte ai lutti e alle rovine che ci stanno piombando addosso siano inevitabili e forse anche utili, se ci puliranno lo sguardo sull’esistenza e sul futuro del mondo, che, volenti o nolenti, dipende da noi.

 

 

 

 

Le allegre comari della scienza

La polemica tra gli scienziati è purtroppo cosa abbastanza solita. In questi giorni è nata e divampata dalle dichiarazioni dello scienziato professore di virologia Giulio Tarro, fino al 2006 primario a Napoli: «In estate saremo immuni dal virus: il Coronavirus ci abbandonerà tra un mese, come tutti i corona influenzali». Il suo collega del San Raffaele di Milano Roberto Burioni ha risposto provocatoriamente: « Se Tarro è virologo da Nobel, io sono Miss Italia».  Il direttore emerito del reparto di Virologia dell’ospedale Cotugno di Napoli a sua volta ha controbattuto: «Su una cosa ha ragione: lui deve fare solo le passerelle come Miss Italia, ma senza aprire bocca”. Tarro all’epoca dell’epidemia di colera ne isolò per primo il vibrione e per questo fu due volte candidato al Nobel. Nella polemica è intervenuto anche il deputato Gianfranco Rotondi che ha twittato: “Io non spalleggio né Tarro né altri. Riporto una tesi che alimenta speranza, punto. Dopodiché ricordo che Tarro da primario del Cotugno piegò il colera del 73, questi fin qui hanno fatto solo interviste”. Poteva mancare un politico nella inutile diatriba?

Uno spettacolo indecente. Recentemente papa Francesco ha pregato espressamente per scienziati e ricercatori: mi sembra che ne abbiano effettivamente bisogno. Ha però anche analizzato puntualmente quali sono i punti critici della comunità cristiana e, aggiungo io, di ogni comunità, anche di quella scientifica: i soldi, la vanità e il chiacchiericcio. La querelle di cui sopra è certamente specchio fedele di contrasti dovuti al secondo e terzo dei punti critici evidenziati dal papa.

Il Qoèlet, libro biblico in cui l’autore si propone di rispondere all’interrogativo sul senso della vita, col suo melanconico ritornello «Vanità delle vanità, tutto è vanità», designa ciò che è inutile, che non ha valore nel tempo, che sfocia in una sensazione di insoddisfazione. Non è la sua sentenza sulla vita in generale, ma solo sull’errato atteggiamento dell’uomo che considera il mondo come fine a se stesso e fa dei piaceri lo scopo unico della sua vita. Vale purtroppo anche per chi è in alte faccende affaccendato e si presumerebbe potesse avere un approccio più serio e profondo all’esistenza.

Prima ancora che il coronavirus diventasse realtà, gli scienziati hanno cominciato a blaterare: chi lo assimilava ad una semplice influenza, chi lo riteneva un grave pericolo, chi, soprattutto con l’andare del tempo, oscillava tra una tesi e l’altra. E siamo ancora lì. Mio padre rimarrebbe spiazzato, lui che amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè”. Il mondo è cambiato e anche gli scienziati si comportano come divi e si lasciano coinvolgere volentieri nel circo mediatico. Se i giornalisti e i conduttori televisivi la smettessero di andarli a intervistare inducendoli in tentazione e se loro la smettessero di azzardare opinioni in libertà, saremmo tutti contenti e ci potremmo illudere che questi smettessero o almeno cercassero di chiacchierare meno per ottenere qualche risultato in più.

A fronte di scienziati e ricercatori che parlano a ruota libera voglio sperare ce ne siano parecchi che lavorano nell’ombra con grande serietà, discrezione e impegno. A loro va il mio plauso ed a loro sono affidate le mie speranze. Sì, perché dopo Dio, chi ci può veramente aiutare a saltar fuori da questo gigantesco ginepraio sono gli uomini di scienza, purché non puntino direttamente o indirettamente ai soldi, al prestigio e a duellare fra di loro. Per favore aiutateci e lasciate perdere ciò che non ha valore nel tempo.

L’ottimismo della irresponsabilità

Continua minacciosamente la litania delle cifre del coronavirus, che ci viene giornalmente propinata. Delle macabre quotazioni quella che maggiormente mi angoscia riguarda il numero dei decessi. I morti continuano, si sono attestati intorno ai 500 giornalieri: basterebbe questo dato per calmare i bollenti spiriti dei normalizzatori.

Gli esperti dicono che le persone che muoiono di coronavirus in media si sono ammalate nei quattordici giorni precedenti e quindi le morti attuali risalirebbero alla malattia contratta in pieno regime di lock down. Ragion per cui le restrizioni sembrano funzionare molto relativamente: per errori nell’individuazione delle cause del contagio o per insufficienza delle misure di isolamento sociale adottate o per scarsa osservanza delle regole da parte dei cittadini. Probabilmente saranno tutte concause di un risultato piuttosto deludente nella lotta al coronavirus.

Stiamo vivendo in un autentico bagno di sangue a livello sanitario, a cui molto probabilmente se ne aggiungerà un secondo a livello sociale: fallimenti, disoccupazione, miseria. L’ottimismo non è il mio forte per cui non pretendo che tutti piangano disperatamente assieme a me. Ma faccio fatica ad accettare chi spinge sull’acceleratore per entrare nella cosiddetta fase due, quella della ripresa dei rapporti socio-economici. Ci rendiamo conto delle difficoltà, ma soprattutto dei rischi che comporterà. Non si può parlare di convivenza con una malattia che tuttora fa 500 vittime al giorno. Siamo ancora in piena prima fase, non raccontiamoci balle. La speranza non deve morire, ma non ci deve far morire.

È pur vero che oltre le malattie fisiche e personali esistono quelle sociali: non mi pare che la strada giusta per prevenire le seconde sia quella di sottovalutare le prime. C’è ancora troppa incertezza sui dati epidemiologici, c’è ancora troppa confusione negli esperti, c’è ancora troppa debolezza e divisione nei pubblici amministratori, c’è ancora troppa velleità nelle forze economiche, c’è ancora troppo corporativismo nelle forze sociali, c’è ancora troppa irresponsabilità nella gente più propensa a rimuovere dalla mente la gravità della situazione piuttosto che affrontarla con realismo e serietà.

Non vedo all’orizzonte un progetto credibile e fattibile che ci possa aiutare ad uscire dal tunnel: siamo lontani dall’uscita dall’emergenza, ci siamo ancora dentro fino al collo. I politici smaniano per ridare fiato alla società e magari anche al loro elettorato: una di queste mattine papa Francesco ha pregato espressamente affinché i politici sappiano guardare al bene comune e non al bene del partito. Discorso trito e ritrito, che tuttavia non è assolutamente superato. Basti vedere i contrasti suscitati nel fissare la data delle prossime elezioni regionali: il solo parlarne mi mette la pelle d’oca. Possibile, in un momento simile, preoccuparsi delle elezioni? Ma fatemi il piacere…

È inutile continuare a parlare di normalità, stiamo vivendo nella più totale delle anormalità. Smettiamola di illudere la gente, diciamo poche e precise cose, parliamo chiaro, prepariamoci al meglio, ma affrontiamo con la dovuta attenzione e concretezza il peggio in cui siamo ancora invischiati. Antonio Gramsci parlava del pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà per spiegare come al riscatto dell’uomo in una civiltà nemica dell’uomo stesso possa provvedere solo la forza di volontà, al di là dell’analisi fattuale che invece ci condannerebbe al pessimismo e alla rassegnazione. Voglio credergli ed applicare il suo profondo ragionamento al riscatto dell’uomo dal coronavirus. Mi sembra però che anziché sull’ottimismo della volontà si stia puntando su quello della irresponsabilità.

Il mondo in contropiede

La cosiddetta ripartenza in clima di coronavirus viaggia sul filo del rasoio della omogeneità nazionale dei tempi e dei modi: il rischio è che ci scappi una confusione tale da indispettire e spingere tutti ad una sorta di ribellismo per sopravvivere. Dobbiamo essere seri e affrontare la realtà. Mi sembra patetico ipotizzare le spiagge con gli ombrelloni a distanza di sicurezza (?), il bagno in acqua contingentato, la turnazione delle passeggiate sul bagnasciuga, i bagnini che multano i bagnanti se mettono un piede fuori del recinto, le chiacchiere sotto l’ombrellone col megafono, il divieto dei castelli di sabbia e di tutti i giochi nella sabbia e in acqua. Meglio starsene a casa ed immergersi nella vasca da bagno o infilarsi sotto la doccia, prendendo la tintarella sul terrazzo o sul balcone (se rigorosamente individuali).

È solo un esempio, se ne potrebbero fare molti altri, ma è opportuno lasciare perdere per non scoraggiarsi ulteriormente. Meglio ripiegare pregiudizialmente su un discorso di fondo che molti fanno più sulle ali dell’etica e della poesia che dell’effettiva attuabilità. Mi riferisco al discorso del “non più come prima”, che mi trova teoricamente d’accordo, ma praticamente piuttosto perplesso e preoccupato. Ci sono mille ragioni per giudicare male il mondo costruito fino ad oggi: le ingiustizie, le contraddizioni, i controsensi si sprecano anche se ci siamo abituati a convivere con essi. L’occasione quindi dovrebbe essere validamente sfruttata per reimpostare fin dalle fondamenta un mondo migliore.

Se tornare indietro risulta velleitario e impossibile, cambiare tutto risulta estremamente sacrificale in termini personali, economici, sociali e culturali. A parte i tempi lunghi che occorrerebbero, bisogna mettere in conto sacrifici enormi per una riconversione globale, ammesso e non concesso che tutti i protagonisti siano d’accordo nell’intraprendere questa strada. Andatelo a dire a Donald Trump a cui preme soltanto la rielezione del prossimo autunno. Provate a parlarne al G8, opportunamente allargato alla Cina, e troverete d’accordo quasi tutti nel ripristino dello status quo ante-coronavirus. Un discorso rivoluzionario sistemico deve fare i conti con una sfasatura temporale pazzesca, nel senso che mentre i sacrifici sarebbero immediati e consistenti, i benefici sarebbero molto dilatati nel tempo, difficilmente quantificabili e distribuibili in modo paradossalmente diverso.

Mi sembra quindi che la prospettiva di un cambio radicale sia al momento una invitante esercitazione sociologica ed una profonda revisione di vita etico-culturale a livello personale. Bisognerà accontentarsi di andare avanti volando basso senza pretendere di tornare indietro. Mi sovviene la barzelletta del comiziante di turno in vena di promesse eccezionali: lavorerete un mese all’anno! E le ferie? chiede un esigente ascoltatore. Capirete cosa succederebbe se si dovesse prospettare di lavorare tutti di più, guadagnando meno in attesa di un nuovo lavoro per tutti riorientato non sul mercato ma sulla difesa del creato.

Non voglio fare del disfattismo, ma lo sforzo, che può diventare ideologico, di cambiare tutto rischia di finire gattopardescamente nel non cambiare nulla. Recepisco certi discorsi come utili e sane provocazioni alle quali però si deve corrispondere realisticamente e seriamente, alla maniera di papa Francesco: “Non pensiamo ai nostri interessi, agli interessi di parte, prepariamo il domani di tutti, senza saltare nessuno, senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.

Nel calcio si definisce ripartenza quel che un tempo si chiamava contropiede: mi piaceva di più la vecchia definizione perché meno enfatica e più pragmatica. Siamo drammaticamente in svantaggio e di parecchi gol: cerchiamo di prendere in contropiede la situazione evitando la confusa melina delle finte ripartenze e la salottiera illusione del no contest con partita da rifare daccapo.

Convivere o “conmorire” col virus

Quando entrò in vigore la riforma regionale, dopo quasi trent’anni dal varo della Costituzione che la prevedeva, v’era chi temeva che le potenziali regioni a maggioranza comunista potessero mettere a soqquadro la nostra democrazia. Rispose in modo ironicamente sdrammatizzante Francesco De Martino, allora segretario del Psi, che ridicolizzò le paure destrorse con l’ipotesi della rivoluzione tosco-emiliana fatta con l’esercito dei vigili urbani.

Il vero problema non era di carattere politico, ma di prospettiva istituzionale: l’autonomia regionale, se da una parte avrebbe potuto e dovuto rendere più efficiente e più partecipata la macchina pubblica, dall’altra parte esisteva il rischio di conflitti di potere, di confusione legislative e governativa, di crepe nella unità nazionale. La mancanza di chiarezza nell’assegnazione dei poteri, certe strumentali accelerazioni sui poteri delegati, certe spinte autonomistiche eccessive conseguenti ad un malcelato istinto accentratore e viceversa, hanno creato un quadro istituzionale abbastanza pericoloso e difficile da gestire al meglio.

Il coronavirus non sta solo creando problemi nuovi e drammatici, sta anche scoprendo gli altarini preesistenti e imbarazzanti: strada facendo stanno emergendo sempre più gli scombinamenti fra governo centrale e periferico. Il protagonismo regionale non ha niente a che spartire con un effettivo e serio esercizio dei propri poteri, così come l’esibizionismo centrale non riesce a contenere le smanie indipendentiste. Al riguardo assistiamo tutti i giorni ad uno spettacolo poco edificante: alcune regioni sulle ali del principio che col virus bisogna imparare a convivere rischiano di portarci a “conmorire” con esso; le regioni del sud temono che la fine di certe limitazioni possa comportare una movimentazione di persone tale da mettere a repentaglio le zone fino ad ora meno colpite; nel tempo si continuano a verificare giri di valzer tra prudenza e coraggio, anche se tutti chiamano in causa la scienza e la tecnica a supporto dei loro ragionamenti e delle loro indicazioni programmatiche.

Il governatore campano Vincenzo De Luca, con la sua solita e per certi versi simpatica verve, è passato dal lanciafiamme minacciato per le feste di laurea alla difesa oltranzistica dei confini regionali contro le “invasioni barbariche” del nord. C’era un tempo al nord Italia chi voleva alzare una barriera verso il sud per evitare immigrazione e succhiamento di ruote nordiste, ora il discorso si è ribaltato: un tempo si trattava, per dirla brutalmente, dei ricchi che non volevano i poveri, ora si tratta dei poveri che rifiutano i ricchi. Parola di coronavirus.

La partita, al di là delle uscite colorite di Tizio o Caio, si sta facendo delicata e tale da richiedere un forte impegno istituzionale per uscire da una situazione paradossalmente confusa e contraddittoria. Il governo centrale è in difficoltà. Mi sembra che possa essere (quasi) indispensabile un autorevole intervento del presidente della Repubblica nella sua funzione di garante dell’unità nazionale. Non è giusto che sia Mattarella a cavare le castagne dal fuoco incrociato dei vari Conte, Fontana, Zaia, De Luca, Emiliano e c. Tuttavia se lor signori continuano in questa penosa menata autonomistica e propagandistica, occorrerà pure che qualcuno li fermi e li riduca alla ragione, prima che sia troppo tardi. Errare è umano, perseverare è diabolico, scherzare è mortale. Si muore purtroppo di coronavirus, cerchiamo almeno di non morire di casino interregionale.

 

I sovrani(sti) senza corona(bond)

È gravissimo quanto successo al Parlamento europeo in materia di coronavirus, anche se non è facile capire bene i contenuti precisi dei deliberati su cui i rappresentanti di alcune forze politiche italiane si sono comportati in modo a dir poco strano.

Innanzitutto è perfettamente inutile attaccare l’Unione europea in quanto coacervo extra-istituzionale basato sui compromessi fra i partner e/o lussuoso e oligarchico catafalco burocratico lontano dagli interessi ed alle aspettative della gente. Chi cavalca queste accuse, peraltro non del tutto infondate, quando è il momento di valorizzare le istituzioni europee, come appunto il Parlamento, e il loro potere (?) di indirizzo, si rifugia su posizioni meramente strumentali e propagandistiche.

Chiedo scusa se faccio un rapido riferimento alla mia vita professionale assai legata all’impegno nel sociale nel campo cooperativistico. Mi è capitato di rappresentare la struttura provinciale del movimento a livello regionale e nazionale. Ciò che riuscivo a fare di positivo era direttamente proporzionale alla capacità di entrare in una logica di livello superiore, abbandonando il concetto asfittico e campanilistico della mera riproposizione degli interessi locali: acquistavo credibilità ed autorevolezza nella misura in cui sapevo affrontare i problemi con la necessaria competenza e in una logica allargata.

Quindi, se si vive la realtà parlamentare europea, bisogna avere il coraggio di superare le logiche nazionalistiche e di sganciarsi dai calcoli politici emergenti in sede nazionale, cercando un diverso filo da cui dipanare la matassa europea. Su questo piano i partiti italiani sono molto carenti in quanto tendono a nascondersi dietro una mera contrapposizione di comodo.

Questa situazione è clamorosamente emersa con leghisti e forzitalioti contrari all’emendamento presentato dal gruppo dei Verdi, che chiedeva la creazione dei coronabond per condividere il debito futuro degli Stati membri. Le delegazioni dei cinquestelle e del Pd hanno votato a favore, mentre quella di Italia Viva si è astenuta. La mozione è stata bocciata con 326 voti contro, 282 a favore e 74 astenuti. Con il voto positivo di Lega e FI sarebbe invece passata. Gli eurodeputati di Fratelli d’Italia hanno invece votato a favore dell’emendamento dei Verdi.

I cinquestelle hanno gridato al Tradimento ai danni dell’Italia, i democratici hanno accusato la destra di non aiutare il Paese, i verdi hanno parlato di falsi patrioti che si alleano con i nemici dell’Italia. La replica difensiva della Lega è arrivata in chiave altrettanto polemica: “Noi, a differenza del M5S e di Conte, che cambiano ogni settimana idea sull’argomento, non siamo mai stati a favore dello strumento coronabond, che corrisponderebbe alla totale cessione di sovranità all’Ue”. E hanno aggiunto: “Anzi, indichiamo sin dal principio la proposta più semplice, ovvero un ruolo più attivo da vero prestatore di ultima istanza della Bce per comprare Btp”.

Berlusconi ha usato toni assai più contenuti: “Oggi al Parlamento europeo abbiamo invitato la Commissione Ue a proporre un massiccio pacchetto per la ripresa e per la ricostruzione. Abbiamo ottenuto un risultato positivo sui recovery bond, che chiedevamo da tempo: si tratta di uno strumento garantito dal bilancio comunitario, ampiamente condiviso, e che pertanto avrà maggiore efficacia rispetto a superati eurobond proposti dai Verdi ma irrealizzabili”.

Mi sembra che i leghisti siano prigionieri dello schema sovranista a cui hanno sconsideratamente aderito e cerchino disperatamente di riproporre a livello europeo il gioco disfattista, che purtroppo finora ha funzionato in patria. Forza Italia si barcamena tentando di fare il pesce competente e pragmatico nel barile del velleitarismo di sinistra: il solito ormai quasi trentennale ritornello berlusconiano. Tutto sommato gli europarlamentari di Giorgia Meloni, a dispetto del nome del loro partito, rischiano di essere i meno nazionalisti della compagnia di destra.

Anche i partiti di governo non si sono distinti per chiarezza e compattezza. Lasciamo stare il prurito distintivo di Italia Viva, che ha trovato anche nei coronavirus la possibilità di tenere i piedi in due paia di scarpe.  In una giornata, che qualcuno ha definito di ordinario caos al Parlamento europeo, Pd e M5S si sono divisi sul Mes. Mentre Lega e Forza Italia hanno votato contro i coronabond, i cinquestelle hanno detto no a un articolo sul Recovery Fund, vale a dire, se non ho capito male, contro l’invito ai Paesi dell’eurozona ad attivare i 410 miliardi del Mes con una linea di credito specifica. Gli europarlamentari del Movimento 5 Stelle si sono poi spaccati nel voto all’Eurocamera sulla risoluzione finale per la crisi del coronavirus: 10 si sono astenuti, mentre tre hanno votato contro e uno non ha invece preso parte al voto. La risoluzione è comunque passata a larga maggioranza: i voti favorevoli sono stati 395, i contrari 171, gli astenuti 128, fra cui appunto i cinquestelle.

In conclusione un gran casino, fatto di assurdi distinguo e di sottigliezze propagandistiche, in cui, fortunatamente il partito democratico si è distinto per prudenza, ragionevolezza e concretezza. Poi non continuiamo con l’antifona dell’Europa matrigna, dei burocrati di Bruxelles, degli egoismi rigoristi: tutte brutte realtà a cui noi rispondiamo con idee poco chiare, con velleitarismi sovranisti, con striminzite logiche partitiche e con gravi incoerenze. Facendo cioè i “pirlamentari” europei.

 

 

L’anzianità considerata palla al piede

Un massacro. Così Ranieri Guerra dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce quanto è accaduto e sta ancora accadendo agli anziani colpiti da Covid 19 nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) in Italia. Ha tutta l’aria di essere un atto di accusa bello e buono, ben più di una richiesta di chiarimenti da parte di chi è anche consulente del ministro della Salute, ma che come direttore generale aggiunto dell’Oms chiede conto proprio al governo di “cosa è successo e come mai”. “Un massacro”, appunto, con centinaia, probabilmente migliaia di morti nelle case di cura – mancano dati specifici, a differenza ad esempio della Francia -, di cui il Pio Albergo Trivulzio di Milano è solo il caso più eclatante.

Come sempre succede a pagare il conto più salato sono i soggetti deboli, tra cui gli anziani, per come è concepita e impostata la nostra società, sono forse le persone più a rischio di avere un’assistenza di serie b, di essere addirittura maltrattati, di essere emarginati, isolati e ghettizzati. Qualcuno sostiene che la prova del nove per la civiltà di una società sarebbero le carceri: possiamo tranquillamente aggiungere le case di riposo.

Gli scandali si susseguono: mancanza di igiene, speculazioni varie, qualità assistenziale scadente, strutture inadeguate, personale impreparato, etc. etc. Forse il coronavirus sta funzionando, un po’ a tutti i livelli, come goccia che fa traboccare il vaso dei limiti della nostra società, come evento che mette a nudo i difetti e le contraddizioni clamorose del nostro sistema.

Ci sono tanti problemi a monte dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Si va dalla mancanza di sostegno alle famiglie a quella di assistenza domiciliare; dalla scelta prevalentemente orientata verso megastrutture anonime alla carenza di formazione professionale degli operatori; dallo spericolato affidamento di questo servizio al privato spesso assai speculativo e poco sociale alla scarsa dotazione di mezzi e risorse; dalla mancanza di fantasia nella ricerca di moduli per il mantenimento dell’anziano nel suo habitat umano e  sociale ad un atteggiamento socio-sanitario piuttosto discriminante come se la persona anziana fosse un cittadino con minori diritti in conseguenza dell’età e dei problemi annessi e connessi.

Quando scoppia un’emergenza le lacune di cui sopra trovano drammatici e tragici riscontri. È piovuto sul bagnato. Non facciamo quindi finta di sorprenderci e non scarichiamo le colpe solo ed esclusivamente su chi ha gestito l’emergenza in questo delicatissimo settore.

D’altra parte in questi giorni mi sono posto una tremenda domanda a cui peraltro non ci può essere risposta oggettiva e documentata. Se il sistema sanitario ed assistenziale, in tutte le sue fasi e componenti, si fosse rivelato meno carente, quanti decessi avremmo avuto in conseguenza del coronavirus. Certamente meno! Senno di poi di cui son piene le fosse? Peccato che prima di queste eventuali fosse ce ne siano altra stracolme delle vittime della pandemia. Non è certo il momento di fare polemiche, ma riflettere, per correre ai ripari nel breve, medio e lungo termine, è doverosamente urgente.

 

L’insensato rientro nel disordine politico

Papa Francesco ha risposto al grido accorato proveniente dalla mia trepidante tristezza: mi ha detto che dal Risorto e dal suo Spirito scaturisce la vera gioia, che non è l’entusiastica reazione a fatti eclatanti e meravigliosi, ma la presa di coscienza della salvezza eterna, che ci è stata conquistata e donata. Un anziano frate cappuccino, che aveva la pazienza di ascoltare i miei peccati e di perdonarli in nome di Dio, mostrava una grande e invidiabile serenità d’animo al punto che gli chiesi ragione di una gioia così grande, emergente dal suo volto, dalle sue parole e dal suo comportamento. Mi rispose: “Gesù non è venuto in terra per fare una passeggiata, è venuto a salvarci e noi siamo salvi, quindi…”.

Con i polmoni pieni di questo ossigeno papale, mi tocca ripiombare, seppure col vaccino spirituale della gioia pasquale, nella quotidianità improntata alla battaglia contro il coronavirus. Dopo aver riflettuto astrusamente sull’impossibilità di tornare alla normalità di vita, se per normalità intendiamo il solito andazzo socio-economico, mi ritrovo ad essere immediatamente smentito e intristito dalla politica frettolosamente rientrata nei normali e penosi canoni della stucchevole polemica fra i partiti.

Anche davanti al disastro che stiamo attraversando, il dibattito politico non fa un passo costruttivo verso il presente ed il futuro, ma ripiega malauguratamente verso il passato delle vuote e strumentali contrapposizioni. Sono sostanzialmente tre i terreni su cui si sta scatenando la dannosa polemica: il rapporto con l’Unione Europea, lo scarico delle responsabilità, gli indirizzi per avviare la ripresa.

Sul fronte europeo c’è in atto una gara a spingere sui contrasti, ad essere i più antieuropei del momento, a vincere a tutti i costi la stitichezza finanziaria della Ue. Che si debba pretendere un diverso atteggiamento in sede comunitaria è cosa buona e giusta. Il problema sta nel come ottenerlo: non certo mandando improbabili ultimatum, non certo lasciando trapelare la riserva mentale di agire per nostro conto, non sfogando la rabbia accumulata nel tempo per l’inefficienza e, ancor prima, l’insensibilità verso i problemi della agognata crescita che sono ultimamente diventati i problemi della onorevole sussistenza, non gareggiando infantilmente a chi possiede la voce più stentorea o a chi è dotato degli attributi più prestanti. La conseguenza di questa competizione in patria è la debolezza nella competizione in Europa. Presentarsi ai tavoli europei in ordine sparso è il modo migliore per rimanere con un pugno di mosche in mano.

Che vi siano stati errori, ritardi, inadeguatezze, incompetenze, debolezze e incertezze nell’azione di governo a livello centrale e periferico è una realtà piuttosto evidente. Ammetterlo è doveroso da parte di tutti, ma adesso non è il momento di esercitarsi in una reciproca caccia alle streghe per guardare chi ha nell’occhio la trave più fastidiosa e clamorosa. Sono tragicomiche certe diatribe sulla intempestività e confusione degli interventi, sulla sottovalutazione dei pericoli: mi sembra che tutti debbano abbandonare le pietre che tengono in tasca in considerazione dei peccati che hanno evidenziato nei loro comportamenti.  Uso una similitudine alquanta brutale: non si può litigare con i moribondi e i morti in casa. Se ci sarà da litigare lo si faccia quando la situazione lo permetterà ed avrà trovato un minimo di serenità.

Che sia problematica, al limite dell’impossibile, una graduale ripresa delle attività economiche e dei rapporti sociali è chiaro e preoccupante. Affrontare queste difficoltà in un clima di scontro a livello, politico, istituzionale e geografico è un vero e proprio suicidio assai poco assistito. In Veneto si può passeggiare, seppure con certe precauzioni; in Lombardia e Piemonte si deve rimanere sigillati; nel resto d’Italia è consentito qualche timido accenno alla riapertura, vedi librerie e abbigliamento per bambini. Mi sento un regionalista critico anche se per nulla pentito, ma ipotizzare un ritorno alla normalità a macchia di leopardo, a strappi autonomistici mi sembra pura follia. Scatenare una rissa istituzionale, politica e persino ideologica su questo terreno è da criminali.

Sia chiaro che non voglio ridurre la politica ad un generico vogliamoci bene, ad una deriva pseudo-scientifica, ad una concentrazione di poteri anti-democratica, ad una silenziosa e rituale pantomima funebre. Vorrei soltanto che la triste occasione facesse l’uomo politico più serio e responsabile. I cittadini finora hanno avuto molta pazienza, hanno dimostrato comprensione e disciplina, hanno capito la gravità della situazione e vi si sono adeguati seriamente. Non deludiamoli perché sarebbe un vero e imperdonabile peccato sul piano etico, un autentico disastro a livello politico-istituzionale, un pessimo viatico per l’improbo viaggio economico-sociale che ci aspetta.