I geyser del razzismo

Le immagini dell’arresto culminato nella morte a Minneapolis di un giovane afroamericano sono effettivamente scioccanti e inquietanti. Era scontato che questo fatto avrebbe innescato una forte ondata di protesta, mentre la tensione in tutto il paese dilaga. Un ragazzo di 19 anni è stato ucciso a Detroit, in Michigan, da spari provenienti da un Suv che ha sparato contro i manifestanti. Il ragazzo è deceduto in ospedale. A Oakland un militare del Servizio di protezione federale è morto e un altro è rimasto ferito. I due agenti hanno riportato ferite di arma da fuoco. Almeno 7.500 manifestanti sono scesi in strada e hanno messo a ferro e fuoco la città. La polizia ha riferito di atti di vandalismo, furti, incendi e aggressioni contro gli agenti. Proteste anche ad Atlanta, in Georgia, dove da tre giorni sono in corso violenti scontri e nella notte i manifestanti hanno attaccato il quartier generale della Cnn. Ma si è continuato a protestare anche in oltre 20 città, da Washington a New York City, Denver, Houston, San Jose e Bakersfield, in California, Chicago. Negli scontri a Los Angeles sono rimasti feriti due agenti.

A Minneapolis potrebbe anche arrivare l’esercito – il Pentagono ha preallertato in via precauzionale reparti di polizia militare – mentre alcuni colpi d’arma da fuoco sono stati sparati contro alcuni agenti nei pressi del quinto distretto di polizia ma non ci sono stati feriti. Tensione anche davanti alla Casa Bianca dove si sono radunate centinaia di persone che invocano giustizia per la vittima e denunciano la brutalità della polizia. Le proteste hanno costretto la Casa Bianca al lockdown. I servizi segreti, per sicurezza, infatti hanno deciso di chiudere la residenza presidenziale Usa anche alla stampa dotata di «hard pass». Il presidente Donald Trump in giornata ha twittato che se i manifestanti fossero riusciti a superare la cancellata «sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose che io abbia mai visto: e questo sarebbe stato il momento in cui la gente si sarebbe fatta veramente male». Trump si è quindi complimentato con gli agenti del Secret Service per essere stati non solo «totalmente professionali» ma anche «molto cool». Poi ha raccontato: «Ero dentro, ho visto ogni mossa e non avrei potuto sentirmi più sicuro. Hanno lasciato i manifestanti gridare e inveire quanto volevano». Ma pronti a intervenire, evidentemente. «Molti agenti del Secret Service aspettano solo di agire – ha scritto ancora Trump raccontando quello che gli sarebbe stato detto dagli addetti alla sua sicurezza: «“Mettiamo i giovani in prima linea, signore, loro lo adorano ed è un buon addestramento”».

Intanto la famiglia di George Floyd contesta l’esito dell’autopsia condotta sull’uomo, che esclude la morte per asfissia o strangolamento, e chiede che venga condotto un secondo esame, indipendente. La famiglia dell’afroamericano morto dopo che un agente di polizia gli ha tenuto il ginocchio sulla gola per nove minuti, il tutto ripreso in un video, si è rivolta al medico legale Michael Baden perché conduca una seconda autopsia. «La famiglia non si fida di nulla che arriva dal dipartimento di polizia di Minneapolis – ha detto il legale Ben Crump – : la verità l’abbiamo già vista». Secondo i risultati preliminari dell’autopsia, infatti George Floyd non è morto né per asfissia né per strangolamento: «Gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, le sue preesistenti condizioni di salute (ipertensione arteriosa e problemi coronarici) e potenziali sostanze tossiche hanno contribuito alla sua morte». Quando mio padre commentava la morte di una persona di cui non si trovava o, meglio, non si voleva trovare la causa, concludeva sarcasticamente: «As védda che quälcdòn al gà preghè un cólp…».

Evidentemente negli Stati Uniti cova sotto la cenere un sentimento razzista, che ogni tanto viene a galla con l’accanimento delle forze di polizia e causa reazioni violente che sfociano in autentiche e diffuse sommosse.  Ci sono malattie sociali che non scompaiono mai, tendono a cronicizzarsi, i malesseri restano latenti, sembra che non esistano più, invece improvvisamente esplodono. È il caso del razzismo! Il clima politico instaurato da Donald Trump offre un ideale brodo di coltura per questi ritorni di fiamma: questo pazzesco presidente sparge a piene mani benzina sui mali della società, come se puntasse ad un paradossale fuoco purificatore. Non mi stupisco che le forze di polizia, già intrise di una mentalità repressiva ed autoritaria, respirino quest’aria e si lascino andare ulteriormente, sentendosi legittimate nell’assumere atteggiamenti da “angeli sterminatori”.

E questa sarebbe la grande democrazia che dovrebbe caratterizzare il mondo intero? Ma fatemi il piacere…Un tempo dagli Usa arrivavano mode socio-culturali e indirizzi politici, che venivano poi applicati nel resto del mondo occidentale. Poi il berlusconismo ha fatto scuola in proprio al punto che il trumpismo lo ha copiato e presentato in modo riveduto e scorretto. Attenzione che i collegamenti si stanno ripetendo: populismo e sovranismo, punti determinanti nell’agenda trumpiana, stanno dilagando ovunque e non possono che proporre frutti avvelenati come appunto il razzismo.

Anche una parte d’Europa è inquinata da queste derive, più di quanto si possa immaginare: il problema infatti non è limitato alle sgangherate scorribande di Salvini in Italia, Le Pen in Francia, Farage in Gran Bretagna e Orban in Ungheria. L’affermazione dell’ultradestra fino ad ora non è bastata a cambiare le regole del gioco a Bruxelles e il timone è rimasto nelle mani di popolari e socialisti. Ma il coronavirus ha diminuito le difese immunitarie e l’egoismo nazionalista ammantato di rigorismo fiscale si sta propagando.

Mia sorella sosteneva che gli italiani sono affascinati dall’ «uomo forte». Lei lo diceva con la sua solita schiettezza e in modo poco aulico ed elegante, ma molto efficace: «Gli italiani sono rimasti fascisti». Ritornando da un breve viaggio di studio nelle istituzioni europee, affermò brutalmente: “Sono tutti fascisti”. Credo che un po’ di ragione ce l’avesse. Chissà cosa direbbe oggi alla luce del trumpismo, del populismo e del sovranismo. Lo immagino e non mi azzardo a scriverlo per non esagerare alle sue spalle. Cosa c’entrano tutti questi ragionamenti con l’uccisione di un afroamericano a Minneapolis? C’entrano eccome, meditate gente, meditate.

 

 

Parolin…e suppostine vaticane

Confesso di essere rimasto piuttosto sconcertato dalla vicenda (e siamo forse appena agli inizi) dell’allontanamento di don Enzo Bianchi dalla comunità di Bose da lui fondata e dove viveva da alcuni anni come ex-priore, non tanto nel merito della questione (non ho conoscenza della vita e delle spiritualità della comunità di Bose), ma nel metodo (il solito “vezzo” militaresco e inquisitorio che squalifica la gerarchia cattolica).

Si dovrebbe dialogare e poi dialogare e poi dialogare ancora. Invece si fanno inchieste nell’ombra, si prendono provvedimenti altolocati, si tratta come si fa nella peggior politica, si tenta una mediazione (probabilmente ai livelli più bassi per salvare la faccia a tutti). Forse si sta cercando una promozione che possa addolcire la pillola della rimozione.

È inutile nascondere che Enzo Bianchi rappresenta un punto di riferimento per una certa cattolicità aperta e progressista causa la sua geniale capacità di coniugare silenzio e denuncia, elaborazione teologica e testimonianza di vita: un monaco fuori dal mondo ma dentro ad esso fino al collo. Forse, da quanto mi è dato capire, è proprio questa qualità che imbarazza i monaci della sua comunità: la paura di essere invischiati nelle problematiche mondane e di contaminarsi con le logiche troppo umane. Un timore vecchio come il cucco e al Vaticano non è parso vero di coltivarlo con metodi altrettanto vecchi come il cucco.

Può darsi che, per un soggetto carismatico come lui, sia stato difficile, quasi impossibile, appartarsi, mettersi un tantino in disparte: forse sarà caduto nel rischio di fare l’anti-priore piuttosto che l’ex priore. Peccato assai veniale, che umanamente me lo rende ancor più simpatico.

Enzo Bianchi avrà certamente, assieme ai tanti pregi, i suoi difetti. E chi non ne ha? Non mi pare però il caso di “sputtanarlo” come sta succedendo e non approvo gli inviti vittimistici, a lui rivolti, a chinare il capo, ad obbedire senza combattere. Altro atteggiamento paternalista che non condivido affatto.

Non sarebbe difficile fare della dietrologia: Enzo Bianchi dà fastidio? A chi? Perché? Un libero pensatore, oltretutto in convento, dà sempre fastidio, soprattutto se è capace di contestare ed innovare, senza clamore ma con grande capacità di persuasione, e rimanendo, pur con qualche difficoltà, all’interno dei recinti ecclesiali.

Certo, quando si parte col piede sbagliato, è molto difficile rimediare: mi riferisco al Vaticano che non farà marcia indietro; il papa ne esce maluccio, toccato nel vivo da una vicenda che per lui assume tinte masochiste; è rimasto imprigionato, e purtroppo non è la prima volta, nell’avvolgente clima burocratico della curia a lui ostile e non pensi di cavarsela mettendo in pista il cardinale Parolin.

Un po’ più di carità da parte di tutti non guasterebbe. Il divorzio non è ammesso fra i coniugi cristiani. È accettato o addirittura auspicato nella convivenza delle comunità monastiche. Peccato! Un’altra occasione sprecata per dialogare anche e soprattutto nei momenti difficili. Quello della pur lunga inchiesta non è dialogo. Almeno così sembra a me. Ma, si sa, io ero e sono un contestatore ante litteram, assai poco teologico e troppo istintivo.

 

Se a stonare è il direttore del coro…

“Attraverso i nostri comportamenti possiamo facilitare il ritorno del virus ma vi garantisco che se continuiamo ad osservare alcune indicazioni – come lavarsi spesso le mani e mantenere la distanza di sicurezza – potrebbe anche non esserci una seconda ondata”. È quanto ha detto la virologa Ilaria Capua, intervenendo in diretta a DiMartedì, in onda su La7, in merito a una eventuale nuova ondata epidemica.

Il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in audizione alla Camera dei Deputati, avverte: “Per gli scenari che immaginiamo, in autunno, una patologia come il Sars-cov-2, si può maggiormente diffondere e si può confondere con altre sintomatologie di tipo respiratorio” e “la famosa ipotesi della seconda ondata è collegata a questo, che, dal punto di vista tecnico scientifico è un dato obiettivo”.  Perciò, “con l’arrivo dell’autunno “c’è una probabile possibilità di maggiore diffusione” del coronavirus.

In un’intervista a “La Stampa”, Walter Ricciardi consigliere del ministro della Sanità, circa un mese fa ha dichiarato: “Uno studio, presentato il 24 aprile dal sottosegretario alla sicurezza interna Usa alla Casa Bianca, mostrerebbe che il virus soffre il caldo umido. Al chiuso, con 24 gradi e 20% di umidità può resistere su una superficie per 18 ore, con 35 gradi e un tasso di umidità dell’80% la sua permanenza non supera l’ora. Se poi si è al sole bastano 24 gradi e lo stesso livello di umidità perché scompaia in due minuti. Attenzione perché il virus circolerà comunque lo stesso e dovremo continuare a rispettare le regole igieniche e sul distanziamento. Però potremo conviverci meglio”.

Tre voci piuttosto elegantemente contraddittorie nello sconclusionato coro di scienziati ed esperti. E si vorrebbe che la politica avesse le idee chiare? Se ascolta questi illustri e logorroici papaveri non può che andare a sbattere. Si fa il processo a tutte le componenti della nostra società che hanno agito e agiscono nella pandemia. Ascoltiamo in breve la vox mediatica.

La politica è la più colpevolizzata, sia a livello centrale che periferico. Il governo Conte viene fotografato come intrappolato nelle pastoie burocratiche, indebolito da continui contrasti interni tra le forze politiche di maggioranza, incapace di adottare una linea univoca e credibile per affrontare una situazione gravissima, che potrebbe diventare disastrosa. Le regioni vengono brutalmente assimilate ai capponi di Renzo: litigano fra di loro e col governo centrale, scaricano colpe che hanno, si stanno rivelando dei veri e propri catafalchi burocratici di cacciariana definizione. Le opposizioni giocano al tanto peggio tanto meglio e non si schiodano dalle polemiche sovraniste e populiste. Le forze sociali sono portate più a rappresentare, se non a fomentare, le proteste corporative che a dialogare costruttivamente con i pubblici poteri.

L’unione europea viene vista con sospetto e diffidenza nella sua storica contrapposizione fra rigoristi e sviluppisti, le due fazioni che, nell’emergenze attuale, meglio potrebbero essere definite egoisti e solidaristi. In Oltretorrente vi era una famiglia, con la quale la mia famiglia era leggermente imparentata, definita “i barnerd”, dal nome del loro capo Bernardo: parlavano sempre di soldi, non erano molto ricchi, ma piuttosto avari e considerati, con un certo ironico disprezzo, una mosca bianca nel panorama sociale novecentesco del quartiere popolare in cui abitavo. Ebbene, quando vedo riuniti i commissari europei, non resisto alla tentazione di assimilarli ai “barnerd”, alle prese con i miliardi da (non) distribuire. Sembra che alla fine qualche decina di miliardi venga scucita, ma non basta a superare gli euroscetticismi.

E la gente? Fino ad un certo punto il comportamento dell’italiano medio aveva sorpreso per correttezza e senso civico, poi il tempo ha mutato gli atteggiamenti e siamo tornati alle solite menate: questa volta più che di anti-italianismo si tratta di anti-giovanilismo. La luna di miele con la gente comunque è finita e siamo passati al tritacarne mediatico.

In questo articolato e complicato processo, si salvano solo due categorie: gli operatori sanitari e gli scienziati. I primi sono stati giustamente, anche se forse un po’ esageratamente, santificati e portati agli onori degli altari: non c’è commentatore che, in premessa, non dia un’incensata a medici e infermieri, i quali forse più che di incenso avrebbero bisogno di oro. Ma lasciamo perdere. I secondi, vale a dire i detentori della conoscenza scientifica, dalle cui labbra tutti tendiamo a pendere, vengono intervistati a raffica forse perché fanno audience. Nessuno si azzarda ad esprimere giudizi sul loro operato: in quello che dicono ci sta tutto e il suo contrario, mentre ci dovrebbe stare la obiettiva verità provata. Ma ce n’è poca e allora giù opinioni in libertà, come quelle da cui siamo partiti. Sembra di essere sulle montagne russe: ad una previsione ottimistica fa immediatamente seguito un’analisi pessimistica e viceversa.

Personalmente sono molto meno generoso nei loro confronti, mi irritano le loro dispute. Ho sempre avuto grande rispetto ed ammirazione per il mondo scientifico ed accademico fintanto che rimane a coltivare il proprio orto. Quando si sposta in campo aperto, rischia di brancolare nel buio. Ecco perché, consapevole di esagerare, credo che, tutto sommato, chi esce peggio dalle dispute sul coronavirus siano proprio gli scienziati, che dovrebbero dare il la e invece sono stonati come campane. In chiesa mi infastidiscono le persone stonate che vogliono cantare a tutti i costi, rischiano di fuorviare tutti. Può succedere così anche per la scienza, che, quando non ha risposte chiare e plausibili, dovrebbe tacere e dedicarsi umilmente al lavoro per raggiungerle.

 

Guerra aperta fra “pataglie” sporche

Il vittimismo è da sempre il cliché reattivo di chi, sentendosi e vedendosi pesantemente e continuamente attaccato, anziché difendersi nel merito dalle accuse, preferisce buttarla in rissa metodologica, atteggiandosi a capro espiatorio di manovre sporche e strumentali. Quando a scuola qualche alunno non combina niente di buono in una materia, è solito affermare che l’insegnante ce l’ha con lui e così rimuove il problema ed evita definitivamente di studiare e di rimediare ai propri voti scarsi.

Anche in politica è una linea di difesa adottata da coloro i quali vengono messi alle corde e preferiscono uscire dall’angolo chiedendo l’intervento dell’arbitro per i colpi bassi a loro dire sferrati dall’avversario. In questa pratica è abile maestro Matteo Salvini: la usa continuamente soprattutto per (non) rispondere alle accuse dei magistrati, che a suo giudizio sarebbero prevenuti e politicizzati. Negli ultimi tempi è infatti finito ripetutamente nel mirino dei magistrati per i comportamenti adottati in materia di immigrazione, per contenere cioè il fenomeno migratorio con prese di posizione adottate sul filo del rasoio tra scelte politiche di stampo razzista e veri e propri reati quali abuso di atti d’ufficio e sequestro di persona nei confronti dei migranti lasciati in mare.

Non so se questi reati siano stati effettivamente commessi dall’allora ministro deli Interni, staremo a vedere come andrà a finire, fatto sta che Salvini più che dimostrare di avere agito nel pieno possesso delle sue facoltà e prerogative governative, preferisce nascondersi dietro la presunta invadenza dei giudici che ce l’avrebbero con lui.  Forse desidera paradossalmente di essere giudicato e condannato per dimostrare fino in fondo il suo teorema vittimistico.

Non ci mancava altro che venisse alla luce un dialogo a dir poco sui generis tra magistrati che si confrontano a ruota libera su Matteo Salvini. Ne è nato un caso dopo la pubblicazione, di alcune intercettazioni dell’ex presidente dell’Anm che vedono coinvolto l’ex ministro dell’Interno, accusato di sequestro di persona nel caso dei migranti soccorsi dalla nave militare italiana Gregoretti nell’agosto del 2019. La Verità ha infatti pubblicato i contenuti di alcune chat risalenti al 2018 in cui alcuni magistrati parlano dell’allora ministro dell’Interno. La chat più citata vede coinvolti il procuratore capo di Viterbo Paolo Auriemma e Luca Palamara: “Mi dispiace dover dire che non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando”, aveva scritto Auriemma nell’agosto 2018 quando di Salvini si parlava soprattutto per la chiusura dei porti. E ancora: “Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il ministro dell’Interno interviene perché questo non avvenga”, diceva Auriemma. A un certo punto Palamara pronuncia la frase che La Verità ha pubblicato in prima pagina e che altri giornali riportano in maniera leggermente differente, ma in cui Palamara sostiene (nelle varie versioni) che “ora” Salvini “va attaccato”. Infine Auriemma: “Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso perché tutti la pensano come lui. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano partiti. Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori. Siamo indifendibili. Indifendibili”. In un altro colloquio citato da alcuni giornali, il leader leghista viene chiamato “quella merda di Salvini” da Palamara.

Un perfetto assist alla linea vittimistica salviniana, che ha addirittura chiesto l’intervento del presidente della Repubblica affinché sciogliesse il Consiglio superiore della magistratura. A nulla valgono le scuse del giudice Palamara, la retrocessione delle affermazioni a semplici battute tra colleghi e le spiegazioni del suo ragionamento complessivo al di là delle frasi incriminate. Non condivido la difesa d’ufficio dei magistrati a dir poco chiacchieroni, fatta dai giustizialisti a senso unico, come il pur bravo e documentato giornalista Marco Travaglio. Siamo d’accordo non è successo niente di stravolgente, però la magistratura non può farsi sorprendere con le dita nella marmellata fino a questo punto. L’autonomia della magistratura è un diritto costituzionale, ma è anche un dovere ben preciso e i giudici questo brutto difetto di intromettersi nelle vicende politiche ce l’hanno. E non è solo questione di libera espressione delle proprie idee, come può fare qualsiasi cittadino: qui ci puzza di bruciato e non basta fare tardiva e sdrammatizzante ammenda.

Naturalmente si sono scatenati anche i forzati del garantismo ai quali non è parso vero di infangare tutto l’operato della magistratura nei confronti soprattutto di Silvio Berlusconi e dei suoi amici. Quando si ricoprono certi incarichi e si hanno precise responsabilità, si tace, non si può scherzare nei rapporti tra giustizia e politica. Il vittimismo a Salvini, in questo caso, è stato servito su un piatto d’argento dai magistrati che si sentono dei padreterni al di sopra delle regole.  Luca Palamara è un magistrato di indiscussa fama: è stato consigliere del CSM e presidente dell’Associazione nazionale magistrati, grazie ai suoi innumerevoli traguardi professionali. Anche per questo, l’accusa di corruzione a suo carico è stata un fulmine a ciel sereno. Sì, perché oltre tutto Palamara è chiacchierato e messo sotto inchiesta per un giro poco edificante di favori. Adesso esce quanto sopra detto: la frittata è fatta, non tanto per lui che ne risponderà nelle sedi proprie, ma per la magistratura la cui immagine esce piuttosto ammaccata e per Salvini a cui è stato fornito un alibi perfetto per sgattaiolare populisticamente fuori dagli schemi istituzionali e trasferire la politica, ancora una volta, al bar dell’angolo.

 

I fuochi artificiali del renzismo di ritorno

Su alcune questioni politiche devo ammettere che Matteo Renzi non ha tutti i torti: spesso espone critiche e riserve fondate e degne di nota. La politica però è tremenda e marcia a schemi prefabbricati. Renzi è ormai classificato, qualsiasi cosa dica e faccia, come il bastian contrario che vuole mettere a soqquadro gli attuali equilibri di governo, puntando a creare i presupposti per nuove manovre che lo potrebbero vedere ideatore e/o protagonista. E lui effettivamente fa di tutto per costruire questa immagine di “Gian Burrasca” della politica italiana.

Il suo partitino è costruito a suo uso e consumo, gli interventi degli esponenti di Italia viva sono sempre ancestralmente collegati alla sua dimensione personale, le mosse sembrano studiate apposta per attirare la maligna attenzione mediatica, la smania di protagonismo sembra studiata a tavolino per preparare chissà quale nuovo scenario. L’importante per Renzi non è quello che lui dice e fa o che dicono e fanno i suoi ventriloqui, ma che se ne parli in continuazione a prescindere dal merito dei problemi sollevati.

E tutti a interrogarsi su dove vuol parare Matteo Renzi, senza capire che lui probabilmente vuol parare proprio lì, cioè vuole ottenere sempre e comunque un’attenzione inversamente proporzionale alla forza politica del suo gruppo, catturata con le armi della provocazione e della sorpresa. Tutto fa brodo nella cucina di chi vuole stupire con l’ermetismo delle ricette. Naturalmente nel gioco rientra anche lanciare i sassi e nascondere la mano per il bene dei piccioni, spararle grosse per ripiegare su più miti consigli di raffinata politica, creare l’attesa per poi magari fare improvvisamente macchina indietro per salvare il salvabile. Un gioco che non mi piace e non mi interessa: la politica è fatta anche di astuzie, di colpi di teatro, di sorprese e di manovre, ma quando diventano la regola non hanno alcun senso.

Le mozioni di sfiducia al ministro Bonafede non erano effettivamente e totalmente infondate, per certi versi potevano essere prese in seria considerazione e finanche votate, ma sono servite a Renzi per creare la suspence sulla tenuta del governo, a distinguersi dal resto della compagine ministeriale e della maggioranza parlamentare, a tenere sulla corda l’imperturbabile premier Conte, a lanciare messaggi trasversali per chi li vuole cogliere, a minacciare disastri per poi vestire precipitosamente i panni del salvatore della patria e dell’uomo responsabile che si sacrifica sull’altare della continuità istituzionale.

L’inchiesta giudiziaria sull’operato dell’allora ministro Matteo Salvini in ordine al blocco delle navi cariche di migranti lascia vedere in filigrana un governo che, tutto sommato, non aveva il coraggio di distinguersi da questo incontenibile ministro del cavolo e che quindi non poteva nascondere le proprie responsabilità dietro la vergognosa verve anti-migratoria del ministro degli Interni. L’astensione dei renziani sul pronunciamento della giunta del Senato, che doveva esprimere un parere sull’autorizzazione a procedere contro Salvini per reati commessi durante la nota vicenda Open Arms, è servita al gioco di cui sopra e non è escluso che, quando la vicenda arriverà in aula, ci possa essere un colpo di reni con un voto contro Salvini pur di non spaccare la maggioranza.

Nel frattempo forse viene mandato al governo un messaggio subliminale: guardate che se voi flirtate con Berlusconi con qualche intrigante bacetto, io sono capace di accarezzare Salvini in punti sensibili. Il partito socialista ha vissuto per una vita con questi mezzucci ricattatori quindi… Se Renzi vuole essere, comunque e a tutti i costi, protagonista della scena politica, ci sta riuscendo alla grande. Se intende costruire un progetto politico, stia attento perché i fuochi artificiali sono belli e affascinanti, ma possono fare anche danni gravi e soprattutto finiscono nel nulla.

 

Bugia pietosa e verità vessatrice

Fino a qualche tempo fa vigeva per il medico la regola di tacere la verità in ordine alla gravità della malattia del suo paziente, privilegiando la preoccupazione che il malato potesse prostrarsi psicologicamente e aggravare ulteriormente la situazione o addirittura disperarsi facendola precipitare. Violetta Valery, la protagonista della Traviata di Giuseppe Verdi, si rende conto che la tubercolosi la sta definitivamente divorando, ma accetta di buon grado l’incoraggiamento del medico (“Coraggio, la convalescenza non è lontana…”) al quale dice: «La bugia pietosa ai medici è concessa…». Lo stesso medico risponde schiettamente alla governante, che gli chiede come va, con un drastico: «La tisi non le accorda che poche ore».

Negli ultimi tempi alla bugia pietosa si tende a sostituire la verità enfaticamente penosa, ritenendo che debba comunque prevalere il diritto del malato a conoscere il proprio stato. Un medico mi confidava recentemente che però c’è modo e modo di dire la verità e che soprattutto c’è un limite alla verità: bisognerebbe cioè tenere conto della personalità, del carattere, dello stato psicologico del paziente e della sua capacità di accettare il responso in modo speranzoso, incoraggiandolo nella battaglia contro la malattia, che può e deve sempre essere combattuta fino in fondo nei modi possibili.

L’informazione su covid 19 sta diventando impietosa e spietata oltre che confusa, contraddittoria e squilibrata.   Secondo gli esperti, l’infezione potrebbe lasciare strascichi a lungo termine sulla funzionalità respiratoria e talvolta comprometterla in modo irreversibile, soprattutto nei pazienti usciti dalla terapia intensiva. È il preoccupante scenario che arriva oggi dal convegno della Società Italiana di Pneumologia, durante il quale sono stati messi a confronto i primi dati di follow-up raccolti nel nostro Paese e dai medici cinesi con gli esiti di pazienti colpiti da SARS nel 2003. Da questo confronto emerge chiaramente che l’infezione polmonare da coronavirus può lasciare un’eredità cronica sulla funzionalità respiratoria: si stima che in media in un adulto possano servire da 6 a 12 mesi per il recupero funzionale, che per alcuni però potrebbe non essere completo. Il 30% dei pazienti guariti (?) mostrava segni diffusi di fibrosi polmonare, cioè grosse cicatrici sul polmone con una compromissione respiratoria irreversibile: in pratica potevano sorgere problemi respiratori anche dopo una semplice passeggiata.

Gli esperti temono perciò che la fibrosi polmonare possa rappresentare il pericolo di domani e per questo richiamano l’attenzione alla necessità di specifici ambulatori dedicati al follow-up dei pazienti che sono stati ricoverati, specialmente i più gravi e gli anziani più fragili, che potrebbero necessitare di un trattamento attivo farmacologico e di percorsi riabilitativi dedicati. “Reliquati polmonari purtroppo ci sono per questo avremo una nuova categoria di pazienti con cicatrici fibrotiche a livello polmonare da covid con insufficienza respiratoria, che rappresenterà certamente un nuovo problema sanitario”.

Come prospettiva non c’è male: non solo si rischia una tragica e solitaria morte, ma, se si guarisce, esiste l’alta probabilità di rimanere segnati per sempre. Ai danni psicologici si potrebbero aggiunge quelli agli organi vitali, in primis i polmoni, ma non solo. Si dica quel che si vuole, ma lo ritengo un modo barbaro di esporre i risultati delle ricerche e soprattutto un modo inumano di fare informazione. È inutile che i medici sconsiglino di curiosare su internet in merito ai propri mali per evitare allarmismi inutili e a volte ingiustificati, se poi la scienza medica vomita su internet dati a dir poco angoscianti.

Un po’ di discrezione, di prudenza e di comprensione dovrebbe prevalere sulla smania di comunicare elementi di conoscenza, che non servono ai potenziali pazienti se non a inorridirli e deprimerli prima del tempo.  Questa non è la società che dice tutto senza censura, ma la società che gioca a fare del sadismo e del masochismo. Per cortesia aiutateci non solo a sopravvivere, ma a vivere con un minimo di fiducia e di speranza. Non fateci morire di paura prima del tempo.

A proposito di respirazione, mio zio, che non era da meno in senso battutistico rispetto a mio padre, scommetteva su una lunga vita così giustificandosi: «Al garà un bél dir al dotór: questo paziente sta morendo; mi a continov a tirär al fia…».  Forse non resta altro da fare che sposare la filosofia spicciola di mio zio.

Istitutore pedagogo on line

Percorrendo le viuzze intorno alla cattedrale della mia città, mi è capitato qualche tempo fa di incontrare un ex professore di università che abita nei pressi: da allora ci incrociamo spesso e ci salutiamo cordialmente da quando gli ho ricordato di essere un suo ex-allievo. A volte scambiamo qualche breve battuta. Era insegnante di diritto pubblico alla facoltà di economia e commercio, ora è in pensione: sì, allievo e maestro, entrambi in pensione. Ebbene il dialogo, seppure a grande distanza di tempo, è risbocciato con grande reciproca soddisfazione.

Ecco perché sono perfettamente d’accordo con gli illustri personaggi della cultura, i quali sostengono che la scuola è socialità e non si rimpiazza con monitor e tablet. Lo ribadisce, con la solita verve polemica, anche il professor Massimo Cacciari. In questo periodo in cui la scuola e l’università sono state costrette a funzionare sulle ali del web sono stato invaso da un grande senso di tristezza: la forzata riscoperta del nozionismo condito in salsa informatica. Quando ripercorro la mia vita scolastica, lo faccio spesso e volentieri, sono solito partire dagli insegnanti, dai loro messaggi, dai loro insegnamenti più di vita e di cultura che di materie in senso stretto. Tanti bei ricordi. Quando ho presentato pubblicamente il mio primo libro mi sono trovato davanti la mia ex insegnante d’Italiano: eravamo entrambi commossi, perché la vita si sposava perfettamente con la scuola.

Per non parlare dell’università: quanta soddisfazione quando un docente di ragioneria mi ha chiesto di tenere alcune conferenze in materia di bilancio delle società cooperative nell’ambito di un corso speciale organizzato dal suo istituto. Era la riprova vivente di quello che avevo sempre pensato: l’università non mi aveva fornito solo nozioni di alto livello scientifico, ma mi aveva insegnato anche e soprattutto a ragionare, a studiare, a legare scienza e vita professionale. E in questa mission universitaria erano stati fondamentali l’aspetto umano, il dialogo con i docenti e con i colleghi, la partecipazione alle discussioni nei seminari. Sarò un retrogrado, e a quanto pare sono in buonissima compagnia, ma non riesco a rassegnarmi ad una fredda, distanziata e distaccata impostazione digitale dell’insegnamento e dell’apprendimento.

La ministra Azzolina sostiene che la scuola ha bisogno del digitale: sarà vero, ma non illudiamoci di reimpostare la scuola informatizzandola. Docenti, allievi, famiglie e tutto il personale scolastico stanno facendo i miracoli per tenere accesa on line la fiaccola. Finita l’emergenza non dovremo mettere la fiaccola sotto il moggio, ma nemmeno pensare di convertire tutto il sistema al digitale. Fino a prova contraria a scuola ci si dovrebbe andare per imparare e per imparare bisogna concentrarsi sulle materie proposte e non girarci intorno, occorre andare a fondo, capire, memorizzare, discutere, approfondire, etc. etc. Per raggiungere questi scopi esiste il docente che si avvale di strumenti, dai libri alle lavagne più o meno luminose. Gli smartphone servirebbero, ma non dovrebbero bypassare gli insegnanti e distrarre gli alunni, emarginando quindi i protagonisti e facendo dominare la scena al web, questa creatura impalpabile, sgusciante e fuorviante.

Nella mia vita professionale ho fatto in tempo ad usufruire, a livello convegnistico, della proiezione di slide, per seguire le quali rinunciavo a prendere appunti, seguendo il ragionamento del conferenziere di turno, che commentava e interpretava le slide stesse. Quando a distanza di qualche tempo, rispolveravo i contenuti del convegno, non mi ricordavo più niente, sfogliavo le slide e non mi dicevano nulla, appunti non ne avevo, tutto si era volatilizzato. Gli appunti, i sani appunti, i libri, i sani libri dove erano finiti? Tra di me pensavo, se tanto mi dà tanto, agli studenti, che si formano sulla base di queste metodologie d’avanguardia, alla fine cosa rimarrà in testa.

Il tempo è passato e il problema si è drammaticamente ingigantito in conseguenza del coronavirus. È vero che ogni strumento non è buono o cattivo di per sé, ma la sua positività e utilità dipendono dall’uso che ne viene fatto, ma è altrettanto vero che non si può mettere un coltello in mano a un infante. Mio padre non voleva che mia sorella, da piccola, usasse aghi e forbici per imparare a cucire (mia madre oltretutto faceva la magliaia e poteva sovrintendere con una certa cognizione di causa): temeva che si potesse infilzare gli occhi e non era una preoccupazione assurda, un timore da matusa.

Non so se la scuola on line possa essere considerata pericolosa in assoluto, non vorrei esagerare, ma certamente non è il modo ideale per frequentare al meglio le aule scolastiche, rendendole virtuali. Con buona pace della ministra, dei rivenditori di computer e smartphone e di chi pensa che il cervello (e il cuore) possa essere sostituito da una macchinetta prodigiosa. Penso di essermi spiegato anche se sono sicuro di venire conseguentemente catalogato nella categoria dei retrogradi.  Pazienza, l’età e la mentalità lo possono comportare.

 

Il cuore oltre la politica

Davanti alle lacrime di commozione di qualsiasi persona sono portato a chinare il capo in segno di grande rispetto e a solidarizzare umanamente. Perché non dovrebbe valere per una persona investita da funzioni politico-istituzionali? Perché pretendiamo da un ministro o da una ministra che ostenti atteggiamenti da superuomo o da superdonna? Poi magari ci lamentiamo perché i politici sono lontani dai problemi e dalle sofferenze dei cittadini!

Davanti al pianto di Teresa Bellanova, ministra dell’agricoltura, ho avuto un moto di grande ammirazione: vi ho visto la soddisfazione per una battaglia di civiltà effettuata nel sindacato e in politica a favore dei soggetti più deboli e indifesi. Tanto di cappello nel merito e nel metodo! Ho avuto conferma del notevole livello umano ed etico di questa donna anche leggendo la notizia che riporto di seguito.

Resterà un giocatore del NibionnOggiono (Lecco) Davide Castagna, l’attaccante del campionato di serie D finito sotto accusa per aver pesantemente insultato su Facebook il ministro delle Politiche agricole, Teresa Bellanova. L’atleta aveva scritto commenti offensivi nei confronti del ministro che recentemente aveva minacciato le dimissioni dopo aver chiesto la regolarizzazione di numerosi lavoratori agricoli. La società calcistica, venuta a conoscenza del comportamento del giocatore, aveva in un primo tempo sospeso Castagna e quindi aveva anche annunciato la risoluzione immediata del contratto.

Ieri però il ministro Bellanova, venuta a sua volta a conoscenza delle offese, ha ringraziato chi le aveva espresso solidarietà, condannando l’accaduto, apprezzando il comportamento della società, ma chiedendo che l’attaccante non venisse licenziato, visto il delicato momento che il Paese sta vivendo e certa che lo stesso avrebbe capito la gravità dell’accaduto. Oggi il calciatore si è detto pentito, scrivendo una lettera al ministro, scusandosi e promettendo che farà tesoro dell’errore commesso. A quel punto il NibionnOggiono (serie D girone B) ha annunciato di aderire all’invito del ministro e, pur ribadendo la condanna dell’episodio, ha accettato di reintegrare l’atleta, particolarmente noto nell’ambiente per aver anche a lungo giocato nel Lecco e conosciuto dai tifosi come “Il Toro di Civate”.

Sono portato molto facilmente a commuovermi. Qualcuno sorridendo penserà che sto invecchiando: realtà anagrafica inconfutabile. La propensione alla commozione è però un irrinunciabile dato del mio carattere, della mia sensibilità, di cui non mi vergogno affatto. Quindi sono propenso a prendere sul serio la commozione altrui, la ritengo una delle più alte espressioni di umanità. Nella nostra epoca lo consideriamo ironicamente e/o malignamente un segno di debolezza o una facile e comoda captatio benevolentiae, mentre è invece un sintomo di grande forza interiore. Smettiamola di confondere la durezza con la capacità di decidere e di gestire. Vale anche per i politici.

Diffido in politica da chi ostenta sicurezza. Molti anni or sono, in un confronto televisivo tra l’intelligente e brillante giornalista-conduttore Gianfranco Funari e l’allora segretario del partito popolare Mino Martinazzoli, uomo di grande profondità etica e culturale, il politico, interrogato e messo alle strette, non si fece scrupolo di rispondere in modo piuttosto anticonvenzionale ed assai poco accattivante, ma provocatoriamente affascinante, nel modo seguente (riporto a senso): «Se lei sapesse quante poche certezze ho e da quanti dubbi sono macerato… Nutro perplessità verso chi ostenta troppe certezze». L’esatto contrario dell’attuale cliché che vuole tutti pronti a sputare sentenze su tutto.

Ben vengano le lacrime a lavare anche la politica. Qualcuno ha sottilizzato sui motivi per cui occorrerebbe piangere. Sono tanti. Teresa Bellanova lo ha fatto in difesa degli immigrati e dei lavoratori sfruttati e senza diritti. Non credo abbia sbagliato il colpo. Forse bisognerebbe piangere anche per la faziosità e la strumentalità di tanti politici, che sostengono a parole di essere col popolo per poi irritarsi per la considerazione prestata ai soggetti più deboli del popolo, cioè di quanti vivono e lavorano nel nostro Paese senza avere alcun riconoscimento giuridico, economico e sociale.

 

Alla ricerca della manna nel deserto

Gli ipercritici commentatori lamentano che dei 55 miliardi stanziati dal governo con il decreto rilancio non si veda ancore il becco d’un quattrino. Un conto è stigmatizzare la pletora burocratica che ostacola l’esecuzione dei provvedimenti legislativi ed amministrativi, un conto è pretendere l’effetto immediato di un’autentica pioggia di misure articolate e complesse, distribuite un po’ su tutte le categorie economiche e sociali più in difficoltà e sofferenza per i devastanti effetti della pandemia tutt’ora in atto.

Purtroppo ci vorrà il suo tempo affinché le decisioni adottate possano tradursi in aiuti, sostegni e spinte alla ripresa economica. Non si tratta di una manna nel deserto, che, peraltro, consentiva solo di sopravvivere al punto da venire a noia degli esigenti e incontentabili beneficiari.

Se le critiche intendono chiedere un auspicabile disboscamento burocratico, sfondano porte aperte sullo storico e gravissimo problema del funzionamento della nostra macchina amministrativa. Se le lamentele riguardano il modo barbaro di legiferare usando un linguaggio incomprensibile e contorto al punto da creare fin dall’inizio una sorta di rigetto nel cittadino medio costretto a rivolgersi agli specialisti del caso per capirci ancora meno, non si può che essere d’accordo nel sottolineare come l’occasione straordinariamente grave potesse rappresentare un interessante banco di prova per avvicinare il linguaggio dei governanti a quello dei governati.

Credo però che si voglia la botte piena, la moglie ubriaca e l’amante brilla: una sorta di bacchetta magica che non è nelle possibilità di qualsiasi politico investito da questa alluvionale emergenza. Ben vengano le critiche, ma quando hanno un filo logico e una motivazione chiara e leale. Fanno quasi ridere o piangere le minacce di scioperi e manifestazioni di piazza per protestare contro la mancata attenzione governativa alle urgenti problematiche del momento.  Era previsto che la situazione potesse deflagrare a livello sociale anche con lo scoppio di veri e propri tumulti. Finora la popolazione ha dimostrato grande senso di responsabilità e molta pazienza: non so fino a quando durerà e speriamo che non sfoci in una maxi rissa sociale alimentata da mestatori nel torbido e da politicanti senza scrupoli.

La critica è il sale della democrazia se rimane all’interno dei canoni del sistema democratico ed istituzionale, il rischio che possa debordare è reale ed estremamente pericoloso. Diamoci quindi una regolata: tutti, dal governo centrale in giù. Il dibattito è troppo ed insistentemente falsato da strumentalizzazioni e pressapochismi. Sono poche le voci che obiettivamente si sforzano di analizzare la situazione e di proporre qualcosa di concreto. Gufare sulle proprie disgrazie è uno squallido espediente polemico, che prima o poi si ritorcerà contro chi ne fa uso. Tutti sono alla spasmodica ricerca di attenzione mediatica: il bue dice cornuto all’asino, se per bue intendiamo i professionisti dell’audience che criticano la pur evidente confusione comunicativa del governo. Viviamo in una società mediatica dove è quasi impossibile fare dell’informazione equilibrata ed anche i governanti cadono nel trappolone. D’altra parte molto spesso i cittadini stessi corrono dietro a chi le spara più grosse: anche gli ebrei nel deserto si lamentavano e sicuramente ci sarà stato chi aizzava le loro proteste, arrivando a far loro rimpiangere il vitto assicurato dalla cattività in Egitto.

Il Parlamento non è stato effettivamente un grande protagonista del dibattito, stretto fra l’urgenza di intervenire da parte del governo e l’urgenza di speculare da parte dell’opposizione. Quando finalmente la discussione è arrivata nelle aule parlamentari abbiamo assistito a indegne gazzarre che fanno male alla democrazia. In effetti il coronavirus intacca anche i polmoni della democrazia costretta ad essere ricoverata in terapia intensiva: speriamo ne esca senza subire danni irreversibili.

 

E pensare che governavano insieme…

Un attacco alla sanità lombarda da parte del deputato M5s Riccardo Ricciardi scatena l’ira della Lega e costringe il presidente Roberto Fico a sospendere la seduta alla Camera durante il dibattito sull’informativa del presidente del Consiglio Conte sulla Fase 2. Contro l’affondo del M5S anche la leader di FdI Meloni, che ha parlato di precisa strategia della maggioranza. Ricciardi ha sostenuto che chi attacca il governo sulle misure anti-Covid “propone il modello Lombardia”.

Grida si sono alzate dai banchi del centrodestra, ma Ricciardi ha insistito: “Lei, signor Presidente del Consiglio, doveva fare come Gallera, che in conferenza stampa si presentava puntuale, e annunciava un ospedale per il quale hanno speso 21 milioni per 25 pazienti”. Un attacco frontale che però non è piaciuto neanche a tutti i parlamentari M5S tra i quali qualcuno parla di “toni eccessivi” da parte di Ricciardi.

Giancarlo Giorgetti, autorevole esponente leghista, uscendo dall’aula ha incontrato il ministro della salute Roberto Speranza: “Tira male, io ve lo dico: qui finisce male. Qualcuno deve metterli in riga perché una roba del genere è inconcepibile, coi morti che ci sono stati…”, dice il numero due della Lega. Speranza ha replicato: “Hai ragione. Che ti devo dire? Hai ragione”, ha detto il ministro della Salute scrollando il capo davanti all’ex sottosegretario leghista.

“Non è stato un attacco ma “un insulto ai lombardi”. É la risposta di Matteo Salvini all’intervento del deputato Ricciardi che ha infiammato l’aula della Camera dopo l’informativa del premier Conte. “Gli rispondo con le parole del professor De Donno, non un politico dunque: ‘lasciateci in pace, lasciateci lavorare, ci è esplosa una bomba in casa’. Questo piccolo uomo, questo ominicchio – ha detto ancora Salvini riferito al deputato M5S – si sciacqui la bocca prima di parlare dei cittadini lombardi e della sanità lombarda”.

Man mano che (forse) l’emergenza sanitaria coronavirus si stempera, almeno nelle impressioni un po’ di tutti, quel minimo di tolleranza reciproca, che aveva faticosamente caratterizzato i rapporti politici, si sta rivelando un fuoco che covava sotto la cenere e che sta incendiando in modo vergognoso il dibattito a livello parlamentare.

Prescindo dal merito della questione della sanità in Lombardia, su cui peraltro ho già fatto qualche riflessione, per puntare sul quadro politico che si sta delineando. Quando due populismi si scontrano non possono che provocare scintille, da cui possono nascere anche pericolosissimi incendi. Allo sbracato e chiaro populismo leghista fa riscontro quello subdolo e malcelato del M5S: si viaggia a colpi di bastone, si gioca allo scaricabarile, si trasforma il Parlamento in un “bar istituzionale” in cui sfogare le proprie ire sul nemico di turno. La pandemia? Colpa della sanità lombarda! L’azione del governo per l’emergenza? Una pletora di messaggi inutili e illusionistici! Questi i reciproci attacchi su cui non si può che litigare di brutto. Ha un bel daffare il presidente della Repubblica nel richiamare tutti al senso di responsabilità, all’unità ed alla collaborazione. La risposta è una bagarre infantile, disgustosa e insopportabile.

E pensare che questi signori, che non si risparmiano colpi sotto la cintura, hanno (s)governato insieme per oltre un anno. Pensiamo se fossero ancora insieme al governo in questo drammatico periodo…ne succederebbero delle belle…Speriamo almeno che la gente veda e si renda conto. Non invidio il partito democratico, peraltro non indenne da difetti e manchevolezze, il quale però deve fare i conti con un alleato che si pone sullo stesso piano populistico dell’opposizione leghista. Non invidio Giuseppe Conte, un premier che deve tribolare parecchio per frenare i bollenti spiriti di coloro che, a suo tempo, lo sono andati a scovare per portarlo a Palazzo Chigi.

L’attuale governo, a detta di tutti gli osservatori, non ha alternative. Ciò non significa che possa galleggiare su un quadro politico in via di progressivo deterioramento. Da una parte la più consistente forza di maggioranza, il M5S, che in preda alla sempre più evidente crisi di identità e di leadership, non rinuncia a cavalcare nei toni e nei contenuti i temi populisticamente più rilevanti, vale a dire l’euroscetticismo, l’immigrazione, il giustizialismo. Dall’altra la meno consistente forza politica, Italia viva, che, in preda al delirio del suo leader, gioca a fare l’ago della (s)bilancia. Aggiungiamoci un livello piuttosto mediocre dei ministri in campo.  Concludiamo il quadro: una opposizione rissosa e distruttiva con cui fare i conti. C’è di che preoccuparsi seriamente, anche perché la situazione in cui viviamo è semplicemente esplosiva sul piano economico e sociale. Attenzione alla tenuta democratica del Paese!