Una ministra a ruota libera

“Le risorse che saranno stanziate dal prossimo decreto le ritengo del tutto insufficienti per rispondere alle reali esigenze delle famiglie. La mia richiesta non è stata accolta, non sono stati stanziati sufficienti soldi”. Lo ha detto il ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti su Tgcom.24 ai microfoni di Paolo Liguori durante ‘Fatti e Misfatti’.

“Avevo proposto un assegno per ogni figlio che non è stato accolto dalla maggioranza” ha ricordato la ministra Bonetti. “Avevo chiesto – ha sottolineato – risorse adeguate per i congedi parentali e i voucher baby-sitter da estendere però per un maggior utilizzo per i servizi educativi.  Credo sia un errore, in questo momento le famiglie italiane necessitano davvero di investimenti. Da esponente del Governo devo accettare fatiche e battaglie perse, anche se giuste”. La ministra ha poi spiegato: “Ci saranno delle risorse, non tante, per costruire una rete di servizi educativi, cioè attività come i centri estivi in aiuto per le famiglie e sono convinta che queste risorse sapranno attivare quella comunità educante che non è presente solo nella scuola ma anche fuori e che comprende il terzo settore, le comunità locali, il volontariato, il mondo dello sport. Non lasceremo sole le famiglie”.

Non entro nel merito della congruità degli stanziamenti governativi a favore delle famiglie in gravi difficoltà a causa della pandemia che ci sta torturando. Prendo solo in considerazione l’atteggiamento politico-istituzionale di questa gentile ministra. Sono oltre cinquant’anni che seguo, dal di dentro e dal di fuori, la politica e quindi non mi scandalizzo certamente di contrasti all’interno del governo su materie complicate e delicate come il contrasto socio-economico al coronavirus.

Però mi sento di valutare negativamente l’atteggiamento della ministra sul piano del metodo e dell’opportunità. Dal punto di vista procedurale, mai come in questo momento, sarebbe necessario osservare i percorsi corretti, che non si possono individuare in dichiarazioni mediatiche rese in libertà. Il ministro faccia la sua battaglia all’interno del governo, parli col presidente del Consiglio, alzi la voce a palazzo Chigi, minacci le dimissioni, sbatta i pugni sul tavolo, ma non la butti sul piano pubblico. Questa non è trasparenza, è autentico casino.

In secondo luogo la posizione di Elena Bonetti sa molto di timbratura del cartellino: mera difesa della causa famigliare senza considerare le compatibilità e le risorse a disposizione. Se ogni ministro si mette a perorare pubblicamente la causa del suo retroterra alla stregua di un sindacalista, non se ne esce. I ministri non devono essere meri raccoglitori e rappresentanti di istanze, ma si dovrebbero sforzare di elaborare risposte agibili a tali domande. Altrimenti, piano-piano, mandiamo in crisi il governo, già sufficientemente debole a livello parlamentare per i noti contrasti fra partiti; se ci aggiungiamo anche contrasti fra ministri e col capo del governo, completiamo il penoso quadro che già abbiamo davanti.

Ricordo ai tempi della cosiddetta “prima repubblica” come si venissero a creare dure contrapposizioni a livello governativo, ma si trattava di questioni di linea politica, se si vuole ancora più gravi, ma sicuramente più serie. I dilettanti allo sbaraglio emergono prepotentemente e nemmeno il coronavirus ha il potere di dare una regolata a chi la politica non sa neanche dove stia di casa. Può darsi che alla fine Elena Bonetti riesca a strappare qualche ricorsa in più per la famiglia, ma a prezzo di sacrificare ulteriormente la credibilità dell’intero governo.

L’occasione fa la giustizia debole

Di Matteo contro Bonafede. L’ex pm antimafia di Palermo ora al Csm contro il ministro della Giustizia. Non in una sede istituzionale. Ma in una trasmissione televisiva. Poco prima di mezzanotte a Non è l’arena di Massimo Giletti. Tema: il posto di capo del Dipartimento delle carceri. Questo incarico è tornato d’attualità dopo le dimissioni di Francesco Basentini a motivo delle polemiche sulle scarcerazioni dei boss mafiosi per l’emergenza coronavirus e la successiva nomina a questa funzione del già procuratore generale di Reggio Calabria, Dino Petralia da parte del ministro della Giustizia competente in materia. Una faccenda piuttosto delicata e obiettivamente poco chiara a cui si è aggiunta una polemica devastante innescata da un altro importante giudice, che in merito ha rivangato una precedente vicenda.

In sintesi: Nino Di Matteo, ex pm antimafia di Palermo e ora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, accusa il ministro Alfonso Bonafede di avergli prima proposto, nel 2018, quindi nel governo Lega-M5S, di fare il capo delle carceri. Ma dopo due giorni avrebbe fatto marcia indietro. La voce corre. La polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono “se arriva questo abbiamo chiuso”, “faremo ammuina”. Le telefonate diventano pubbliche con un articolo del Fatto quotidiano.

Di Matteo afferma adesso di essere tornato da Bonafede per accettare il posto al Dap, ma a quel punto il Guardasigilli gli avrebbe detto di aver scelto Francesco Basentini, mentre per lui era disponibile la poltrona di direttore degli Affari penali. Dopo la telefonata di Di Matteo ecco quella di Bonafede che si dichiara “esterrefatto” e propone una versione del tutto opposta nella ricostruzione della proposta e dei tempi. Avrebbe ipotizzato subito con Di Matteo le due soluzioni, la direzione del Dap o quella degli Affari penali, dicendogli però di preferire la seconda strada, perché quello era il posto che fu di Giovanni Falcone ed era più importante nella lotta contro la mafia.

Dopo neppure dieci minuti, da poco passata la mezzanotte, ecco la prima reazione, quella dell’ex magistrato Cosimo Maria Ferri, adesso deputato renziano, ma anche ex sottosegretario alla Giustizia, che dice “ma dov’è finita la sua trasparenza? perché Bonafede non lo ha mai raccontato? ora venga in Parlamento a dire cosa è successo”. A ruota si preannuncia la tempesta leghista con l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone che già parla di aprire il caso in Parlamento. È scoppiato un autentico pandemonio politico.

Evidentemente il giudice Di Matteo ha colto l’occasione per togliersi un grosso sasso dalla scarpa, gettando un sinistro lampo di luce sul ministro Bonafede, accusato indirettamente di essere stato, come minimo, poco coraggioso, di fronte alle reazioni mafiose.  Il ministro messo tardivamente, improvvisamente e sbrigativamente sotto accusa, si difende con un certo e peraltro comprensibile imbarazzo istituzionale, procedurale e personale. Una cosa è sicura: non si gestiscono così i rapporti tra politica e magistratura. Se il giudice Nino Di Matteo aveva da eccepire cose così gravi, lo doveva fare nei tempi dovuti e con modalità ben diverse: non con dichiarazioni sparate alla viva il Parroco ed a distanza di tempo. Non è ammesso agire con tale pressapochismo da cortile.

Il ministro chiarisca per filo e per segno il suo comportamento senza timore di andare davanti al Parlamento per difendere la propria immagine e il proprio operato; il Consiglio Superiore della Magistratura esamini il caso e prenda le opportune posizioni e gli eventuali opportuni provvedimenti. In piena bagarre coronavirus non ci voleva anche questa grana, su cui si stanno buttando scriteriatamente un po’ tutti.

Troppo protagonismo della magistratura, come si sta verificando da tanto tempo, non fa bene alla giustizia: un conto è il coraggio della propria azione, un conto sono gli esibizionismi inutili e rischiosi. Il rapporto con la politica è estremamente difficile e delicato, ma proprio per questo non va impostato con velenosi attacchi al di fuori dei percorsi istituzionali e, forse, persino strumentalizzando le inchieste. La politica, dal canto suo, deve essere più chiara, trasparente e competente al di fuori della stucchevole contrapposizione fra garantismo e giustizialismo; deve smetterla di blandire o attaccare i giudici ed assumersi interamente le proprie responsabilità.  Ognuno faccia il proprio mestiere e, se esistono contrasti, si portino e si risolvano di fronte agli organi competenti e non nelle trasmissioni televisive.

Il coronavirus non finisce mai di stupire: sta mettendo a nudo tutta la criticità del nostro sistema, non si fa mancare niente, va a toccare persino i rapporti tra politica e magistratura. Non vorrei che alle migliaia di morti senza dignitose esequie si aggiungesse il funerale alla giustizia ed alle sue istituzioni. Sarebbe l’ennesimo e gravissimo guaio. Facciano tutti un passo indietro, entrino in un doveroso lock down in attesa che chi di dovere faccia chiarezza, la qual osa non vuol dire mettere un politico confusionario alla gogna o santificare subito una toga comunque troppo loquace.

L’Italia una e trina

I dati dell’Istat certificano la realtà di un Paese segnato molto diversamente dal passaggio del Covid 19: in 36 province il dato è raddoppiato e mentre al Nord i numeri sono tragici, in 34 province del Centro-Sud la mortalità è calata in media dell’1,8%.

In diverse aree d’Italia, quelle meno colpite dal virus (in larga prevalenza al Centrosud) nel marzo 2020 si registrano addirittura meno morti rispetto alla media degli anni scorsi: nel complesso, si legge nel report Istat/Iss sull’impatto del Covid-19 sulla mortalità, nelle aree a bassa diffusione (1.817 comuni, 34 province per lo più del Centro e del Mezzogiorno) i decessi del mese di marzo 2020 sono mediamente inferiori dell’1,8% alla media del quinquennio precedente. A spiccare è il dato di Roma, che a marzo fa segnare un -9,4% rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni: 3.757 morti quest’anno, 4.121 in media. Giù anche Napoli, che registra un -0,9% di mortalità.

Per “leggere correttamente” i dati sui decessi dopo il coronavirus – secondo l’Istat – bisognerebbe parlare di “tre Italie”. “La diffusione geografica dell’epidemia di Covid-19 è eterogenea”, si legge nel report. “Nelle Regioni del Sud e nelle isole, la diffusione delle infezioni è stata molto contenuta, in quelle del Centro, è stata mediamente più elevata rispetto al Mezzogiorno mentre in quelle del Nord la circolazione del virus è stata molto elevata. Secondo il rapporto Istat a cui sto facendo riferimento, a marzo la mortalità è aumentata del 49,4%, ma il virus lascia un’Italia spaccata: Bergamo +568%, Roma -9,4%.

Chi vuole può sbizzarrirsi con i dati esposti anche in modo più articolato e interessante. La statistica non mi ha mai interessato più di tanto, ma con essa bisogna pur farci i conti. Emerge una netta spaccatura in tre Italie. Non è una novità, ma è piuttosto inquietante vederne il collegamento con l’epidemia per farsi una domanda: perché dove la società è più avanzata, più strutturata, più evoluta e, in fin dei conti, più ricca, una tremenda malattia attecchisce molto di più? D’acchito e da tempo mi sono dato una banale risposta: dove la società è più viva esiste una maggiore quantità di rapporti e quindi una maggiore possibilità di infezione e contagio. Risposta esauriente e convincente? Fino a mezzogiorno.

Se il benessere impostato e perseguito “alla lombarda”, ma si potrebbe dire anche all’emiliana, paga prezzi così alti di fronte a certe emergenze, probabilmente c’è qualcosa che tocca. Non voglio ideologizzare e, tanto meno, politicizzare il discorso, ma davanti a questi dati inquietanti occorrerà farsi qualche ulteriore domanda e abbozzare qualche grezza risposta, tutta da approfondire. Stiamo perseguendo un obiettivo di società molto contraddittorio: il progresso economico che abbatte le difese immunitarie verso i disastri sanitari ed ecologici. Al centro del nostro progresso non ci sono l’uomo e la natura, ma i soldi e il godimento. Non sappiamo difenderci né prima, né durante né dopo le emergenze. Alle spaccature territoriali, si aggiungono quelle sociali e finanche quelle generazionali.

Non sono né un pauperista, né un cretino ecologico, né un ambientalista della domenica, né un menagramo della salute pubblica. Non sono però nemmeno uno che pensa alla nostra società come la migliore possibile e immaginabile. Se il discorso, per dirla con Churchill, può essere applicato al sistema democratico, non mi sentirei di allargarlo acriticamente a quello capitalistico. È curioso che il coronavirus abbia attecchito nelle due società agli estremi (che si toccano) della concezione socio-economica e soprattutto politica, la Cina e gli Usa. Trump si difende alla sua maniera con la dietrologia anti-comunista. I cinesi si sono difesi con la gestione autoritaria dell’emergenza. E l’Italia è coinvolta alla grande.  Perché così tanto e in modo così scombinato? Proviamo a pensarci sopra.

 

Un po’ di provocazione fa male, ma può servire

Se non erro, siamo a cinque e non è escluso che, nel giro di qualche giorno, si arrivi a sei. Mi riferisco ai modelli di autodichiarazione per gli spostamenti consentiti in tempo di coronavirus. È solo la punta dell’iceberg della confusa azione di contenimento della pandemia. Ammetto di voler fare di seguito una solenne e “sconclusionata”  provocazione, estremizzando i discorsi per far emergere qualche verità o meglio per portare a galla cose che in molti pensano e nessuno osa ammettere.

Confesso di non credere nella fattibilità e nella ammissibilità di una riapertura graduale: i dati epidemiologici, per farla breve, non la consentono. Il giorno 02 maggio si sono registrati 474 decessi, di cui 192 della giornata e 282 di aprile, il giorno successivo i decessi si sono portati a 177. I dati lasciano parecchi dubbi. A pensare male si fa peccato e spero sinceramente di non azzeccarci. Siamo al bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che non serve comunque a giudicare realmente e seriamente una situazione disastrosa.

I provvedimenti in questa delicatissima materia funzionano se sono drastici e generali, diversamente si crea una confusione pazzesca in cui tutto rischia di essere consentito.  Mi auguro di sbagliare, ma nei prossimi giorni potremmo avere ripercussioni piuttosto gravi e spiacevoli. Non si può trovare un compromesso onorevole tra difesa della salute e difesa del sistema economico: siamo ancora in piena epidemia e occorre privilegiare l’incolumità dei cittadini. Il discorso economico al momento dovrebbe essere affrontato con poderosi aiuti finanziari ai soggetti più colpiti, più deboli e meno protetti. E le risorse? Bisogna trovarle e anche alla svelta! Tutte le possibili fonti vanno attivate: l’emergenza si affronta con misure emergenziali e non con mezze misure emergenziali. Dobbiamo entrare nella mentalità di essere già tutti più poveri e di contribuire a salvaguardare la salute di tutti.

Nel frattempo si arrivi ad una sorta di screening di massa, con semplici analisi fatte a tutti e possibilmente aggiornate a ragionevoli intervalli: non sono stati fatti i tamponi nemmeno a tutti coloro che hanno smaltito la malattia a domicilio. Non si scappa, per tenere sotto controllo la situazione bisogna controllarla e non fare chiacchiere informatiche.

In più di due mesi, da quanto mi è dato intuire, non si è fatta significativa disinfestazione del suolo e dei luoghi pubblici (forse era utile: non credo che in Cina lo facessero solo per fare scena). Siamo arrivati alle mascherine per tutti (?) con enorme e incredibile ritardo. I casi sono due: o ci rassegniamo ad una lunga ulteriore quarantena con enormi sacrifici o scegliamo di rischiare tutto sull’altare dell’economia per paura di impoverirci.  Tenere i piedi in un due paia di scarpe non è possibile, se non sperando nei miracoli (perché no…) o in terapie e vaccini a brevissimo termine (cosa impossibile, se non rientrante nella categoria dei miracoli…).

Il discorso dell’impoverimento generale è inevitabile e quindi meglio affrontarlo e gestirlo di petto che subirlo dopo manovre dilatorie e illusorie. Se mi si deve tagliare la pensione, lo si faccia subito e almeno potrà servire a qualcosa, meglio che arrivarci a babbo morto, a frittata fatta. Questi sono i discorsi per gli italiani: non quelli arzigogolati dei governanti, non quelli demenziali e strumentali delle opposizioni, non quelli (im)possibilisti delle regioni in vena di protagonismo d’accatto. Sono stanco di girare intorno al problema, di sentire proposte che valgono poco più di un baffo, di assistere ad assurde bagarre politiche ed istituzionali, di essere coinvolto in un dibattito che lascia i morti che trova, anzi rischia di aumentarli. Forse la verità nuda e cruda non è stata mai detta durante questi mesi, in modo più o meno abile e sofisticato stiamo continuando a vivere di balle politicamente (s)corrette, che stanno in poco posto. Il posto-letto carente negli ospedali e il posto-lavoro in bilico nelle fabbriche.

La classe degli asini

Non intendo fare dell’ideologismo regionale, ma qualche considerazione, su come certe regioni si stanno atteggiando e comportando di fronte all’emergenza coronavirus, viene spontanea. È quanto meno singolare che gli amministratori pubblici delle regioni più colpite pretendano di svolgere un ruolo da primi della classe e di dettare tempi e modi dell’uscita dal lock down. Prima hanno fatto il diavolo a quattro per chiudere tutto, adesso spingono per aprire in fretta e furia: denominatore comune di queste posizioni contraddittorie è dare l’idea di essere i più bravi, i decisionisti, gli aperturisti, i capaci, soprattutto migliori del governo centrale, un covo di imbranati, tentennanti, burocratici e inadeguati. Sempre in prima fila a contendersi la scena con l’atteggiamento dei saputelli.

Mi riferisco a Lombardia e Veneto. Non mi avventuro in analisi socio-politiche alla ricerca dei motivi per cui il virus abbia attecchito di più in queste zone e sia tutt’ora più attivo. Non accetto però nemmeno di essere frastornato dalla lezione continua e fasulla dei governatori di queste regioni: si facessero un bell’esame di coscienza e la smettessero di sputare ricette facili. Molte cose non hanno funzionato e non stanno funzionando e quindi penso sia ora di smetterla con questo autonomismo del cavolo, riconducibile, stringi-stringi, alla strategia della Lega, tendente ad accreditarsi come buon governo regionale capace di fare il salto o di dare l’assalto al governo centrale.

È pur vero che l’unico volto spendibile dalla Lega, al di là della demagogia spicciola, è quello di un certo radicamento territoriale e di una classe dirigente periferica con un minimo di esperienza e credibilità. Da qui a rappresentare un ipotetico salto di qualità nella gestione della cosa pubblica la distanza è notevole. Il coronavirus è vissuto quindi come esame di ammissione governativa e quindi bisogna meritare, bene o male, i voti che consentano di spiccare il volo. Il gioco è scoperto e insopportabile. All’inizio mi ero illuso che questo bagno di protagonismo fine a se stesso potesse esserci risparmiato: troppo grande la prova per essere affrontata con questa logica politicistica. Invece, strada facendo, siamo caduti nella più bieca delle gare al regionalismo nordista bello e buono da contrapporre al centralismo brutto e cattivo.

Gli errori, i limiti, i difetti dell’attuale compagine governativa emergono con tutta evidenza da questa inedita e gravissima esperienza, ma ne trovo forse di più numerosi e gravi a livello regionale. Ognuno si guardi in casa propria. Staremo a vedere il casino che salterà fuori dalla fase due: Veneto spalancato, Lombardia aperta, Piemonte aperto ma non troppo, Emilia socchiusa, il resto d’Italia che sta a guardare. E la gente indecisa tra il garantismo sanitario e l’aperturismo economico.

Non mi sono mai piaciuti i primi della classe: a stento li sopportavo se davano una mano e lasciavano copiare i compiti. Figurarsi se mi piacciono quelli che si danno arie da primi della classe senza esserlo e magari pretendono di metter dietro la lavagna i poveri diavoli che cercano di arrabattarsi con scarsi risultati. Al maestro con scarsa personalità si possono fare tranquillamente le boccacce, salvo bollarlo come autoritario se osa dare qualche voto sul registro; se poi arriva un maestro severo bisogna dargli addosso e puntare ad un supplente. Se il supplente non c’è o non accetta l’incarico, tanto meglio per continuare a prendere in giro tutti. Evviva la scuola di governo!

 

Renzi morde e non si capisce se fugge

Qualcuno, riferendosi a Gianfranco Fini, sputava questa amara sentenza: “Non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Discorso che peraltro potrebbe essere tranquillamente applicato a parecchi esponenti politici passati, presenti e (speriamo non) futuri. Parafrasando la sarcastica espressione per applicarla a Matteo Renzi protagonista di questa tremenda fase politica, potrei azzardare così: “Sa parecchie cose, ma ne dice troppe e, soprattutto, nel modo e nel momento sbagliato”.

Faccio al riguardo di seguito alcune citazioni letterali riconducibili all’intervento di Renzi in Parlamento durante il dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio sulla cosiddetta fase due nella lotta al coronavirus.

“Glielo diciamo in faccia: siamo a un bivio. Se sceglierà il populismo non ci avrà al suo fianco”. “Non siamo dalla parte del coronavirus quando diciamo di riaprire. La gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare ci direbbe di riaprire”.

Renzi ha incalzato il premier: “E’ stato bravo a rassicurare gli italiani. Il punto però è che nella fase 2 della politica non basta giocare su paura e preoccupazione. C’è una ricostruzione da fare che è devastante e richiederà visione e scelte coraggiose. Sia più prudente quando parla agli italiani: lei ha detto 11 volte ‘noi consentiamo’. Un presidente del Consiglio non consente, perché le libertà costituzionali vengono prima di lei. Lei non le consente, le riconosce. Io ho negato a Salvini i pieni poteri: non l’ho fatto per darli ad altri”.

“Il suo intervento – ha affermato ancora il leader di Italia Viva rivolgendosi al premier – esige risposte in nome della libertà e della verità: gli italiani per l’emergenza sanitaria sono in uno stato che ricorda gli arresti domiciliari. Non ne usciamo con un paternalismo populista o una visione priva di politica. Nessuno le ha chiesto di riaprire tutto, abbiamo chiesto riaperture con gradualità e proporzionalità”.

“Non possiamo delegare tutto alla comunità scientifica – ha affermato ancora Renzi -. Figuriamoci se non sono contento di vedere questa grande passione per la comunità scientifica che sta prendendo tutto il parlamento, anche chi negli anni scorsi attaccava i virologi o addirittura si proclamava no vax. Il nostro Paese ha avuto momenti in cui la politica ha abdicato rispetto alle sue responsabilità, nel 92-93 ha abdicato alla magistratura, nel primo decennio del 2000 ha abdicato ai tecnici, ora non possiamo abdicare ai virologi, non possiamo chiedere loro come combattere la disoccupazione, tocca alla politica”.

“La presidente Cartabia ha detto con chiarezza che in queste situazioni di emergenza la Costituzione è la bussola: nemmeno durante il terrorismo abbiamo derogato così tanto alla Costituzione – ha detto -. Richiamarla a un uso più prudente dei Dpcm non è lesa maestà. Non può essere un Dpcm a dire se l’amicizia è vera o no, se il fidanzamento è saltuario o stabile, sennò ci avviciniamo allo stato etico”.

Vorrei analizzare nel merito, sinteticamente e per sommi capi, le aspre e (quasi) ricattatorie critiche rivolte da Renzi al presidente del Consiglio.

Quanto al rischio di populismo sinceramente non mi sembra che Giuseppe Conte lo corra più di altri, Renzi compreso. Se si vuole imputare a Conte una eccessiva preoccupazione di curare la propria immagine e di salvaguardare il consenso a sé indirizzato, posso essere in parte d’accordo: troppe e talora inutili conferenze stampa, troppa ed enfatica attenzione ai media e, tramite essi, ai cittadini e poco riguardo verso il Parlamento. Se però avesse parlato meno ai cittadini, gli verrebbe imputato un atteggiamento di aristocrazia istituzionale, di lontananza dalle sofferenze della gente. Mio padre sosteneva che, quando non si va d’accordo, a parlare si sbaglia sempre. Conte ha parlato e sta parlando troppo, spende molte parole ed effettivamente sarebbe meglio che privilegiasse non tanto i fatti, ma l’attenzione alla corretta concretizzazione delle decisioni fattuali operate (mi riferisco a tutte le pastoie burocratiche che stanno pregiudicando e rallentando l’effetto di tanti provvedimenti adottati).

In materia di rispetto delle libertà costituzionali, qualcosa di meglio si poteva fare. Forse non bastava governare a suon di decreti amministrativi, occorreva disegnare a livello parlamentare, compatibilmente con i tempi strettissimi di intervento, un quadro legislativo tale da giustificare una interpretazione restrittiva di certe libertà sacrificate al bene comune.

Relativamente al rischio di delegare tutto alla comunità scientifica c’è da essere abbastanza preoccupati. La politica deve mantenere la sua capacità di ascolto, di sintesi e di decisione. Ognuno deve fare la sua parte ed assumersi le sue responsabilità. Effettivamente a dare troppa retta ai virologi, si può rischiare di paralizzare il Paese all’infinito, ma è altrettanto vero che sottovalutare i rischi, sottolineati, seppure in modo a volte contraddittorio e confuso, dalla scienza, sarebbe un errore imperdonabile e irreversibile. Trovare una via di comportamento che sappia coniugare coraggio e prudenza di fronte alle centinaia di morti che si verificano giornalmente è impresa ardua al limite dell’impossibile.

In conclusione, Renzi ha acutamente messi il dito nelle piaghe dell’azione di governo, ma pur ricordando che il medico pietoso fa la piaga puzzolente, non è il caso di assumere toni così pesanti, quasi distruttivi. Si può criticare con maggiore obiettività e lealtà. Nessuno ha la verità in tasca.

Sulle parole relative ai morti di Bergamo e Brescia Il primo a scagliarsi contro l’ex premier è stato l’europarlamentare M5S Fabio Massimo Castaldo “Sono rimasto inorridito. Ma stiamo scherzando? Ma come si permette questo personaggio in cerca d’autore, malato di visibilità, di strumentalizzare la sofferenza delle persone per fare propaganda?”. Indignato anche il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: “Mi pare un’uscita a dir poco infelice. Se Renzi voleva rendere omaggio ai nostri morti, il modo – coinvolgerli a sostegno della sua proposta di riapertura delle attività – è decisamente quello sbagliato”. Non credo che Renzi intendesse strumentalizzare i morti, ma certo un po’ di prudenza nel linguaggio, un po’ di moderazione nei toni non guasterebbe.

Poi è arrivata la ciliegina sulla torta, vale a dire l’affondo politico di Renzi: nel caso in cui Italia Viva dovesse lasciare “penso che in Parlamento ci sarà una nuova maggioranza. Se Conte ha i numeri con Berlusconi per andare avanti io non ho nessun problema” ha detto da Bruno Vespa. Due errori in uno: l’ingiusto e inopportuno svaccamento dell’atteggiamento criticamente moderato di Silvio Berlusconi e della sua residuale Forza Italia, da non cestinare tout court (in questo momento più che mai, c’è bisogno di tutti, anche della moderazione del Cavaliere, senza farsi illusioni, ma senza pregiudiziali chiusure); la subdola presa di distanza dalla maggioranza di governo giustificata pretestuosamente con il pericolo di inquinamento politico destrorso (storia vecchia quella di mettere strumentalmente le mani avanti per preparare  dialetticamente scelte che covano nel petto).

Ecco perché ho esordito dicendo ““Renzi sa parecchie cose, ma ne dice troppe e, soprattutto, nel modo e nel momento sbagliato”. Mi permetto di aggiungere che la parola che dice non si comprende se sia “vóce del sén fuggita pòi richiamàr non vale” o se sia voce dalla mente partorita per un disegno politico preciso, che non capisco e, se capisco, non condivido.

 

Opposizione respinta

La comprensione, la saggezza e l’equilibrio dimostrati dal popolo italiano preoccupano certe forze politiche, che si vedono spiazzate nelle loro tattiche: il timore è che l’obbedienza civile e il rispetto per le istituzioni, seppure più obbligati che convinti, possano indirettamente rafforzare gli attuali equilibri ed in particolare la posizione del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Il clima emergenziale porta la gente ad accantonare le contrapposizioni e le polemiche politiche per andare al sodo delle questioni.

E allora per recuperare terreno e consenso viene rispolverato tutto l’armamentario demagogico e il dibattito viene trasformato in rissa parlamentare: si è scatenata da parte della Lega una inqualificabile azione volta a creare malcontento e conflittualità con vergognose bagarre e occupazioni nelle aule parlamentari. Attenzione, perché di queste pacchiane strumentalizzazioni la Lega, prima o poi, dovrà rispondere agli italiani, che forse col coronavirus potrebbero cominciare ad aprire gli occhi sulla inconsistenza politica del centro-destra a trazione leghista.

La Lega è un partito di rissa nazionale e di governo regionale: appaiono come due facce di una medaglia paradossale. Se il governo centrale non è esente da critiche, i governi regionali non si sono certo dimostrati esempi di bravura, tempestività ed efficienza. Come si fa a tenere un piede nel dialogo e nella collaborazione delle cabine di regia e soffiare sul fuoco delle contrapposizioni manichee nelle aule parlamentari.

Per coprire in qualche modo la propria inconsistenza politica si blatera di eventuali governi di unità nazionale da promuovere per gestire la grave situazione: e quale unità si potrebbe mai costruire partendo dalle divisioni in atto? Appare francamente demenziale pretendere di costruire su macerie divisive prospettive di unità e collaborazione.  In realtà alla Lega fa paura l’essere provocata dall’ipotesi di un serio governo futuro di solidarietà, che metterebbe a nudo le sue contraddizioni di merito, di metodo, di strategia e di tattica. Allora meglio apprezzare ciò che non si potrà mai comprare.

C’è poi il dente avvelenato verso l’imperdonabile Giuseppe Conte, reo di avere liquidato, con un rigurgito di dignità, l’esperienza del governo giallo-verde: andava benissimo quando accettava di galleggiare fra le onde dimaiane e salviniane, ora è il nemico giurato a cui bisogna farla pagare cara.

Tutto quindi si svolge al di fuori del merito delle questioni politiche, che vengono dribblate con i richiami pretestuosi alla costituzione, al parlamentarismo, alle libertà e ai diritti dei cittadini.   Stiamo rischiando di retrocedere la discussione su nodi fondamentali per la politica e le istituzioni alla querelle sul sesso degli angeli. Il dare importanza a questioni pur rilevanti, ignorando questioni urgenti e drammatiche nel momento presente, è una scelta irresponsabile e deviante.

Assistendo in televisione al dibattito parlamentare mi sono convinto che l’atteggiamento dei cittadini sia di livello molto più serio e responsabile di quello emergente dalle polemiche innescate soprattutto dall’opposizione leghista. Intendiamoci bene, non tutte le colpe sono della Lega, anche gli altri partiti non brillano, anche il governo ha commesso e sta commettendo parecchi errori di procedura, di comunicazione, di scelta, le regioni sbandano sulla strada dell’autonomia e del primadonnismo decentrato. Nessuno ha soluzioni pronte e facili. È stucchevole ridurre il dibattito tra favorevoli e contrari alla chiusura o alla riapertura. Sarà possibile ritrovare il bandolo della matassa polemicamente e strumentalmente aggrovigliata? Temo che la malapolitica possa avere il sopravvento sulla buona politica. Sarebbe una sciagura aggiuntiva, pioverebbe sul bagnato del coronavirus.  Per combattere un virus occorrono gli anticorpi, è necessario irrobustire le difese dell’organismo: vale per le persone, ma vale anche per la società. Se la politica anziché alzare le difese, le abbassa, c’è da essere seriamente preoccupati.

Ciechi, sordi e ciarlieri

Il dato unificante della battaglia contro il covid 19 è l’incertezza: stanno e stiamo andando tutti a tentoni. È così per gli scienziati e gli esperti: non hanno idee univoche sull’origine e sulle caratteristiche del virus, sulle cause del contagio, sulle misure da adottare per difendersi, sulla sintomatologia, l’accertamento e la cura della malattia, sull’immunità post-malattia. La confusione è aggravata poi dal protagonismo degli esperti, che, nonostante tutto, sputano sentenze, si accapigliano fra di loro, cambiano parere in continuazione, ostentano improbabile sicurezza.

Di fronte a questo imbarazzante quadro scientifico, la politica non può far finta di niente, deve pure ascoltare, non può ignorare i pareri tecnici, fregarsene e andare avanti per la sua strada. Certo, un conto è appiattirsi sulle analisi scientifiche, un conto è considerarle per arrivare a decisioni di governo. Gli atteggiamenti possono oscillare dalla delega (quasi) in bianco verso gli esperti al decisionismo a tutti i costi (quasi) a prescindere dalle indicazioni ricevute dagli esperti stessi. In tutti i casi si è comunque schiavi dell’incertezza.

Chi governa è incerto sul da farsi, finisce forse per dare un colpo al cerchio della salvaguardia della salute ed un colpo alla botte della ripresa economica. L’arte del compromesso si fa disperata e irreversibile. Si sbaglia sempre e comunque e gli errori si pagano carissimi. La gente sta a guardare, aspetta, comprende l’enormità della questione, ma vorrebbe cercare di uscirne il prima possibile, leccandosi le ferite più o meno inguaribili.

L’opposizione politica, esterna ed interna al governo (e questa è un’ulteriore grave anomalia) guarda le travi nell’occhio dei governanti, ma trascura le proprie, non ha controproposte serie da mettere in campo, oscilla fra il lisciare il pelo alla gente esasperata e l’attaccare strumentalmente ed esageratamente l’operato del governo. Si va dai dubbi sulla costituzionalità dei provvedimenti alla loro efficacia, dall’accusa di balbuzie europeistica alla voglia sovranista di rivendicare una velleitaria autonomia, dall’enfasi regionalistica alle accuse di centralismo e burocratismo. Due ciechi che camminano insieme certamente vanno a sbattere contro un muro o vanno a finire in un fosso. Gesù dice chiaramente: “Un cieco non può guidare un altro cieco”. Cosa accadrà a governo e opposizione che dovrebbero camminare insieme e non sanno realmente cos’è il coronavirus? Certamente vanno a finire nel fosso delle liti da cortile e nel baratro della totale ingovernabilità.

Le forze economiche e sociali, imprigionate più che mai nelle loro visioni particolari e corporative, soffiano sul fuoco delle proteste, rinunciando completamente all’improprio ruolo politico che comunque spetterebbe a loro, preoccupate soprattutto di recuperare e salvaguardare la funzione di rappresentanza peraltro persa da parecchio tempo.

Ritorno al punto di partenza: tutti vanno a tentoni, dando l’illusione di possedere ricette facili per problemi difficilissimi. È brutto ammettere di andare a tentoni, meglio cercare di spacciare l’immagine di chi è sicuro nelle proposte e nelle decisioni. E giù dichiarazioni in libertà, accuse immotivate, difese arroccate, dialoghi fra sordi, come quello raccontato sarcasticamente da mio padre.

A volte, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e, quatto- quatto, se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: “No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah, a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Visto che siamo in tema di sordità, tanto per sollevare il morale, ricordo come nel bar frequentato abitualmente da mio padre ci fosse qualche persona un po’ dura d’orecchi, uno in particolare dotato di apparecchio acustico. Gli amici, i primi tempi di utilizzo dell’aggeggio, chiedevano al ringalluzzito compagnone: “Gh’ät piè la radio? Parchè s’a te gh’la zmors a t’ podèmma där dal stuppid”.

Gli apparecchi acustici dei protagonisti della vicenda coronavirus sembrano tutti spenti e quindi tutti possono darsi dello stupido con una certa disinvoltura. Purtroppo i problemi restano e non possono aspettare che i protagonisti della vicenda riacquistino l’udito e misurino le parole.

 

Uno strano rigurgito poco eucaristico e molto clericale

Pur ammettendo di essere un cristiano di ultima serie, e lo sono veramente, confesso che la messa partecipata e vissuta comunitariamente mi manca, anche se, quando potevo, finivo magari col partecipare in modo superficiale, sbrigativo e soprattutto sganciato dall’impegno nel quotidiano.

Ammetto anche di non essermi mai sentito legato alla Chiesa come in questo momento: ai suoi pastori devo dare atto di grande vicinanza al gregge. Fatto straordinariamente positivo per l’incallito e pedante spirito critico che mi ritrovo, a cui peraltro non rinuncio. In questo mi sento perfettamente in linea con mia sorella Lucia, la quale mi ha fatto da battistrada e da esempio nella partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale.

Ecco perché mi sento di esprimere un pur rispettoso dissenso rispetto all’allarmistica reazione dei vescovi italiani riguardo al protrarsi del divieto di celebrare la messa con la partecipazione dei fedeli, motivato dal discorso del distanziamento sociale contro il coronavirus. Improvvisamente siamo passati dal fin troppo accondiscendente giudizio della fase uno al netto e aspro rifiuto nella fase due, arrivando persino a configurare una sorta di attentato alla libertà di culto.

Per la verità tutta l’azione governativa in materia di coronavirus ha viaggiato e sta viaggiando sul filo del rasoio delle libertà costituzionali: non sono sicurissimo che, a livello concettuale e procedurale, tutto stia avvenendo nel rispetto dei diritti irrinunciabili delle persone, pur sacrificati, in buona fede e con retta intenzione, sull’altare della difesa della salute dei cittadini.

Sul piano civile mi sembra che le sommesse, ma inequivocabili e convincenti, parole del Papa possano mettere fine ad un possibile quanto assurdo conflitto Stato-Chiesa a margine dell’emergenza coronavirus.  Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta nel martedì della III settimana di Pasqua. Nell’introduzione, pensando al comportamento del popolo di Dio di fronte alla fine della quarantena, ha detto: “In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”.

Per quanto riguardo l’aspetto religioso della questione riporto alcune significative, provocatorie e schiette frasi di padre Alberto Maggi, un monaco di grande spessore biblico, teologico e culturale: “Se ci sono luoghi veicolo di infezioni, questi sono proprio le chiese, perché la gente tocca, bacia, sbaciucchia… Io combatto quotidianamente con persone che dicono: “Ma io ho fede”. Ed io rispondo che il virus non va a vedere chi ha fede e chi no. Quindi le chiese vanno chiuse, è necessario chiuderle. Si è insistito troppo sull’incontro con il Signore dentro la chiesa, e questo ha fatto sì che poi, uscendo, ci si dimentica di Dio. Il Signore non è presente soltanto dentro una chiesa, ci aspetta soprattutto fuori, quando ci mettiamo a servizio degli altri. Lì c’è la presenza di Dio. L’eucaristia è il momento centrale della vita della comunità cristiana. Ma in molte aree geografiche del mondo, pensiamo all’Amazzonia, alcune comunità se vedono il prete e celebrano la messa una volta l’anno è un miracolo! Forse per questo sono meno cristiani? Questa chiusura forzata e questo digiuno eucaristico ci fanno riscoprire la presenza di Gesù anche nella Parola. La messa in streaming proprio non la capisco, non può essere celebrata in streaming, la messa ha bisogno delle persone presenti. È come se mi prepari un bel dolce e poi lo mangi solo tu. Noi facciamo la lettura della Parola, ma la messa ci siamo sempre rifiutati di farla. Meglio altre celebrazioni, come appunto quelle della Parola. Dio si fa pane e diventa nutrimento per gli altri. Ma questo pane non è soltanto nell’eucaristia, è anche nella Parola. È ugualmente pane. È presenza di Dio. E ci aiuta a farci pane per gli altri. Per farci pane, dobbiamo ricevere questo pane. Se adesso non è possibile la celebrazione eucaristica, facciamo la celebrazione della Parola. E la Parola ci nutre. Poi quando tutto questo sarà finito, allora torneremo a celebrare con una gioia ancora più grande”.

Mi trovo sulla linea tracciata da padre Maggi, infatti quando seguo la messa in televisione riesco a stare molto concentrato sulla liturgia della Parola, poi sulla parte eucaristica faccio fatica ad immedesimarmi e preferisco fare i miei dialoghi direttamente con Dio. Sto cercando di mettere molto impegno nell’approfondimento della Parola, guidato anche dal Papa con le sue splendide omelie. Non basta leggere, riflettere, pensare, bisogna agire e qui casca l’asino… Interpreto la religione in chiave di impegno verso gli altri, anche se in tal senso combino poco.

Non vorrei che, come afferma provocatoriamente padre Maggi, “il problema fossero i preti, che sono cresciuti, educati e abituati al rito, per cui senza il rito si sentono persi, smarriti, vanno fuori di testa, non sanno più cosa inventarsi”. Rispunta il mio spirito anticlericale, anche se ho uno zio sacerdote come santo protettore, ho avuto e ho amicizia con tanti sacerdoti che mi sono stati maestri di fede autentica. Proprio per questo credo che i vescovi e il clero non si debbano perdere nel bicchiere d’acqua della polemica col governo sulle messe vietate: sarebbe meglio sostituire alle polemiche, su cui qualcuno sta strumentalmente soffiando, un’elaborazione propositiva di idee per la società del dopo-coronavirus.

Rischio “psicoboom” alla Trump

Da una prima frettolosa e superficiale occhiata alle nuove disposizioni governative inerenti la timida e parziale riapertura nel post lock down ho ricavato un’impressione: poteva andare peggio. Si nota come sia stato fatto un lavoro notevole a monte e come sia stata adottata una certa obbligatoria prudenza. Le contraddizioni emergono con una certa evidenza, ma come ripeto, tutto sommato il casino non è e non sarà totale.

Viste in negativo, le norme possono sembrare un’accozzaglia di regole con le quali non sarà facile vivere: è come viaggiare in automobile col freno a mano tirato. Viste in positivo, le nuove prescrizioni tentano di dare un filo di speranza alla ripresa dell’attività economica e sociale.  Qualcosa si muoverà e speriamo non sia sufficiente a farci tornare in pieno e crescente contagio.

È una riapertura all’italiana, dove ci si può arrangiare alla meno peggio? Può darsi. Il rischio è che gli esclusi comincino a protestare e rientri dalla finestra quanto si voleva tenere fuori dalla porta. Aprono i ristoranti e non le chiese? Gli sposati possono incontrarsi liberamente, addirittura convivere tranquillamente, andare a letto insieme con tutto quel che segue e i non sposati, che non convivono ma hanno rapporti sentimentali stabili, devono fare astinenza a livello sentimentale e sessuale? Falsi moralismi da coronavirus?   Parrucchieri, estetisti, ristoranti e bar restano chiusi per un altro mese: perché se sono in grado di rispettare le regole non possono riaprire assieme agli altri esercizi? Le attività più a rischio finiranno con l’essere quelle meno pericolose per tutta una serie di misure che verranno adottate e rispettate da esercenti e clienti: allora perché penalizzarle in partenza? E i bambini a casa da scuola con i genitori che riprendono il lavoro? Gli aiuti sembrano acqua fresca per un così grosso problema. Sono soltanto alcune incongruenze prontamente rilevate.

La cosa peggiore riguarda la mancanza, seppure in nuce o in filigrana, di un disegno complessivo e a medio termine. Non possiamo pensare di vivacchiare sperando che la poca trippa rimasta basti per i pochi gatti di risulta. Commercio al dettaglio e piccolo artigianato subiranno un taglio pazzesco: chi aveva già un piede fuori se ne andrà, chi meditava di chiudere in bellezza si ridurrà a chiudere per disperazione. Chi resterà vivrà? Il discorso può valere anche per le aziende in generale: le più deboli, sul piano finanziario e non solo, probabilmente ci lasceranno le penne. La cura dimagrante, brutalmente parlando, riequilibrerà i rapporti economici e quadrerà il cerchio occupazionale? Come potranno avvenire certe riconversioni produttive? Facendo leva sui cadaveri o rianimando e aiutando i malati gravi?

Parlare è facile, governare è difficilissimo. Ne sono consapevole. Ciò non toglie che occorra uscire da un disegno meramente provvisorio ed estremamente precario per cominciare a dipingere qualche cosa di preciso. Non credo possa bastare riavviare la macchina per poi fare affidamento quasi esclusivo sulla fantasia e sulla volontà degli italiani.  Qualcuno potrebbe ipotizzare una sorta di condono fiscale strisciante: non pagate le tasse, lavorate, investite, fregatevene di vincoli e regole vari, rimuovete unilateralmente lacci e lacciuoli, producete, fate lavorare e che Dio ce la mandi buona.

Una sorta di boom economico riveduto e scorretto, perché alla eventuale ripresa dell’offerta potrebbe non corrispondere affatto un’adeguata domanda. Nello psicodramma che stiamo vivendo chi avrà il coraggio di ricominciare a consumare, di andare in vacanza, di viaggiare, di curare maniacalmente la propria immagine. Ammesso e non concesso che possa trovarsi un punto d’incontro, alla prossima nuova pandemia o alla stessa pandemia di ritorno potremmo ritrovarci con una sanità che non regge, con una burocrazia che fa schifo, con un sistema premiante per i forti e penalizzante per i deboli. Missione compiuta alla Donald Trump, che magari nel frattempo sarà stato riconfermato alla Casa Bianca. E attenzione perché qualche trumpino purchessia lo abbiamo anche noi.