Vincoli o sparpagliati

L’avvio della fase due della battaglia contro il coronavirus ha cominciato a scoprire gli altarini, che durante la prima fase erano coperti dall’emergenza sanitaria ed ospedaliera. Il governo centrale all’inizio è intervenuto pesantemente, al limite della legalità costituzionale, e, in un certo senso, ha unificato drammaticamente le cose che non andavano per affrontarle e rimuovere il clima del “si salvi chi può” trasformandolo in “si salva chi sta in casa”.

Quando si è cominciato a ragionare di riapertura sono venuti a galla i limiti statali. consistenti nello storico, oserei dire ancestrale, vizio burocratico e nella debolezza di una compagine governativa piuttosto raffazzonata e litigiosa, anche se, purtroppo, senza alternativa politicamente seria.

A quel punto le regioni hanno cominciato a scalpitare rivendicando la loro pur confusa autonomia e chiedendo di poter autogestire la riapertura: da una parte il governo centrale ha mostrato la corda rivelandosi incapace di finalizzare e concretizzare i necessari sostegni al sistema economico piegato sulle ginocchia e dall’altra ha dovuto riconoscere che la situazione è a macchia di leopardo e non può essere affrontata con “le grida” di manzoniana memoria.

In questo cambio di marcia sono venute in primo piano le enormi differenze tra le regioni nei loro rapporti tra pubblico e privato, tra politica e società, tra struttura amministrativa e assetto economico. Sono sostanzialmente venuti a confronto due modelli profondamente diversi di società regionale: la Lombardia e l’Emilia-Romagna.

La Lombardia ricalca dal punto di vista ideologico, storico e politico un’impostazione di tipo squisitamente liberista: una sorta di moderno laissez-faire laissez-passer, un principio proprio del liberalismo economico, favorevole al non intervento dello Stato nel sistema economico; secondo questa teoria, l’azione egoistica del singolo cittadino, nella ricerca del proprio benessere, sarebbe infatti sufficiente a garantire la prosperità economica dell’intera società.

L’Emilia-Romagna ha preso invece la piega di una società molto strutturata, governata e controllata di stampo riformista in cui il cittadino è accompagnato nel suo incedere da una sorta di patto tra la rappresentanza dei pubblici poteri e quella delle categorie socio-economiche.

Entrambi i modelli hanno loro pregi e difetti: la Lombardia scantona nella confusione, l’Emilia rischia la paralisi. In un momento come quello attuale l’Emilia, tutto sommato, dimostra di avere una marcia in più. Riesce molto meglio a pilotare la società da una situazione di blocco ad una fase di ripartenza graduale e controllata. Basti pensare ai protocolli stipulati per tempo fra regione e categorie economiche sulla base dei quali ci si avvia a riprendere una certa normalità di vita con l’osservanza di sensate norme di sicurezza.

La Lombardia vuole invece velleitariamente ripartire a tutti i costi senza un quadro di riferimento attendibile e garantista. Nelle due regioni hanno giocato e giocano anche le capacità politiche dei governanti, perché, come sempre, le idee camminano sulle gambe degli uomini. Tuttavia è normale che le situazioni più difficili vengano meglio affrontate in una società strutturata.

Un tempo si diceva che la destra va bene per governare in periodi di floridezza economica, mentre alla sinistra ci si deve affidare nei periodi di ristrettezza economica. Oggi potremmo dire che la destra va bene per lasciar fare alla gente ciò che vuole, fallisce clamorosamente quando alla gente bisogna imporre certi comportamenti virtuosi in senso collettivo. E allora, perché le cose sembrano andar molto meglio in Emilia che in Lombardia, ma anche il destrorso Veneto si sta rivelando all’altezza della situazione? Quando mi è sporadicamente capitato di bazzicare la società veneta, mi sono trovato totalmente in un altro mondo rispetto alla regione in cui vivo da sempre.

Sembra quasi che Luca Zaia, governatore veneto, sottoposto alla mia inquisizione di cui sopra, e da me “torturato” per essere parte della destra leghista, alzando lo sguardo al cielo e giù verso terra e battendo il piede, con animo contemplativo dica: eppur si move; ossia, ancora si muove, intendendo il Veneto del dopo coronavirus.  Rispondo che mi fa molto piacere essere smentito nelle mie banali analisi, anche se l’eccezione conferma la regola e forse le nostre regioni sono tutte un’eccezione: ecco (un altro) perché è così difficile governare l’Italia.

Un fiume di aiuti, ma il mare è lontano

L’ultimo decreto del governo in materia di coronavirus, intitolato al “rilancio”, soffre, come del resto anche i precedenti, di due angustianti e vecchi limiti metodologici: la demenziale farraginosità dello stile legislativo e la scoraggiante rigidità burocratica. Per dirla in modo brutale, non ci si capisce dentro un tubo e, se si capisce qualcosa, sorge immediatamente il dubbio che possa concretizzarsi in tempi e modi ragionevoli ed efficaci. Non si può pretendere di togliere miracolosamente queste barriere, ma la situazione emergenziale imporrebbe comunque uno sforzo notevole a livello di semplificazione e di concretezza. Sarebbe come se a un malato grave il medico imponesse di leggere un trattato sulla sua malattia e gli prescrivesse una terapia complessa e difficile da assorbire e da applicare: il malato nel frattempo potrebbe rischiare anche di morire.

Vorrei però spostarmi dai pur preoccupanti limiti metodologici a considerazioni, seppur di carattere generale, sul merito del provvedimento fiume adottato in questi ultimi giorni. Gira e rigira le critiche più serie e motivate sono riconducibili ad un discorso e ad un interrogativo: siamo in una logica di “rilancio” o di “sostegno”. In teoria i due concetti non sono in contrasto, ma rappresentano comunque due logiche diverse di intervento legislativo. Per continuare nella similitudine sanitaria, siamo ancora nella fase in cui bisogna togliere la febbre rimuovendo l’infezione che la provoca o siamo già nella cura ricostituente che dovrebbe portare il malato sulla via della ripresa?

Non sottovaluterei i numerosi e corposi interventi a sollievo finanziario delle imprese e delle famiglie, che soffrono le ristrettezze conseguenti alla pandemia in modo tale da barcollare nel presente e rischiare grosso nel futuro. Un brodo caldo non può essere l’alimentazione duratura e definitiva per chi vuole recuperare energie, ma può essere comunque di qualche aiuto, soprattutto se il brodo è sostanzioso, come lo sembrano le misure adottate seppure in una logica di pioggia benefica che cade un po’ su tutti.

Basterà? Certamente no, anche se le risorse messe in campo sembrano molto consistenti e dovranno prima o poi trovare copertura di bilancio, pena una bancarotta facilmente intuibile. Molti chiedono maggiori interventi a fondo perduto: sarebbe oltre modo utile, ma alla fine chi pagherà il conto. Non è giusto bloccarsi su questi problemi di copertura finanziaria, ma chi governa dovrà pure pensarci e programmare un certo rientro, seppur graduale, nei canoni di bilancio.

Cosa significa “rilancio”?   Nel gioco del poker è l’atto di chi aumenta, in una delle due fasi fondamentali del gioco, la somma puntata da uno qualsiasi dei giocatori che lo precedono, dopo che si sia pronunciato chi aveva dato inizio al gioco. Nelle aste si tratta di nuova offerta, aumentata rispetto a quella precedente.  Nel linguaggio economico e politico si intende la riproposizione di linee programmatiche e di iniziative accompagnata da modificazioni e miglioramenti intesi a rivalutarle e ad assicurarne l’attuazione. Potremmo immaginare che nel rilancio post-coronavirus ci sia un po’ di tutte queste tre interpretazioni: il rischio che si deve prendere chi vuole giocare fino in fondo, la convinzione di chi vuole raggiungere il risultato, la consapevolezza di dover mettere in campo qualcosa di molto innovativo ed impegnativo.

Molti commentatori fanno riferimento alla fantasia e allo spirito di intrapresa di cui sono dotati gli italiani: basterà aiutarli lasciandoli lavorare? Temo proprio di no. L’esempio del dopo-guerra è significativo, ma non è perfettamente calzante. È infatti relativamente più facile costruire dal nulla che ristrutturare partendo dalle fondamenta. Soprattutto non potremo avvalerci dell’euforia del nuovo boom economico, perché dovranno cambiare molte cose a livello di sistema. Forse dovremo partire dai sacrifici per creare i presupposti della ripartenza. Nel calcio l’azione riparte nella misura in cui si riesce a togliere la palla dai piedi dell’avversario, altrimenti si gioca in difesa e ci si accontenta di non prendere gol. Nel nostro caso stiamo purtroppo perdendo già due a zero e quindi…Per ora siamo nella fase di contenimento, non illudiamoci di poter buttare palla in tribuna e tanto meno di poter sperare nella partita di ritorno che potrebbe non esserci.

L’amore insensato per un fanfarone

Se la Lega, stando agli ultimi sondaggi, non avesse il 26% dei voti e, seppure con un certo calo di consensi, non si posizionasse come primo partito in Italia, le “boiate” salviniane non meriterebbero alcuna attenzione e ancor meno di essere commentate. L’aria destrorsa, che continua a tirare, impone invece di considerare con spietato spirito critico le prese di posizione leghiste.

Le scomposte e inaccettabili reazioni alla conclusione della vicenda di Silvia Romano, che, come dice Mara Carfagna, sono posizioni di una destra che insegue i leoni della tastiera, lisciano il pelo ai patiti dell’identità religiosa del popolo italiano e tendono a ricuperare consensi sulla base di battaglie a dir poco di retroguardia fascisteggiante. E, quando Salvini si sposta dal terreno umorale a quello politico è ancor più goffo e ridicolo: i riscatti non si devono pagare. A votare Lega occorre avere la memoria corta: infatti i governi di centro-destra non si fecero scrupoli in passato di pagare riscatti ai terroristi pur di ottenere la liberazione degli ostaggi con tanto di passerella trionfale al cui confronto quella di Conte e Di Maio sembra una dimostrazione di estrema sobrietà.

L’altra questione vergognosamente cavalcata riguarda la regolarizzazione dei lavoratori immigrati sfruttati e fatti lavorare in nero.  «Mentre milioni di italiani sono chiusi in casa e hanno paura di perdere lavoro e risparmi di cosa si sta occupando il governo? Di una maxi-sanatoria per i clandestini. Non è rispettoso nei confronti degli italiani perbene e degli immigrati regolari. Il solo annuncio sta moltiplicando gli sbarchi. La Lega farà le barricate». Ora bisognerebbe verificare, se questo Matteo Salvini è lo stesso Matteo Salvini che durante la campagna elettorale del 2018 prometteva di rimpatriare 600mila “clandestini” e ci si dovrebbe ricordare che non se ne fece nulla. Ma la memoria in politica è diventata un optional. Ancor più clamoroso è rammentare che la Lega di “irregolari” ne ha regolarizzati quasi un milione. Lo ha fatto votando i provvedimenti dei governi Berlusconi a cui ha partecipato sia nel 2002 che nel 2009. Il primo, accompagnato alla Bossi-Fini, ne ha regolarizzati 700mila; il secondo, con Roberto Maroni ministro degli Interni, 294mila.

Indipendentemente dal merito delle suddette questioni, quale credibilità può avere un politico che dimentica o fa finta di dimenticare la storia del suo partito, assumendo posizioni nettamente contrastanti rispetto a quelle sostenute quando la Lega era al governo e non certamente in posizione defilata.

Qualcuno sostiene che solo gli stolti non cambiano mai idea! Winston Churchill diceva che fanatico è colui che non può cambiare idea e non intende cambiare argomento. Altri che il saggio dubita spesso e cambia idea. Lo stupido è ostinato, non ha dubbi, conosce tutto fuorché la sua ignoranza.

Posso essere d’accordo, purché il cambio di opinione non venga sciorinato in modo apodittico e ingiustificato e purché a monte ci siano mutamenti oggettivi di situazione tali da motivare seriamente una modifica del proprio pensiero. Non mi sembra proprio il caso di Matteo Salvini e del suo partito, che oltretutto si pongono in continuità con un discorso di centro-destra, seppure riveduto ed assai scorretto: basti pensare che al posto di Bossi abbiamo appunto Salvini, al posto di Gianfranco Fini c’è Giorgia Meloni (al peggio non c’è mai limite…), solo Berlusconi tiene botta, anche se ormai conta meno del due di coppe e non riesce certo a condizionare gli alleati di coalizione (?).

Qualsiasi persona, che in passato si fosse comportata come Salvini, sarebbe stata giudicata come un demagogo da strapazzo, ora invece vanno di moda i populisti, cioè coloro che, a prescindere dal merito dei problemi, dicono quanto la gente vuol sentirsi dire sul momento: poi ci si dimentica di tutto e si può tranquillamente disdire tutto e magari non farne niente o fare esattamente l’opposto.

Non so di quale repubblica (ho perso il conto…) faccia parte come tratto distintivo questo modo barbaro di fare politica. Bisogna spararle grosse per rincorrere gli sfoghi antisociali dei social, per dare i più irrazionali contentini agli scontenti di vocazione, per alzare la voce e coprire le proprie evidenti cavolate. E questo sarebbe fare opposizione? Opposizione a se stessi ed al buon senso! E questo sarebbe un modo serio di governare? Il malgoverno fatto realtà!

I populisti rischiano purtroppo di avere il controllo della politica. Tra di essi c’è posto anche e soprattutto per i fanfaroni e per i galoppini. Sarei imbarazzato a collocare Matteo Salvini. Dal momento che è un opportunista qualsiasi, propenderei per la categoria dei galoppini, se però considerassi i consensi che riesce inopinatamente a mietere, dovrei metterlo tra i fanfaroni. Come diceva papa Wojtyla, se mi sbaglio mi “coriggerete”.

Il pallone medicinale

Parecchi giorni fa, il ministro della Salute, Roberto Speranza, intervistato a Radio Capital ha detto che la ripartenza del calcio «non è una delle priorità del Paese. Ci sono 400 morti al giorno». «Lo dico con il massimo rispetto – ha spiegato – e da grande appassionato di calcio però viene prima la vita delle persone. Le priorità del Paese oggi sono altre. Lavoreremo perché a un certo punto si possa riprendere la vita normale ma la priorità in questo momento deve essere ancora salvare la vita delle persone». Sottoscrivo a due mani, anche se, politicamente parlando, non ho particolari simpatie per l’attuale ministro.

La palla medica è uno strumento per sviluppare abilità, bruciare calorie e rinforzare i muscoli. Si può ottenere forza, tonicità e un maggior benessere, ma occorre apprendere le tecniche di esecuzione corrette per evitare infortuni. Includere alcuni degli esercizi con la palla medica nell’allenamento, può aiutare a variare l’attività fisica e a raggiungere facilmente il risultato desiderato. La palla medica è simile a al pallone da basket, ma esistono anche modelli di diversa grandezza e molto più pesanti. Si può sollevare, far oscillare, lanciare e afferrare, e per questo è utilissima per realizzare svariati esercizi. Se non erro questo strumento veniva e viene utilizzato anche nella preparazione atletica del calcio, così come mi sembra di aver visto che i calciatori si allenano a giocare con una palla di piccole dimensioni in quanto, paradossalmente, dove ci sta il meno ci sta anche il più.

In questo periodo il pallone potrebbe diventare medicinale per la gente, svolgere cioè una benefica azione psicologica, sollevare il morale, dando un incoraggiamento per il ritorno alla cosiddetta normalità. Il calcio ha sempre funzionato come distrazione rispetto ai problemi seri e, per questo motivo, mio padre pur seguendo il fenomeno con passione, era attentissimo a contenerne l’invasione. Il concetto, che aveva del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura domenicale calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

Avrebbe pertanto applaudito convintamente al ministro Speranza e avrebbe liquidato in poche sferzanti battute tutto il cancan che si sta facendo per ripescare il campionato di calcio dal limbo in cui è finito assieme a tutta la società. Resta però il discorso psicologico di cui sopra. Un mio carissimo zio sosteneva che la vita fosse fatta soprattutto di soddisfazioni: alludeva non a risultati economici, ma a elementi di umana gratificazione. Se riprendessero le competizioni calcistiche non avremmo grandi soddisfazioni, ma almeno ci potremmo illudere di essere in convalescenza, vale a dire di cominciare a fare qualche passettino avanti verso una pur lontana guarigione. In fin dei conti tutto può servire: an gh’è gram cavagn, ch’an vena bòn ‘na volta a ‘l an. Il tanto bistrattato e “baracconato” calcio, dopo essere stato strumento di alienazione di massa, potrebbe diventare un veicolo benefico di fiducioso incoraggiamento per le persone stressate. Purché il tutto non avvenga con insopportabili privilegi sanitari, con l’unico scopo di salvare il carrozzone su cui molti viaggiano scriteriatamente e con eccezioni che non confermino ma mettano in discussione le regole.

“Il vago avvenir” della coraggiosa Silvia

Silvia Romano nasce a Milano 25 anni fa. Laureata nel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, era alla sua seconda missione da volontaria in Africa. Silvia è stata rapita alle 20 di martedì 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, in Kenya ed è stata liberata in Somalia il 9 maggio, dopo 18 mesi di prigionia. Volontaria dell’associazione Africa Milele Onlus, una piccola organizzazione con sede a Fano che si occupa di progetti di sostegno all’infanzia, aveva creato nel villaggio una “Ludoteca nella Savana”. Il progetto principale che l’associazione sta portando avanti è la costruzione di una casa orfanotrofio in grado di ospitare 24 bambini orfani di entrambi i genitori. Appassionata di fitness, Silvia aveva anche lavorato in un paio di palestre a Milano. La 25enne era alla sua seconda missione da volontaria in Africa, sempre nella zona di Malindi, in passato già teatro di attacchi contro stranieri.

Sono volutamente partito dalla storia di Silvia e non dalla cronaca, che la vede libera dopo 18 mesi di prigionia. La sua liberazione suscita grande sollievo anche se pone qualche interrogativo, sulle modalità del rilascio e sulla conversione all’Islam, immediatamente dichiarata dall’interessata con molta franchezza e semplicità. Per quanto concerne il percorso seguito per ottenere la liberazione si deve avere ritegno e rispetto: sono cose che non si fanno e non si ottengono alla luce del sole e quindi, come sosteneva Guglielmo Zucconi, non bisogna pretendere di avere i servizi segreti pubblici. Si sarà sicuramente operato al di fuori della legalità, forse sarà stato pagato un riscatto, forse ci si sarà avvalsi della mediazione di gente senza scrupoli, forse si saranno fatti i salti mortali a livello internazionale e malavitoso: non mi interessa perché, mai come in questi casi, il fine, la salvezza di una persona, giustifica i mezzi.

Ho voluto riferirmi alle scelte di vita di Silvia Romano: a quanto è dato capire non era una irresponsabile kamikaze del volontariato terzomondiale. Aveva fatto scelte di vita coraggiose e ammirevoli che, come sempre accade, sono state pagate a caro prezzo. È rimasta vittima del terrorismo. Ora emerge un eventuale certo pressapochismo a livello della onlus in cui era inserita: forse era stata mandata allo sbaraglio e lasciata sola. Cose difficili da stabilire, perché è nella natura stessa di queste organizzazioni una spinta coraggiosa al limite della irresponsabilità. Non si può pretendere di operare nella massima sicurezza in ambienti caratterizzati da disordine, ingiustizia, sfruttamento e chi più ne ha più ne metta. Se uno non vuol rischiare se ne sta a casa, allineato e coperto, salvo morire in Italia di coronavirus.

La sua conversione suscita dubbi e perplessità: non è il caso di perdersi nei meandri delle analisi psicologiche e di ipotizzare forzature e violenze subite. Non mi sento di esprimere giudizi e valutazioni: Silvia Romano avrà tempo e modo di verificare le sue scelte religiose comunque rispettabili.

Mi sembra che da tutta la vicenda, che non è una favola anche se per certi versi può assomigliarle, si possa ricavare una morale: agire per il bene altrui è molto difficile e rischioso, non si tratta di fare passeggiate benefiche. Certo, il bene, come diceva l’ex vescovo di Parma, Benito Cocchi, oltre che volere farlo, bisogna essere capaci di farlo. Discorso molto delicato e, per certi versi, paralizzante. Meglio sbagliare a fin di bene, che non sbagliare non facendo niente. La conquista della propria libertà si dovrebbe basare eticamente proprio sulla spontanea decisione di dedicarsi agli altri: meglio semmai scivolare dopo piuttosto che prima ancora di partire. Sono scivolate cruente, che peraltro coinvolgono direttamente o indirettamente il contesto sociale di provenienza. Però meglio soffrire per liberare una volontaria in prima linea, che soffrire per l’egoismo di chi sta nelle retrovie.

 

 

 

La tentata festa truffaldina a mamma rai

Ho letto con una certa curiosità della tentata truffa ai danni della Rai tramite un trappolone teso al suo presidente, che stava per cascarci dentro. Sinceramente non capisco la reazione scandalizzata verso Marcello Foa, reo di essere stato un po’ troppo ingenuo e facilone. Fortunatamente è andata bene nonostante la cosa fosse stata ben cucinata da autentici specialisti. Che il presidente Rai debba andare in Parlamento a riferire su questa vicenda mi sembra una richiesta eccessiva e strumentale. Forse si vuole ridicolizzarlo, facendolo passare per un pressapochista indegno di occupare quell’importante posto di comando. Certo non ci sta facendo una bella figura, ma non credo esistano gli estremi per incolparlo di grave ed omissivo comportamento.

Se la politica vuol fare le pulci alla Rai non ha che l’imbarazzo della scelta: un carrozzone pazzesco in cui si mescolano alte e basse professionalità, le nebbie clientelari si tagliano col coltello, gli sprechi sgorgano dal video, i condizionamenti sono la regola d’oro, etc. etc. È peraltro una storia molto vecchia, che nel tempo ha attraversato i governi e le istituzioni, impermeabile alle (finte) riforme succedutesi, caratterizzata da pantomime elettoralistiche, mescolata in senso deteriore alla storia del Paese di cui è specchio in senso deformante. A parlare male della Rai non si fa fatica e quindi non c’è bisogno di ricorrere allo scandalismo da quattro soldi per intentare un processo all’Ente e a chi lo governa e gestisce.

In estrema sintesi la Rai, quale servizio pubblico, si differenzia troppo poco dalle emittenti private concorrenti per quanto concerne l’impostazione e i contenuti dei suoi palinsesti, assomiglia molto ad esse confondendo la concorrenza con la piatta acquiescenza alle regole aziendali e di mercato. Esistono alcune eccellenze culturali e giornalistiche, che purtroppo non bastano a dissipare il grigiore in cui si dibatte la Rai.

Mi sono sempre chiesto perché questo ente sia così intoccabile, non a caso si parla di mamma Rai, a cui qualcuno in questi giorni evidentemente voleva fare una festa sui generis. Si è provato a sganciarlo dalle nomine politiche inserendo personaggi di grande spessore culturale e manageriale: la musica non è cambiata. Si è tentato di scollegarlo istituzionalmente dal governo per collocarlo sotto il controllo del Parlamento: non è cambiato nulla. Si è cercato di dargli un’impostazione manageriale neutra rispetto agli equilibrismi partitici: la politica è rientrata puntualmente dalla finestra dopo esser stata messa alla porta.

A volte ho concluso amaramente che la Rai dovesse pagare un prezzo alla politica pur di rimanere in ambito pubblico e quindi almeno parzialmente indenne dalle malattie del mercato. Il gioco però ha rivelato di non valere la candela, in quanto la politicizzazione ha condizionato e burocratizzato ulteriormente i difetti comunque esistenti nel tessuto Rai, costretto a fare i conti con un mercato epidemico, coinvolgente ed avvolgente.

Qualcuno intende la riforma della Rai nel senso della sua privatizzazione: sarebbe inutile cioè intestardirsi per combinare insieme i difetti del pubblico e del privato, meglio buttarsi nella padella del privato senza cadere nella brace del pubblico. Non sono d’accordo con questo pur rispettabile ragionamento: mi sembra molto l’atteggiamento della volpe nei confronti dell’uva.

I nodi (inestricabili) della Rai sono questi. Ben venga parlarne seriamente, senza partire col piede sbagliato, vale a dire senza sputtanare l’ultimo arrivato nel parterre di comando per il gusto di squalificare chi glielo ha messo. Certo Foa deve stare più attento, ben sapendo però che di profittatori dentro e fuori ce ne sono parecchi al di là delle gang delle mail truffaldine.

 

La pubblicità è l’anima dell’anti e del dopo virus

La pubblicità sarà l’anima del commercio, ma è anche la distruzione dell’anima delle persone. Si fa un gran parlare di pubblicità ingannevole, vale a dire quella che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”. Purtroppo la pubblicità è ingannevole per sua natura, può eventualmente solo essere arginata nella sua più negativa aggressività, ma, forse, meno ingannevole appare e più sostanzialmente è tale. Si tratta di un perverso meccanismo sistemico, che tutto metabolizza in chiave materialistica e consumistica. Attualmente sono in atto tre subdole, ma clamorose, manifestazioni di questo andamento: la pubblicità perbene, quella a fin di bene e quella contro il male.

La prima categoria comprende la valanga di messaggi, un battage a favore delle organizzazioni benefiche, quella del “chiama subito per salvare un bambino che sta morendo di fame o di malattia”, quella che mostra immagini toccanti delle miserie del mondo per farci credere di poterle risolvere con l’erogazione di una piccola tassa mensile.  Un modo sbrigativo per mettere a posto le coscienze e alimentare una fitta rete di enti il cui primo obiettivo è quello di esistere e di autofinanziarsi. Una sorta di carità ingannevole.

La seconda forma riguarda i mezzi di comunicazione di origine e carattere religiosi, tra cui spicca TV 2000, la televisione dei vescovi. Qui non ci si fa scrupolo di abbinare i messaggi promozionali a messe, eventi religiosi, omelie, rosari, preghiere varie. Il fine giustifica i mezzi: per finanziarsi e catturare l’audience a sfondo religioso ci si può (?) tranquillamente interrompere e “andare in pubblicità” tra un’intervista a un prete e una ad un vescovo oppure in testa e in coda ad un rosario. La messa, financo quella del papa, val bene una reclame.  In questi casi non si riesce a capire se i messaggi pubblicitari facciano da traino all’evento religioso o se la trasmissione religiosa funzioni come spinta allo spot propagandistico. Un orribile, stomachevole e simoniaco mix di sacro e profano.

La terza combinazione è relativa al coronavirus. Tutti ne parlano e quindi anche la pubblicità si è adattata e la battaglia antivirale è diventata parte integrante della reclamizzazione dei vari prodotti e servizi: della serie “consumate e vedrete che il virus se ne andrà”. Al demenziale slogan del “tutto andrà bene” si aggiunge la speculazione del “tutto fa brodo, anche il coronavirus”. E poi andiamo cianciando con un altro slogan: “niente sarà come prima”, mentre è in atto il tentativo di metabolizzare il virus a livello consumistico, depotenziandolo in chiave psicologica e affaristica. Il nostro sistema economico è una macchina “tritasassi” che non si ferma di fronte a niente: tutto diventa strumentale e funzionale al profitto. Sarebbe interessante scoprire quanto il bieco interesse economico (dalla produzione e commercializzazione delle mascherine ai laboratori per le analisi di tamponi e sierologiche, alla selezione dei settori da chiudere ed aprire operata più sulla base di spinte corporative che a difesa della salute pubblica) abbia condizionato e stia tuttora condizionando l’azione di contrasto all’epidemia.

Basta vedere come sta reagendo la gente alle pur timide riaperture previste a termini di legge (?): tutti al parco, tutti in strada, tutti fuori in una carnevalata fuori stagione, tana per tutti e il virus vada a quel paese (il nostro paese). La nostra società è questa. Passata la paura, gabbata la serietà. Aspetta… provo ad ascoltare la parola del papa, lui è l’unico che mi può aiutare a difendermi non tanto dal virus, ma dal virus dell’anti e del dopo virus. Niente da fare: c’è la pubblicità e allora…

 

 

Il nocivo barzellettiere trumpiano

È dura, ma bisogna cercare di tenersi su. Non con l’infantile, se non ridicolo, slogan “andrà tutto bene”, regolarmente smentito dalle giornaliere centinaia di morti, ma seguendo le farneticazioni quotidiane di Donald Trump. Dopo la fase sovranista del ripiegamento degli Usa in casa propria, dopo la fase populista del “faso tuto mi”, complice il coronavirus siamo arrivati alle barzellette, alle quali, probabilmente, gli americani, reagiscono come avviene generalmente negli uffici quando le barzellette sono raccontate dal capo e tutti ipocritamente ridono per non piangere. Con una differenza sostanziale: mentre negli ambienti di lavoro il capo è imposto dall’alto e quindi bisogna sopportarlo obtorto collo, negli Stati Uniti il capo se lo sono scelto democraticamente (?) e magari si apprestano a confermarlo alla Casa Bianca.

La barzelletta, per definizione, è una storiella spiritosa che si racconta per provocare il riso o si pubblica a scopo umoristico su giornali o riviste. Può essere spinta, grassa, piccante, etc. etc. La barzelletta, quando è collocata in un contesto drammatico o addirittura tragico, diventa macabra e sconvolgente. Bisogna poi saperla raccontare con grande spontaneità, scegliendo il momento giusto, senza enfasi aggiunta, quasi con nonchalance, buttandola lì per vedere l’effetto che fa. Personalmente ne sopporto una, al massimo due, poi mi defilo. Purtroppo invece, quando si è in compagnia tutti si scatenano e ne scaturisce una deriva insopportabile e interminabile.

A proposito di barzellette ricordo un caro e simpatico collega: le raccontava così bene, che facevano ridere a prescindere dal loro contenuto. Una volta sbagliò addirittura il finale e, invece di un flop, ottenne un successo ancor maggiore in termini di risate fragorose degli ascoltatori.  E le barzellette di Trump? Sembrano tali, ma purtroppo sono tristi e penose esternazioni pseudo-politiche. Ogni giorno trova il modo di scaricare la colpa del coronavirus su qualcuno: dai cinesi e le loro manovre di regime siamo arrivati alla sbadataggine degli italiani nei controlli sui voli aerei. Tutti colpevoli, meno Trump! E gli americani? Staremo a vedere fra qualche mese, ma tutto purtroppo lascia intendere che ci credano. D’altra parte è lo schema comportamentale tipico dei populisti: trovare sempre un nemico su cui scaricare la responsabilità delle proprie disgrazie. Se non esiste, lo si crea.

Il discorso con la Cina assume a volte i toni di una vera guerra fredda: dai dazi al coronavirus, tutto sommato, fa gioco ad entrambi essere costantemente ai ferri corti. Per fortuna in questa ostilità preconcetta e strumentale verso i cinesi gli altri stati non si lasciano coinvolgere più di tanto e quindi il contrasto rimane come una sorta di spettacolo sul palcoscenico internazionale a cui il resto del mondo assiste con una certa cautela se non addirittura con noncuranza.

Quando è scoppiata la pandemia, mi sono detto che forse Donald Trump aveva finito di bluffare perché era arrivato chi ne scopriva i giochi. Invece niente di tutto ciò. È passato dal negare l’evidenza alla chiusura del sistema, dal bieco e liberistico “si salvi chi può” agli aiuti sparsi a piene mani, dalla cautela per la crescente ondata di decessi alla riapertura socio-economica a tutti i costi, dalle gag pseudo-scientifiche alle scommesse più o meno corrette sulla sperimentazione di terapie e vaccini, dall’egoistico “fai da te” a qualche strizzata d’occhi agli alleati europei, Italia compresa. È arrivata la pelosa promessa di aiuti al nostro Paese per contrastare il fantomatico piano Russia-Cina di conquistare l’Italia. Poi sul più bello la Camera dei deputati americani punta il dito contro l’Italia. Ci accusa di non aver fatto, o non aver fatto bene, i controlli che avevamo promesso sui passeggeri in partenza verso gli Usa, quando all’inizio di marzo l’epidemia di coronavirus stava esplodendo. Così ci mette in imbarazzo davanti al mondo, ci rimprovera di aver contribuito a diffondere la malattia in America, e rischia di provocare il risentimento del presidente Trump.

Il governo italiano ha tenuto un atteggiamento quasi da paese non allineato: in questo non so dare tutti i torti a Giuseppe Conte, costretto a prendere atto di una inaffidabilità americana ed europea e quindi portato a sgattaiolare in qualche modo alla ricerca di aiuti e sostegni a tutto campo.  Tattica molto pericolosa, ma d’altra parte forse imposta dalle alleanze storiche sempre più scricchiolanti e dalla debolezza italiana nel verificarle e sperimentarle concretamente. In un momento storico così drammaticamente compilato ci sarebbe bisogno di un quadro internazionale improntato alla serietà, alla coerenza e alla collaborazione. Invece, tutto il male vien per nuocere…

 

 

Le ombre nel governo

Dalla regolarizzazione dei migranti impiegati nei campi dipende “anche la mia permanenza nel governo”. Lo ha detto il ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, ai microfoni di “Radio Anch’io”, su Radio Rai1 Rai. “Per me questa non è una battaglia strumentale, queste persone non votano. In questo paese anche, in questa fase di crisi, tanti guardano al consenso, a fare misure per dire ‘ti ho dato, votatami’. Noi stiamo facendo una battaglia per quelli che non voteranno o che almeno non voteranno nei prossimi anni”, ha dichiarato. “Se la misura non passa questo, per me, è motivo anche di permanenza nel governo. Non sono qui per fare tappezzeria, ha continuato il ministro. Ci sono delle questioni che non si sono volute affrontare o che sono state affrontate in maniera sbagliata”, ha concluso.

“Tra le persone – ha spiegato Bellanova – c’è diffidenza perché per anni si è fatta passare l’idea che i diversi sono i nemici e che gli immigrati vengono qui a toglierci il lavoro. Sono invece fondamentali per portare avanti alcune attività’, non solo in agricoltura dove rischiamo sperperi enormi per la mancata raccolta, ma anche le badanti che assistono tante persone anziane”. “Puntiamo – ha proseguito la ministra – a concedere un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei, per le aziende e le famiglie che vogliono regolarizzare. Ci sarà anche un contributo per lo Stato, anche se non bisogna esagerare: si tratta di persone sfruttate per 3 euro l’ora facendo concorrenza sleale alle imprese che rispettano le regole”. Bellanova non si è espressa sulle stime che parlano di 600mila persone interessate da un provvedimento di emersione dal lavoro nero. “Non sono in grado di dirlo, si tratta di chi può avere un contratto. Partiamo dai lavoratori nei campi, altrimenti qualcuno si dovrà assumere la responsabilità di far marcire i prodotti nei campi, e dalle badanti”, ha osservato.

Battaglia sacrosanta! Ma perché farne oggetto di un (quasi) ricatto politico al premier? Dopo la Bonetti con le risorse alla famiglia arriva la Bellanova con gli immigrati: scelgono tribune mediatiche per esporre drasticamente le loro proposte e mettere all’angolo il governo lasciando, più o meno, intendere di essere con un piede dentro e uno fuori della compagine ministeriale. Mentre la ministra per la famiglia e le pari opportunità sembra rincorrere, in nome e per conto del M5S, il consenso elettorale, quella dell’agricoltura sembra tirare la volata agli ultimatum di Renzi.

Nel governo, sulla regolarizzazione degli immigrati come su molte altre questioni, non sembra esserci accordo, anche se il presidente Conte apre la finestra mentre altri chiudono la porta. I contrasti nella maggioranza di governo sono deleteri come non mai e portano acqua al mulino della destra, alla quale non par vero di ripiegare sulla solfa della durezza contro gli immigrati.

Quella regolarizzazione di massa dei clandestini non può e non deve passare. Inaccettabile. La Bellanova parla addirittura di 600mila immigrati, la scusa è trovata, la scorciatoia che la sinistra ha sempre cercato di percorrere. Giorgia Meloni non ci sta. E a “Fuori dal coro” su Rete4 replica in modo duro. «Sanatoria per i migranti irregolari? Su una cosa del genere siamo pronti a fare le barricate. Sarebbe una assoluta e totale follia». E sulla pagina fb: «Mentre migliaia di italiani e imprese ancora attendono i soldi promessi per andare avanti, la sinistra al governo continua ad avere come priorità una sanatoria per centinaia di migliaia di irregolari. Dobbiamo fermarli, subito».

A prescindere dal merito della questione, vale a dire dalla necessità di regolarizzare finalmente chi lavora in nero e viene “regolarmente” sfruttato e sottopagato, sulla quale esprimo il mio parere più che favorevole, faccio due riflessioni politiche. Una, chiedo scusa se mi ripeto, riguarda lo stile con cui si dovrebbe stare dentro un governo, senza rinunciare alle proprie specificità, ma anche senza pretese e ricatti continui, come se in politica, per ottenere qualche risultato, bisognasse usare l’arma del ricatto. Si dialoga, anche aspramente, ci si può scontrare nelle sedi proprie, poi si cerca il compromesso ai livelli più alti.

Questo peraltro dovrebbe essere il ruolo che al presidente del Consiglio assegna la Costituzione: dirigere la politica generale del governo, mantenerne l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovere e coordinare l’attività dei ministri. Ed eccomi alla seconda riflessione critica: Giuseppe Conte, subissato dai problemi dell’emergenza, sembra più proiettato a curare la propria immagine e a perseguire i propri obiettivi, che non a mediare positivamente fra le diverse posizioni esistenti. Aldo Moro, dall’alto della sua autorevolezza, si poteva permettere di tenere nel cassetto le dimissioni dei ministri, lasciandoli sfogare per poi recuperare da par suo le situazioni. Conte non ha questo carisma e quindi dovrebbe rassegnarsi ad un continuo e pressante lavoro di cucitura e ricucitura di cui si nota la mancanza. Tutti i giorni ce n’è una fresca. Non so fino a quando il governo potrà andare avanti confidando magari nella mancanza di alternative in un momento come questo.

 

I bar di benpensanti e malpancisti sono sempre aperti

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sta studiando una norma che consenta ai magistrati di sorveglianza di rivalutare le scarcerazioni già disposte di boss della criminalità organizzata alla luce del mutato quadro dell’emergenza Coronavirus. Lo si apprende in ambienti di via Arenula. Gran parte delle scarcerazioni sono state disposte per gravi patologie, ma molte ordinanze fanno esplicito riferimento all’emergenza da Covid-19.

“Il ministro Bonafede rimanderà in carcere tutti i boss scarcerati? È un quadro che il ministro della Giustizia sta approfondendo, probabilmente laddove ci sono aperture mi sembra un’ottima soluzione potere individuare spiragli in cui almeno i più pericolosi possano rientrare in carcere”, ha detto il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho commentando l’annuncio del Guardasigilli di “fare tornare in carcere i boss detenuti scarcerati”. A questo illustre magistrato va tutto il mio rispetto anche perché non combatte contro i ladri di polli, ma contro una delinquenza che non fa sconti a nessuno. Però mi permetto di pensare che la guerra alla mafia si faccia con le indagini, con i processi, con le condanne dei colpevoli, finanche con la carcerazione dura, ma non con l’accanimento e la spietatezza a livello di trattamento dei carcerati in gravi difficoltà di salute o addirittura in pericolo di vita.

Tra coloro che hanno usufruito degli arresti c’è uno dei carcerieri del bimbo sciolto nell’acido: l’uomo, che tenne segregato il figlio del pentito Santino Di Matteo nell’estate del 1994, è anziano e malato ed è tornato nella sua casa di Geraci Siculo per il pericolo che potesse contrarre in carcere il Coronavirus. Questo in applicazione delle norme tendenti a ridurre il numero delle persone detenute nell’attuale periodo di emergenza.

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, lo diceva Voltaire nel 1700. È passato un po’ di tempo, ma non ce ne siamo ancora convinti: ogni occasione è buona per trasformare la carcerazione in subdola pena di morte. La dice lunga al riguardo la condizione carceraria in generale, addentrandosi nella quale c’è di che inorridire. Non è parso vero quindi ai benpensanti di scandalizzarsi perché alcuni condannati per reati mafiosi sono stati messi agli arresti domiciliari a causa del coronavirus, che, come è facile intuire, nell’ambiente carcerario trova le condizioni ideali di contagio, di malattia e di morte.

Ci ha lasciato le penne il capo dipartimento delle carceri in odore di leggerezza nel concedere il beneficio anche a boss mafiosi: o era un incompetente ed un superficiale oppure ha agito in base a norme, disposizioni e regole riguardanti la salute pubblica, anche quella dei detenuti. Il ministro, peraltro trascinato in una devastante polemica scatenatasi a latere, vuole addirittura proporre una norma in base alla quale si possa tornare a riesaminare i casi: si tratta di populismo bello e buono di stampo ultra-giustizialista (i grillini sono capaci anche di questo).

Suscita scalpore il fatto che la salute di una persona responsabile di un orrendo delitto possa essere difesa e salvaguardata nei limiti del possibile. Posso capire la reazione psicologica della gente. Il ragionamento è questo: forse lo Stato non sta facendo il massimo per difendere la salute dei cittadini onesti e si preoccupa di salvare la vita a un mafioso condannato all’ergastolo per un orrendo delitto. Il discorso è mal posto e mal affrontato. Non esiste fortunatamente nel nostro ordinamento una norma che misconosca il diritto fondamentale alla vita per una persona colpevole e condannata: la pena non prevede un simile supplemento anche in caso di coronavirus. Quindi stiamo chiacchierando di niente. Il ministro, da par suo, sta aggiungendo confusione a confusione, tentando disperatamente di recuperare la faccia, persa da tempo per incapacità a gestire un settore importante e delicato come quello della giustizia.

Non affronto la questione etico-giuridica sulla natura della pena, da cui peraltro dovrebbe muovere ogni discorso serio in materia di carcerazione. Mi limito a brevissime considerazioni politiche: lascio a Matteo Salvini e Giorgia Meloni l’opportunità di cavalcare vergognosamente simili polemiche, ma da un ministro mi attenderei un atteggiamento più serio, obiettivo, responsabile ed istituzionale. Il ministro della giustizia deve rispondere ai mal di pancia dei bar (peraltro chiusi in questo periodo, ma apertissimi alle strumentalizzazioni destrorse) all’affannosa ricerca del consenso purchessia, oppure deve governare con la costituzione, la legge e i regolamenti alla mano e in collaborazione con i funzionari pubblici investiti delle cariche per l’amministrazione della giustizia? Domanda retorica fino ad un certo punto.