Una mattina mi son svegliato e ho fatto un partito

Sono vecchio e molto legato a schemi culturali e politici del passato, quindi faccio fatica a concepire la nascita di partiti a carattere personale e leaderistico. Pretendo cioè un forte radicamento storico e valoriale, una certa tradizione di legami con i cittadini, la formazione graduale e selettiva della classe dirigente, per poter prendere in seria considerazione un partito politico. Purtroppo la storia va in ben altra direzione, si tende a bruciare le tappe, a improvvisare movimenti che sfociano automaticamente e frettolosamente in liste elettorali: se ne vedono le conseguenze, ma l’andazzo sembra essere irreversibile.

Il mio scetticismo vale anche se il personaggio originario è di altissimo livello, figuriamoci se il leader promotore è pur esso un esponente improvvisato e sbrigativamente lanciato nell’agone politico. Con tutto il rispetto e la benevola considerazione ritengo che Giuseppe Conte non abbia la statura per autocandidarsi a leader di una nuova formazione politica a sua dimensione. Se ne sta parlando: per la verità ne stanno discutendo i media; lui non si è finora lasciato scappare parole compromettenti.

Giuseppe Conte è stato letteralmente inventato come presidente del Consiglio dal M5S e, dopo una breve ma difficilissima esperienza quale premier dell’innaturale connubio tra leghisti e grillini, è riuscito, a costo di fare la parte del voltagabbana, a trovare una dignitosa collocazione come guida di un governo assai meno ignobile, ma comunque piuttosto improvvisato e confusionario.

Un conto è riuscire a rimanere in sella governativa usufruendo del generoso appoggio del capo dello Stato, della tattica benevolenza europea e internazionale, del solito peloso ed ammiccante appoggio ecclesiastico, del frastornato consenso della gente in preda al panico, della mancanza di alternative parlamentari al pur precario equilibrio su cui si basa il governo cosiddetto giallo-rosso, altro  discorso è promuovere un partito politico con la sola plausibile velleità di coprire una zona centrale dello schieramento in cerca d’autore.

Tutti parlano di questo fantomatico “centro”, che potrebbe trovare un riferimento interessante nella moderata e controllata verve politica di Giuseppe Conte. L’operazione porta immediatamente a ricordare l’avventura politica di Mario Monti post governo tecnico o di salute pubblica. La situazione è oggi molto diversa, i personaggi non sono confrontabili, i tecnici prestati alla politica, che vogliono diventare politici a tempo pieno, non hanno generalmente molto successo.

Non so cosa dicano i sondaggi relativamente alla nascita del partito di Giuseppe Conte, ma, anche se fossero incoraggianti, non si può partire con una simile avventura politica sulla base della geografia elettorale e di un precario consenso. Occorrono altri presupposti che sinceramente non vedo.

Qualcuno ipotizza l’operazione come salvataggio e riciclaggio in salsa contiana del grillismo svuotato delle piazzaiole e logorate identità populiste. Sarebbe comunque una trasformazione che rischierebbe di non salvare né capra né cavoli. È pur vero che i tempi della politica si sono accorciati di molto, che la politica ha divorziato dai valori di fondo, che tutto si brucia nel giro di qualche mese, che l’opinione pubblica si forma sul web e sotto l’influsso mediatico, che la gente fatica a ragionare di testa e ripiega sulle scelte di pancia, ma tutto penso abbia un limite.

D’altra parte, pur con tutti i limiti e i difetti del caso, gli attuali partiti una certa storia ed un certo radicamento ideale ce l’hanno. La Lega ha una storia (indipendentismo e secessionismo nordista), ha una cultura (liberismo oltranzista), ha un radicamento territoriale (Lombardia e Veneto innanzitutto), ha un rapporto coi cittadini (fatto di esperienze amministrative locali e regionale). Fratelli d’Italia raccoglie la triste eredità culturale del neofascismo, del nazionalismo e del populismo destrorso. Il partito democratico ha fuso (a freddo o a caldo) l’eredità politico-culturale delle sinistre (cattolica, comunista, socialista e ambientalista). Restano fuori da questo discorso storico Forza Italia, partito tipico personalistico e mediatico, il M5S, partito improvvisato dalla protesta antipolitica di Beppe Grillo, Italia viva, partito neonato e uscito dal cappello a cilindro di Matteo Renzi.

In conclusione l’eventuale partito di Giuseppe Conte non avrebbe né i requisiti soggettivi, né quelli oggettivi per scendere in campo a giocare possibilmente non per una sola stagione. La politica, nonostante tutto, è una cosa molto seria e non può essere scritta e interpretata da personaggi improvvisati, che possono anche strappare l’applauso del momento, ma che a lungo andare creano solo confusione di idee e programmi. Auguro a Giuseppe Conte di continuare, al meglio possibile, l’attuale ruolo nell’interesse suo e soprattutto del Paese che è chiamato a governare. Il resto lo valuti molto attentamente nell’interesse suo e soprattutto del Paese.

Tra il programmare e il concertare c’è di mezzo…il governo Conte

Gli Stati generali, nella Francia prerivoluzionaria, erano l’assemblea generale dei rappresentanti dei tre ordini o stati, cioè il clero, la nobiltà e il terzo stato. Gli S.g. furono convocati per la prima volta da Filippo il Bello (1302); a partire dal 1484 ottennero di essere convocati periodicamente e di intervenire nella deliberazione e ripartizione delle imposte. Dopo il 1614 una nuova convocazione, che fu anche l’ultima, ebbe luogo nel 1789, e portò alla trasformazione degli S.g. in Assemblea nazionale costituente. Le elezioni dei rappresentanti agli S.g. procedevano attraverso una prima designazione di elettori locali (mediante gli Stati provinciali), i quali si riunivano nel capoluogo, elaboravano i cahiers de doléances ed eleggevano i deputati all’Assemblea generale. Durante la convocazione, i tre ordini si riunivano separatamente per redigere un cahier unico basato su quelli provinciali, e un solo deputato per ogni stato parlava nell’Assemblea generale.

Ho esordito con questo preciso richiamo storico perché ritengo che la storia abbia sempre qualcosa da insegnarci e perché dovremmo usare le parole conoscendo il loro preciso significato. Il governo in questi giorni ha convocato gli Stati generali dell’economia e intorno a questa iniziativa si sta facendo un gran baccano: c’è chi ironizza sulla presuntuosa ed ampollosa iniziativa lasciando intendere che finirà in un nulla di fatto; c’è chi ascrive questa iniziativa alla smania di protagonismo del premier Giuseppe Conte; c’è chi la vede come il tentativo di buttare fumo negli occhi a chi aspetta quel qualcosa di concreto che tarda ad arrivare; c’è chi teme la dispersiva e inconcludente elencazione di temi e problemi nel solito libro dei sogni; c’è chi la considera un’edizione riveduta e scorretta di precedenti esperienze politiche; c’è chi la snobba per timore che possa fare il gioco dell’attuale maggioranza di governo o addirittura del movimento cinque stelle alla ricerca di un difficile rilancio in chiave elettoralistica.

Tutte le critiche, seppure aprioristiche, debbono essere considerate anche perché possono evitare qualche pericoloso scivolone in corso d’opera. All’inizio si è voluto dare all’Europa l’idea che l’Italia stia facendo sul serio e voglia mettersi in grado di utilizzare al meglio gli aiuti che le verranno forniti. Poi non ho idea di come si svolgeranno e articoleranno i lavori. La scommessa è molto forte, l’occasione è irripetibile, la situazione è drammatica. Torno di seguito a fare i conti con la storia.

Il primo centro-sinistra, negli anni sessanta del secolo scorso, varò l’idea della programmazione economica. Per programmazione economica si intende il complesso degli interventi dello Stato nell’economia, realizzati spesso sulla base di un piano pluriennale (in questo senso il termine si alterna, nell’uso, con pianificazione). Nella terminologia corrente, e anche da parte di alcuni studiosi, si è però soliti distinguere tra pianificazione e programmazione, tra piano e programma, riferendosi con il primo termine ai paesi socialisti e con il secondo ai paesi a economia di mercato. Il centro sinistra ebbe tra i suoi punti più rilevanti appunto la realizzazione di un progetto di programmazione economica, che tuttavia ebbe ben pochi riscontri concreti, perché si rivelò una prospettiva sproporzionata rispetto alle possibilità di intervento politico in un sistema capitalistico seppure vissuto in chiave riformista.

La concertazione è l’attività con cui il governo e le parti sociali, negli anni novanta sempre del secolo scorso, dopo aver fissato di comune accordo degli obiettivi condivisi, si adoperarono per individuare strumenti e percorsi utili al loro raggiungimento. Con concertazione si indica dunque il metodo della partecipazione delle grandi organizzazioni collettive degli interessi a percorsi decisionali pubblici in materia di politica economica e sociale.

Faccio di seguito riferimento a quanto ha scritto il sindacalista Raffaele Bonanni su questo passaggio storico molto importante e significativo. “Ciampi è stato il Presidente del Consiglio della concertazione triangolare: tra il Governo, le associazioni degli imprenditori e quelle dei lavoratori. Era il tempo di Tangentopoli e appena l’anno prima avevamo vissuto quel terribile 1992 che aveva fatto saltare interamente il sistema politico in uno scenario che ancora oggi presenta cupi interrogativi. Le istituzioni e le regole della democrazia richiedevano profonde modificazioni. La situazione economica era grave e welfare e spesa pubblica avevano bisogno di drastici tagli per alleviare le forti sofferenze del bilancio dello Stato. Il rischio di non rispettare il Trattato di Maastricht era altissimo con pesi sociali ed economici conseguenti non sopportabili. Il 23 luglio del 1993 si giunse, però, a un accordo di concertazione, frutto dell’azione comune e condivisa tra i soggetti istituzionali e sociali: un accordo voluto fortemente da Ciampi. Si arrivò a disegnare un quadro di riferimento per il contenimento della spesa pubblica, una importante ristrutturazione del welfare, una politica di contenimento delle tariffe pubbliche, in cambio di contratti collettivi che puntassero agli aumenti salariali attraverso la crescita di produttività e venissero protetti attraverso il ricalcolo a valle di ciò che era stato eroso dalla inflazione. In un momento così drammatico, Ciampi ricercò l’unità del Paese, offrendo a tutti un orizzonte comune. Egli partiva dalla convinzione che nei momenti gravi della comunità nazionale, i soggetti collettivi – istituzionali e civili – devono mettere da parte le differenti valutazioni, gli antagonismi, gli interessi divergenti e darsi soluzioni comuni attraverso il dialogo e la progettazione unitaria sul da farsi. Soprattutto la classe dirigente, in luogo di contrapposizioni continue e ricerca di soluzioni miracolose, farebbe bene a trarre spunto dallo spirito repubblicano di quella esperienza. Nei momenti cruciali per le sorti dell’Italia le soluzioni si trovano insieme: il potere politico, le parti sociali e le aggregazioni civili più considerevoli”.

Sarebbe più che opportuno che l’attuale compagine governativa desse una rispolverata a questi passaggi storici. La situazione odierna renderebbe più che necessario il ricorso, non tout court e con tutti gli adeguamenti del caso, alle metodologie di cui sopra: programmare e concertare sono due verbi che dovrebbero consentire di varare i grandi progetti di riforma e di rilancio di cui tutti parlano e che la Ue aspetta prima di sganciare i miliardi di euro che sembra intenzionata a stanziare. Non c’è molto tempo per discutere, occorre fare presto anche se presto e bene stanno male insieme. Non c’è niente da gufare e niente da enfatizzare e/o da celebrare, bisogna lavorare con grande serietà ed alacrità. Speriamo bene…

 

Tutti al mare a mostrar le povertà chiare

Gli italiani, malgrado la pandemia non sembrano intenzionati a rinunciare alle vacanze. Anche se, per ovvi motivi, sceglieranno destinazioni più “comode” privilegiando la sicurezza sanitaria. Una persona su due – dice una ricerca condotta da Quorum/YouTrend per Wonderful Italy – ha già deciso che andrà in ferie. E un altro 25% ci sta riflettendo in questi giorni. Solo un intervistato su quattro al momento esclude di voler o poter andare in vacanza. Anche sulla destinazione la soluzione è chiara: nove su su dieci rimarranno in Italia e poco meno della metà sceglierà una casa-vacanza dove è più facile avere giardino o piscine e controllare il distanziamento sociale. In buona sostanza, secondo questo sondaggio, tre italiani su quattro sarebbero pronti ad andare in vacanza. Un’altra analoga indagine arriva a conclusioni un po’ meno clamorose: solo (si fa per dire) un italiano su due andrebbe in vacanza.

Ebbene, si tratta di buone e incoraggianti notizie in tutti i sensi: psicologicamente parlando, gli italiani hanno evidentemente reagito allo stress e si stanno sforzando di tornare alla normalità di vita; turisticamente parlando, la voglia di ferie a prova di pandemia dovrebbe aiutare, anche in prospettiva ravvicinata, un settore economico uscito quasi distrutto dall’emergenza coronavirus; socialmente parlando, le ferie potranno costituire un punto di ripartenza a livello di convivenza tra le persone.

Mi resta però un forte dubbio: e l’incombente spettro della crisi economica? e i milioni di poveri in balia dell’invadente mare di disoccupazione? e la gente disperata che piange miseria e soffre la fame in attesa spasmodica delle briciole che cadono dal tavolo del governo? Tutti al mare, a mostrar le chiappe smagrite e sofferenti! Scherzi a parte, come si spiega questa apparente contraddizione, peraltro non nuova, tra gli andamenti socio-economici generali e i comportamenti  personali? Da sempre la definisco come “mistero della crisi”.

Un mio caro e simpatico amico sosteneva acutamente come, se una persona non ha possibilità di spesa, debba rinunciare drasticamente ad ogni divertimento e ricreazione. Lui, pittorescamente, consigliava, tanto per non sbagliare, di rimanere in casa e di andare a letto presto per non rischiare di essere in alcun modo risucchiato nei meccanismi spendaccioni della società in agguato. Il discorso sembrerebbe capovolto: sono in serie e gravi difficoltà economiche, non so come fare a sbarcare il lunario, ebbene me ne vado in ferie e…qualcuno provvederà.

I casi sono due: o la crisi è assai meno grave di quanto si possa prefigurare, oppure buona parte degli italiani sono degli scriteriati che vivono alla giornata e, come si suol dire, buttano il prete nella merda. Forse bisogna ragionare: gli effetti della crisi non si sono ancora concretizzati; si stanno probabilmente consumando ed esaurendo le scorte; l’economia sommersa continua ad essere una forte valvola di sicurezza (?) per i disperati in balia di sfruttamento, speculazione e delinquenza più o meno organizzata; le statistiche mantengono inalterati tutti i loro limiti di trilussiana memoria; la forza della disperazione spesso porta a commettere l’errore di attaccarsi alle più sbagliate e paradossali ciambelle di salvataggio.

Gli anti italiani a livello internazionale da tempo sostengono che stiamo vivendo al di sopra delle nostre scarse possibilità e, quindi, nonostante le disponibilità tendano a calare, noi rimarremmo appesi ad un livello di vita impossibile da sostenere. Sotto questa impietosa analisi c’è sicuramente molta cattiveria verso il nostro Paese, ma anche un fondo di verità. Temo infatti che questi comportamenti, che si stanno profilando, siano il triste preludio del peggiore dei ritorni alla normalità: quello della irresponsabilità e della pedissequa ripetizione degli errori del passato. Nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa c’è una verità italiana: tutto cambia perché nulla cambi. Si continua ad ipotizzare che nulla, dopo la pandemia, sarà come prima. Forse lo diciamo, ma sotto sotto non ne siamo convinti e pensiamo di potercela cavare a basso prezzo. E, come sempre, ci rimetteranno quanti davvero non potranno in alcun modo dribblare le loro povertà.

 

 

Separati a scuola

Dopo alcuni mesi di astinenza, prima a causa del lockdown poi delle mie particolari perplessità liturgiche, ho partecipato ad una celebrazione eucaristica: tutto molto ben organizzato, con distanziamenti abbondanti, mascherine in volto, disinfettanti all’ingresso, fila allungata per accostarsi alla comunione, distribuita con tanto di guanti dal celebrante, entrata ed uscita ben scaglionate.

All’uscita, varcata la soglia del tempio, sono stato accolto da un tourbillon di gente nelle vie del centro dove di distanziamento neanche a parlarne, mascherine sì e no, si faceva quasi a gomitate per farsi largo in mezzo a molta gente ormai tutta in libera uscita. Mi si dirà che all’aperto il rischio contagio è meno forte. Vorrei pero chiedere che differenza c’è fra una chiesa spaziosa, altissima e pulitissima e una strada stretta e poco pulita. Ma lasciamo perdere: le regole lasciano il tempo che trovano e mi sono autoconvinto come dalla pandemia possano forse difenderci soltanto le chiese nel senso delle preghiere che in esse si innalzano al Padre Eterno. D’altra parte quando in questo periodo concludiamo i colloqui, che inevitabilmente girano attorno al coronavirus, non diciamo forse “speriamo bene”. Sotto-sotto, credenti o non, ci affidiamo a qualcuno che dall’alto può venire in nostro soccorso.

A settembre anche nelle scuole entreranno in vigore misure restrittive e prudenziali in via di definizione.  Le ipotesi sul tavolo degli esperti che stanno lavorando al piano per consentire di tornare sui banchi a settembre, oltre al distanziamento sociale nelle classi – con i banchi separati di almeno un metro e mezzo e magari con l’utilizzo di barriere separatorie in plexiglass – l’altra ipotesi è che la mascherina sia obbligatoria per tutti gli studenti sopra i sei anni, i docenti e tutto il personale della scuola, mentre si fa strada il discorso della turnazione. L’utilizzo dell’informatica dovrebbe rendere meno dispersiva la turnazione delle lezioni. Gli ingressi e le uscite potranno essere scaglionati, ma basterà a risolvere il problema dei trasporti? Abbiamo tutti presenti i pigia-pigia sui bus e sui treni. Non ho idea come tutto possa avvenire con il rispetto delle minime condizioni di sicurezza. Speriamo poi che, una volta fuori da scuola, i ragazzi non si scatenino, rendendo vane tutte le regole all’interno degli istituti scolastici. Mi sembra che tutto debba avvenire all’insegna del “si fa come si può”.

Alcune misure allo studio suscitano perplessità per non dire ilarità. Le camere e i letti separati non riescono a difendere i matrimoni e le convivenze, riusciranno i banchi separati a difendere dal covid 19 i ragazzi e, a cascata, quanti hanno rapporti con loro?  D’altra parte come si può fare diversamente? Non invidio la ministra Azzolina, che dovrà programmare e gestire la riapertura delle scuole di ogni ordine e grado: è sul banco degli imputati ancor prima del tempo. Non sarà un mostro di competenza e preparazione, ma lasciamola lavorare almeno un pochettino prima di giudicarla, condannarla e respingerla (come diceva lo striscione sventolato in Parlamento dall’opposizione destrorsa). Fare il ministro dell’Istruzione è sempre stata un’impresa assai ardua. Si scontentano i ragazzi, le famiglie, gli insegnanti, i sindacati. Non si è riusciti a riformare la scuola in periodi normali, immaginiamoci col fiato del coronavirus sul collo.

Quindi calma e gesso da parte di tutti: dei sindacati che promuovono scioperi per tornare a scuola in sicurezza (ditemi voi se è questo il momento per iniziative del genere), dei ragazzi a cui non parrà vero inscenare proteste all’inizio del nuovo anno scolastico, delle famiglie a cui probabilmente verranno chiesti grossi sacrifici sul piano organizzativo, delle opposizioni parlamentari che stanno vergognosamente soffiando sul fuoco del malcontento crescente.

Un tempo all’inizio dell’anno scolastico agli alunni veniva proposta la partecipazione ad una messa “propiziatoria”, credo che l’usanza non esista più per motivi di rispetto verso la laicità della scuola. Fossi nel ministro ripristinerei e renderei obbligatoria la cosa: come detto all’inizio, solo Iddio può veramente aiutarci ad uscire da questo tunnel in cui siamo disgraziatamente entrati.

Tutta la mia vita scolastica è stata caratterizzata dall’essere in banco con lo stesso indimenticabile amico: avevamo costruito un rapporto meraviglioso, ma troppo stretto, al punto che fin dalle elementari la maestra sosteneva che chiacchieravamo un po’ troppo anche se ci giustificava col fatto di essere così amici. Come cambia il mondo…Coi banchi separati sarà ancor più difficile diventare amici. Che peccato!

Il mio mostro della “biosocioetica”

Ho seguito con un certo interesse il mega seminario promosso dal Centro Universitario di Bioetica di Parma su “La tempesta del Covid. Dimensioni Bioetiche”. Dai numerosi (troppi!) interventi sono uscito quasi stordito, sballottato tra un soffio idilliaco su quanto è stato fatto nelle strutture sanitarie e un vento disperante sulle prospettive future a tutti i livelli possibili e immaginabili. La interdisciplinarietà, la vera e caratteristica ricchezza dell’Istituzione Universitaria, a volte rischia purtroppo di inflazionare la problematica e, nella peggiore delle ipotesi, di confondere le idee, già anche troppo confuse. Ecco perché durante e alla fine di questa ridondante passerella, mi sono rifugiato nella mia nicchia culturale, vale a dire le (non) scienze economiche (per la verità dal convegno è uscito un concetto assai relativizzato di scienza e di etica, che però non autorizza gli scienziati a vivere in una sorta di libera uscita perpetua in attesa di rientrare in una caserma dove non si dovrebbe scherzare col fuoco).

Il professor Eugenio Pavarani ha tracciato un quadro economico molto fosco, quasi tragico ed apparentemente senza vie d’uscita. L’Europa esce lacerata, indebolita, ancor più fragile, bloccata nel suo già difficile cammino verso la federazione. Il nostro Paese soffre un declino economico in cui il Covid esaspera la situazione di crisi preesistente. Il tenore di vita si sta abbassando notevolmente. Torneremo solo nel 2038 ai livelli economici del 2007. La crisi si scaricherà sui poveri (9 milioni di poveri assoluti). E lasciamo perdere il Pil…

Roba da far tremare le vene ai polsi. Se possibile, personalmente sono ancor più pessimista, ma bisogna anche sforzarsi di guardare avanti con l’ottimismo della volontà. A differenza del secondo dopoguerra, l’attuale crisi, per certi versi assimilabile ad una vera e propria emergenza ricostruttiva, non può contare su una facile ripresa della domanda: allora bastava rimettere in moto la produzione  e la domanda poteva seguire automaticamente (il boom economico si poté avvalere  di un virtuoso collegamento fra “le cantine” della grandi città in cui si lavorava alacremente e la “smania” di consumare da parte dei poveri invia di affrancamento dalla loro condizione). Oggi non basta pompare risorse a livello produttivo se non si creano contemporaneamente i presupposti per una significativa ripresa della domanda, vale a dire occupazione e insorgenza di bisogni ecologicamente e culturalmente nuovi.

Al nostro Paese mancano indubbiamente le risorse finanziarie: sugli aiuti Usa non si può fare alcun affidamento, su quelli europei bisogna fare affidamento senza scrupoli e con decisione. Ma non basterà! Bisognerà trovare il modo di far piangere i ricchi senza compromettere la loro capacità produttiva. Occorrerà far sorridere i poveri senza illuderli con misure di mera e pigra sussistenza. Sarà necessario che lo Stato riesca ad eliminare gli sprechi e faccia pagare finalmente le tasse a chi non le paga da una vita.

Per avviare simili percorsi ci vorrebbe una classe politica all’altezza del compito. Non c’è, è inutile girarci intorno! E allora? Le nozze coi fichi secchi non sono il massimo, ma l’importante è sposarsi. Dobbiamo rassegnarci e lavorare con pazienza ad un futuro carico di incognite. Dalle pur estremamente interlocutorie risultanze del seminario di cui sopra ho tratto l’impressione che la scienza non debba, a ragione, assumere responsabilità seppure indirette di governo, ma non voglia più di tanto elaborare proposte utili che vadano al di là della mera e forbita analisi della realtà.

La bioetica è indagine speculativa su problemi morali ed etici sollevati in campo medico e biologico da interventi o esperimenti che coinvolgono più o meno direttamente la vita umana o anche animale. Bisognerebbe allargare la visuale ai problemi della società. Forse è questa, provocatoriamente parlando da incompetente, la nuova ed allargata dimensione bioetica: non si tratta tanto di fissare dei protocolli in base ai quali scegliere di quadrare il cerchio delle risorse limitate a fronte dei bisogni illimitati, ma di darsi un colpo di reni per trovare proposte scientificamente valide per allargare il cerchio delle risorse in modo da farci star dentro le serie ed imprescindibili necessità esistenziali della gente. Sto ipotizzando una sorta di mostro, la “biosocioetica”, e chiedo umilmente scusa delle sciocchezze che sto scrivendo anche se il discorso che intendo fare mi sembra chiaro: la scienza deve accettare le sfide, senza interferire, ma correndo il rischio calcolato di sporcarsi le mani.

Il fiatone trumpiano

Grandi e diffuse manifestazioni negli Usa e in tutto il mondo per chiedere giustizia per George Floyd e per tutti gli afroamericani morti per le violenze della polizia. È comunque un fatto estremamente positivo che migliaia di persone, soprattutto giovani, protestino contro il razzismo. Non riesco però a valutare se e fino a qual punto siano anche proteste che sommergono la presidenza di Donald Trump e che possano influenzare le prossime elezioni americane. Mi augurerei tanto di sì!

La candidatura di Trump può essere combattuta su due piani: quello politicamente pragmatico in base ai risultati ottenuti nel quadriennio e quello ideale in base ai principi democratici ed ai diritti civili. La destra populista riesce a trionfare nella misura in cui fa prevalere gli interessi della pancia sulle idee del cervello e quindi a buttare all’aria gli schemi politici (destra e sinistra) in nome dell’egoismo e dell’individualismo. Finora a Trump è riuscito questo squallido gioco: ha ottenuto consenso dai deboli illusi di farsi forti nella guerra contro gli altri deboli.

Se ci si riesce a spostare sul piano più elevato delle idealità il meccanismo si inceppa e ci si rende conto che le ingiustizie non si combattono con le guerre fra poveri, ma tentando di rimuovere le discriminazioni verso i poveri. Il razzismo è proprio la prova del nove fatta al populismo e forse sta funzionando come tale, risvegliando la popolazione dal torbido sonno egoista in cui era piombata.

Non c’è da farsi soverchie illusioni: la pancia è sempre pronta a prevalere sul cervello, anche perché sono tanti gli strumenti persuasivi che vengono messi in campo, riconducibili sostanzialmente al discorso del “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Le ingiustizie e le violenze ci saranno sempre, tanto vale dimenticarle e tirare a campare. La criminalizzazione del sistema funziona da deterrente per le battaglie all’interno del sistema. In molte parti del mondo sta funzionando.

Il pontefice ha recentemente parlato con schiettezza del sovranismo, che considera “un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un Paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre”. Lo “stesso discorso” vale anche per i populismi. “All’inizio faticavo a comprenderlo – spiega – perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, ‘ismi’, non fa mai bene”.

Riuscirà l’ondata di proteste a mettere in discussione il populismo di Trump facendone vedere, fra le tante degenerazioni, quella più drammatica, la degenerazione razzista? Qualcosa si sta muovendo. Il discorso razzista è sempre stato un punto politicamente dirimente: potrebbe tornare ad esserlo.  Al grido di “Black Live Matter” (Le vite dei neri contano) e “I can’t breathe” (Non posso respirare), manifesta tutta America contro il razzismo e le brutalità della polizia. Ovunque, in grandi metropoli e piccole città, va in scena il rito di inginocchiarsi per 8 minuti e 46 secondi, esattamente il tempo durante il quale un poliziotto di Minneapolis ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di George Floyd uccidendolo.  Per il momento mi godo questo bagno di idealità e aspetto con speranza che le urne americane ne escano pulite dalle scorze accumulate negli ultimi anni.

 

 

E se la smettessimo di giocare a soldatini?

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando gli capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.  Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente). Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre, antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico, e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…».

Non so perché, ma quando rifletto sul fascismo, mi viene spontaneo “almanaccarlo” con l’aiuto degli insegnamenti paterni. Ed è così anche nell’ottantesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Vengo preso dallo sconcerto di fronte a quella piazza stracolma di gente osannante e mi chiedo: possibile che fossero tutti impazziti? che non capissero il dramma a cui comunque si stava andando incontro? che non si rendessero conto di cosa voleva dire fare una guerra? che le donne non pensassero alla prospettiva tragica che toccava ai loro figli?

Il regime evidentemente aveva funzionato molto bene, anche se la storia insegna come sia comodo, per allontanare la gente dai problemi reali, solleticare ed esasperare lo spirito nazionalistico, prospettando guerre, che distraggono ed illudono tragicamente.  È un meccanismo che purtroppo funziona anche nei sistemi democratici portati a chiudersi nel guscio nazionalistico e a coltivare populisticamente le pulsioni irrazionali dei cittadini.

Non funziona forse così l’anti europeismo, che tende a scaricare sull’Unione europea la colpa di tanti mali economici e sociali? Non è forse così per il sovranismo, che vuole illudere la popolazione sulla possibilità di risolvere i problemi del proprio orticello a prescindere da quelli del mondo intero? Non operano forse secondo questa logica le tre superpotenze attuali, vale a dire Usa, Russia e Cina?

Papa Francesco ha idee molto chiare al riguardo, quando sostiene che «Respingere i migranti è un atto di guerra»; quando afferma che «Noi stiamo vivendo la tragedia più grande dopo la seconda Guerra mondiale. C’è gente buona, ci sono cose buone, ma il mondo è in guerra. Mi sono vergognato del nome di una bomba: “la madre di tutte le bombe”. Ma guarda, la mamma dà vita! E questa dà morte!” E diciamo “mamma” a quell’apparecchio. Che cosa sta succedendo?».

Il duro monito del Papa contro la guerra è il seguente: “Oggi si può parlare di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi, con crimini, massacri e distruzioni”. Queste le parole forti di Bergoglio pronunciate nell’omelia della messa a Redipuglia, dove si trova il più grande sacrario militare italiano. «La guerra è folle, ha aggiunto il Papa, il suo piano è solo la distruzione”. La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione del potere, sono i motivi che spingono la guerra, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto». «L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia – ha specificato papa Francesco – c’è la risposta di Caino: ‘A me che importa? Sono forse io il custode di mio fratello?’».

Ho aperto con mio padre e chiudo con lui: di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia, si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

 

 

 

 

I notabili in mutande

Secondo il linguaggio della politica, almeno quando io la bazzicavo dal di dentro, si definisce “notabile” un personaggio che ha rivestito notevoli incarichi e, in base all’esperienza acquisita, assume atteggiamenti e svolge ruoli da grillo parlante. Non ho mai avuto eccessiva simpatia per questi esponenti che intendono fare da coscienza critica ex post: è facile, comodo e, spesso, irritante. Il significato del termine non è infatti del tutto positivo, anzi è pieno di ironia e di compatimento.

Se la vogliamo buttare un po’ in ridere, durante l’ultima fase politica della vita di Francesco Cossiga, quella di “picconatore”, improntata alla disinibita, simpatica, acuta, ma sconclusionata e logorroica, denuncia dei mali della politica, Marcello Dell’Utri, con una delle sue celebri frasi, diede una definizione folgorante dell’ex presidente della Repubblica: «Ormai Cossiga può dire quello che vuole. È come il nonno di casa: fai finta di niente anche se esce in mutande». Ebbene i “notabili” sono i nonni, più o meno giovani, che si possono permettere di girare in mutande in mezzo alla politica.

Potrei fare tanti nomi, ma ne prendo in considerazione solo uno, che non ha ancora metabolizzato la improvvisa e ingiusta uscita di scena ad opera di un concorrente piuttosto spregiudicato e insofferente. Mi riferisco a Enrico Letta, il quale sbalzato fuori da palazzo Chigi, si è ritagliato uno spazio professorale e prepolitico, ma che non rinuncia di quando in quando a fare il saputello. Quale migliore occasione della gestione della pandemia, per la quale si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Letta sta snocciolando una serie di critiche e suggerimenti scontati, a livello nazionale ed europeo.

Ultima: “La Ue metta direttamente i soldi nelle tasche di imprese e cittadini. I fondi che si stanno negoziando in Europa non vengano distribuiti dai singoli Stati. Servirebbe a cambiare la percezione dell’Unione nell’opinione pubblica: c’è ancora troppo euroscetticismo in giro”. Posso essere d’accordo, ma non ci voleva la malcelata prosopopea di Letta per arrivare a tanto e soprattutto mi sembra un discorso troppo semplicistico, che banalizza il vero problema se si debbano finanziare e a quale titolo certi progetti qualificanti e riformatori.

Un altro grillo parlante molto gettonato a sinistra è Valter Veltroni: è indubbiamente bravissimo a chiacchierare nei salotti, a scrivere libri, a fare film, etc. etc. Quando uno si cimenta in troppe attività, gatta ci cova, perché rischia di non andare fino in fondo in niente e di girare un po’ a vuoto. La politica attualmente è così scarsamente e malamente interpretata che viene spontaneo rimpiangere gli ex, rivalutandone l’operato e il pensiero. Forse erano effettivamente migliori, anche se di false lapidi sono pieni i cimiteri.

In questi giorni di confusa vita politica ed istituzionale viene oltremodo spontaneo tornare ai grandi personaggi che hanno fatto la storia italiana: i De Gasperi, i Moro, i Dossetti, i La Pira, i Togliatti, i Fanfani, i Berlinguer, etc. etc. Durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al primo governo Berlusconi nell’ormai lontano 1994, un esponente di Forza Italia (non ricordo il nome) polemizzò con l’opposizione di allora, costituita da forze di centro-sinistra non ancora riunificate nel partito democratico: “Rimpiangiamo il partito comunista”, disse polemicamente. Rispose altrettanto polemicamente Massimo D’Alema: “E noi rimpiangiamo la Democrazia Cristiana”. Chiuso nel mio piccolo guscio democratico a prova di bomba pentastellata, leghista, nazionalista, populista e sovranista, aggiungo: “E io rimpiango la democrazia cristiana e il partito comunista!”. A volte, ed è tutto dire, arrivo persino a rimpiangere Silvio Berlusconi: bisogna proprio dire che siamo caduti in basso.

 

 

 

Ucci ucci sento odor di affarucci

L’Obolo di San Pietro è un’offerta che i fedeli fanno alla Chiesa cattolica, in particolare al Papa, perché abbia i mezzi per provvedere alle necessità materiali della Chiesa. Sono questi soldi, donati dai credenti di tutto il mondo al Papa per finanziare opere di bene, che sono finiti nell’affare del palazzo di Sloane Avenue, a Londra. Sono in via di accertamento le responsabilità penali dei protagonisti di questa manovra, è partito un arresto, forse siamo lontani dalla conclusione di questa triste vicenda, che dà l’ennesimo segno di una finanza vaticana piuttosto discutibile e invischiata in operazioni speculative.

Non entro nel merito e mi limito a due riflessioni. Gesù guardava con molto scetticismo al tesoro del tempio in cui finirono persino i trenta denari del tradimento di Giuda. Esaltò il piccolo obolo della povera vedova e ridimensionò le grosse offerte dei ricconi, che oltre tutto ostentavano la loro stucchevole generosità. Scacciò i mercanti dal Tempio con una insolita violenza. Ai nostri tempi non sono i trafficanti ad invadere la Chiesa, ma è quest’ultima a introdursi nel mercato tramite trafficanti interni ed esterni ad essa. Sarò un ingenuo o un illuso, ma vedere il denaro delle offerte fatte al Papa finire in operazioni finanziarie di stampo speculativo, mi fa letteralmente schifo. Anche la Chiesa, mi si dirà, ha le sue esigenze materiali e quindi non può demonizzare il denaro, ma deve cercare di ottenerlo e farlo fruttificare per meglio svolgere i suoi compiti istituzionali e comunitari. Questo ragionamento non mi convince affatto.

“Pecunia non olet” è una frase attribuita a Vespasiano, a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa, la centesima venalium, sull’urina raccolta nelle latrine gestite dai privati, popolarmente denominati da allora “vespasiani”, tassazione dalla quale provenivano cospicue entrate per l’erario. Dall’urina veniva ricavata l’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli. L’episodio completo vorrebbe che Tito avesse tirato alcune monete in uno dei bagni, in segno di sfida al padre: quest’ultimo le avrebbe raccolte e, avvicinatele al naso, avrebbe pronunciato le fatidiche parole. È una frase che viene cinicamente usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, “il denaro è sempre denaro” o “il denaro è solo denaro”; nel senso che il mezzo non determina l’intenzione: la provenienza non darebbe alcuna connotazione positiva o negativa al mezzo/strumento che è il denaro e il nuovo uso del denaro potrebbe essere positivo o non disdicevole.

“La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza”. Lo ha detto Papa Francesco nel discorso a Scampia, nella sua ottava visita pastorale in Italia. “Tutti noi abbiamo la possibilità di essere corrotti. Nessuno di noi può dire ‘io mai sarò corrotto’. No, è una tentazione, è uno scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza dei reati, verso la corruzione”. “Quanta corruzione c’è nel mondo – ha aggiunto il Pontefice -: è una parola brutta, perché una cosa corrotta è una cosa sporca. Se noi troviamo un animale che è corrotto è brutto, e puzza (il Papa ha usato il termine ‘spuzza’), la corruzione puzza e la società corrotta puzza”. Il Papa sostiene quindi che il denaro ha odore e facilmente puzza. E vale anche per il Vaticano!

La seconda riflessione riguarda l’esagerata attenzione ispettiva che il Vaticano riserva ai comportamenti pastorali innovativi e finanche conciliari di diverse entità operanti nel mondo cattolico: ultima e non ultima la comunità di Bose. E non si fa scrupolo di entrare a gamba tesa per correggere e bacchettare pesantemente. Se usasse la stessa pignoleria nel giudicare i comportamenti economici dei suoi incaricati d’affari, forse le cose andrebbero un po’ meglio e si sentirebbe meno la “spuzza” proveniente da certi ambienti e uffici vaticani.

Mia sorella aveva una sua paradossale e intrigante versione della morte di papa Luciani. Diceva: “Gli hanno fatto conoscere Paul Marcinkus e gli è dato un colpo…”. Probabilmente Giovanni Paolo I aveva sentito la puzza proveniente dallo Ior e ne era rimasto stomacato e sconvolto. Il discorso però purtroppo non è ancora finito. La scia dell’odore dei soldi continua a impestare la vita “di una certa Chiesa” nonostante le più buone intenzioni di papa Francesco.

 

Laicismo e integralismo fanno il male della scuola

Don Raffaele Dagnino, lo storico, spigoloso, originale e stupendo prete della nostra città e dell’Oltretorrente in particolare, aveva uno spiccato senso laico della religione, meglio dire della fede.  Era contrario alla scuola privata, anche quella cattolica. “Sarebbe comodo, diceva, avere una scuola a propria misura ideologica. Nossignori, bisogna avere il coraggio di mettersi a confronto con i non credenti, testimoniare la fede in campo aperto. E poi chi ha detto che i cattolici siano migliori degli altri ed abbiano qualcosa di meglio da insegnare”, ma lasciamo perdere…

Aveva perfettamente ragione se consideriamo la scuola cattolica, a livello individuale come la fuga integralistica e benpensante verso un’educazione di stampo religioso, a livello di famiglia cristiana come la delega concessa ad una istituzione superiore per assolvere agli obblighi battesimali di educazione alla fede, a livello comunitario cattolico come un distintivo eclatante della propria identità, a livello societario come uno dei segni irrinunciabili della presenza politica dei cattolici nella società civile.

Il tempo ha trasformato la scuola cattolica in un progetto educativo ammesso e riconosciuto dalla Costituzione italiana, diventando un vero e proprio patrimonio culturale per tutta la società, per i credenti e i non credenti. Anche la tentazione elitaria si è via via stemperata assieme alla sussiegosa pretesa di essere non “una” ma “la” scuola per i cattolici e per i laici più o meno devoti.

Il discorso è tornato d’attualità in questo travagliato periodo: la crisi pandemica ha posto in gravi difficoltà tutto il sistema scolastico, ma, in modo ancor più drammatico, la scuola privata, di cui quella cattolica è parte preponderante. Il sostegno delle famiglie si sta facendo difficile per il loro impoverimento; i fondi erariali hanno insufficienze ed inefficienze spaventose; la tentazione di effettuare uno smembramento scolastico sulle ali della digitalizzazione imperante è grande e fuorviante; il rischio di un ritorno, nei momenti difficili, a schematismi culturali e ad ideologismi datati è dietro l’angolo, se non addirittura sul vialone del traguardo. C’è da preoccuparsi, perché se scarichiamo sulla scuola dubbi, incertezze, diatribe e conflitti, troviamo il modo di farci del male ben al di là di quello già fatto dal coronavirus.

I rigurgiti di un becero laicismo, che peraltro fanno da contrappeso all’istinto, conservativo o conservatore come dir si voglia, della Chiesa nelle sue istituzioni (senza contare che la scuola cattolica non è una proprietà privata del Vaticano, ma una ricchezza per tutto il Paese), mettono a repentaglio un patrimonio di idealità, risorse umane, esperienze storiche, ricchezze materiali e immateriali. Il ragionamento classico del laicismo è quello di nascondersi dietro il riconoscimento costituzionale, condizionato però alla mancanza di oneri aggiunti per lo Stato. Se ci si ferma alla lettera del dettato costituzionale si prende però un granchio: bisogna fare un bilancio economico e culturale dei rapporti fra scuola statale o comunque pubblica e scuola paritaria privata, cattolica e non. Come in tutti i bilanci esistono costi e ricavi e il giudizio si dà sul saldo fra di essi.

Il sostegno alla scuola privata, in qualsiasi forma, come erogazioni dirette, come aiuti alle famiglie, come agevolazioni fiscali,  comporta indubbiamente un onere per le casse dello Stato, ma dall’altra parte del conto c’è una copertura educativa che lo Stato non sarebbe in grado di garantire senza ulteriori e forse maggiori spese, c’è un apporto economico dei privati che ben venga a sostenere un servizio squisitamente pubblico, c’è un virtuoso e concorrenziale rapporto  tra pubblico e privato che raccoglie tutte le risorse disponibili per impostare un sistema scolastico integrato e adeguato alla crescita della società.

In questo momento lo Stato, come qualche testa politica assai poco realistica e lungimirante e molto calda e faziosa sta perseguendo, non deve chiudersi in scelte ideologiche, ma aprire lo sguardo sulla necessità di difendere e sviluppare la scuola vista nel suo complesso e nel suo pluralismo progettuale e gestionale. D’altra parte lo Stato ha da tempo adottato le necessarie precauzioni per garantire nella scuola privata gli standard qualitativi, che sfociano nel riconoscimento del titolo di scuola paritaria.  Smettiamola quindi di litigare pretestuosamente in base al concetto di laicità, che è un discorso che dovrebbe superare queste sterili contrapposizioni, per andare al sodo della scuola scritta non con la “q” di quisquilia, ma con la “c” di coinvolgimento, a cui, vista come servizio pubblico, possono contribuire e lavorare anche i privati.