Corsa ad ostacoli

Se è vero che la politica è l’arte del governare, in democrazia però per governare ci vogliono i numeri. L’attuale governo italiano, come prescrive la Costituzione, deve avere la fiducia delle Camere e, dal punto di vista numerico, tale fiducia, al Senato, viaggia sul filo del rasoio. Onestamente è un problema che ho sottovalutato partendo dall’assunto che il governo giallo-rosso presieduto da Giuseppe Conte non abbia alternative né sul piano politico né dal punto di vista numerico. Il centro-destra infatti non è in grado di esprimere una maggioranza parlamentare, mentre le maggioranze trasversali si è già visto che non possono reggere seriamente e i governi di unità nazionale rappresentano una chimera. Aggiungiamo che solo il pensare ad elezioni politiche anticipate in un clima emergenziale come quello che stiamo vivendo ha il sapore di una idea pazzesca.

Tuttavia si può governare con soli 162 voti sui 321 senatori presenti a Palazzo Madama? In teoria sì. Dopo le ultime defezioni in casa pentastellata la dotazione governativa è infatti di 162 voti, che sono la somma di 95 senatori M5S, 35 del Pd, 17 di Italia viva, 5 di Leu, 7 del gruppo Misto e 3 delle Autonomie. Come scrive Cesare Zapperi sul Corriere della sera, qualcuno sostiene che si possa raggiungere quota 165. Ma come? Ci si può arrivare se i tre senatori della Svp si schierano con la maggioranza senza se e senza ma. Una scelta che finora non hanno fatto. Il loro comportamento è cambiato. All’inizio, alla prima fiducia, i tre esponenti altoatesini si sono astenuti. Nelle ultime occasioni, invece, hanno votato a favore. Va ricordato che la SVP a Bolzano è alleata al centrodestra. E quindi su questi voti non si può dare nulla per scontato.

Un altro capitolo è quello dei senatori a vita che già in passato con il loro sostegno sono riuscita a tenere in piedi qualche governo. Attualmente, i senatori a vita sono 6: Giorgio Napolitano, Mario Monti, Elena Cattaneo, Carlo Rubbia, Renzo Piano e Liliana Segre. Gli unici due che partecipano abbastanza assiduamente alle sedute del Senato sono Monti e Cattaneo. E in qualche circostanza, più il primo della seconda, hanno espresso il loro voto per il governo. Piano e Rubbia, invece, non sono quasi mai presenti e anche Napolitano e Segre, per ragioni diverse, partecipano raramente. Quindi, al tirar delle somme, la maggioranza può arrivare fino a 167 solo con il sostegno, non garantito né continuo, di Monti e Cattaneo.

È vero che si sta parlando di maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, che peraltro non è quasi mai richiesta dalle votazioni parlamentari, ma resta una notevole precarietà, che certamente non aiuta il già difficilissimo percorso governativo, caratterizzato da problemi oggettivamente drammatici e da contrasti politici piuttosto rilevanti. Sono parecchi i temi su cui M5S e PD non la pensano allo stesso modo e ciò ritarda e intralcia l’azione del governo, che, mai come in questo periodo, avrebbe bisogno di viaggiare speditamente.

Un governo politicamente claudicante, con parecchi ministri piuttosto deboli, con una maggioranza parlamentare che si sta assottigliando e potrebbe addirittura dover fare i conti con una “scissioncina” in casa grillina, che deve misurarsi con polemichette di giornata in casa piddina, che deve scansare il fucile sempre spianato dei renziani in cerca di freddo per il letto, che si deve confrontare con una opposizione distruttiva e indisponibile al dialogo, che non va d’accordo con i sondaggi, i quali danno i partiti di maggioranza in notevole calo di consensi rispetto ai numeri parlamentari, con la prospettiva di dover affrontare una situazione sociale esplosiva, con la necessità di varare un progetto di rinascita da far tremare le vene ai polsi, con rapporti comunque piuttosto problematici a livello delle istituzioni europee e soprattutto di certi Paesi che non mancano di buttarci la croce addosso, senza poter contare sulla sponda statunitense che ci ha sempre aiutato molto.

Il governo Conte, nonostante tutto, stando alle opinioni degli italiani emergenti dalle indagini demoscopiche, non dispiace alla gente, che, probabilmente, ne capisce le difficoltà e ne apprezza la buona volontà soprattutto per quanto concerne il senso di responsabilità del premier, fin troppo intento a curare la propria immagine sul piano mediatico. Giuseppe Conte gode più di buona considerazione popolare che di buona stampa. Personalmente non ne sono entusiasta anche se, ogni qualvolta lo sento parlare, mi viene spontaneo usare un’espressione paterna assai colorita: “Al n’é miga un gabbian”. La traduco perché non è di immediata comprensione: credo che il gabbiano venga considerato un uccello poco furbo dal momento che si ciba di quello che gli offrono le discariche dei rifiuti a cielo aperto. Purtroppo in politica di rifiuti in giro ce ne sono parecchi e se Giuseppe Conte riesce ad evitarli è già qualcosa.

 

 

Giocare a vedo vedo con Giuseppe Conte

Ho letto e ascoltato due autorevoli pareri sulla situazione socio-economica che stiamo vivendo: Maurizio Landini, segretario confederale della CGIL e Carlo De Benedetti, imprenditore, dirigente d’azienda ed editore, due personaggi rappresentativi del mondo sindacale e di quello imprenditoriale.

Mi è sembrato di cogliere una certa assonanza su un punto molto importante a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà: la disuguaglianza. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali. Landini la vuole combattere affrontando, secondo lui, la vera urgenza, cioè la detassazione del lavoro.

Tutto ciò mentre si fa un gran parlare, che probabilmente sfocerà in un silenzio tombale, di alleggerimento dell’Iva. Lo scopo sarebbe quello di rilanciare i consumi dal momento che la crisi economica dipende proprio dalla domanda che sta scendendo a picco. Non sarebbe certamente un modo per riformare il nostro sistema fiscale e per aumentare veramente il potere d’acquisto della gente. De Benedetti teme che sia un autogol pazzesco nei confronti della UE: i fondi europei sciupati con misure di piccolo cabotaggio e di dubbia efficacia. Landini vorrebbe diminuire le tasse con criterio, vale a dire alleggerendo coloro che le pagano e le hanno sempre pagate, cioè i lavoratori dipendenti.

I due personaggi non si trovano d’accordo nel giudizio sugli stati generali dell’economia: una perdita di tempo per De Benedetti; per Landini invece la maratona presidenziale di Villa Pamphili è stata positiva e il messaggio è stato importante perché ha ribadito che c’è bisogno di tutti per progettare un futuro e un nuovo modello di sviluppo, anche se poi arriva la mazzata critica, cioè l’appello a passare dalle parole ai fatti ed a finirla con gli annunci tematici.

Secondo me è interessante il discorso della disuguaglianza, che dovrebbe essere il leitmotiv di una politica di sinistra. Come si possa riuscire a coniugare questo obiettivo con la necessità di una veloce ripresa economica rischia di rappresentare una sorta di quadratura del cerchio. Ci sta provando il premier Conte con i suoi tre obiettivi fondamentali per il recupero del Belpaese: modernizzazione, transizione energetica, Italia più inclusiva.

La modernizzazione prevede il miglioramento delle infrastrutture, soprattutto quelle ferroviarie, e la realizzazione della rete unica in fibra ottica; la transizione energetica dovrebbe consistere nel sostegno alle imprese impegnate nella digitalizzazione, nella creazione di intelligenze artificiali e nelle energie rinnovabili; arrivare ad una maggiore inclusività vuol dire infine ridurre il cuneo fiscale e puntare su formazione, scuola, università e ricerca.

Qualcuno insiste a vedere il premier assorbito da una stucchevole e continua passerella mediatica. Di per sé la cosa non sarebbe grave. Giovanni Paolo II amava le adunate oceaniche e non per questo poteva essere tacciato di populismo clericale. Tutto dipende dal fine che dovrebbe giustificare i mezzi. Forse varrebbe la pena di smetterla con la disquisizione sulle capacità di governo di Giuseppe Conte per andargli a vedere in mano. Il partito democratico dovrebbe essere in grado di perseguire l’obiettivo di creare e detassare il lavoro abbandonando i sogni di gloria del reddito di cittadinanza e le illusioni della diminuzione dell’iva seppure mirata e ragionata. In fin dei conti si tratta di tornare all’articolo uno della nostra Carta Costituzionale: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”.

Se mi è concessa una battutina finale un po’ velenosa, guardando in giro e sentendo tante voci preoccupate, sembrerebbe quasi che l’Italia sia fondata sui bar e sui ristoranti, con tutto il rispetto per chi lavora in questi settori. Provolino diceva “boccaccia mia statte zitta”. Vuoi vedere che il tanto temuto scontento sociale si sfogherà in una serrata degli esercizi pubblici, calmato, per dirla con Carlo De Benedetti, con qualche bonus- caffè e con la polizia a protezione delle vetrine prese a sassate dai cittadini infuriati. Semplici battute di alleggerimento!

Il gerovital per il sistema paese

Era il 07 gennaio 1973. Iniziavo con una certa trepidazione la mia vita professionale: una pila di registri da vidimare finalizzati alla tenuta della contabilità iva, la nuova imposta sul valore aggiunto, che doveva rivoluzionare il nostro sistema fiscale. E di Iva mi occupai per tutta la mia “carriera” in mezzo a bolle, fatture ed autofatture.

Quando entrò in vigore l’iva, fece un certo scalpore l’introduzione di un documento strano, la cosiddetta autofattura, che in certi casi il compratore si vedeva costretto ad emettere al posto del venditore. Un mio simpatico interlocutore, impressionato da questa novità legislativa, quando mi poneva un problema in materia di imposta sul valore aggiunto, finiva col chiedermi in ogni caso: «Co’ disol dotôr, ag fämmiä n’autofatura?». Oggi, al termine degli stati generali dell’economia, si dice che sia giunto il momento per «reinventare l’Italia» perché sia «moderna, sostenibile, inclusiva, verde», ma anche di pensare a misure concrete per far fronte all’emergenza come l’ipotesi di «abbassare un po’ l’Iva». La novità, assai costosa per le casse dello Stato dovrebbe servire a rilanciare i consumi con un occhio particolare ai settori del turismo, della ristorazione, dell’abbigliamento e dell’automobile.

È curioso come l’introduzione dell’iva abbia tenuto, in un certo senso, a battesimo il mio inserimento nel mondo del lavoro ed ora la sua diminuzione diventi un modo per cambiare il mondo dei consumi e segni, anche per me, un cambiamento di vita, se è vero, come è vero, che mi sento una persona diversa in un mondo diverso. Una combinazione, uno scherzo del destino o un segno epocale?

Durante le mie battaglie etiche c’era nel mirino “il consumismo”, un diabolico e perverso meccanismo di distrazione personale e di massa. Oggi me lo ritrovo tra i toccasana per riavviare il motore dell’economia, che ha grippato col coronavirus. Come cambia il mondo! E poi, servirà veramente a ridare fiato alle trombe economiche o saranno solo campane a morto. C’è indubbiamente una forte discrasia tra l’esigenza di rivoltare l’Italia come un calzino e la decisione di mettere una toppa sul vestito vecchio. Prima che l’abito nuovo possa essere confezionato e pronto per l’uso bisogna pure coprirsi in qualche modo, quindi proviamo a ripartire dai consumi, poi si vedrà.

Giuseppe Conte al termine dei tanto chiacchierati stati generali dell’economia ha affermato che l’Italia va rifatta nelle sue infrastrutture, nella burocrazia, nel fisco. Il premier ha riassunto in «tre grandi direttrici» la bozza di idee partorite da 150 incontri in nove giorni. Tre imperativi categorici: modernizzare l’Italia, renderla più inclusiva, compiere una robusta transizione energetica. Non si può certo dire che il premier voli basso. Non si accontenta di un lifting qualsiasi, vuole sottoporre il Paese a una cura di ringiovanimento. Un tempo si parlava di “gerovital” una preparazione farmaceutica sviluppata durante gli anni ’50 e dichiarata a suo tempo come capace di effetti antietà sull’uomo. Durante la sua massima notorietà il Gerovital venne usato da persone del jet set, come John F. Kennedy, Marlene Dietrich, Kirk Douglas e Salvador Dalì.

Speriamo che dalle definizioni roboanti si scenda a programmi concreti. Mio padre non poteva soffrire coloro che le vogliono raccontare grosse, i mistificatori della realtà a tutti i livelli, dalla politica alla più bassa quotidianità. Basti dire che prima di salire su un’automobile guidata da un’altra persona era solito, soprattutto se non la conosceva bene, chiedere provocatoriamente: «Sit bon äd guidär?». L’altro ci rimaneva male e chiedeva il perché di una tale domanda. Al che lui rispondeva candidamente: «Acsí se par cäz sucéda quel a t’podrò dar dal bagolón». Forse porrebbe la stessa domanda, bonariamente provocatoria, a Giuseppe Conte. Speriamo sia in grado di rispondere coi fatti e non a parole.  Perché dei parolai mio padre non voleva saperne: “I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

 

 

La fretta genera l’errore in ogni cosa

O non capisco niente di politica (cosa piuttosto probabile) oppure c’è qualcuno che ne capisce ancor meno di me. Il partito democratico, se vuole risalire nei consensi e recuperare una identità a livello di sinistra riformista ed europeista, deve avere la pazienza di stare al governo con dignità e serietà, assumendosi la responsabilità di guidare il Paese in un momento drammatico, esprimendo il meglio di sé senza voler strafare, tenendo il dibattito interno a livello costruttivo ed evitando accuratamente polemiche interne ed esterne. Credo sia la faccia del PD che la gente gradisce e preferisce.

Sembrava che la suddetta strada fosse stata imboccata e in via di percorrenza, quando improvvisamente da un personaggio peraltro molto equilibrato e serio come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, arriva la richiesta di una nuova leadership per il Partito Democratico con tanto di sfida a Nicola Zingaretti, indicando negli amministratori del Pd la riserva in cui andare a cercare il prossimo segretario.

Considerazioni che assomigliano ad una auto-candidatura, se non fosse che lo stesso Gori nega di nutrire ambizioni nazionali e afferma di voler rimanere a Bergamo, o ad un endorsement a favore di Stefano Bonaccini, che però da parte sua ribadisce la sua ferma volontà di collaborare con Zingaretti.

“Se vogliamo incidere e aiutare questo Paese a tirarsi fuori da pasticci serve un altro Pd e forse dagli amministratori arriverà una nuova leadership, ma non sarò io. Da qui ai prossimi quattro anni non sarò io. Però posso dare una mano”. Lo ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, a un evento organizzato dallo studio Berta, Nembrini, Colombini e Associati e trasmesso in streaming. “Credo che i sindaci e gli amministratori del Pd siano un pezzo di possibile nuova classe dirigente del Paese. Poi chi fa il sindaco – ha continuato – fa il sindaco, non c’è molto tempo per fare altro. Credo ai grandi partiti e credo che i cambiamenti di cui questo Paese ha bisogno non li producano le piccole formazioni politiche con carattere personalistico, ma che servano i grandi partiti popolari. Il Pd ancora lo è, ma vedo molti limiti nella conduzione dell’attuale Pd e per questo mi piacerebbe più concreto, più coinvolto a promuovere le riforme che servirebbero al Paese. E questa cosa deve anche trovare una nuova leadership e lo dico avendo molta simpatia e lealtà nei confronti dell’attuale segretario del Pd”.

Non entro nel merito delle critiche di Gori, peraltro piuttosto condivisibili. Chi non vede una certa qual debolezza nell’attuale leadership piddina? Chi non auspica un Pd più impegnato nelle grandi riforme? Chi non vede la debolezza dell’attuale equilibrio di governo? Chi non vede nei legami con gli amministratori locali la giusta sponda per incardinare territorialmente e concretamente la politica del partito democratico? Cose abbastanza scontate. Non mi sembra però il momento di sollevare simili questioni in modo drastico arrivando a chiedere un congresso straordinario. Oltre tutto, la gente in genere ed anche il potenziale elettorato del PD non capirebbero l’apertura di tale diaspora, mentre il Paese rischia di andare a picco. C’è già chi sta facendo confusione sufficiente e non è il caso che il partito democratico ne aggiunga, magari in buona fede.

Si legge nella Bibbia, nel libro del Qoelet o Ecclesiaste:

“ Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace”.

 

La triste vecchiaia di una toga d’assalto

Antonio Di Pietro si lascia andare ad un giudizio severo sull’operato del Movimento 5 Stelle. Il consiglio che l’ex leader di Italia dei Valori dà ai grillini è diretto: tornare alle origini. “Io capo politico del M5S? Non c’azzecco niente. Ognuno ha il suo tempo e deve avere rispetto del tempo che passa. Il M5S è un movimento che se vuol sopravvivere deve tornare alle origini. Così com’è adesso sembra una Dc, con un parroco di provincia che lo sta amministrando, don Giuseppe (Conte, ndr) che ogni giorno ci propina la sua predica che potremmo andare a sentire la domenica alla messa cantata”. “C’è bisogno – prosegue Antonio Di Pietro, ospite di “Res Publica” su Radio Cusano Tv Italia – di un ritorno alle origini, di riprendere le tematiche che avevano avvicinato l’elettorato. Sotto questo aspetto l’unico che può smuovere le coscienze è Di Battista, l’unico capace di parlare a quel popolo”.

Se mi serviva una ulteriore prova per il mio collaudato giudizio sulla (in)capacità politica di Antonio Di Pietro e sulla inopportunità che i magistrati scendano in politica, mi è stato servito su un piatto d’argento. Considero inaccettabile, superficiale, pressapochista e sciocco il parallelismo tra l’odierna confusione pentastellata e il gioco correntizio nella democrazia cristiana (penso almeno che Di Pietro intendesse questo nel suo sbrigativo giudizio). La DC ha fatto la storia democratica del Paese e non può essere ridotta ad una caricatura, vale a dire un’accozzaglia di uomini alla ricerca del potere, sempre al limite della corruzione: questo ha visto, non senza esagerazioni, nelle sue inchieste, divertendosi un po’ troppo a impersonificare la DC in Arnaldo Forlani, un uomo alla sbarra con tanto di bava alla bocca. Antonio Di Pietro, come tutti i suoi colleghi magistrati, la deve smettere di ritenersi il proto-censore della Repubblica: hanno svolto un compito importante nella moralizzazione della politica, che aveva raggiunto livelli preoccupanti di corruzione, ma le loro inchieste non squalificano tout court un partito come la Democrazia Cristiana.

Quanto ai parroci di provincia e alle messe cantate, sappia che il movimento cattolico ha svolto una funzione culturale e politica di enorme portata in senso democratico seppure con sbavature clericali: non mi faccia quindi la parte dell’insopportabile e anacronistico laicista d’accatto.

Sull’apprezzamento per l’originaria identità popolare del M5S, vorrei tanto che Di Pietro me la spiegasse al di là del “cavalcamento strumentale” della protesta e del goffo e comico tentativo di rappresentare l’antisistema.  Proprio ora che questo inganno viene svelato ci vuole solo il cattivo gusto di Antonio Di Pietro per rivalutarlo e rievocarlo. Se poi la politica italiana a suo giudizio ha bisogno del genio e della sregolatezza di un Di Battista per smuovere le coscienze, vuol proprio dire che, anche per merito di un magistrato come lui, prestato per anni alla politica, siamo caduti molto in basso.

La parabola di pietriana è infine tutta lì a dimostrare come è molto meglio che i magistrati facciano bene il loro mestiere piuttosto che scimmiottare quello degli altri. Per fortuna Antonio Di Pietro afferma: “Io capo politico del M5S? Non c’azzecco niente. Ognuno ha il suo tempo e deve avere rispetto del tempo che passa”. Il problema è che lui non c’azzecca niente non solo con il M5S, ma con la politica in generale. Non è nemmeno capace di fare il notabile, c’è chi lo sa fare molto meglio di lui.

Sono stato un democristiano assai critico verso il partito fino ad uscirne il giorno in cui Forlani ne assunse la segreteria ed iniziò il triste periodo del Caf (Craxi- Andreotti- Forlani), che portò anche alla degenerazione ed istituzionalizzazione di un sistema di potere corrotto e corruttore: ciò non toglie che debba riconoscere i meriti storici di questo grande partito e di reagire a chiunque lo vuole ridurre a fenomeno di bassa lega.

Sul movimento cinque stelle non aggiungo niente, perché ne sto già scrivendo anche troppo: che Di Pietro faccia l’alter ego di Grillo è un’eventualità che non avevo messo in conto e che, tutto sommato, trovo persino divertente.

Ho grande rispetto per la funzione della magistratura e per la sua indipendenza, ne riconosco i meriti, i sacrifici, le coraggiose testimonianze: proprio per questo mi infastidiscono il giustizialismo e la lettura giudiziaria della politica. Non mi piacciono i padreterni con la toga, immaginiamoci i padreterni, che dismessa la toga, si lanciano in politica e, dopo aver mietuto pesanti insuccessi, si atteggiano a coscienza critica. Di cosa lo sanno solo loro.

 

 

La folle guerra estiva dei post-grillini

Uno statista guarda alle prossime generazioni, un politico guarda alle prossime elezioni, i pentastellati guardano al prossimo settembre. Non ho ben capito, ma tutti parlano di settembre come del momento della verità della situazione socio-economica conseguente alle drammatiche vicende della pandemia, che essa stessa a settembre potrebbe riservare qualche spiacevole ulteriore sorpresa (il virus per la verità non aspetta e si è rifatto vivo in Cina, continua a mietere migliaia di vittime in India e Brasile, etc. etc.).

Un tempo si parlava di autunno caldo a livello sindacale, oggi si prefigura un autunno caldo a livello globale, anche se la crisi è già clamorosamente in atto in tutti i suoi aspetti eclatanti e “misteriosi”. L’appuntamento settembrino sembra quindi più un modo di dire che un’effettiva scadenza: i problemi sono già sul tavolo e non vedo il perché si debba aspettare qualche mese prima di affrontarli. La scusa delle ferie non tiene e appare come una rituale e superata scansione di tempi. Spero che governo e parlamento abbiano il buongusto di non andare in ferie, di non chiudere i battenti, c’è ben altro a cui pensare.

Ho introdotto questa leziosa riflessione sui tempi della politica, perché i politologi trovano una plausibile motivazione alla “guerra interna dei grillini” nella preparazione tattica al redde rationem autunnale. Il ragionamento è questo: si scatenerà il finimondo e i pentastellati temono di essere sommersi dai problemi e di andare in ulteriore crisi di consensi, tanto vale prepararsi a prendere le distanze dalle responsabilità di governo, rituffandosi nel recupero dell’identità populista e antisistema alla ricerca della credibilità protestataria. Mentre Beppe Grillo sembra aver sposato la causa governativa e, prima ancora, quella della collocazione nell’area di sinistra dello schieramento, i “dibbattistiani” vogliono recuperare le mani libere per poter cavalcare le piazze in fermento. Resto dell’dea che i contestatori avranno poco spazio e poco successo: qualcuno ipotizza addirittura una scissione, che metterebbe in difficoltà il governo. Gli italiani potrebbero persino apprezzare l’ira funesta del grillino Di Battista che infiniti lutti adducesse al centro-sinistra?

Che la maggior forza parlamentare potesse un bel giorno fare calcoli di questo tipo, forse nemmeno Alcide De Gasperi, autore della distinzione tra statisti e politici, poteva immaginarlo e infatti mi sono permesso all’inizio di parafrasarlo introducendo l’inopinata variabile pentastellata. Al di là degli imbarazzi provocati dalle fangose ipotesi di finanziamenti assai poco trasparenti proveniente dall’estero, da una parte abbiamo la fazione barricadiera del M5S che pensa di salvarsi cavalcando la protesta e rinunciando a governare, dall’altra abbiamo la fazione filo-governativa, che intende rimanere sui banchi di combattimento del governo Conte. In mezzo il presidente del Consiglio che butta gli stati generali dell’economia oltre l’ostacolo, attirandosi le critiche di tutti. Si va dal libro dei sogni all’ennesimo escamotage de “la pubblicità è l’anima della politica”. Il partito democratico tira la giacca a Conte per riportarlo alla politica dei fatti concreti: tutto ancora da stabilire quali siano questi fatti concreti.

Massimo Cacciari, sempre a metà strada tra filosofia e politica, un incrocio piuttosto strano ma interessante, sottolinea, con la sua solita vena tranchant, come il piano presentato da Vittorio Colao con la sua task force sia un documento politico, che scombina il discorso delle competenze. I tecnici infatti dovrebbero essere chiamati a studiare tempi e modi concreti per la fattibilità delle scelte politiche adottate dal governo e non viceversa. Su tutto, a giudizio di Cacciari, regna la più assoluta astrattezza e incompletezza. Le forze politiche di opposizione sono altalenanti tra le smanie barricadiere di Salvini e Meloni e le malcelate velleità filogovernative di Berlusconi; i partiti di governo devono fare i conti con le continue ma imprescindibili incertezze pentastellate. E Conte deve fare i conti con tutti. Speriamo senza tirarla troppo per le lunghe: settembre è troppo lontano. Auguri e governo maschio!

 

I guardiani del destino

Mio padre assistette con malcelata ammirazione ad un summit dei tre zii materni (i cognati pieni di coraggioso spirito imprenditoriale) alle prese con un rischioso affidamento bancario, indispensabile ad uno di essi per poter proseguire l’attività dell’azienda, inizialmente in forte difficoltà finanziaria. Dopo alcune impegnative valutazioni, sbloccò la situazione Bonfiglio, apponendo per primo la firma di garanzia ed accompagnandola con queste parole: “A v’rà dir che s’ l’andrà mäl andremma descälsa tutti”. Mio padre rimase sbalordito da tanta generosità associata a tanto coraggio. D’altra parte lo stesso Bonfiglio era solito esorcizzare il futuro con una delle sue proverbiali battute: “Mäl cla vaga a restarò coi mej äd quand són partì”.

Quando si vuole veramente aiutare qualcuno non ci si mette a fare le pulci ai suoi comportamenti alla ricerca di un motivo per dire di no, che esiste sempre e comunque. Bisogna avere coraggio e spirito di solidarietà, caratteristiche che purtroppo mancano a livello europeo.

Riporto di seguito quanto scrive Alessandro Di Matteo su “la Stampa” al riguardo dello stanziamento e dell’erogazione dei fondi europei in seguito alla pandemia, così come previsto dalla proposta della Commissione ora al vaglio del Consiglio europeo: “L’Italia non intende sprecare i soldi che arriveranno dall’Ue, non si tornerà alle cattive abitudini di un tempo, ma l’Europa non può fare marcia indietro sulla proposta di “Recovery fund” elaborata dalla Commissione. Il premier Giuseppe Conte prova a ribadire i paletti dell’Italia, di fronte all’offensiva dei Paesi “frugali” al Consiglio europeo. La prospettiva di un ridimensionamento dei fondi per aiutare i Paesi in crisi a causa del Coronavirus per palazzo Chigi è inaccettabile e il presidente del Consiglio lo dice chiaramente a margine di una riunione non facile.

I guardiani del rigore, guidati dall’Austria, chiedono che venga ridotta soprattutto la quota di finanziamenti a fondo perduto, da sottoporre comunque a rigidi controlli e condizioni, e di fatto cercano di smontare l’impianto definito dalla Commissione guidata da Ursula Von der Leyen. Un problema enorme per l’Italia, e infatti Conte avverte che la proposta della Commissione «è equa e ben bilanciata. Sarebbe un grave errore scendere al disotto delle risorse finanziarie già indicate».  Risorse che, per l’Italia, dovrebbero ammontare a circa 170 miliardi, di cui quasi la metà a fondo perduto. Soldi indispensabili, che peraltro rischiano di arrivare troppo tardi.

Il governo sa che l’Austria e gli altri paesi che frenano hanno gioco facile a sfruttare la fama poco lusinghiera dell’Italia in materia di efficienza della pubblica amministrazione e di trasparenza della spesa pubblica. Per questo Conte assicura: «Sul fronte interno, l’Italia ha già avviato una consultazione nazionale con tutte le forze politiche, produttive e sociali per elaborare un piano di investimenti e riforme che ci consenta di non ripristinare la situazione pre-Covid 19 ma di migliorare il livello di produttività e di crescita economica». Tradotto, appunto, significa dire: non sprecheremo i soldi che arriveranno, stiamo elaborando un piano serio per usare le risorse in base ad una strategia e mettendo a posto, nel frattempo, le tante cose che non funzionano come dovrebbero”.

Se ogni paese pretende di fare i conti in casa dei propri partner, se si vogliono porre rigidi ostacoli preventivi e consuntivi alla concessione degli aiuti, non si va da nessuna parte, perché si parte col piede della diffidenza e non con quello della solidarietà. L’Italia, come sosteneva giustamente il presidente Sandro Pertini non è né prima né seconda rispetto agli altri Stati. Certamente ha tanti difetti, ma chi non ne ha? Se ci mettiamo ad aprire gli armadi della storia europea, non si salva nessuno.

Ripenso al discorso pronunciato da Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi del 10 agosto 1946. L’Italia che si presentava a quella conferenza di fronte alle potenze vincitrici non era solo un Paese in miseria e devastato dal conflitto mondiale, ma anche un Paese portatore di una fama non certo ragguardevole: voltagabbana, incapace di servare i pacta, e per di più anche ex-alleato dei nazisti. Fu grande in quell’occasione il discorso dell’allora presidente del Consiglio De Gasperi, il quale ostentò non la falsa umiltà di chi è costretto a supplicare, bensì quella vera di chi ha fatta propria la convinzione di essere in debito. Un discorso che ha fatto conoscere al mondo quello che probabilmente è stato il più grande statista italiano del ‘900, il simbolo di un’Italia democratica, antifascista, e soprattutto tanto bramosa di riscattarsi.

Auguro a Giuseppe Conte di tenere una simile, umile, dignitosa e decisa posizione. Ammettiamo i nostri errori, accettiamo lezioni da tutti e da nessuno: solo da chi ce le può impartire in modo credibile, serio e costruttivo. Qui si fa l’Europa o rischiamo di morire tutti.  Durante l’incontro con i rappresentanti del governo italiano in vista del Consiglio europeo, Mattarella ha espresso la sua soddisfazione per i passi fatti dal governo. Le posizioni iniziali dell’Italia sugli aiuti per i singoli Paesi per la crisi legata all’emergenza coronavirus sono oggi, ha detto il presidente della Repubblica, “patrimonio comune dell’Europa”, anche se c’è la consapevolezza delle residue difficoltà che vanno ancora superate in sede di negoziato. Come al solito mi sento in perfetta sintonia col presidente della Repubblica. Grazie!

 

Il duetto delle ciliegie

Così scrive su Avvenire Lucia Capuzzi illustrando la situazione dell’Uruguay nella pandemia. “L’hanno sempre soprannominato la “Svizzera dell’America Latina”. Stavolta, però, l’allievo Uruguay ha battuto di gran lunga il maestro. Mentre la Confederazione elvetica ha registrato oltre 34mila casi di Covid, il Paese latinoamericano si è fermato a 847. Non solo. Ancora entro i confini svizzeri si registrano una manciata di contagi al giorno. Dal 4 giugno, invece, l’Uruguay ha raggiunto «quota zero»: nessun nuovo malato segnalato da più di una settimana. Le vittime sono finora ventitré. Certo, si tratta di una nazione piccola e poco popolata: gli abitanti sono 3,5 milioni. In prospettiva, però, il tasso di mortalità è 0,6 ogni 100mila persone, contro il 12,2 del Brasile, il 4,5 del Cile e l’1,1 dell’Argentina, sull’altra riva del Rio de la Plata. Secondo i dati preliminari del ministero della Salute, addirittura, nei primi due mesi di epidemia – dal 13 marzo al 17 maggio – ci sono stati oltre 1.500 decessi in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E la riduzione della mortalità generale sembra proseguire nelle ultime settimane. Il tutto mentre i Paesi vicini – Brasile in testa – affrontano il momento più drammatico della pandemia, di cui il Continente è ormai epicentro, come continua a ripetere l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms)”.

Ho parecchi dubbi che questa eccezione nel Continente americano, epicentro della pandemia, sia dovuta al fatto che il piano sanitario del governo sia stato basato sui test di massa porta a porta (cosa tuttavia che in Italia si doveva fare e non si è fatta) e su campagne di sensibilizzazione e i contagi siano stati ridotti a zero senza lockdown o meglio con un lockdown spontaneistico. Una cosa però mi ha incuriosito: una importante motivazione politica di questo quasi-miracolo uruguayano viene individuata nell’atteggiamento positivo e costruttivo assunto dall’opposizione: nonostante le iniziali perplessità, ha sostenuto il piano sanitario del governo. Perché, come ha spiegato uno dei suoi leader, il senatore Carlos Mahía, «possiamo dividerci sulla politica economica non sulla lotta al virus».

Durante l’informativa parlamentare in vista del Consiglio Ue Giuseppe Conte ha lanciato l’ennesimo appello a tutte le forze politiche: “Bisogna essere uniti”. Ma Fdi diserta e la Lega protesta abbandonando l’aula dopo l’intervento. Il premier auspica un “nuovo modello di sviluppo”, che sarà basato su investimenti pubblici rafforzati dell’Ue. Dà appuntamento a settembre per il Recovery plan dell’Italia. Ma soprattutto, “per non perdere la sfida europea”, Giuseppe Conte chiama al senso di responsabilità tutte le forze politiche: “E’ l’ora di dare prova di coesione anche sul piano nazionale”, dice al culmine della sua informativa alla Camera in vista del consiglio Ue di Bruxelles. Un appello lanciato nel bel mezzo degli Stati generali sull’economia boicottati dall’opposizione. Ma Fdi e Lega alzano un muro anche stavolta: i meloniani disertano l’aula e i salviniani abbandonano dopo l’intervento del primo ministro, protestando contro la decisione di non consentire un voto.

Si è registrato un fatto “tragicomico” all’osteria al Borgo di via Longhena, a Verona: l’incontro tra Matteo Salvini e il governatore del Veneto Luca Zaia per una conferenza stampa in cui si affrontava il delicato tema della chiusura del punto nascite dell’ospedale di Borgo Trento dopo il proliferare di un batterio che sarebbe responsabile della morte di alcuni bambini. Mentre Zaia esprimeva dolore per la drammatica situazione, Matteo Salvini gustava le ciliegie a tavola. La scena non è sfuggita ai presenti e su Twitter il video è stato rilanciato accompagnato da messaggi di critica verso il senatore leghista.

Non voglio fare il moralista e infatti ritengo assai più grave l’ennesimo abbandono polemico delle aule parlamentari rispetto alla scorpacciata di ciliegie. Tuttavia è pur vero che anche l’occhio vuole la sua parte e certamente l’atteggiamento salviniano non depone a favore della sua sensibilità verso i problemi delicatissimi della sanità pubblica.  Fatto sta che l’opposizione si continua a (s)qualificare come rissosa, polemica e impresentabile.

Al solo pensiero che certi politici abbiano potuto rivestire importanti incarichi di governo c’è da mettersi le mani nei capelli. Forse, tutto sommato, è meglio che l’opposizione se ne stia sull’Aventino, considerato il risibile contributo di merito che potrebbe dare e il disgustoso apporto di metodo che potrebbe garantire. Cosa diranno in Europa? Hanno le loro gatte da pelare e non possono inoltre fare i bravi ragazzi, anche perché alcuni Paesi europei flirtano con Lega e FdI, scambiandosi dolci baci e languide carezze “sovranisticamente” parlando. Riuscirebbero i nostri eroi a convincere questi scomodi alleati, riuscirebbero a prestare una sponda utile, facendo la parte del poliziotto cattivo con La Ue? Per ora sanno fare solo la parte dei demagoghi da strapazzo e dei disfattisti coordinati e continuativi. Lasciamo quindi semmai a Silvio Berlusconi il compito di convivere con questi incredibili partner. Se i grillini li voleva mandare a pulire i cessi, a quale alto incarico starà pensando per leghisti e fratelli d’Italia? A meno che alla fine non mandino finalmente lui a fare i cazzi suoi senza rompere i coglioni a noi.

Dove vai se il Grillo non ce l’hai?

Il movimento cinque stelle è sempre più allo sbando per un motivo di fondo. È tramontata la chimera dell’antipolitica: non si può infatti sedere in Parlamento come primo partito, partecipare a governi esprimendo ministri e finanche il presidente del Consiglio e contemporaneamente battere la grancassa della protesta nelle piazze. L’equivoco è durato poco, la gente se ne è accorta e il movimento ha perso gran parte della sua credibilità.

La conversione da partito di protesta a partito di proposta è però molto problematica. È probabilmente ciò che tenta disperatamente di fare Beppe Grillo: dopo aver aizzato la sua creatura contro tutto e tutti, non è facile ricondurla alla ragione e obbligarla a fare scelte politiche. Ha il vantaggio di possedere, seppure in forte calo, un certo carisma. Ho sempre ritenuto che il M5S fosse solo ed unicamente Beppe Grillo, ma è passato un po’ di tempo e i colonnelli, seppure penosi nella loro presunzione di autonomia, fanno fatica a sopportare l’invadenza del generale, seppure detentore e manovratore del consenso popolare.

E allora ecco il probabile scontro tattico, perché di strategia è meglio non parlare. Da una parte Grillo che spinge per collocare il partito nell’area di centro-sinistra, per renderlo europeista, per costringerlo ad operare scelte di campo e di programma, per legarlo alle sorti di Giuseppe Conte e dall’altra parte i Di Maio e i Di Battista tentati dal ritorno alla vocazione primaria dell’antisistema con tutto quel che ne consegue in termini di alleanze, di scelte metodologiche e programmatiche.

E il fluido elettorato pentastellato come la prenderà? Continuerà a sentire il richiamo della foresta grillina o seguirà gli improvvisati traditori del verbo grillino? O manderà tutti a quel paese tornando malinconicamente nel recinto dell’astensionismo e del malpancismo e obbligando gli estemporanei suoi rappresentanti a cambiare mestiere, ripiegando magari sulla pulizia dei cessi di Mediaset (Berlusconi permettendo)? Se devo essere sincero faccio fatica a vedere un’asse politico tra Grillo e Conte, un’alleanza organica tra grillini e piddini doc, un futuro per un M5S in giacca e cravatta. D’altra parte o così o il niente piegato nella carta stagnola dei saputelli d’occasione.

Non so se il fenomeno del grillismo possa considerarsi finito o in via di estinzione. Ho sempre ritenuto che tutto il mal non sia venuto per nuocere, nel senso che il M5S sia riuscito ad intercettare una protesta che avrebbe potuto anche prendere strade piuttosto pericolose, violente e antidemocratiche, ma dopo averla intercettata non è per nulla riuscito a gestirla in positivo all’interno delle istituzioni. Una volta archiviato Grillo, dove potrà finire la patologica e qualunquistica repulsione popolare al sistema dei partiti? A destra c’è chi è ben attrezzato al riguardo ed il mio timore è proprio che tutto il malcontento possa finire nelle grinfie di Salvini e c. Lo sfogatoio grillino tende ad intasarsi e non saranno certo il gatto e la volpe post-grillina (mi riferisco a Di Maio e Di Battista) a riaprire le bocchette.

Fa un po’ sorridere l’idea di Beppe Grillo garante della continuità del movimento, che vuole un direttorio per evitare il rischio di una scissione: il giocattolo gli si sta rompendo fra le mani? L’idea di Giuseppe Conte leader dei grillini mi sembra piuttosto peregrina: è improbabile che un pompiere possa accendere i nuovi fuochi pentastellati. Grillo starebbe blindando i 5 stelle al governo e difenderebbe con le unghie e con i denti il patto col PD: mi chiedo con quale credibilità se non quella di essere un gran furbacchione in grossa difficoltà. Di Battista sconfessato e irriso: il solo fatto di doverlo contrastare la dice lunga sulla debolezza attuale del movimento.  Di Maio in peggio!

Non è eutanasia, è (quasi) razzismo

In quasi completa segretezza, il governo del Quebec ha distribuito a medici e ospedali un protocollo per l’accesso alle terapie intensive che permette, in caso di carenza di letti, di negare un respiratore a una persona affetta da sindrome di Down, Parkinson, Sla o grave disturbo autistico.  Il documento risale al primo aprile, ma l’Amministrazione di centro-destra della provincia francofona canadese – che ha già fatto da apripista sul suicidio assistito – ne ha finora messo a disposizione del pubblico solo una parte, rifiutandosi di pubblicare i criteri di esclusione stabiliti nelle appendici. “Avvenire” ne ha preso visione grazie alla Société Québécoise de la déficience intellectuelle, Sqdi, che ha di recente lanciato una petizione per chiedere al primo ministro François Legault di rivedere il documento. Solo più di due mesi dopo l’entrata in vigore del protocollo, infatti, l’opposizione liberale del Quebec e le associazioni per i diritti dei disabili hanno preso conoscenza dei parametri che permettono a un medico di scegliere a chi dare la precedenza in caso di scarsità di risorse.

Immaginavo che di fatto esistessero e fossero applicate simili procedure selettive, peraltro diventate di estrema attualità con l’emergenza coronavirus, ma vedersele spiattellate in faccia fa una certa impressione. Non entro nel merito dei criteri selettivi e sono perfettamente d’accordo con Anik Larose, direttore esecutivo della Sqdi, che sottolinea come qualsiasi criterio basato sulla valutazione dell’autonomia funzionale di un individuo, come la sua capacità di vestirsi e mangiare da solo, pone importanti questioni etiche e legali. «Indipendentemente dal fatto che si sia o meno in un’emergenza sanitaria, le decisioni cliniche non dovrebbero mai essere prese sulla base di giudizi di valore sull’utilità sociale di un individuo o su pregiudizi sulla sua scarsa qualità della vita», continua. Larose fa notare che una persona con sindrome di Down che ha difficoltà ad articolare le parole o ha limiti motori otterrà un punteggio di fragilità elevato e sarà immediatamente esclusa dalle cure intensive. «Le capacità funzionali delle persone con un disturbo dello spettro autistico sono compromesse, senza ridurre la loro speranza di vita», aggiunge il direttore esecutivo della Federazione dell’autismo del Quebec, Luc Chulak.

Negli Stati Uniti, le organizzazioni per la difesa dei disabili hanno sfidato con successo il protocollo dell’Alabama che negava i respiratori alle persone con ritardo mentale o demenza da moderata a grave. Ma negli Usa restano almeno dieci gli Stati che, in caso di carenza di letti o respiratori, fanno passare «in fondo alla fila» chi necessita di «una maggiore quantità di risorse», o ha ricevuto diagnosi specifiche, fra le quali la demenza.

Il problema purtroppo si pone in conseguenza della inadeguatezza delle risorse rispetto ai bisogni di cura delle persone: una paradossale e inumana quadratura del cerchio. Ma siamo proprio sicuri che le risorse non si possano allargare? Ci rassegniamo a questa macabra contabilità? Rinunciamo in partenza a fare sacrifici a livello sociale e individuale, ad allargare i cordoni di questa tragica borsa?

Molti, soprattutto a livello religioso, si pongono un problema di principio per quanto concerne aborto, eutanasia, procreazione assistita, controllo delle nascite, etc. Niente in confronto della selezione di cui sopra! Tutti i problemi accennati, più o meno, coinvolgono la volontà degli interessati o di persone assai vicine a loro. Nel caso della chiusura dell’assistenza sanitaria invece è la società che determina i criteri in base ai quali una persona deve morire.

Resta poi il problema se sia meglio adottare certe procedure ai limiti della legalità o se sia meglio regolamentarle espressamente. Si dice: è meglio accettare supinamente l’aborto clandestino o tentare di porre precise regole all’aborto? È meglio voltarsi dall’altra parte per non vedere staccare i tubi dell’ossigeno ad un soggetto irreversibilmente vocato ad una sofferenza senza sbocchi oppure prendere la morte per le corna e stabilire quali siano i casi in cui si può morire per decisione del morituro? E così si può discutere con questo approccio su diversi altri problemi: dalla tossicodipendenza agli anticoncezionali del giorno dopo.

C’è però una differenza di fondo tra questi ultimi casi citati e la selezione per l’accesso a certe terapie. Nell’eutanasia e nei casi suddetti si sceglie il minore tra due mali a livello personale e si lascia la scelta prevalentemente al soggetto interessato. Nella negazione delle cure in base a criteri selettivi si sceglie invece di stare sempre e comunque dalla parte del manico, vale a dire di difendere gli equilibri e i meccanismi di un sistema socio-economico, accettandolo come un assoluto intoccabile, capovolgendo la scala dei valori che dovrebbe vedere al primo posto il diritto di vivere.  Non mi si dica che questo discorso dovrebbe valere allo stesso modo per aborto ed eutanasia. Nossignori, sono problematiche assai diverse. Certo, la società deve fare di tutto per evitare il ricorso all’aborto e all’eutanasia, ma, di fronte all’impossibilità di intervenire positivamente ci si può rassegnare a “perdere la battaglia” assieme ai protagonisti del dramma.

Qui invece la battaglia si dà persa in partenza e ci si rassegna nel trovare un modus vivendi che sacrifica certi soggetti deboli sull’altare della continuità sistemica. Non inorridisco, ma mi pongo un serio problema di coscienza. Non mi nascondo cioè dietro i principi, ma accetto di affrontare i problemi a fin di bene e non per difendere il disordine costituito. Termino ricordando di seguito quanto diceva don Andrea Gallo in ordine alle sue condivisibilissime trasgressioni (?).

ABORTO: «Sta’ a sentire, non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una povera donna che si è scoperta incinta, è stata picchiata dal suo sfruttatore per farla abortire o se mi arriva una poveretta reduce da uno stupro, sai cosa faccio? Io, prete, le accompagno all’ospedale per un aborto terapeutico: doloroso e inevitabile. Le regole sono una cosa, la realtà spesso un’altra. Mi sono spiegato?».

MALATI TERMINALI: «Sulla base di una scelta chiara e consapevole della persona interessata, bisogna rispettare il suo diritto alla non sofferenza, a un minimo di dignità in ciò che rimane della vita. Ogni caso ha una sua trama e una valutazione diversa».

Penso che don Gallo, non credo di strumentalizzarlo a posteriori, farebbe invece un grosso passo indietro rispetto ai protocolli del Quebec! Peccato che non ce lo possa dire, ma lo lasciano intendere il suo pensiero e la sua vita.