La società a doppio binario (morto)

Il sistema binario è un sistema numerico posizionale in base 2. Esso utilizza solo due simboli, di solito indicati con 0 e 1, invece delle dieci cifre utilizzate dal sistema numerico decimale. Ciascuno dei numeri espressi nel sistema numerico binario è definito “numero binario”.

I computer, se non erro, viaggiano in base a questo sistema. Anche la nostra società funziona su una sorta di sistema binario. Nei giorni scorsi ho provato ad applicarlo alla politica. Riprendo il concetto: la politica italiana viaggia sul doppio binario, quello della ipercriticità gratuita e faziosa e quello delle sclerotiche reazioni allergiche alle critiche: la discussione ridotta a costante duello fra chi ha tutte le ragioni e chi ha tutti i torti.

Dal punto di vista sociale viviamo nel mare magnum della burocrazia e, giustamente, ce ne lamentiamo ad ogni piè sospinto. Tutto sembra paralizzarsi di fronte al dominio o all’eccessivo potere della pubblica amministrazione, con l’improduttiva pedanteria delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie; purtroppo succede anche nelle amministrazioni e organizzazioni non pubbliche, che ne ricalcano gli aspetti e, soprattutto, i difetti.

Dall’altra parte scatta una reazione uguale e contraria nei comportamenti individuali e collettivi: ognuno fa quel cavolo che crede, se ne fotte delle regole, viaggia sull’altro binario, vale a dire quello della strafottente noncuranza nei confronti dei propri doveri e/o dei diritti altrui. Un tempo la trasgressione era tale in quanto rappresentava l’eccezione alla regola, oggi c’è in atto lo stravolgimento in base al quale chi trasgredisce è in regola e chi cerca disperatamente di stare in regola viene emarginato e considerato lo scemo del villaggio e/o il brontolone di turno.

Qualcuno sostiene che la trasgressione sia la conseguente reazione alla burocrazia imperante, da cui ci si può difendere solo facendo i cazzi propri. Non so se sia nata prima la gallina burocratica o l’uovo del “chissenefrega”, fatto sta che la nostra società rischia una doppia paralisi: una da eccessiva staticità e l’altra da deformante dinamicità.

Mi viene spontaneo fare l’esempio del sistema fiscale: una pazzesca pletora di regole e di relative sanzioni porta acqua al mulino dell’evasione. Nella enorme confusione normativa chi intende farla franca e non pagare le tasse va a nozze, perché ha in tasca una polizza inattaccabile contro il rischio dell’evasione. I controlli finiscono col prendersela con i pochi che capitano sotto le grinfie dell’erario, spesso si tratta di quei pochi che magari hanno cercato di rispettare le regole e si vedono “becchi e bastonati” sotto le contestazioni globali del “dalli all’evasore”. Gli evasori, quelli veri, se la ridono nascondendosi dietro il dito della loro irrintracciabilità. D’altra parte già molti anni fa, un caro e bravo collega, esperto di fiscalità, teorizzava sarcasticamente come forse basterebbe inviare all’agenzia delle entrate un consistente numero fasullo di dichiarazioni dei redditi per mandare in tilt tutto il sistema.

Quando ci si pone il problema di riformare il sistema amministrativo, si pone immediatamente il dubbio amletico del “semplificare o non semplificare”: nel primo caso si teme di aprire un’autostrada (peraltro già aperta) ai trasgressori; nel secondo si teme di perpetuare l’inefficienza del sistema imprigionandolo in una pletora di regole (peraltro già esistente).

Poi escono anche i soliti pro e contro rispetto ai condoni: servono all’emersione del nero o all’immersione del bianco? Sono un premio ai trasgressori e un invito alla trasgressione, sono una piccola tassa che legittima la violazione delle regole o, perso per perso, un modo per portare all’erario un po’ di soldi? Forse i condoni rappresentano lo sposalizio tra l’inerte burocrazia e la furba egolatria.

Anche la lotta al coronavirus è rimasta invischiata nel sistema binario: per un po’ ha funzionato la estrema, e per certi versi inevitabile, burocratizzazione del lock down, poi, quando è subentrata la paralisi, via con la ripartenza, vissuta purtroppo da molta gente come un “liberi tutti” e “a chi tocca leva”. E tocca, come sempre, a chi cerca di comportarsi con serietà e buonsenso.

Tra i paragoni impossibili, varati dal grande attore dialettale Bruno Lanfranchi, ce n’era uno che diceva: “L’era un òmm tant timmid e impresiónabil c’al gäva paura d’un binäri mòrt”. Non è poi tanto impossibile avere paura del binario morto, se si tratta di quello che ho cercato di spiegare come un tarlo esistente nella nostra società.

Il catastrofismo di maniera

Le notizie catastrofiche sulla situazione economica si rincorrono: al 90% è roba trita e ritrita. La caduta del Pil, la drastica diminuzione delle vendite, l’occupazione in calo, i settori in crisi, la povertà in aumento, il malcontento montante. Vorrei capire cosa c’è di nuovo rispetto alla prevedibilissima crisi post-coronavirus.

Si tratta di un esercizio retorico che non serve assolutamente a niente e nessuno: tutti vogliono dire la loro scontata verità e sparare cifre alla viva il parroco, mentre sta dilagando la sindrome del disastro settembrino. Fanno meno audience i dati preoccupanti sulla diffusione del virus in tutto il mondo, ormai tirano le notizie sulla crisi economica: il sadismo mediatico non guarda in faccia a nessuno. Non è però solo una degenerazione a livello informativo, c’è anche la corsa di istituzioni, enti ed associazioni ad enfatizzare la realtà facilmente prevedibile e difficilmente arginabile e combattibile.

Durante una rappresentazione teatrale a livello parrocchiale, un attore improvvisato, che non aveva imparato a dovere la sua parte, ad un certo punto, nel momento di massima tensione drammatica della vicenda, si bloccò su una battuta: “questa casa va a catafascio”. Di lì non ci si muoveva, la frase veniva ripetuta alla ricerca dell’imbeccata da parte degli altri protagonisti che non arrivava, il suggeritore non sapeva più che pesci pigliare, la recita si impantanò, venne calato il sipario, sperando che il pubblico apprezzasse il colpo di scena, mentre invece si scatenò in urla e fischi contro tutto e tutti. La commedia finì malissimo: un fiasco pazzesco.

L’economia sta andando a catafascio! Lo si poteva facilmente prevedere e lo si sa benissimo. E allora? Se gli attori sul palcoscenico non recitano la loro parte, se chi deve proporre vie d’uscita è nel pallone, si pensa di risolvere la questione tirando il sipario e dichiarando fallimento totale? Se continuiamo ancora un po’, va a finire così. Qualcuno si illudeva che bastasse riaprire i battenti per rimettere in moto l’economia? Qualcuno pensa che continuando a suonare le campane a morto il funerale possa risolversi in positivo. Ai funerali si suonano le campane a morto all’arrivo del feretro in chiesa, poi all’uscita si suonano le campane a festa a significare la fede della comunità nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

Dobbiamo trovare un minimo di fiducia in noi stessi, nelle istituzioni, negli imprenditori, nei lavoratori, nei governi, altrimenti siamo perduti. Continuare a recitare il ritornello della crisi ci deprime e ci paralizza. Non sto chiedendo una irresponsabile ventata di ottimismo: ci stanno già pensando le migliaia di cittadini che si comportano in modo scriteriato volendo vedere a tutti i costi il bicchiere mezzo pieno. Non sto ipotizzando una fuga generale alla ricerca di una qualche distrazione di massa. Sto pensando alla disponibilità a fare dei grossi sacrifici e alla capacità di chiederceli, prospettando meccanismi che sconfiggano l’inequità, termine un po’ sgrammaticato, ma molto efficace, usato da papa Francesco, che definisce appunto l’inequità come la radice dei mali sociali.

Quando in una famiglia le cose vanno male si è portati, sbagliando, a drammatizzare la situazione come se bastasse per scuotere le menti e i cuori. Serve solo a deprimersi e a peggiorare la situazione. Anche le proposte di sacrifici fatte dal capo-famiglia cadono spesso nel vuoto, perché tutti si guardano e pensano che l’altro faccia meno sacrifici e sia avvantaggiato. Succede come a Coppi e Bartali al campionato del mondo di ciclismo. Sembra di assistere allo storico tira e molla tra i nostri due campioni: parti tu che parto io, non partì nessuno dei due e vinse, se non erro, Rik Van Steenbergen. Bisogna che chi propone i sacrifici abbia la credibilità per garantire una loro equa ripartizione prima ancora di una loro qualche efficacia.

Un tempo si diceva che questo ruolo dovesse e potesse svolgerlo la sinistra politica: non ne sono più così sicuro anche perché rischia di diventare la questione dell’uovo e della gallina: è la sinistra che fa l’equità o l’equità che fa la sinistra. Certo non fa niente di buono continuare col rosario dei dati negativi.

Non un avvocato del popolo, ma un direttore politico

La politica italiana viaggia sul doppio binario, quello della ipercriticità gratuita e faziosa e quello delle sclerotiche reazioni allergiche alle critiche: la discussione ridotta a costante duello fra chi ha tutte le ragioni e chi ha tutti i torti. Una simile impostazione non regge nei rapporti tra maggioranza e opposizione, figuriamoci all’interno delle forze di maggioranza.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema. Di tempo ne è passato parecchio ed il populismo ha fatto molta strada al punto da ridurre tutta la politica, e non solo, ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Noto, da parecchio tempo, come non si riesca più a discutere nel merito dei problemi: tutto viene ridotto a mera diatriba faziosa e velleitaria entro cui si rovinano persino rapporti familiari, parentali, amicali, si distrugge il dialogo rincorrendo fantomatiche certezze.

È bastato che il segretario politico del partito democratico esprimesse perplessità sulla proposta di riduzione selettiva dell’Iva, che ponesse alcune resistenze sul decreto Semplificazioni e che formalizzasse in una lettera la richiesta di attivare il Mes, cioè il fondo europeo per le spese sanitarie, per provocare la reazione stizzita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: cosa vuole costui? dove vuol parare? mi vuol sostituire? Sappia che dopo di me viene il diluvio!

A prescindere dal merito dei problemi sollevati, sul quale peraltro mi ritrovo assai più vicino all’opinione di Zingaretti che alla tergiversazione di Conte, non accetto questa riduzione del dibattito politico a mera ratifica degli indirizzi di governo, come se il governo non fosse espressione dei partiti di maggioranza, ma dipendesse dagli indici di gradimento dei sondaggi commissionati in sede mediatica. Non vedo cosa ci sia di male e di inopportuno se finalmente Nicola Zingaretti chiede al governo di riporre nell’armadio il cilindro del prestigiatore, di sveltire la manovra sulle semplificazioni senza dare sforbiciate a vanvera, di decidere in merito all’utilizzo delle risorse europee messe a disposizione dal fondo salva-stati.

Giuseppe Conte deve ricordare di non essere stato eletto dal popolo, di non essere l’avvocato del popolo e di avere, in base alla Costituzione, il compito di dirigere la politica generale del governo e di mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Un lavoro piuttosto difficile a cui dovrebbe rassegnarsi con santa pazienza e con grande abilità.

Da quanto si può capire credo invece che il presidente del Consiglio attuale abbia la preoccupazione di assorbire in qualche modo le rimostranze del M5S, destreggiandosi in mezzo alla valanga grillina di “no” provenienti dalla forza politica che, volenti o nolenti, lo ha letteralmente inventato in questo ruolo, e quindi di mettere la sordina ai desiderata piddini per non urtare la suscettibilità pentastellata. Il tutto coperto da una esasperante mediatizzazione del suo ruolo e dalla esagerata e inconcludente difesa della propria immagine. Sto forse esagerando, ma forse prima sta esagerando lui.

Il PD non è un mostro di chiarezza e linearità politica, ma pretendere che si rassegni a darla sempre su a Conte, rinunciando ad ogni e qualsiasi iniziativa politica per non disturbare il manovratore mi sembra un po’ troppo. La politica è fatta di mediazione tra i partiti e non di conferenze stampa: parlare meno a microfoni aperti, discutere nelle sedi opportune, decidere in base a compromessi ai più alti livelli possibili. Sappiamo tutti che a questo governo e a questo premier non c’è alternativa: non è un motivo per scansare le critiche ed evitare il dialogo. E poi Giuseppe Conte ricordi che siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile. Un bagnetto di umiltà non gli potrebbe fare che bene.

 

 

 

La pizza alla dalemoni

Sono talmente nauseato delle sciocche dispute politiche a sinistra e destra, da prendere in considerazione uno scenario che taglierebbe la testa al toro. In questo periodo sto soffrendo parecchi disturbi gastro-intestinali al punto da perdere l’appetito: mi viene la tentazione di provare quotidianamente a vivere di pizza (un giorno ai formaggi, un giorno ai funghi, un giorno al tonno, etc. etc.) per stuzzicare l’appetito e per collaudare finalmente la tenuta del mio apparato digestivo. Non so come, ma forse ne uscirei in qualche modo, abbandonando le diete e chiarendo finalmente di che morte devo morire.

In cosa consisterebbe, politicamente parlando, la cura delle pizze a go-go. Ho persino vergogna a dirlo, ma andrei a rimettere in pista due pizzaioli abbastanza defilati: a sinistra Massimo D’Alema, a destra Silvio Berlusconi. Sono sicuro che troverebbero un accordo non certo ai massimi livelli, ma per sopravvivere. Un mio carissimo amico, quando gli viene chiesto come sta, risponde sistematicamente con una parola: sopravvivo. Bisogna sapersi accontentare, soprattutto ad una certa età ed in certe situazioni. La politica ha bisogno di sopravvivere e per ottenere questo risultato minimale non servono gli apprendisti stregoni del M5S, né gli aspiranti asceti del Pd, né le spregiudicate verginelle di Leu, né i gufanti scacciapensieri della Lega, né i pragmatici nostalgici di FdI. Bisogna affidarsi a personaggi che la sanno lunga, turarsi il naso, piegare il capo e sperare nel miracolo.

Mi si dirà: D’Alema è fuori dai giochi a sinistra e Berlusconi a destra sta giocando a “ciapa no” (in termini di voti). Pensate se Mattarella, ancor più nauseato di me, si concedesse un folle tentativo di mettere in piedi un governo D’Alema-Berlusconi. Sono sicuro che i mercati prenderebbero il volo; l’Europa festeggerebbe il ritorno dell’Italia alla “normalità” (socialisti e popolari che governano insieme); con la Cina ce la caveremmo benissimo; in medio oriente Berlusconi tranquillizzerebbe Israele e D’Alema garantirebbe gli arabi; si troverebbe la quadra di una pragmatica politica per l’immigrazione; persino il coronavirus si calmerebbe.

I ministri non sarebbero peggio degli attuali. In Parlamento Berlusconi saprebbe destreggiarsi a destra recuperando gente che non aspetta altro, D’Alema taciterebbe tutti gli scontenti della sinistra, il M5S troverebbe finalmente la sua identità (né di destra né di sinistra) e farebbe l’opposizione in piazza. E gli Italiani tacerebbero di fronte ad un simile scenario politico mozzafiato. Resterebbe il problema del premier: chi lo farebbe? D’Alema o Berlusconi? Un bel rompicapo per Mattarella. Una staffetta e non se ne parla più. Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, sto scherzando, anche se…

Facciamo un po’ di revisionismo spicciolo? Berlusconi non aveva tutti i torti su tre questioni: quando sosteneva che per fare i conti in tasca agli italiani bisognava partire dai ristoranti stracolmi; quando osservava come gran parte dei politici non si fosse mai cimentato in un lavoro vero e proprio; quando riteneva Gheddafi un male necessario.

D’Alema non era così lontano dalla verità quando pensava che la Lega fosse una costola della sinistra; quando voleva portare Walter Veltroni a fare il missionario in Africa; quando agli albori della cosiddetta seconda repubblica rimpiangeva la Democrazia Cristiana.

Forse è meglio che ci dia un taglio, perché, se proseguo, va a finire che nel governo D’Alema- Berlusconi ci credo veramente… E pensare che mi sono sempre dato arie da aberlusconiano e da spietato antidalemiano. Avevo ragione, ma, quando uno sta per affogare…

 

 

La puzza della pentola berlusconiana

«Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo». È la registrazione, avvenuta a sua insaputa, delle esternazioni di un giudice della Cassazione, Amedeo Franco, poi deceduto, dopo aver partecipato alla stesura della sentenza che sarebbe costato il posto in Senato a Silvio Berlusconi.

“Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente”, dichiarò Franco riferendo voci secondo le quali il magistrato Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che emise la sentenza di condanna nell’agosto 2013, sarebbe stato “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla Procura di Milano per “essere stato beccato con droga a casa di…”. Sempre secondo Franco, “i pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare… si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”.

Ho letto e riletto più volte con una certa curiosità queste sconclusionate parole dette in libertà da un giudice, che comunque aveva partecipato senza formalizzare alcun dissenso alla sentenza della Cassazione che condannò definitivamente Berlusconi per frode fiscale. Credo fotografino con una certa attendibilità, a livello psicologico, lo stato dei rapporti tra Berlusconi e la magistratura. Il cavaliere decise fin dall’inizio di difendersi politicamente dai processi: la buttò in politica, screditando i giudici che lo indagavano e lo giudicavano, dipingendoli come un branco di lupi assetati del suo sangue.

Ho sempre banalmente pensato: questi, prima o poi, gliela faranno pagare caramente e, in effetti, non si sono fatti scappare nemmeno una delle occasioni continuamente offerte loro su un piatto d’argento da un personaggio che faceva della trasgressione in tutti i campi una delle componenti fondamentali del suo appeal politico.

Non credo che Berlusconi sia stato vittima di complotti né politici né tanto meno giudiziari: l’unico complotto è stato da lui ordito, velleitariamente ma pericolosamente, contro la democrazia, costruendo un vero e proprio regime, per il quale mi permisi di affrontare il triste quesito se si trattasse di fascismo riveduto e aggiornato. Il potere giudiziario è stato per lui l’ostacolo insormontabile contro il quale è andato a sbattere.

Può darsi che a Silvio Berlusconi sia capitato come ad Al Capone (mi si perdonerà il paragone paradossale, spropositato e impossibile forse tanto quanto quello con il caso Dreyfus azzardato da altri), di essere incastrato su questioni fiscali, dopo essersi destreggiato in mezzo a tanti procedimenti giudiziari con l’aiuto anche di leggi ad personam. Quando non sapeva più come saltarci fuori, si attaccava al vittimismo ed è quello che continua a fare, lui e i pochi ma carissimi amici che gli sono rimasti.

Le reazioni all’emersione fuori tempo massimo delle succitate registrazioni, peraltro divulgate a babbo morto, sono tutte stucchevoli. L’occasione è ghiotta per tentare di riabilitare la memoria di una penosa esperienza politica della quale c’è poco o niente da salvare: i mestatori nel torbido di questa pentola finiscono col provocare solo un’ulteriore puzza berlusconiana. La reazione più curiosa però è quella di pretendere per Berlusconi una riparatoria nomina a senatore a vita. Ma fatemi il piacere. Nei prossimi giorni, se avrete la pazienza di farlo, potrete leggere nella sezione libri di questo sito una ricostruzione fatta a suo tempo del regime berlusconiano, poi semmai, tra i commenti ai fatti del giorno, potrete tirarvi su il morale con una mia odierna, personale, malinconica, paradossale, sarcastica riabilitazione berlusconiana: una sorta di “aridateci er puzzone” alla disperata ricerca di rimedi peggiori del male.

Vitaliz…zare la politica

Il trattamento economico dei parlamentari e dei consiglieri regionali viene sempre discusso e normato con demagogia, vale a dire non all’interno di un dibattito politico democratico, ma a livello di mera propaganda allo scopo di lisciare il pelo al lupo qualunquistico sempre in agguato.

Da una parte abbiamo chi sventola la bandiera della sobrietà per le remunerazioni di quanti svolgono funzioni elettive di alto livello, uno sventolio che rasenta la pretesa della gratuità del servizio; dall’altra l’annosa tendenza a spillare privilegi a carico dei soldi pubblici, volta ad enfatizzare una sorta di status symbol per i membri del parlamento e per i componenti dei consigli regionali. La soluzione starebbe invece nel pretendere il massimo dell’impegno qualitativo e quantitativo a fronte del quale garantire un’equa remunerazione. Cosa ottengo se pago poco i parlamentari? Che molti, probabilmente i più qualificati, cittadini rinunceranno in partenza a dedicarsi all’attività politica per non abbassare il proprio tenore di vita. Oppure faranno politica a tempo perso e in aggiunta alle loro ben più remunerative attività professionali. Oppure interpreteranno il mandato parlamentare come un trampolino di lancio per ben altre attività di contorno. Oppure arrotonderanno il basso stipendio con molta attenzione al lobbismo e con la tentazione di cedere alla potenziale concussione. Oppure, per dirla in modo brutalmente classista e semplicista, faranno politica solo i ricchi che se lo potranno permettere o i buoni a nulla che si accontenteranno o i capaci di tutto che si arrangeranno.

La Costituzione all’articolo 54 prevede che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche abbiano il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, nel senso che bisognerebbe comunque mettere questi cittadini nelle migliori condizioni, anche economiche, per adempiere al meglio le loro funzioni. Non mi interessa un parlamento di serie b, poco costoso, ma anche poco produttivo: sarebbe la vittoria di Pirro da sbattere in faccia a chi considera la politica un male necessario e non la più alta forma di carità, intesa come servizio alla collettività. A volte vengono pubblicate le pagelle di deputati e senatori: emergono purtroppo assenteisti, fancazzisti, incompetenti, personaggi in tutt’altre faccende affaccendati. Questo è il vero guaio che va oltre il numero eccessivo degli eletti e la loro remunerazione considerata esagerata. Anche per il parlamentare vale il discorso della produttività, cioè il confronto fra il costo e i risultati ottenuti, anche se questi ultimi sono spesso difficilmente calcolabili e valutabili.

Mi scandalizzo e mi irrito non quando leggo le cifre dei cedolini paga dei parlamentari, ma quando vedo le aule parlamentari deserte o quando assisto a certe pagliacciate. Non è giusto adeguarsi al basso livello della classe politica, generalizzarla nei difetti e trattarla a pesci in faccia. Preferisco chiedere ai partiti di selezionare le candidature, ai candidati di presentare le loro credenziali, agli elettori di essere attenti a chi votano, badando molto alle garanzie fornite sul piano della correttezza, dell’esperienza, della preparazione e della competenza.

Discutendo recentemente sul basso livello qualitativo della nostra classe politica in rapporto alle enormi difficoltà del momento che stiamo attraversando, ho individuato diversi fattori responsabili di questo degrado: assieme alle ideologie se ne sono andati anche le idealità e i valori; sono finite le due scuole di pensiero e di cultura a cui per decenni abbiamo attinto, vale a dire il cattolicesimo e il comunismo; la degenerazione del sistema in senso di gestione affaristica del potere per il potere, che si è sostituita alla cosiddetta “terza fase” ipotizzata da Aldo Moro, facendo crollare i pilastri su cui  era basata la nostra democrazia tuttora alla ricerca di una nuova classe politica degna di questo nome; il nascere ed il proliferare di un leaderismo improvvisato e falso, dal craxismo al berlusconismo, dal grillismo al salvinismo, etc. etc.;  l’idea di una politica scorciatoia verso facili e illusorie soluzioni di tipo populistico. Quando alla fine degli anni ottanta del secolo scorso andò in crisi la prima repubblica, Gianni Agnelli previde in un ventennio il tempo necessario per rifare una classe politica: di anni ne sono già passati trenta e siamo ancora qui a fare certi sconsolati discorsi.

Un’ultima riflessione sui vitalizi, vale a dire sulle “pensioni” dei parlamentari: ammetto che si sia esagerato. Al fine di garantire un’uscita dignitosa si è prefigurato un percorso assurdamente privilegiato. Giusto quindi rivedere i meccanismi previdenziali per deputati, senatori e consiglieri regionali, cercando però di non dare delle sforbiciate a vanvera, peraltro facilmente impugnabili dal punto di vista legale, ma puntando ad una revisione equa e ragionata del sistema che possa recuperare le ingiustizie del passato non con una gogna censoria, ma con la sistemazione seria di un’eredità ingombrante e imbarazzante per tutti.

I brodini per la politica europea

È utile mettere il naso nella politica degli altri Stati per sentire l’aria che tira in Europa. Siamo in un periodo in cui le tendenze sembrano fatte apposte per essere rapidamente smentite: la corsa al sovranismo sembra uscire assai ridimensionata dalle elezioni amministrative francesi e dal primo turno di quelle politiche in Polonia.

Per quanto concerne la Polonia faccio riferimento di seguito a quanto scrive Monica Perosino su “La Stampa”. Quella che solo due mesi fa sembrava una formalità da pagare alla democrazia – il voto – si è trasformata in una battaglia all’ultimo sangue tra il campione dei sovranisti e la sua nemesi, il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, che ha costretto il presidente conservatore al secondo turno. A urne chiuse, gli exit poll confermano le speranze del partito d’opposizione Piattaforma Civica (epigono di Solidarnosc): il presidente uscente Duda, con il 41,8% dei voti non avrebbe raggiunto la maggioranza del 50%, frantumata dall’impresa di Trzaskowski, che, in una campagna elettorale lampo messa in piedi in un mese, sarebbe riuscito a portarsi a casa il 30,4% dei consensi. E ora, con altri candidati che già hanno promesso il loro sostegno al sindaco di Varsavia, l’esito del secondo turno, il 12 luglio, potrebbe determinare la svolta europeista e liberale della Polonia, anche se la strada è tutta in salita.

Ai seggi, tra due settimane, non si scontreranno «solo» due candidati presidente, ma due visioni opposte della Polonia. Da una parte quella degli ultraconservatori di Duda, euroscettica, rurale, tradizionalista e nazionalista, dall’altra quella rappresentata da Trzaskowski, a fianco delle donne, dei diritti civili, della comunità Lgbt, in difesa di un Paese europeo, democratico e moderno. La Polonia è a un bivio anche secondo l’ex presidente del consiglio europeo Donald Tusk, è una scelta «tra la verità o la menzogna, il rispetto o il disprezzo, l’orgoglio o la vergogna».

Con Duda presidente, il governo di Morawiecki, insediatosi nel 2017, non incontrerebbe ostacoli sulla via delle riforme che allarmano i giuristi nazionali e internazionali, perché sempre più restrittive nei confronti dell’autonomia del potere giudiziario e dei diritti civili. Con Trzaskowski, che da tempo cerca di creare un’asse europeista tra le capitali dei quattro Stati Visegrad e vuole indebolire «i governi della tensione», fare pace con l’Europa sarebbe più facile. Qualsiasi sia il verdetto del 12 luglio, Trzaskowski, pare comunque destinato a guidare, finalmente, la rinascita dell’opposizione liberale polacca.

Forse finalmente la Polonia esce dal tunnel post-comunista e dopo la padella del regime filo-sovietico riesce a scansare il pericolo di precipitare nella brace nazional populisti-sovranista. Sarebbe una gran bella notizia per tutta l’Europa, che ha frettolosamente aperto le proprie frontiere agli Stati dell’impero comunista per ritrovarseli a succhiare la ruota finanziaria (e fin qui niente di male) per poi segare i legami europei con la peggiore delle reazioni (e qui invece sta il male). Se i polacchi si stanno dando una mossa per rinsavire non può che fare immenso piacere, anche se forse è un po’ presto per cantare vittoria. Se poi si trattasse di avvisaglie valide per l’intera Europa, sarebbe ancor meglio.

La Lega a livello di sondaggi ha perso circa un 10 per cento rispetto ad un anno fa ed attualmente si attesterebbe su un 24% che le consentirebbe comunque di essere il primo partito. Se ai voti di Salvini sommiamo quelli, per certi versi ancor più inquietanti, di Giorgia Meloni, arriviamo a un triste 40% circa di italiani che puntano su una destra estrema populista e sovranista. Non siamo lontani dal 41,8% del presidente polacco uscente Duda. Non c’è da brindare, ma nemmeno da disperarsi. Allo stato di necessità del post-coronavirus si potrebbero aggiungere gli effetti di una eventuale sconfitta di Donald Trump, che sembra un pugile suonato, ma che farà il diavolo a quattro pur di rimanere in sella.

Se ci spostiamo in casa dei cugini francesi i risultati delle Elezioni Comunali nei 4820 comuni al ballottaggio dicono che non c’è una predominanza ma una netta “ondata” ecologista che si abbatte su Macron (e anche su Repubblicani e Socialisti). I Verdi trionfano a Marsiglia, Lione, Bordeaux, Besancon, Poitiers e in moltissimi altri Comuni dove erano dati per sfavoriti (e sfiorano l’impresa contro Aubry a Lille, con la candidata socialista che vince 40% contro 39% nelle urne). Parigi viene mantenuta sotto l’egida di Anne Hidalgo, rieletta sindaca della Capitale di Francia con il 50% delle preferenze ma con una decisa “spinta” data anche qui dall’onda green. Ben venga questa ondata che porta una boccata d’aria fresca e pulita nella politica transalpina. I verdi in Italia non sono riusciti ad esprimere politicamente una cultura ecologista presente anche nel nostro Paese. Il partito democratico la doveva assorbire in sé, ma non è riuscito nell’intento. Un vero peccato perché lo spazio ci sarebbe eccome.

In conclusione discrete notizie! La politica molto ammalata prende qualche brodino e prova ad uscire dal letto. Lasciamoci illudere da queste notizie molto provvisorie e frammentarie. A squarciare le tenebre possono bastare anche piccole fiammelle a condizione che non si spengano nel giro di poco tempo.

Il rifiuto della carota per paura del bastone

“Non abbiamo messo a disposizione tutte queste risorse perché restino inutilizzate” ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel. E si riferiva, in particolare anche se non solo, al famoso Mes. A quel fondo, per l’Italia pari a circa 36 miliardi, che potrebbe essere utilizzato, ad un tasso di interesse pressoché nullo, per interventi sul sistema sanitario, ma che a molti non piace perché teme che accettandolo si finisca dritti nelle braccia della cosiddetta Troika. La cancelliera ha rotto un po’ gli schemi ed ha parlato così poco diplomaticamente da indurre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a risponderle in maniera altrettanto chiara e netta: “Sul Mes non è cambiato nulla, rispetto le opinioni di Angela Merkel, ma a fare i conti sono io, con il ministro Gualtieri, i ragionieri dello Stato e i ministri”.

Così viene fotografato il dibattito sul Mes da Cesare Zapperi sul Corriere della Sera. È vero che bisogna sempre stare attenti, quando si contrae un prestito, alle condizioni  poste dal soggetto erogante, che a volte nascondono qualche spiacevole trappola, è altrettanto vero che purtroppo dell’Unione europea non ci si può fidare a scatola chiusa, è ancor più vero che i rapporti tra i partner europei sono improntati più alla diffidenza che alla solidarietà, ma comunque la questione dell’utilizzo o meno del Mes è e sta diventando sempre più una questione di carattere ideologico, uno scontro tra europeisti ed euroscettici di casa nostra.

Le ideologie, a quanto pare, non sono mai finite, e rispuntano ciclicamente a condizionare le scelte politiche che dovrebbero tendere al bene comune e non alla difesa pregiudiziale “delle idee e delle mentalità proprie di una società o di un gruppo sociale in un determinato periodo storico”. Il Mes viene considerato il termometro con cui misurare la temperatura della convinzione europeistica e non lo strumento per attingere a importanti risorse finanziarie con cui affrontare la nostra situazione sanitaria.

Detta in altri termini non mi sembra assolutamente il caso di sottilizzare sui timori delle conseguenze che potrebbe avere il prestito qualora la situazione italiana dovesse ulteriormente peggiorare e richiedere una sorta di commissariamento da parte delle autorità monetarie europee ed internazionali. Non si può ragionare in questo modo: di queste risorse noi abbiamo bisogno come del pane, le dobbiamo bene utilizzare e, se mai dovesse andare tutto a catafascio, non sarà l’utilizzo dei fondi del Mes il motivo fondamentale e scatenante dei gravi provvedimenti nei nostri confronti. Non si può governare andando avanti alla cieca, ma non si può nemmeno governare con la paura di essere puniti qualora le cose non andassero bene.

Arrivo a pensare che, tutto sommato, il profilarsi di una (eventuale) certa qual severità nei nostri confronti ci dovrebbe aiutare a comportarci seriamente ed a muoverci con grande impegno e senso di responsabilità. Non bisogna rifiutare aprioristicamente la carota per paura del bastone.  Prendiamoci la carota, utilizziamola al meglio e il bastone lo dovranno comunque riporre nei magazzini di Bruxelles o di Strasburgo. Non si può rinunciare alla politica, rinchiudendosi nel proprio guscio sovranista per paura che qualcuno ci possa “fare l’uomo addosso”. Accogliamo umilmente i fondi del Mes, ringraziamo, usiamoli bene, senza timore che ce li prestino per venire un domani a comandare in casa nostra.

Azzardo di seguito una similitudine calcistica. Mio padre, nella sua generosa e ostentata ingenuità, teorizzava che il tifoso, se si comporta correttamente o almeno evita certi eccessi e certe intemperanze, può recarsi in qualsiasi stadio del mondo senza correre rischio alcuno e senza rinunciare a sostenere la propria squadra. In effetti diverse volte eravamo andati in trasferta, avevamo seguito il Parma in altri stadi, senza soffrire spiacevoli inconvenienti. Mio padre era così sicuro della sua teoria che una volta mi consentì di portare la bandiera crociata artigianalmente confezionata con un manico da scopa. Era lo stadio Braglia di Modena, derby di serie B: non riuscii neanche a spiegare la bandiera ed a sventolarla, che il Parma era già sotto di un goal e mio padre, un po’ “grilloparlantescamente”, mi disse: “A t’ äva ditt äd lasärla a ca’, ch’ l’era méj”. Ne prendemmo altri due: un secco, inequivocabile tre a zero dai cugini modenesi.

Cosa voglio dire? Di non far finta di avere coraggio, ma di averlo veramente. Tutti ricorderanno la barzelletta del marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!». I sovranisti in modo sbracato e gli euroscettici in modo subdolo si ficcano sotto il letto dell’orgoglio nazionale e ci rimangono a costo di rinunciare aprioristicamente a praticare quel letto, a dormirci sopra ma soprattutto a …

 

 

Proviamo a parlare coi fatti

Generalmente chi accusa il premier ed il suo governo di evanescenza (qualcuno sostiene che gli Stati Generali si siano rivelati Stati generici), chiede il passaggio ai fatti, ma finisce spesso col sommergere di parole le già troppe parole governative. Forse Giuseppe Conte farebbe bene a parlare quando avesse veramente qualcosa di preciso e concreto da proporre (ancor meglio se quel qualcosa fosse già stato concordato tra i ministri e tra le forze di maggioranza). Però chi lo massacra di critiche non brilla per concretezza: la stessa accusa di mancanza di fatti, se non è accompagnata dai fatti, rischia di essere un mero supplemento di parole al vento.

Ecco perché ho ascoltato con sorpresa e interesse le proposte formulate dal noto e brillante giornalista Beppe Severgnini: ha individuato le priorità nella scuola e nella sanità. Si tratterebbe a suo dire di sistemare, mettere a norma e potenziare gli edifici per le scuole di ogni ordine e grado; di allargare e attrezzare al meglio i reparti di pronto soccorso degli ospedali; di inquadrare correttamente ed opportunamente dal punto di vista economico e funzionale gli operatori sanitari. Sarebbe un modo inattaccabile ed indiscutibile per impiegare al meglio le risorse finanziare in arrivo (almeno si spera) dalla Ue. Nessuno potrebbe obiettare sull’utilizzo dei fondi europei, per il quale, bisogna pur ammetterlo, non siamo purtroppo esenti da critiche per il passato remoto e recente (spesso non abbiamo attinto ai fondi pur stanziati e spesso siamo stati trovati in castagna per quanto concerne la correttezza nelle destinazioni).

Non ho idea a quanto potrebbe ammontare il fabbisogno per realizzare quanto propone Severgnini, immagino che comunque occorrerebbe parecchio tempo per intervenire concretamente ed in modo esauriente, ma abbiamo a portata di mano un’occasione che non possiamo permetterci il lusso di perdere. Sulla scuola si sta scatenando una bagarre notevole che sta letteralmente mettendo in croce prima del tempo la ministra Azzolina (non un mostro di autorevolezza e competenza, bisogna pur dirlo). Ho leggiucchiato le proposte, peraltro ancora in divenire, del governo: non mi sembrano così scriteriate e inadeguate. C’è sicuramente molto da discutere e da perfezionare (in fretta perché settembre è dopo domani), ma nemmeno da stracciarsi le vesti cominciando il solito rito piazzaiolo delle proteste coinvolgenti tutte le categorie di cittadini interessate.

Se in Italia non si può parlar male della mamma e di Garibaldi, ci si deve sfogare a parlar male della scuola. Tutti i ministri che si sono cimentati nella riforma scolastica hanno fatto cilecca. Ci sarà pure un perché. Probabilmente ci sono molti perché: dal corporativismo sindacale alla burocratizzazione strutturale, dallo scaricabarile delle famiglie al sociologismo datato degli studenti, dalla scarsità di risorse all’utopismo fragile degli esperti in materia.

La intervenuta necessità di ripensare il Paese daccapo impone di ripartire dai bisogni essenziali e indubbiamente la scuola e la sanità sono i primi fra questi. La politica accorci il più possibile i tempi decisionali, gli operatori si rendano disponibili alla gradualità, ai cambiamenti e ai sacrifici necessari, la gente abbia la pazienza di aspettare un po’ (non troppo) prima di giocare a mosca cieca con le proposte governative. Le piste suggerite da Beppe Severgnini meritano attenzione e risposte. Con esse si dovrebbe andare sul sicuro, anche se molti metteranno sul tappeto altri problemi importanti ed urgenti, che non credo però possono stare alla pari con quelli suddetti.

 

Il corto circuito delle paure

Non sono uno zoologo e, per la verità, non ho alcuna simpatia per gli animali, che tuttavia rispetto anche se non ammetto certe esagerazioni affettuose nei loro confronti, che spesso finiscono col diventare torture precipitose. Mi dicono che i cani abbaino soprattutto quando hanno paura e contro le persone di cui hanno paura: un modo istintivo per sfogare le loro tensioni rabbiose. Me lo aspettavo e sta succedendo: si sta creando un pericoloso corto circuito tra paura del coronavirus e insofferenza verso gli immigrati. Prendo e riporto la notizia dall’Ansa.

Alta tensione nella cittadina casertana di Mondragone dopo l’esplosione di un focolaio Covid.  Un gruppo di bulgari, residenti ai palazzi Ex Cirio, ha protestato uscendo fuori dalla zona rossa istituita nell’area per la presenza di quasi 50 casi di positività al Covid. Le forze dell’ordine che presidiano i varchi sono riuscite a riportare dentro gli stranieri. Sono arrivati a quota 49 i casi di positività nel complesso residenziale.

Si tratta in massima parte di cittadini bulgari residenti in quattro dei cinque palazzoni divenuti off limits da lunedì 22 giugno, dopo che è entrata in vigore l’ordinanza della Regione. Vanno inoltre avanti, anche se a rilento, le operazioni di trasferimento delle persone positive, peraltro tutte asintomatiche, al Covid Hospital di Maddaloni, dove sono diciannove quelli attualmente ricoverati; ieri sono stati trasferiti sei contagiati, ne mancano all’appello altri tredici, cui si aggiungono i nuovi positivi. Qualcuno tra i positivi, però, non si riesce a rintracciare; molti inquilini, specie tra gli stranieri, non risultano censiti, e si ipotizza che abbiano fatto perdere le tracce, anche per timore di perdere il lavoro; molti sono braccianti agricoli, spesso sfruttati dai caporali di nazionalità bulgara, alcuni dei quali vivono anche agli ex Palazzi Cirio.

Un altro momento di tensione c’è stato successivamente tra i manifestanti italiani che presidiano il varco d’accesso e i bulgari che abitano all’interno della zona rossa. Un bulgaro ha lanciato una sedia dal balcone, gli italiani hanno risposto lanciando pietre e sfondando i finestrini delle auto dei bulgari parcheggiate. Poi hanno mostrato le targhe delle vetture a mo’ di trofeo. Sotto al palazzo si è radunata una folla che accusa anche la polizia di “essere stata troppo permissiva coi bulgari”.

Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha annunciato l’arrivo dell’esercito: “Questa mattina ho avuto un colloquio con il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese in relazione alla zona rossa istituita negli ex palazzi Cirio di Mondragone. Ho chiesto l’invio urgente di un centinaio di uomini delle forze dell’ordine per garantire il controllo rigoroso del territorio. Il Ministro ha annunciato l’arrivo di un contingente dell’Esercito”.

Di questa gente finora nessuno si è curato più di tanto, vuoi per verificare le loro condizioni di lavoro, vuoi quelle abitative ed igienico sanitarie. Ora che questo ghetto è diventato un focolaio di possibile diffusione del coronavirus, tutti contro gli immigrati che diventano gli untori del caso. Dal punto di vista psicologico è un classico il ribaltamento delle proprie paure sui soggetti deboli. Eloquente al riguardo la favola del lupo e dell’agnello, forse vale la pena ricordarla. Un agnello era giunto a un ruscello per bere; più in alto, stava un lupo che lo vide e, ingolositosi, decise di mangiarlo; pertanto cercò un pretesto per litigare. Lo accusò di stargli sporcando l’acqua, impedendogli di bere. L’agnello gli disse che stava bevendo a fior di labbra, e poi non poteva intorbidare, da sotto, l’acqua a lui che stava sopra. Il lupo, respinto da questa ragione, incalzò che l’anno prima l’agnello lo aveva insultato. Ma quello ribatté che non era ancora nato. Allora il lupo esclamò che se non era stato lui, di certo era stato suo padre. E subito gli saltò addosso e lo sbranò fino a ucciderlo ingiustamente.

Socialmente parlando, se si consente l’emarginazione di certe categorie di soggetti, diventa automatica la creazione di ghetti e prima o poi la situazione esplode con scontri violenti e vere e proprie ribellioni. Sul piano politico ci ostiniamo a non gestire seriamente il fenomeno migratorio, se non per esorcizzarlo e/o cavalcarlo dal punto di vista strumentale quale esca per l’ottenimento di facili consensi. Le mine vaganti prima o poi esplodono e l’esplosione può avere effetti a catena.

Adesso partirà il gioco allo scarico delle responsabilità tra governo centrale e governi locali, l’immigrato diventerà il portatore di virus da isolare e combattere, qualcuno diventerà razzista anche se fino ad ora magari non lo era. Perché si dice chiodo scaccia chiodo? L’espressione ha un significato intuitivo piuttosto semplice: per cacciar via un chiodo piantato male bisogna spingerlo via battendolo dall’altra parte con un altro chiodo. Nel nostro caso qualcuno vorrebbe far funzionare questo proverbio, rimuovendo il problema coronavirus con l’aiuto di quello dell’immigrazione. Ma è vero proprio il contrario.