L’ossimoro istituzionale

Secondo Massimo Cacciari, in autunno la situazione sociale ed economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia e tenere le redini in qualche modo. Una “dittatura democratica sarà inevitabile”.

Molto simile a questa piccante analisi, quella di Carlo De Benedetti, secondo il quale è la disuguaglianza il punto a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali.

Il discorso, seppure in via chiaramente provocatoria e previsionale di (troppo) larga massima, si fa pesante e, per certi versi, preoccupante.

L’ossimoro è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Con l’espressione “dittatura democratica”, usata da Cacciari e che fa parte indubbiamente di questa categoria, faccio qualche fatica a capire cosa si intenda. Così come mi mette in difficoltà di comprensione il discorso di “mance e polizia”, fatto da De Benedetti. Considerato il livello culturale di questi personaggi, pur tenendo conto di una loro propensione a stupire l’uditorio, pur condividendo le preoccupazioni per un futuro politico che si preannuncia drammatico, non vorrei che si finisse col giocare a parlare di corda in casa dell’impiccato o, se volete, a spargere sale sulle evidenti ferite.

Mi sembra di intuire che la sostanza sia una notevole sfiducia nella capacità dell’attuale classe politica e dell’attuale compagine governativa ad elaborare un vero e proprio piano per uscire dall’emergenza continua. Non ci si può aspettare altro che di vivacchiare, di smorzare le proteste, di scolmare la pentola? Due importanti chirurghi di mia conoscenza facevano due affermazioni sconcertanti nella loro ironica brutalità. Uno affermava di non avere trovato alcuna traccia dell’anima durante i tanti interventi eseguiti. L’altro, per curare il raffreddore, consigliava di fare una buona scorta di fazzoletti.

Seguendo le tracce di questi luminari della chirurgia, si vuole forse dire che l’anima della politica non esiste più e bisogna ripiegare sulla cura pragmatica del corpo sociale martoriato? Si vuole forse prendere atto che le emorragie di lacrime e di sangue non potranno essere evitate, ma soltanto limitate con i pannicelli delle grida governative, delle rassicurazioni poliziesche e delle regalie di stampo mafioso?

Prima di arrivare a questi punti di sfiducia forse ci sarebbe qualcosa da fare. Rimanendo nell’ambito della medicina, il mio valoroso ed encomiabile medico di base affermava che “non c’è mai niente da fare” ossia che, anche per la più grave delle malattie, c’è sempre qualcosa da fare o almeno da tentare. Andrei quindi adagio con le diagnosi catastrofiche e con le previsioni tragiche. La dittatura democratica mettiamola nella cantina degli ossimori, lo stile politico del cerchiobottismo lasciamolo perdere. Cerchiamo di essere seriamente provocatori e non provocatoriamente cervellotici.

Se è vero, come è vero, che la provocazione consiste in un atto diretto a sollecitare una reazione irritata o violenta, di violenza e di irritazione ne abbiamo anche troppa. Non chiedo atteggiamenti bonari, concilianti e tranquillizzanti, perché non servono. Sarebbe come dire di stare calmo a uno che è incazzatissimo: si arrabbierebbe ancora di più. Però, essere un tantino più (pro)positivi e un tantino meno distruttivi non farebbe male. Pur con tutto il rispetto per il professor Cacciari, per l’ingegner De Benedetti e con tutto lo scetticismo possibile e immaginabile per il premier Giuseppe Conte e il suo governo giallo-rosso.

 

 

 

Pagnoncelli al Var

Hanno voluto, insistentemente e per scontati motivi di cassetta, riprendere e portare in fondo il campionato di calcio, salvo poi continuare a dire che è falsato dalla ristrettezza dei tempi, dalla mancanza di pubblico, dagli arbitri che hanno venduto il cervello al Var. Sono ragionamenti che consacrano, se ce n’era ancora bisogno, la fine del calcio come sport e l’approdo definitivo al mondo dell’avanspettacolo.

Infatti di cosa si sta parlando? Dei futuri assetti societari di parecchie squadre, del balletto dei giocatori e degli allenatori in vista del prossimo campionato, quello vero e ritornato alla normalità (?). Nella famosa opera lirica Madama Butterfly, Pinkerton, ufficiale della marina degli Stati Uniti, sposa, quasi per scherzo, una giapponesina e, prima di convolare a queste nozze, brinda, con il console americano, peraltro piuttosto perplesso, pensando apertamente al giorno in cui si sposerà a una vera sposa americana. Sappiamo tutti come andò a finire. Non vorrei che anche il calcio finisse con un harakiri dello sport e una sopravvivenza degli affari.

Ma è un’altra la similitudine che ho in testa. La politica considera l’emergenza coronavirus come un fatto provvisorio, da vivere con la testa rivolta al futuro, quando finalmente si potrà tornare alla vera politica ed ai suoi equilibrismi partitici. Speriamo che non finisca come in Butterfly, vale a dire con un suicidio della politica a favore dei politicanti più o meno di turno. I tempi sono stati scombussolati, l’elettorato è distratto dalla paura e dalla voglia di esorcizzarla, i politici hanno venduto il cervello alla scienza. Di cosa si sta parlando? Delle prossime elezioni! Quelle imminenti di carattere regionale in cui tutti si preparano a giocare in vista del vero campionato delle elezioni politiche, con l’intermezzo o l’epilogo dell’elezione del nuovo Capo dello Stato.

I partiti, come le società calcistiche, stanno cercando gli assetti per il futuro: le pedine sono in movimento, le dirigenze in fibrillazione, le alleanze tutte da scoprire. Stando ai sondaggi ed alle proiezioni diramati da Nando Pagnoncelli, oggi il centrodestra vincerebbe le elezioni. Ma con il proporzionale sarebbe decisiva Forza Italia. Con l’attuale sistema elettorale, il Rosatellum, la coalizione staccherebbe Pd e M5S. Qualora si passasse ad un sistema elettorale proporzionale, ad esempio il Germanicum, il partito di Berlusconi sarebbe l’ago della bilancia. Con la soglia del 3% Calenda entrerebbe in Parlamento, Renzi no.

Non è il caso di dilungarmi sulle varie ipotesi elaborate da Pagnoncelli. La morale della favola è quella dell’opera Carmen, laddove la protagonista si fa le carte e, comunque le rigiri, viene sempre fuori la morte. Possono cambiare i sistemi elettorali, ma vince sempre il centro-destra, più o meno berlusconi-dipendente.

Ma come sarà il campionato nella realtà? Il pubblico tornerà negli stadi? Ci sarà il tempo per preparare adeguatamente le partite? I politici ragioneranno col buon senso o in base alle cifre dei sondaggi e/o a quelle degli andamenti della pandemia? Oggi sono in vena di azzardate citazioni teatrali e quindi non mi resterebbe che concludere con la battuta finale de “I pagliacci” di Ruggero Leoncavallo: “La commedia è finita!”. Sul più bello però rientra in gioco Luigi Pirandello, che riapre i discorsi alla sua maniera e butta lì una sua opera incentrata su un tema molto caro a lui: l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri: “Così è (se vi pare)”.

 

La leghista Susanna Tuttapanna

La candidata della Lega alle prossime elezioni regionali in Toscana, Susanna Ceccardi, parla di fascismo e antifascismo con nonchalance. Anzi, arriva a dire che secondo lei, semplicemente, oggi essere antifascisti non ha più senso. Ceccardi risponde a un’intervista a Repubblica Firenze e la domanda che le viene rivolta è diretta: “Lei è antifascista?”. La replica, però, non è altrettanto diretta. “Io sono anti-ideologica – afferma la candidata leghista –. E vengo anche io da una storia rossa: ho una famiglia di tradizione di sinistra, il fratello di mio nonno era un partigiano e fu ucciso dai fascisti. Non sono né fascista né antifascista, aveva un senso la domanda allora, nel 1944. Oggi è troppo facile dirsi antifascisti con un nemico che non esiste. Sono dalla parte dei temi”.

Quando si tocca questo tasto non riesco a trattenermi e magari rischio anche di ripetermi. Non voglio restare ancorato ai bei tempi in cui ero modestamente impegnato in politica e, quando si stilava un documento, non mancava quasi mai un accenno alla scelta antifascista: “democratico ed antifascista” era un virtuoso ritornello, che segnava inequivocabilmente il territorio su cui si camminava e si operava politicamente. A me non è mai venuto in mente che fosse una proposizione stucchevole, anzi la consideravo come un distintivo da esibire con orgoglio e impegno. Certo, non bastava a qualificare un programma o un progetto, ma ne era un presupposto essenziale e indispensabile.

“In generale, per fascismo si intende un sistema di dominazione autoritario caratterizzato: dal monopolio della rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa gerarchicamente organizzato; da una ideologia fondata sul culto del capo, sull’esaltazione della collettività nazionale e sul disprezzo dei valori dell’individualismo liberale, sull’ideale della collaborazione tra le classi, in contrapposizione frontale al socialismo e al comunismo, nell’ambito di un ordinamento di tipo corporativo; da obiettivi di espansione imperialistica perseguiti in nome della lotta delle nazioni povere contro le potenze plutocratiche; dalla mobilitazione delle masse e dal loro inquadramento in organizzazioni miranti a una socializzazione politica pianificata funzionale al regime; dall’annientamento delle opposizioni attraverso l’uso della violenza terroristica; da una apparato di propaganda fondato sul controllo delle informazioni e dei mezzi di comunicazione di massa; da un accresciuto dirigismo statale nell’ambito di un’economia che rimane fondamentalmente privatistica; dal tentativo di integrare nelle strutture di controllo del partito o dello Stato secondo una logica totalitaria l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali”.

Non necessariamente questi ingredienti devono essere tutti presenti in un sistema politico, ne bastano alcuni, forse anche uno solo, per far scattare l’allarme. Consiglierei pertanto a Susanna Ceccardi di fare un’attenta e scrupolosa analisi delle politiche portate avanti dalla Lega, suo partito di appartenenza, per verificare se non ci sia qualche caratteristica di cui sopra. Non pretendo una seconda guerra partigiana, ma, siccome afferma di essere dalla parte dei temi, provi a passarli in rassegna e probabilmente troverà qualche sgradevole sorpresa (almeno per me).

L’antifascismo dovrebbe essere parte integrante e fondamentale della vita di una persona, a livello etico, culturale, storico, esperienziale, umano prima che politico. Resistenza (nel cuore e  nel cervello), costituzione (alla mano), democrazia (nell’urna) impongono una scelta di campo imprescindibile e indiscutibile: sull’antifascismo non si può scherzare, anche se qualcuno tra revisionismo, autocritiche, pacificazione, colpi di spugna rischia grosso, finendo col promuovere il discorso di chi vuole voltare pagina, non capendo che coi vuoti di memoria occorre stare molto e poi molto attenti e che (come direbbe mio padre) “in do s’ ghé ste a s’ ghe pól tornär “.

Rabbrividisco apprendendo come si possa provenire da una famiglia antifascista per poi sorvolare bellamente sul discorso. Mio padre, prima e più che in senso politico, era un antifascista in senso culturale ed etico: non accettava imposizioni, non sopportava il sopruso, non vendeva il cervello all’ammasso, ragionava con la sua testa, era uno scettico di natura, aveva forse inconsapevolmente qualche pulsione anarchica, detestava la violenza. Ce n’è abbastanza? D’altra parte era nato e vissuto in oltretorrente (come del resto anch’io e  me ne vanto): “l’oltretorrente, il rione dove ho respirato la politica fin da bambino, dove i borghi, gli angoli, gli androni delle case parlavano di antifascismo, dove la gente aveva eretto le barricate contro la prepotenza del fascismo, dove la battaglia politica nel dopoguerra si era svolta in modo aspro e sanguigno, dove il popolo, pur tra mille contraddizioni, sapeva esprimere solidarietà”.

Termino con una frase emblematica di don Andrea Gallo: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Aggiungo di mio: respingo certe rimozioni storiche, certe equidistanze politiche, certi anti-ideologismi di comodo, pretendo che chi si candida a ricoprire incarichi politici faccia espressa professione di fede antifascista e rinunci aprioristicamente ad ogni e qualsiasi indulgenza, diretta o indiretta, verso il fascismo. Non ce ne sarebbe bisogno, ma aggiungo, a scanso di equivoci, che, se fossi un elettore toscano, non voterei per Susanna Ceccardi.

 

 

 

 

Siamo europei o caporali?

“Non un centesimo per gli italiani”. È il cartello con cui il parlamentare d’opposizione olandese, Geert Wilders, leader del Partito per la libertà e alleato di Matteo Salvini in Europa, ha accolto il premier Conte, in visita da Mark Rutte. La contestazione è andata in scena davanti al Palazzo Binnenhof, sede del bilaterale Italia-Olanda. “Se sono questi gli alleati di Salvini la Lega cambi slogan: “Prima gli olandesi!” ha commentato il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Zingaretti ha condiviso la foto di Wilders insieme a Salvini, con la scritta: “Ecco chi sono i suoi alleati”.

Non mi interessa in sé e per sé la polemichetta contro Salvini: non aspetta altro per mantenere viva la sua immagine mediatica. Il fatto mi sollecita invece una riflessione un po’più profonda. Siamo o non siamo in grado di ragionare di politica in termini europei? Parecchi anni fa un mio amico non si faceva scrupolo di tifare, calcisticamente parlando, per il Real Madrid. A chi se ne stupiva rispondeva per le rime: non siamo in Europa e allora…

La metafora calcistica è pertinente in quanto il nostro atteggiamento verso la Ue è più o meno quello di un tifoso, che accetta la partita, ma vuole a tutti i costi che la sua squadra nazionale vinca o, a volte, desidera ancor più ardentemente che perda soprattutto il suo antipatico competitor.

Le istituzioni europee dovrebbero aiutare a superare queste assurde ed anacronistiche contrapposizioni, invece purtroppo le ripropongono alla grande. Il Parlamento europeo dovrebbe essere la stanza di decantazione di questi sentimenti nazionalistici: i gruppi dovrebbero costituirsi ed operare in chiave politico-programmatica avendo a riferimento l’intero contesto europeo. Non succede e i rapporti finiscono nell’intersecazione dei fili della conflittualità politica (popolari, socialisti, verdi, liberali, etc.) con quelli della geo-politica (europeisti, euroscettici, nazionalisti, sovranisti, etc.).

Poi naturalmente arrivano i cortocircuiti: gente che a casa propria si allea in un certo modo, diverso da quello adottato in sede europea; gente che si ritrova come avversario il potenziale alleato (quando c’è da dare addosso all’Europa, si può andare d’amore e d’accordo, quando si parla di soldi, il discorso cambia e le alleanze saltano come birilli).

Ricordo un paradossale episodio capitatomi in una sede politica. Partecipavo ad un convegno e, seduto accanto a me, c’era un amico piuttosto insofferente e polemico, che mi manifestava la sua contrarietà rispetto alle tesi che venivano esposte dai relatori. Lo spinsi ad intervenire nel dibattito e a perorare con veemenza le sue cause, che pensavo, tutto sommato, fossero anche le mie. Prese la parola, andò sul palco e cominciò una requisitoria pazzesca contro tutto e tutti. All’inizio ero assai divertito e orgoglioso di aver innescato la polemica, ma ad un certo punto la valanga mi venne addosso al punto che mi ritrovai in piedi, rosso in viso, a contestare apertamente e violentemente il mio alleato, il quale mi guardava, non capiva cosa stesse succedendo e si ritrovava isolato a sparare le sue cartucce.

Ho la netta impressione che a livello europeo sia in atto un vero e proprio gioco delle parti, che ha ben poco da spartire con la politica e finisce col cristallizzare certi rapporti di forza in netta controtendenza rispetto ai processi di integrazione. In troppi parlano, in senso politico, due lingue e finiscono col non capirsi in mezzo al conseguente casino. Quando si elegge il Parlamento europeo si resta ancorati ai criteri di scelta di carattere nazionale. Non faccio per vantarmi, ma per più volte ho tentato di liberarmi da questi lacci nazionalistici. Una volta ho votato un missionario cattolico candidato nelle liste di “democrazia proletaria”, pensando che almeno avrebbe reagito in modo forte al clima affaristico della Ue. Altre volte ho votato i Verdi, l’unico partito veramente europeista, orientato su un concetto di Europa pulito da tutti i punti di vista. Ho lasciato perdere gli schemi tradizionali, che, come diceva mia sorella, a livello europeo servono a coprire una sostanziale e generalizzata conservazione o addirittura un’opzione pseudo-fascista.

 

 

Le malcelate e parallele velleità senili di Berlusconi e Prodi

Pensavo di avere esagerato, qualche giorno fa, con la fantapolitica, avendo ipotizzato, seppure quasi per scherzo, un accordo di governo fra D’Alema e Berlusconi. Secondo Pirandello, la realtà supera di gran lunga la fantasia, perché “la realtà, a differenza della fantasia, non si preoccupa di essere verosimile perché è vera”. Ma a volte il confine tra finzione e mondo reale sembra difficile da stabilire. E questa volta quella che pensavo essere solo una “ipotesi pazzesca” ad occhi chiusi e denti stretti si è trasformata in una prospettiva semiseria ad occhi aperti e lingue in movimento.

È bastato che il cavaliere lasciasse trapelare qualche assunzione di responsabilità istituzionale sul Mes e sui rapporti con l’Europa e che il professore togliesse la pietra dello scandalo da una maggioranza di solidarietà nazionale di stampo europeista tra i popolari di Berlusconi e i socialisti di Zingaretti per scatenare un dibattito alquanto superficiale ma altrettanto vivace.

Che Berlusconi abbia una voglia matta di tornare in gioco liberamente, sganciandosi dall’oppressione salviniana, è noto a tutti e da parecchio tempo: difficile capire se si tratti di saggezza senile, di opportunismo aziendale, di ambizione finale. Fatto sta che muore dalla voglia di tornare in pista almeno come senatore a vita: sarebbe una fine ingloriosa, non per lui, ma per chi ha creduto in lui e per chi lo ha combattuto da sempre.

Che a Romano Prodi stiano stretti i panni del notabile di centro-sinistra e/o di conferenziere in giro per il mondo è comprensibilissimo e infatti qualcuno sta addirittura pensando ad una surrettizia sua ricandidatura al Colle più alto, in riparazione di una sconfitta bruciante la cui ferita non si è per niente cicatrizzata. Lo snodo della futura elezione del Presidente della Repubblica è senza dubbio un punto cruciale nelle tattiche politiche di tutti i partiti e movimenti. Non capisco se Prodi abbia veramente qualche residua velleità in proposito o si stia divertendo a scompaginare i piani di qualcuno a destra e a sinistra.

Sì, perché questi due personaggi così diversi hanno attualmente un dato in comune: quello di rompere i coglioni nei loro schieramenti di appartenenza e di scompigliare i giochini in atto. A destra Salvini mastica amaramente le velleità berlusconiane; nel centro-sinistra l’improvvisa apertura dell’ombrellone prodiano rischia di mettere in ombra Giuseppe Conte, di spiazzare sempre più il M5S, di intristire il PD, che non brinderebbe certo al ritorno dello zio d’America.

Tutti fanno finta di gradire, ma in realtà a tutti brucerebbe alquanto il sedere.  Provo ancora ad esercitarmi con la fantasia, correndo il rischio di farmi superare dalla realtà, se non dei fatti, almeno delle chiacchiere estive. La nomina a senatore a vita di Silvio Berlusconi potrebbe funzionare da detonatore per la costituzione di una larga maggioranza istituzionale che avrebbe il programma di gestire il post-coronavirus con i soldi europei. E dove troverebbe i voti questa fantomatica maggioranza parlamentare? Un po’ dappertutto, soprattutto tra i cani perduti senza collare e tra i nemici delle elezioni anticipate che sono sempre molti e quasi sempre vincenti.

Certo Prodi non potrebbe fidarsi di un accordo, che per lui si concretizzerebbe soltanto nel 2022: la storia è ricca di patti saltati in vista della nomina del Capo dello Stato. E quale sarebbe la maggioranza che lo eleggerebbe? Una maggioranza scaturente dai veti incrociati e dalla mancanza di strategie politiche. In politica tutto è possibile, ma tutto dovrebbe avere un limite. Se devo essere sincero vedo Berlusconi e Prodi in gran forma psicologica: stanno godendosi un po’ di ritrovata giovinezza. Mi fa piacere per loro, un po’ meno per l’Italia. Sul piano culturale Prodi in questa kermesse estiva appena partita ha tutto da rimetterci: ma, come si sa, pur di tornare a galla…Sul piano politico Berlusconi rischia di finire nel modo peggiore i suoi giorni: ma, come si sa, pur di tornare a galla…

Gli eredi illegittimi

La Lega ha preso in affitto un appartamento in via delle Botteghe Oscure, proprio davanti alla vecchia sede del Pci, qualcosa in più di un palazzo: il simbolo di una storia. Peraltro dismessa dagli eredi almeno 20 anni fa. Col passare delle ore la notizia è diventata “pruriginosa”, ha acceso polemiche online e Salvini ha pensato che valesse la pena rilanciarla: «I valori di una certa sinistra che fu quella di Berlinguer, i valori del lavoro, degli operai, degli insegnanti, degli artigiani, sono stati raccolti dalla Lega. Se il Pd chiude Botteghe oscure e la Lega riapre, sono contento: è un bel segnale».

Salvini ha una parte di ragione. Coi valori presenti nella storia del Pci non ha effettivamente niente da spartire. Ha invece purtroppo ripreso, e in un certo senso reinterpretato, l’atteggiamento del popolo comunista, quella vocazione alla “protesta rivoluzionaria”, all’opposizione a tutti i costi, alla faziosità conflittuale, che la dirigenza comunista ebbe il suo daffare a contenere e far evolvere in senso costituzionale e costruttivo.

Se proprio vogliamo ragionare, al limite del paradosso e in modo spannometrico, possiamo pensare che nella storia della sinistra italiana si siano confrontate e scontrate due impostazioni: una radicalmente legata alla conflittualità sociale e all’internazionalismo operaio, evoluta con fatica verso l’impostazione democratica, l’autonomia nazionale e finanche verso l’europeismo (la maturazione che Aldo Moro intendeva pienamente favorire, concedendo al Pci la prova governativa in base al cosiddetto compromesso storico); l’altra di tipo riformista, che ai pregi del sistema democratico di tipo occidentale ha sommato l’involuzione  verso una piena e totale omologazione  ai difetti del nostro sistema culminata nel craxismo.

Ebbene, la destra ha tentato di raccogliere a piene mani ed in modo innaturale queste eredità: Berlusconi ha raccolto indegnamente il testimone di un socialismo democratico degenerato in un liberismo sfrenato; la Lega ha deviato in populismo il popolarismo comunista, sostituendo allo schema, peraltro vetusto, della guerra dei poveri contro i ricchi quello della guerra tra i poveri (nord contro sud; italiani contro immigrati; lavoratori contro fannulloni).

Da una parte abbiamo avuto la degenerazione inclusiva di una sinistra affamata di potere, che ha finito con lo spianare la strada a una destra modernista ed egoista; dall’altra abbiamo avuto la degenerazione esclusiva di una sinistra assetata di opposizione e protesta, che ha favorito una certa vena qualunquista e antipolitica. La Lega ha colto, seppure indirettamente e subdolamente, la voglia di essere sempre e comunque contro, offrendo ai vedovi dell’antitutto il matrimonio riparatore dell’antieuro, dell’antiimmigrato, dell’antistato.

In fin dei conti la crisi del popolo della sinistra consiste nel fatto di avere perso per strada i “riformisti” approdati al rapporto incestuoso con i liberisti e i rivoluzionari contenti di indossare in modo carnevalesco i panni populisti e sovranisti. Quando si dice che la sinistra ha perso la sua identità, si dovrebbe aggiungere che si è lasciata derubare delle sue eredità consentendo che venissero investite nel peggiore dei modi. Ritornare indietro non è facile.

Persino i simboli vengono messi in discussione: il cadavere di Aldo Moro venne piazzato vicino a Botteghe oscure come minaccia e provocazione antistorica verso il Pci convertitosi pienamente al sistema democratico; l’appartamento leghista suona come sinistro avvertimento di chi sta tentando di saccheggiare illegittimamente l’eredità di un’altra famiglia. Tutto è perduto fuorché l’onore: basta avere la voglia e il coraggio di tirarlo fuori. Chissà che le sparate demagogiche di Salvini non diano una scossa all’orgoglioso risveglio.

 

La concessione della non sfiducia

A prima vista sembrerebbe una questione da risolvere su due piedi e col cuore in mano. Mi riferisco alla diatriba inerente Autostrade per l’Italia S.p.A. (in sigla Aspi). Questa è una società per azioni nata originariamente come società di proprietà pubblica facente capo all’IRI, ma privatizzata nel 1999 e poi costituita nella forma attuale nel 2003. Ha come attività la gestione in concessione di tratte autostradali, nonché lo svolgimento della relativa manutenzione. La società fa parte del gruppo Atlantia, che ne possiede l’88,06% del capitale sociale e che fa riferimento, come principale azionista, alla famiglia Benetton.

Il crollo del ponte Morandi sembrerebbe del tutto o almeno in parte ascrivibile a errori e inadempienze commessi nella manutenzione di quella infrastruttura, di conseguenza sembra quasi una provocazione continuare a discutere se e a quali condizioni revocare o rinnovare la concessione. Tuttavia ogni e qualsiasi decisione dovrebbe avere come presupposto l’accertamento giudiziale delle responsabilità sul piano penale e civile per poi valutare l’opportunità di proseguire un rapporto inficiato dal verificarsi di un fatto che mette gravemente in discussione l’affidabilità del concessionario.

Faccio riferimento di seguito all’obiettiva e sintetica analisi del quotidiano La stampa. Considerata l’eccezionale gravità della situazione, il decreto Genova, che escluse per legge Autostrade dai lavori di ricostruzione del ponte sul Polcevera, non ha violato la Costituzione. Lo ha deciso la Consulta che ha giudicato infondate le eccezioni presentate dal Tar Liguria, che a fine anno scorso, aveva esaminato il ricorso presentato da Autostrade per l’Italia, rimandando gli atti a Roma. La Corte Costituzionale ha fatto un ragionamento più di buon senso che giuridico: detta in modo volgare e brutale, sarebbe stato un po’ come “affidare a chi è in odore di Dracula la costruzione della Banca del sangue”.

Ora però vi è in ballo la gestione del ponte. Era in ogni caso del tutto prevedibile che il destino del nuovo viadotto disegnato da Renzo Piano, l’erede del Morandi crollato il 14 agosto del 2018 provocando 43 morti, si incrociasse ancora una volta col futuro della convenzione che affidò ad Aspi metà della rete autostradale italiana. Non solo perché quella che tecnicamente si chiama «procedura di contestazione di grave inadempimento» ha preso spunto proprio da quegli eventi. Avvicinandosi all’inaugurazione si è posto sempre più pressante il tema del passaggio di consegne. Lo ha fatto apertamente per primo il sindaco e commissario Marco Bucci, preoccupato che gli sforzi per contenere i tempi di costruzione si scontrassero con un ostacolo burocratico. Ed è a lui che il ministro, nella lettera inviatagli, ha risposto, indicando il percorso. Un procedimento particolare, che assegna proprio all’ufficio del commissario la potestà di effettuare tutti gli adempimenti tecnici, compresi quelli, come la verifica di agibilità, che normalmente sarebbero in capo al concessionario.

Nonostante la sentenza della Consulta, però, la strada per azzerare il rapporto dello Stato con Aspi è tutt’altro che spianata. La convenzione resta estremamente tutelante per il concessionario e i vertici di Mit, Presidenza del consiglio dei ministri e Autostrade si confronteranno in primo luogo sull’ipotesi di transazione presentata da Autostrade il 10 giugno. Sul tavolo finiranno altre contestazioni, come le nuove indagini delle Procure di Genova e Avellino. Autostrade potrebbe fare una nuova offerta. Poi, arriverà l’ora delle decisioni.

A livello governativo si scontrano due tendenze. Da una parte la netta ed aprioristica posizione del M5S, sintetizzata dal suo capo politico ad interim Vito Crimi, che su Twitter scrive: “Il ponte di Genova non deve essere riconsegnato nelle mani dei Benetton. Non possiamo permetterlo. Questi irresponsabili devono ancora rendere conto di quanto è successo e non dovrebbero più gestire le autostrade italiane. Su questo il Movimento 5 stelle non arretra di un millimetro”. Dall’altra parte la posizione garantista e trattativista di quanti non si vogliono impantanare in una vertenza senza fine, esplorando i margini per un pur difficilissimo accordo transattivo e valutando rischi e costi di una decisione unilaterale più etica che politica.

Non sono propenso a vedere la politica come il matematico e radicale sbocco di battaglie di principio, ma confesso che in questa vicenda, costi quel che costi, sarei un tantino più deciso nell’azzerare una situazione estremamente imbarazzante sul piano morale e obiettivamente insostenibile sul piano di una seria pubblica amministrazione. Non ho la ricetta pronta nel taschino come ostentano i pentastellati senza preoccuparsi della fattibilità concreta dei loro drastici convincimenti. Tuttavia proseguire un rapporto così importante e delicato senza fiducia nel partner contrattuale mi pare una forzatura notevole.

Abbiamo in passato avuto il governo della non sfiducia, non facciamo anche i contratti della non sfiducia o meglio della sfiducia pensata ma non dichiarata. Mi sovviene al riguardo una gustosa barzelletta. Su un calesse trainato da un asino viaggia un gruppo di suore con tanto di madre superiora. Ad un certo punto l’asino si blocca e non vuol più saperne di proseguire. Il “cocchiere” le prova tutte, ma sconsolato si rivolge alla badessa: «In questi casi l’esperienza mi dice che l’unico modo per sbloccare la situazione, costringendo l’asino a proseguire, è la bestemmia. Mi spiace, ma non c’è altra soluzione…». La suora dopo qualche ovvio tentennamento pronuncia la sua sentenza: «Se è davvero così, non resta altro da fare, ma mi raccomando la bestemmia gliela dica piano in un orecchio…». La concessione quindi revochiamola, ma non troppo…E i 43 morti del crollo del ponte Morandi?

 

 

Accontentarsi di ingoiare i rospi dopo averli baciati

Il sondaggio  realizzato da Bidimedia sulle intenzioni di voto al 4 luglio, conferma il trend di crescita dei democratici e attesta la Lega al 26,6%, in calo dello 0,6% rispetto a una precedente rilevazione del 13 giugno. Subito dietro il Pd al 21,4%, con un aumento dello 0,6%. Al terzo posto il M5S al 15% (-0,3%). Conferma il trend in crescita Fratelli d’Italia al 14,1%, che sale di un ulteriore 0,7%. Forza Italia scende al 5,9%, in calo dello 0,2%. Stabile Italia Viva di Renzi al 3,5%, scende Leu al 2,6% (-0,2%), mentre Azione di Calenda registra un lieve incremento dello 0,1% raggiungendo il 2,6%.

Il vicesegretario Pd non ha resistito alla tentazione: «Da questi numeri emerge in modo evidente che senza 3 (dicasi tre) scissioni il Pd sarebbe pari alla Lega. Ai volonterosi dirigenti del Pd che sollevano obiezioni sulla leadership del partito, consiglierei di orientare meglio i loro strali».

Ad Orlando hanno risposto tre personaggi politici che si sono sentiti chiamati in causa. «Peccato però che per rincorrere Salvini chiudiamo i porti e sequestriamo le persone in mare esattamente come lui» (Matteo Orfini). «Non ho fatto scissioni. Me ne sono andato da solo perché ritenevo l’alleanza con i 5S mortale per i riformisti. Era la posizione unanime del Pd, votata negli organi e confermata nella prima relazione. Vi siete scissi voi dalle vs promesse e dai vs valori» (Carlo Calenda). «Pensa il Psi: se nel ‘21 non avesse subìto la scissione di Livorno a quest’ora dove stava» (Giorgio Gori).

Innanzitutto consigliere a Giorgio Gori di ripassare l’uso corretto dei verbi: mi permetto di correggere la sua dichiarazione in “Pensa il Psi: se nel ’21 non avesse subito la scissione di Livorno a quest’ora dove starebbe”. Oltre alla grammatica però il sindaco di Bergamo sarebbe opportuno che rileggessi la storia per accorgersi che la scissione del ’21 aveva motivazioni molto serie e profonde: siamo lontanissimi dalle masochistiche attuali diatribe della sinistra.

Quanto a Matteo Orfini non ha tutti i torti, anche se non è così semplice avere una politica di sinistra sull’immigrazione, forse sarebbe sufficiente avere una politica in materia perché in realtà nessuno ce l’ha, neanche lui. Carlo Calenda mi piace come uomo di governo, ma non ha respiro politico e quindi non capisco sinceramente le sue velleità di movimento o di partito come dir si voglia.

Non hanno cantato le galline che hanno fatto veramente le uova scissionistiche: i vari Bersani e c. da una parte, i vari Renzi e c. dall’altra. Sono tutti insieme e appassionatamente nel governo, i Leu con una certa insperata compostezza, gli Italia Viva con sfrenato protagonismo. Mi sforzo di capire le ragioni di tutti, ma sinceramente non trovo cause convincenti e soprattutto prospettive credibili per chi mena il can per l’aia di un diverso partito democratico. Sono anch’io molto critico verso l’attuale dirigenza piddina, ma non vedo nessuno in grado di affondare i colpi, conquistare il centro del ring ed affrontare una situazione difficilissima. Attenti a non distruggere il poco esistente a livello politico e di governo per rimanere completamente a becco asciutto.

Facendo la somma dei consensi riconducibili all’area del centro-sinistra si arriva a un 30%: come noto presentandosi divisi si raccolgono più consensi (gli scontenti trovano più facilmente un approdo), i sondaggi hanno un valore molto relativo, la situazione che stiamo vivendo rende quasi impossibile una lettura seria degli indirizzi elettorali emergenti. Soprattutto non si raggiunge neanche quel 33% che fu considerato una sconfitta e portò alle dimissioni di Walter Veltroni nel 2008, che si assunse la responsabilità della disfatta sarda di Renato Soru, candidato del Pd alle Regionali.

Quindi non è il caso di cantar vittoria, né quello di insistere con le critiche dall’interno e dall’esterno del Pd in nome di un purismo ideologico assai datato e di un pragmatismo politico assai sconfortante. C’è in atto una imbarazzante e inconcludente alleanza col M5S, molto litigarella a livello governativo, molto insignificante per le prospettive politiche. Quel 15% assegnato dai sondaggi ai pentastellati che fine farà? Grillo ne vede l’inevitabile progressiva erosione e sembra puntare a un’alleanza organica col Pd ad iniziare dalle prossime elezioni regionali. Qualcuno lo riterrà un abbraccio mortale. Personalmente, anche se con fatica, ritengo inevitabile baciare il rospo. Attenti però alle complicazioni suggerite da Paulo Coelho: “Nelle favole, le principesse danno un bacio al rospo. Nella vita reale le principesse baciano i principi e quelli si trasformano in rospi”.

 

 

Pensioni: guai a chi non le tocca

La cancelliera Merkel sarebbe determinata a chiudere piuttosto in fretta il negoziato sul Recovery Fund. Avrebbe telefonato a Giuseppe Conte e nelle sue parole al collega premier di Roma, secondo i bene informati, si sarebbe avvertita l’attesa della cancelliera che l’Italia la aiuti a convincere Danimarca, Svezia, Austria e soprattutto l’Olanda. Sono questi i Paesi più freddi all’idea di varare un pacchetto di trasferimenti troppo generoso, anche perché sono loro i più scettici sulla capacità dell’Italia di ritrovare la via della crescita. Quei governi sospettano che l’Italia, con i suoi mille problemi, finisca per sprecare buona parte degli aiuti.

Negli ultimi scambi con Palazzo Chigi, dalla cancelleria di Berlino sono arrivate alcune domande precise. In vista della stretta nel negoziato sul Recovery Fund, Merkel ha bisogno di capire quale direzione intende prendere il governo italiano. Una delle domande arrivate dalla capitale tedesca in questi giorni riguarda le semplificazioni amministrative promesse da Conte: se il governo varasse prima del prossimo vertice europeo alcune delle riforme richieste per gli esborsi del Recovery Fund, sarebbe più facile superare soprattutto le riserve dell’Olanda. Molti occhi sono puntati su quel passaggio anche nel resto d’Europa, perché un’Italia immobile anche nelle riforme renderebbe più difficile per tutti l’accordo sul Recovery Fund.

Da Berlino è arrivata però a Palazzo Chigi anche una domanda indiscreta ma pertinente: che cosa intende fare Conte sulle pensioni? Anche qui, nessuna richiesta precisa. Ma è la stessa domanda che Merkel rivolgeva al collega italiano quando, nel 2018, il governo giallo-verde si preparava a varare “Quota 100”. Conte naturalmente ha fatto sapere a Merkel che non prorogherà oltre il 2021 il sistema del ritiro anticipato voluto dalla Lega. Ma l’interesse della cancelliera su questo punto, in vista del vertice che deve salvare l’Italia dalla peggiore recessione in tempo di pace, fa capire quanto il debito pubblico di Roma la preoccupi ancora.

È inutile ripetere che l’Italia è un sorvegliato speciale e non ce ne dobbiamo vergognare, ma ne dobbiamo solo prendere atto con sano realismo ed umile volontà. Immaginavo da tempo che il tema delle pensioni sarebbe emerso in tutta la sua delicata ma inevitabile importanza: e non credo si tratti soltanto di quota 100, penso che, prima o poi, si dovrà mettere mano ad una riforma dolorosa dell’intero sistema pensionistico.

Quando è scoppiata la pandemia mi sono posto tre problemi drammatici, riconducibili, direttamente o indirettamente alla nostra incapacità ad affrontare le emergenze con cui dobbiamo abituarci a fare i conti: la salvaguardia della salute in un sistema sanitario che, pur fra tanti pregi, si sta dimostrando inadeguato; la incapacità di offrire a tutti quel lavoro che è il fondamento della nostra repubblica democratica; la impossibilità di garantire la copertura pensionistica. Abbiamo finora parlato molto di sanità e speriamo che sia servito a capire che su di essa non si scherza e bisogna investire risorse materiali e umane. Ci siamo molto preoccupati dell’andamento economico nel suo riflesso sull’occupazione giovanile, ma anche sulla perdita del lavoro da parte di parecchie persone che rischiano di andare al di sotto di un livello di vita dignitoso ed accettabile. Abbiamo discusso poco di pensioni, dimenticando che si tratta del capitolo più influente sul nostro debito pubblico e partendo sempre dal presupposto che i diritti acquisiti non si possono toccare.

Sono convinto, anche a costo di mettere in discussione i miei più diretti interessi personali, che il sistema pensionistico lo dobbiamo rivedere, riequilibrare, risanare e proiettare nel futuro. Sono certo che sia necessario eliminare i privilegi: al di là di tutto e anche del fatto che il nostro sistema pensionistico sia di tipo mutualisticamente contributivo nel senso che ciascuno dovrebbe ricevere come pensione quanto ha accantonato durante la vita lavorativa. Restano delle diseguaglianze che gridano vendetta, delle pensioni d’oro e d’argento che vanno ridimensionate, delle pensioni da fame che vanno rivalutate ed adeguate. L’età pensionabile va seppur dolorosamente parametrata alla durata media della vita. Non si può continuare a pensare che chi ha avuto ha avuto e i giovani debbano rinunciare all’idea di una sacrosanta ed equa copertura previdenziale.

Non escludo che si debba fare un passo indietro e, nel caso, non sarà facile distribuire i sacrifici. Tutti dicono che occorre combattere le diseguaglianze, ma esse prevedono privilegi da abbassare e svantaggi da colmare. Prima che ce lo chiedano o addirittura ce lo impongano i partner europei, sarà bene che ne parliamo in casa nostra, anche se dovrebbe essere casa nostra anche l’Europa. Se ci si avvicina ad un gruppetto di persone anziane in libera e aperta discussione tra di loro, quasi sempre si constata che essi parlano di pensioni: si tratta del loro reddito, di un traguardo agognato e raggiunto, di un diritto da salvaguardare, di un argomento che li tocca nel vivo, di una situazione esistenziale. Ci sarebbe da rischiare il linciaggio a porre i discorsi di cui sopra, eppure…

Il Padreterno non governa il Veneto

Mio padre credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle che ingenuamente si illudeva di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello: “chi scappa sarà ucciso”. Non aveva una mentalità autoritaria, ancor meno violenta, ma aveva uno spiccato senso del dovere, innanzitutto per se stesso e poi lo pretendeva anche dagli altri. Atteggiamento per un verso virtuoso e ammirevole, pericoloso se portato all’eccesso.

Durante i primi giorni della lotta al coronavirus, con la zona di Codogno isolata e messa in quarantena, provvedimento che poi purtroppo dovette essere allargato all’intero territorio nazionale, un cittadino fece un’uscita clamorosamente trasgressiva, andò a sciare e si procurò una frattura che venne regolarmente curata in ospedale.  A Marcello Lippi, allenatore di calcio, impegnato per alcuni anni come commissario tecnico della nazionale cinese, è stato chiesto cosa pensasse della Cina e del coronavirus. Azzardò una similitudine paradossale, ma non più di tanto: al cittadino italiano in fuga dal lock down è stata sistemata la frattura alla gamba, in Cina lo avrebbero messo al muro.

Il governatore del Veneto, che amo definire come “il decisionista che più decisionista non si può”, di fronte ai comportamenti border line dei suoi corregionali tende alla loro criminalizzazione e promette fuoco e fiamme arrivando a ipotizzare trattamenti sanitari obbligatori, tende a fare denunce penali vere e proprie come nel caso dell’imprenditore rientrato dalla Serbia, che ha rifiutato il ricovero ospedaliero dopo essere stato rilevato come positivo al covid 19, tende a scaricare sul governo la colpa della risalita dei contagiati per non avere disposto norme severe (la galera?!) contro gli irresponsabili.

Mettiamoci d’accordo: so per certo di malati di coronavirus con tanto di febbre alle stelle, lasciati a casa senza nemmeno procedere al loro “tamponamento”, curati per telefono. Adesso, dal momento che la struttura ospedaliera non è più in tilt, si arriva a pensare al tso (come per i matti furiosi). I governatori regionali, durante la prima fase della pandemia spingevano sul governo affinché dichiarasse lo stato di emergenza nazionale e dipingesse di rosso tutta l’Italia, forse per evitare il rossore di vergogna di qualcuno in particolare. Quando si accorsero che l’economia rischiava di “andare a puttane”, cominciarono a fare i primi della classe e a chiedere la riapertura differenziata per i loro territori (naturalmente i più virtuosi). Adesso ricominciamo daccapo? Un po’ di coerenza e di equilibrio non guasterebbe.

Un conto è la severità verso i cittadini che assumono atteggiamenti e tengono comportamenti pressapochisti e irresponsabili; un conto è subissarli di adempimenti formalmente assurdi come le autodichiarazioni per giustificare le uscite da casa, con moduli che cambiavano ad ogni piè sospinto (ho esaurito le cartucce della stampante a forza di stamparne: a quel punto non sapevo più come fare per esibire l’autodichiarazione valida nel tragitto da casa mia al negozio di informatica, aperto in deroga); un conto è criminalizzarli e metterli alla gogna.

A proposito di criminalizzazione, mio padre del fascismo (la lingua batte dove il dente leghista duole) mi forniva una lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente, mi diceva, trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare  la propria estraneità al fatto , la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io. Non voglio esagerare, ma, se per combattere il coronavirus dovessimo instaurare un autoritario e poliziesco clima di caccia alle streghe, preferirei correre il rischio di ammalarmi: non vorrei essere equivocato, ma, per tornare alla similitudine di Marcello Lippi, al muro non ci metterei nessuno, né in senso proprio né in senso figurato.

Luca Zaia è stato dichiarato “santo subito” per i risultati positivi ottenuti nella sua regione nell’ambito della lotta al coronavirus. Chi lo vedrebbe leader della Lega (al posto di Salvini), chi lo vorrebbe capo del governo (in una compagine di centro-destra vincitrice delle prossime elezioni), chi lo giudica come l’uomo della provvidenza autonomistica contro la maledizione centralista. Adagio nelle curve! Chi vivrà vedrà. Mi sembra che sia molto capace di accreditarsi i meriti e di scaricare le colpe. Tutto quel che è bene è merito della regione Veneto, tutto quel che è male è colpa del governo Conte. Verso l’attuale governo ed il suo capo sono piuttosto critico, ma di fronte alla insopportabile prosopopea zaiana (e non solo), finisce, come scriveva il Giusti nella sua poesia S. Ambrogio, che abbraccio Conte, duro e piantato lì come un piolo.