I misteri del lavoro

«Sono oltre centomila gli stagionali agricoli che arrivano ogni anno dalla Romania in Italia ai quali si aggiungono più di diecimila cittadini bulgari». È quanto afferma la Coldiretti in riferimento all’ordinanza che dispone la quarantena per i cittadini che negli ultimi giorni abbiano soggiornato in Romania e Bulgaria, firmata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, a seguito dell’aumento dei contagi nei due Paesi. «Si tratta spesso – sottolinea la Coldiretti – delle medesime persone che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale per poi tornare nel proprio Paese. Una possibilità che consente di garantire professionalità ed esperienza alle imprese agricole italiane con le quali si è creato un rapporto di fiducia. Molti di questi lavoratori si trovano già in Italia anche se permane una preoccupazione che il vincolo della quarantena limiti gli arrivi per la vendemmia che tradizionalmente inizia in Italia ad agosto e continua in un percorso che prosegue a settembre ed ottobre con la raccolta delle grandi uve rosse autoctone Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo e che si conclude addirittura a novembre con le uve di Aglianico e Nerello».

In questo contesto, per l’associazione «per favorire le campagne di raccolta sarebbe importante un intervento urgente con una radicale semplificazione del voucher ‘agricolo’ che possa ridurre la burocrazia e consentire anche a percettori di ammortizzatori sociali, studenti e pensionati italiani lo svolgimento dei lavori nelle campagne in un momento in cui tanti lavoratori sono in cassa integrazione e le fasce più deboli della popolazione sono in difficoltà. I voucher sono stati per la prima volta introdotti in Italia proprio solo per la vendemmia il 19 agosto 2008, con circolare Inps con l’obiettivo di ridurre burocrazia nei vigneti e dare una possibilità di integrazione del reddito a studenti e pensionati che sono andate perdute in seguito all’abrogazione dovuta ai casi di abuso favorito ad un eccessivo allargamento ad altri settori e che in realtà non hanno riguardato il settore agricolo».

Sono perfettamente d’accordo con la Coldiretti, ma vorrei andare oltre per pormi qualche inquietante domanda. Innanzitutto come mai da una parte continuiamo a esorcizzare gli immigrati, sostenendo magari che vengono a rubarci il lavoro e il pane, e dall’altra parte ammettiamo candidamente di avere urgente bisogno di questi lavoratori stranieri, affermando che “garantiscono professionalità ed esperienza alle imprese agricole italiane con le quali si è creato un rapporto di fiducia”. I casi sono due: o la Coldiretti fa parte della categoria dei “buonisti ad oltranza”, capeggiata da papa Francesco, oppure molta gente dietro la difesa delle possibilità di lavoro per gli italiani nasconde sentimenti discriminatori e razzisti.

Seconda domanda: è possibile che nella enorme schiera dei disoccupati e dei poveri italiani non si trovino soggetti disponibili a lavori stagionali in agricoltura? Ho l’impressine che non sia tanto una questione di voucher, di complicazioni burocratiche, di flessibilità nelle procedure lavorative, ma di carente disponibilità a “farsi su le maniche” da parte di chi giustamente chiede lavoro e non prende però in considerazione quello che, pur precariamente e faticosamente, il mercato gli offre.

Terza domanda: non è che dietro il lavoro agricolo degli immigrati si nasconda molto lavoro nero e sottopagato, che i disperati stranieri accettano e i disperati italiani rifiutano? Una guerra fra poveri in cui vincerebbero gli speculatori dei campi?

Quarta e ultima domanda provocatoria: siamo proprio sicuri che in Italia esista tutta la disoccupazione e la povertà di cui giustamente si parla in continuazione? Ci sono i misteri della fede, ma anche quelli dell’economia italiana e non solo italiana. Mi pongo due ulteriori quesiti, uno sul lato della domanda, l’altro sul lato dell’offerta. Ben vengano le file in autostrada nei fine-settimana (non tanto per assolvere i casini nella gestione delle autostrade, ma perché il turismo dovrebbe trarne indubbi vantaggi), ma tutta questa gente non sarà poi così povera e non mi venga a piangere miseria: chi è veramente povero non si azzarda nemmeno a mettere fuori il naso e non ha tempo e possibilità di pensare alla ricreazione e alle vacanze. E tutti i negozi che si apprestano a chiudere per ferie non erano quelli che chiedevano a gran voce la possibilità di riaprire i battenti per non morire di lockdown. Ai misteri della fede si risponde con la fede, ai misteri dell’economia si risponde coi sacrosanti dubbi.

 

 

 

La rassicurante trasgressione in divisa

Non sono un tipo facile a scandalizzarsi: il tempo e la conseguente esperienza mi hanno insegnato a non stupirmi di niente, anche se questo atteggiamento piuttosto disincantato non significa indifferenza e insensibilità verso quanto succede intorno a me. In questi giorni emergono tuttavia realtà piuttosto sconvolgenti: dopo le torture in carcere su cui ho già scritto le mie riflessioni, dopo il carcere degli orrori è infatti la volta della caserma degli orrori.

Non si deve generalizzare, ma stupisce naturalmente il fatto che protagonisti di queste squallide vicende siano guardie carcerarie e carabinieri, che, evidentemente, si sentono al coperto per il fatto di indossare una divisa e legittimati ad approdare nel mondo della violenza, della droga, dei soldi sporchi, del sesso sfrenato, etc. etc. Rimane poi il dubbio che queste realtà siano direttamente o indirettamente tollerate dai loro superiori, che forse fanno finta di non vedere per carità (?) di arma. Ma probabilmente l’aspetto più grave riguarda i rapporti con la criminalità organizzata, la stretta interconnessione fra “guardie e ladri”.

Ne esce un quadro inquietante, una sorta di ordine pubblico abbandonato a se stesso, che rischia di avvalorare ulteriormente l’andazzo generale dell’inosservanza delle regole, del menefreghismo sociale, del “tana libera tutti”. Se l’ultimo giocatore nascosto riesce a raggiungere e a toccare la “tana”, potrà esclamare “tana libera-tutti”! o semplicemente “liberi tutti” (o “salvi tutti”), liberando così tutti i giocatori già catturati.

Non è più questione di mele bacate, ma dell’orto malato e fuori controllo. Ho la netta sensazione che la nostra società stia precipitando in una brutta china, dove non c’è limite al peggio. Non diamo tutta la colpa alla politica, anche se naturalmente essa ha le sue colpe. È la società che va alla deriva, spinta dalla mancanza di valori, dal venir meno del senso del dovere e della responsabilità. Non voglio esagerare, ma la situazione è questa e le caserme degli orrori non sono che la punta dell’iceberg, la istituzionalizzazione in divisa della trasgressione.

Scrive Roberto Saviano su La repubblica: “È una delle vicende più gravi della storia della Repubblica quella che riguarda la caserma “Levante” di via Caccialupo a Piacenza. Guardo le foto di questi carabinieri coinvolti nell’inchiesta, si atteggiano come rapper con cartamoneta in mano, vedo le immagini dei torturati. Leggo le accuse gravissime, le violenze e i pestaggi che hanno perpetrato certi dell’impunità (momentanea) data dalla divisa; leggo dei ricatti, delle estorsioni, dello spaccio di hashish ed erba. Leggendo in fila le carte delle inchieste degli ultimi anni l’Italia ne esce come un Narco-Stato”.

Nel mio piccolo sono d’accordo con Saviano, ma mi permetto di essere ancora più catastrofico e mi chiedo: se succede il finimondo in una caserma dei carabinieri, cosa potrà succedere e cosa sta succedendo nella società? Non so se la caserma “Levante” sia lo specchio deformato di una deriva etica in atto da tempo o sia una delle scintille che provocano o possono provocare l’etica dei “cazzi miei”. Certo che quando le guardie si confondono coi ladri vuol dire che il mondo è grigio e non è affatto blu, che stiamo vivendo una lunga progressiva notte in cui “ tutti i gatti sono bigi… È come se la notte, considerata solo come sottrazione (della luce), mancanza (del sole), sospensione (tra due giorni) si appropriasse di tutti i colori e stendesse un velo di uniformità anonima, livellante su tutto”.

Voglio però in conclusione fare un tuffo politico, non per rimangiarmi quanto sopra detto, ma per cercare una via d’uscita. Il nostro Paese sta vivendo, e non è la prima volta, un periodo difficilissimo, e i Partiti e la Politica hanno perso quel ruolo e quella credibilità che furono affidati loro dai fondatori della democrazia e della nostra Costituzione: una crisi che sembra senza ritorno. “Sl’è nota us farà dé” ripeteva spesso Benigno Zaccagnini in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza. Impegnarsi perché “si faccia presto giorno” è il modo migliore per reagire positivamente ad un andazzo clamorosamente devastante. Il settimanale Parmasette, con cui ho l’orgoglio di avere collaborato, nel buio degli anni settanta del secolo scorso, uscì con un editoriale dal titolo “Il male c’è ma Benigno”, alludendo alla innovativa e progressista segreteria democristiana di Benigno Zaccagnini. Purtroppo di Zaccagnini in giro non ne vedo, anche se mi ostino a cercarli. Resta il fatto che il male c’è e qualcosa bisogna pur fare.

 

 

 

Gli orrori del tragico tran-tran carcerario

Riporto la notizia prendendola da La stampa: “Torture in carcere, choc a Torino: “Detenuti picchiati tra le risate”. L’inchiesta della procura: 21 agenti accusati dei pestaggi. Indagato anche il direttore: «Sapeva ma nascose tutto». L’inchiesta scuote il carcere «Lo Russo e Cutugno» di Torino e racconta gli orrori che tra marzo 2017 e settembre 2019 si sarebbero consumati nei corridoi, nelle celle e negli spazi comuni dell’istituto. Con 21 agenti della polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura. Con un direttore (anche lui indagato) che aveva ricevuto le denunce e avrebbe taciuto, consapevolmente. E – infine – con un comandante del personale che avrebbe addirittura fabbricato dossier falsi per «coprire» le condotte inumane dei suoi sottoposti.

Questa inchiesta scuote il travagliato mondo carcerario, ma dovrebbe scuotere anche la politica e soprattutto le coscienze dei cittadini. La vicenda si inquadra nel triste, paradossale e drammatico tran-tran delle nostre prigioni, dove si muore in continuazione e si soffre ben al di là della pena subita, con più o meno equa sentenza, e in barba al dettato costituzionale che, all’articolo 27, fissa il principio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

La Costituzione ha cambiato il volto e la finalità della pena, ma non ha cambiato il carcere. Tutti lo sanno e, se escludiamo il partito radicale, la politica si volta dall’altra parte anche perché l’argomento non attira simpatie e voti elettorali. La cosa oltre modo grave emergente dall’inchiesta di cui sopra è che un’intera scala gerarchica avrebbe cercato di tacitare le precise segnalazioni che Monica Gallo, il garante dei diritti dei detenuti di Torino, aveva fatto dopo aver visitato i carcerati. «Numerose volte», scrive il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta, si era rivolta al direttore per chiedere un intervento. Quest’ultimo invece «aiutava gli agenti a eludere le indagini dell’autorità omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza». Che per i magistrati rappresentano «trattamenti inumani e degradanti». Torture. Gli investigatori hanno ricostruito più di venti episodi di violenze inaudite e inaccettabili.

Una lista nera che mi sento in dovere di riportare pari pari da quanto scrive il quotidiano La stampa, omettendo i nomi dei protagonisti. «Picchiavano e ridevano” scrive la procura nel capo di imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni sputi. Come nel caso di un detenuto, pestato dentro la cella da tre agenti mentre due secondini facevano il palo sull’uscio per accertarsi che nessuno vedesse. Ad un altro detenuto «cagionavano acute sofferenze fisiche e un trauma psichico». Lo hanno costretto a rimanere in piedi nel corridoio della sezione a cui era assegnato per 40 lunghissimi minuti. Insultato e costretto a ripetere: «Sono un pezzo di merda». Sono entrati diverse volte nella sua cella «eseguendo perquisizioni arbitrarie, gettandogli i vestiti per terra, strappandogli le mensole dal muro, spruzzando detersivo per piatti sul suo materasso». Poi di nuovo pugni sulla schiena e schiaffi «indossando rigorosamente i guanti» annota il pm. Altri agenti, dopo aver accompagnato un detenuto in infermeria, gli urlavano: «Figlio di puttana, ti devi impiccare». Gli hanno rotto il naso, rischiato di sfondare l’orbita di un occhio, spezzato di netto un incisivo superiore. È capitato che dopo un pestaggio due secondini abbiano avvicinato la vittima minacciandola: «Se ti visiteranno per le lesioni – questo il senso del messaggio – devi dire che ti ha picchiato un altro detenuto». Altrimenti – chiosa la procura – «avrebbero usato nuovamente violenza su di lui di fatto costringendolo, il giorno dopo, a rendere dichiarazioni false ai sanitari». Ad un altro detenuto è andata peggio: «dopo averlo ammanettato e bloccato a terra in attesa che venisse eseguito nei suoi confronti un Tso, lo colpivano ripetutamente con violenti pugni al costato e, mentre lui urlava per il dolore, loro ridevano». Due sindacalisti dell’Osapp sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio. Grazie alle loro «soffiate» il comandante della polizia penitenziaria del carcere, aveva saputo di avere il cellulare sotto controllo nell’ambito di un’inchiesta sui pestaggi in carcere. Lui stesso «aiutava gli agenti ad eludere le investigazioni dell’Autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni e conducendo un’istruttoria interna dolosamente volta a smentire quanto accaduto».

Si tratta di una inchiesta e non di una sentenza, ma comunque ce n’è abbastanza per inorridire e per rendersi conto, se mai ce ne fosse ancora bisogno, del clima esistente all’interno delle carceri. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Le parole di Voltaire oggi suonano come condanna senz’appello della “civiltà” italiana: detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile; agenti di custodia sotto il livello minimo; medici, psicologi e operatori sanitari che sono un miraggio dietro le sbarre. I Radicali con Rita Bernardini propongono con la nonviolenza di affrontare una realtà che sempre più si trasforma in tragedia. L’enorme quantità di suicidi e varie inchieste provano inequivocabilmente l’insostenibilità della situazione carceraria: un vero e proprio museo degli orrori. Mi si dirà che esistono problemi più gravi, non credo proprio… anche perché rifiuto una simile graduatoria di inciviltà.

 

I medici (im)pietosi del PD e la piaga libica

Sono parecchi i temi impegnativi e qualificanti su cui il partito democratico si dovrebbe coraggiosamente cimentare: la sicurezza, l’immigrazione, i diritti civili, etc. L’emergenza covid ha indubbiamente comportato un quadro complessivo in cui risulta particolarmente difficile riuscire a fare politica, ma i temi di cui sopra esistono e attendono un’impronta più chiaramente di sinistra.

Il ministro Marco Minniti, agli Interni nel governo Gentiloni, sul problema migratorio si cimentò nel coniugare il discorso sicurezza con quello dell’accoglienza, stipulando accordi con i paesi d’origine dei migranti e soprattutto scommettendo sulla Libia quale argine al flusso diversamente incontrollabile ed inarrestabile. A distanza di qualche tempo occorre avere l’onestà di ammettere che questa politica, pur intelligente e pragmatica, non ha funzionato e la Libia, aiutata e sostenuta anche da noi, si è trasformata in un immenso e vergognoso lager in cui vengono parcheggiati i potenziali migranti.

Roberto Saviano continua a chiedere chiarimenti sul decreto missioni, che prevede il rifinanziamento della Guardia Costiera libica votato dal Pd, e si rivolge al segretario Nicola Zingaretti: “I militanti del Pd chiedono conto del voto favorevole dei gruppi parlamentari al rifinanziamento degli aguzzini libici che qualcuno, per lavarsi la coscienza, ancora chiama Guardia costiera libica”. E aggiunge: “Ma il segretario del Pd non risponde. Non risponde a me e, peggio, non risponde alla sua base. Ma è normale: lui è lui e per la nomenclatura del Pd i migranti in Libia sono meno di niente”. E conclude: “Il silenzio del segretario del Pd sul rifinanziamento della Guardia costiera libica può essere interpretato solo come il silenzio dei complici”.

Ventitre deputati, tra cui i dem Laura Boldrini e Matteo Orfini, avevano infatti firmato una risoluzione contraria agli accordi con Tripoli. Lo scrittore, sulle pagine di Repubblica in un editoriale aveva accusato il segretario Zingaretti di aver tradito lo spirito dell’Assemblea nazionale del partito che in febbraio aveva votato all’unanimità contro lo stanziamento di fondi ai libici. Al di là delle provocazioni di Saviano e delle iniziative di alcuni parlamentari mi sembra che il problema sia politicamente e umanitariamente ineludibile.

Mi rendo perfettamente conto che la questione è enorme e coinvolge l’Europa ed il mondo intero, ma non si può girarsi dall’altra parte e non vedere lo scempio che in Libia si sta perpetrando sulla pelle di migliaia di persone in cerca di vita e salvezza. Almeno si riprenda il discorso e si faccia una verifica sulla situazione completamente sfuggita di mano. E chi lo può e lo deve fare se non il partito democratico, i suoi parlamentari ed i suoi ministri. Non esiste una politica dell’immigrazione, i tentativi fatti hanno dato esito negativo: non si può certamente accogliere “buonisticamente” tutti, ma nemmeno bloccare l’emorragia col cotone emostatico dei lager libici.

La risoluzione trasversale di 22 deputati della maggioranza contrari agli accordi con Tripoli chiede che l’Italia la smetta di non vedere quello che accade nel Mediterraneo. Che non faccia finta di non sapere quel che sono i centri di detenzione gestiti dalla cosiddetta Guardia Costiera libica. Un insieme di milizie mal coordinate accusate dalle stesse agenzie delle Nazioni Unite di una sistematica violazione dei diritti umani. “Non possiamo continuare a far finta di non vedere quel che accade nel Mediterraeo, è il momento di cercare nuove soluzioni, non protrarre quelle che si sono rivelate fallimentari”.

Nel documento, si ricorda come in Libia sia in corso una guerra civile e che “la condizione di decine di migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti rimane drammatica: esposti ad arresti arbitrari e rapimenti per mano delle milizie e regolarmente vittime di trafficanti di esseri umani e di abusi di potere da parte di gruppi criminali collusi con le autorità. Il deteriorarsi del conflitto li ha esposti a rischi sempre maggiori; le autorità libiche continuano a detenere illegalmente migliaia di persone nei centri amministrati dal Direttorato generale per la lotta alla migrazione illegale, dove vengono sottoposte a sfruttamento, lavoro forzato, tortura e altre violenze, inclusi stupri, spesso allo scopo di estorcere denaro alle famiglie in cambio del loro rilascio; i detenuti nei centri vivono in condizioni disumane, di sovraffollamento e mancanza di cibo, acqua e cure mediche; i centri vengono regolarmente ripopolati. Solo nel 2019, le autorità marittime libiche, in particolare la Guardia costiera libica, hanno intercettato almeno 9.225 rifugiati e migranti che attraversavano il Mediterraneo centrale, riportandoli quasi tutti indietro nei centri di detenzione libici”. E ancora: “Con oltre 480 contagi da coronavirus registrati ufficialmente nel Paese, e molti altri che potrebbero non essere stati rilevati, in questo momento a preoccupare è anche la situazione sanitaria nei centri di detenzione dove si vive ammassati, in condizione di vera disumanità. Un allarme rilanciato ripetutamente anche da Papa Francesco”.

Fin qui la sacrosanta denuncia di una situazione insostenibile da tutti i punti di vista. Cosa fare non è tuttavia semplice. Però bisogna provarci, senza pensare troppo ai consensi immediati della gente, perché la gente non siamo solo noi, ma anche milioni di persone che hanno, come noi, diritto di vivere e perché l’immigrazione non è non va trattata come infinita emergenza, ma come problema strutturale che riguarda tutti.

 

 

 

Un parroco, un vescovo e…un cardinale

Un mio rigorosissimo amico, cattolico osservante e praticante, mi raccontò di essersi fatto scrupolo di partecipare alle nozze di un suo amico celebrate con rito civile e di avere chiesto al riguardo consiglio al suo confessore, che gli consigliò di presenziare tranquillamente alla cerimonia: “Questi tuoi amici almeno si sposano…”, lasciando intendere che…ben venga qualsiasi celebrazione dell’amore fra due persone.

Credo che abbia fatto questo ragionamento, anche se portato alle estreme conseguenze, il parroco che nei giorni scorsi ha indossato la fascia di ufficiale civile e ha presieduto l’unione civile di due donne. Se non ché don Emanuele Moscatelli, parroco di sant’Orazio in provincia di Roma, ha dovuto “dimettersi spontaneamente” e farà un periodo “di riflessione e verifica. L’asciutta ed ufficiale cronaca del quotidiano Avvenire ci informa (?) che il sacerdote ha “capito l’inopportunità”: lo ha spiegato all’AdnKronos il vescovo di Civita Castellana, monsignor Romano Rossi, che fa sapere che da domenica prossima i parrocchiani avranno un nuovo parroco. Il vescovo ha parlato a lungo con don Emanuele: “Abbiamo dialogato, non si è trattato di una decisione di autorità – assicura -. Non è in corso in nessuna censura, ha deciso che era opportuno dimettersi”. “Il parroco – spiega il vescovo Rossi – è un libero cittadino, ma c’è un canone che impedisce ai sacerdoti di officiare cerimonie civili. Ma si dialoga nella Chiesa e così ho fatto con don Emanuele”. Dopo il periodo di riflessione, spiega ancora il vescovo, “non potrà fare il parroco a sant’Oreste, ma, una volta chiarite certe cose, potrà fare tutto, quando sarà il momento”.

L’unione civile è stata ratificata l’11 luglio a Sant’Oreste, comune della provincia di Roma con poco più di 3.600 abitanti. Pochi giorni prima della celebrazione, il parroco di San Lorenzo Martire, era andato dalla prima cittadina per chiedere di potere presiedere all’atto. Il sindaco Valentina Pini, primo cittadino di Sant’Oreste dal giugno 2016 eletta con una lista civica, ha accettato e ha ceduto la fascia tricolore al sacerdote.

A questo punto, dopo aver sottolineato il vomitevole approccio burocratico, che nasconde l’ostilità preconcetta verso le unioni omosessuali, cedo la parola, perché correrei il rischio di spararne delle grosse contro la gerarchia cattolica e i suoi metodi militareschi di fare rispettare quelle che dovrebbero essere regole, ma che, a mio giudizio, sono i fardelli farisaici di cui parlava sarcasticamente Gesù.

Mi rifaccio direttamente e indirettamente al pensiero ed allo stile del cardinale Carlo Maria Martini, che diceva: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

Voglio richiamare però anche il breve, ma esauriente, profilo che del cardinale Martini tracciò il mio carissimo amico don Luciano Scaccaglia: «Grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti».

In cauda venenum: prescindendo dal merito della questione, che giudico un’autentica e pretestuosa “bega da frati”, facendo riferimento al cartellino giallo sventolato sotto il naso di don Moscatelli, desidererei che uguale tempestività e rigore disciplinare fossero riservati dalla gerarchia cattolica ai preti in odore di pedofilia e a quelli in odore di affarismo. Coraggio, papa Francesco, perché la convalescenza è molto lontana…

 

 

 

 

I cinque stelle non stanno a guardare

Gli esponenti politici pentastellati non brillano, a dispetto del loro nome, per preparazione, cultura, esperienza e acutezza politica. Sono portati a sparare giudizi alla “viva il parroco”. Non sono per tanti e svariati motivi un loro elettore, né un loro sostenitore, né un loro simpatizzante. Non mi pare però che l’ultima uscita di Laura Castelli, viceministra all’Economia, riguardo alle prospettive economiche dei ristoratori, meriti quelle violente censure che si sono scatenate: una valanga di insulti su Facebook, la maggior parte dei quali a contenuto sessista, dopo il video in cui invitava i ristoratori in crisi “a cambiare modello di business”. Parole rispetto alle quali l’esponente 5 Stelle del governo aveva rapidamente corretto il tiro, ma che hanno ugualmente scatenato, oltre alle polemiche, un diluvio di offese: da “Sei una m., mi auguro che tu spenda in medicine tutte le mie tasse” a minacce di morte come “Piazzale Loreto è sempre aperto per m… come te” agli insulti sessisti estesi ad altre donne della politica come De Micheli, Bellanova, Boldrini, Lamorgese.

È la stessa Laura Castelli a denunciarlo in un altro post su Facebook: “Da ieri ricevo questo genere di insulti, che lascio giudicare a voi. Un attacco, senza precedenti, alimentato da una campagna di disinformazione montata ad arte da quella parte di opposizione che racconta di voler collaborare, ma preferisce falsificare le mie parole, piuttosto che favorire un dibattito positivo di confronto economico e politico su un tema estremamente importante come quello del sostegno alle imprese che si vogliono innovare, cosa di cui ho realmente parlato”.

“Questo becero modo di interpretare la politica -aggiunge – fa molto più male al Paese, generando tensioni sociali, di quanto faccia male a me e alle persone che mi stanno accanto. Dispiace, però, vedere che per qualche like, o per qualche click in più, ci sia invece chi è disposto a tutto questo. Media e opposizioni, soprattutto in questo preciso momento storico, hanno un ruolo estremamente importante. Per questo, da parte di tutti, serve maggiore responsabilità e coesione, nel rispetto della corretta dialettica politica”.

“Non ci fermiamo certo a causa di questi attacchi – conclude la ministra – sono altri i problemi del nostro Paese. C’è una trattativa fondamentale in Europa, che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sta portando avanti per tutti noi, su cui dobbiamo raggiungere il risultato auspicato, e ci sono i problemi degli italiani da continuare a risolvere, senza lasciare nessuno indietro. Andiamo avanti”.

Le proteste e accuse contro la viceministra dell’Economia erano cominciate dopo le dichiarazioni rilasciate durante la trasmissione Tg2 Post. Poche parole, in cui la 5 Stelle ha tentato di spiegare che con la crisi “vanno cambiati i modelli di business”, ma che hanno però suscitato proteste e fraintendimenti delle opposizioni, con il centrodestra che chiedeva le dimissioni dell’esponente del governo e chef stellati come Gianfranco Vissani che attaccavano duramente la grillina. Una bufera, contro la 5 Stelle, che l’ha costretta nel pomeriggio a correggere il tiro: “Ho fatto solo un esempio, ma non era un attacco alla categoria dei ristoratori”.

“Trovo nauseante come certa stampa abbia completamente reinventato le parole di Laura Castelli, attribuendole virgolettati mai pronunciati e trasformandola in un bersaglio” – scrive il capo politico di M5S, Vito Crimi – “Eppure il suo è un ragionamento di buon senso: cosa c’è di sbagliato nel ritenere che in questi tempi di grave crisi lo Stato debba essere al fianco delle aziende in difficoltà e debba accompagnare chiunque voglia riconvertire la propria attività per adattarsi alle nuove sfide che ci attendono?”.

La viceministra poteva essere più prudente, ma il suo ragionamento di fondo non mi sembra né sbagliato né offensivo. Non possiamo illuderci di ripartire, economicamente parlando, come se niente “fudesse”: saranno purtroppo necessari parecchi aggiustamenti nei modelli e parecchie riconversioni produttive. Quando diciamo che “niente sarà come prima”, il discorso vale anche e soprattutto per gli assetti economici e produttivi. Nessuno quindi si deve sentire offeso se dovrà ripensare e riconvertire in tutto o in parte la propria attività. Mi rendo perfettamente conto dello sconcerto che provoca la crisi che ci ha investito. Alcuni giorni fa sono passato davanti ad una bella, nuova e moderna struttura alberghiera: tutto chiuso e chissà se e quando riaprirà. Sono stato preso da un sincero senso di angoscia e, fra me e me, ho esclamato: “Che peccato! Quanto lavoro, quanta imprenditorialità a rischio sopravvivenza…”.

Dovremo avere la forza di volontà, la fantasia, la perseveranza per riprendere il cammino, dopo avere ridisegnato il percorso e mettendo in conto di dover superare parecchi ostacoli. La politica non può e non deve illudere nessuno, ma aiutare, possibilmente tutti, ad aggiustare il tiro e mirare bene il bersaglio, prima di ricominciare a sparare a salve contro la crisi, che sarà molto dura a morire e che forse dovrà essere aggirata più che affrontata di petto.

 

Finti pretesti, veri pregiudizi, diffuso razzismo

“Io non sono razzista, ma se un soggetto straniero, che vuole vivere in Italia, non si comporta bene, lo sbatto fuori su due piedi e lo riporto nel suo paese”. Quante volte ho sentito questo lapidario ragionamento (?) e mi ha sempre insospettito tale implacabile atteggiamento, che, a mio giudizio, nasconde una ostilità di base: un modo elegante per essere razzisti. Sì, perché un motivo per espellere un immigrato non è difficile da trovare. Se è appena arrivato e per mangiare fa dell’accattonaggio, se ne deve andare perché non ha voglia di lavorare e finirà col fare lo spacciatore e/o il ladro. Se lavora, se ne deve andare perché ruba agli italiani il poco lavoro che c’è.  Se sbarca con estrema fatica sulle nostre coste, è un potenziale diffusore di malattie e di coronavirus in particolare e quindi non possiamo tirarci in casa dei potenziali focolai infettivi.

In questi giorni però siamo arrivati al culmine. Ho letto su La stampa: Quindicenne aiuta una donna per strada e un passante lo scaccia: “Mulatto, torna al tuo paese”. È successo a Grugliasco (Torino). La mamma del ragazzo, indignata, si è sfogata su Facebook: «Mio figlio ha solo 15 anni. Ha visto una donna svenire per strada, l’ha presa al volo, ha cercato di ricordare le nozioni di primo soccorso apprese alle medie». E mentre il ragazzino si dava da fare per aiutare la donna, un passante lo ha spinto via malamente: «Mulatto, spostati, tornatene al tuo paese». «Io sono fiera di lui – continua mamma Katia –. A 15 anni ha fatto quello che poteva per aiutare una persona che aveva bisogno, senza esitare».

Il sindaco di Grugliasco, Roberto Montà, informato dell’episodio, ha reagito così: «Un pessimo esempio di maleducazione e inciviltà. A forza di mandare messaggi razzisti e divisivi ormai qualcuno pensa che episodi simili rientrino quasi nella normalità». L’episodio, tra l’altro, «ha un che di ridicolo, perché conosco il ragazzo e ha la cittadinanza italiana: è italianissimo, forse più di chi l’ha offeso».

Un lupo e un agnello, erano giunti al medesimo ruscello spinti dalla sete; il lupo era superiore (in un luogo più alto) l’agnello di gran lunga in basso. Allora il lupo, sollecitato dalla sua insaziabile fame, suscitò un pretesto per litigare. «Perché», disse, «mi hai reso torbida l’acqua che bevevo?». L’agnello, timoroso, di rimando: «In che modo posso di grazia fare ciò che ti lamenti, lupo? L’acqua scorre da te alle mie labbra». Quello spinto dalla forza della verità: «Hai sparlato di me, sei mesi fa». L’agnello rispose: «In verità non ero nato». «Tuo padre, in verità, aveva sparlato di me». E così afferra l’agnello e lo sbrana per un’ingiusta morte. Questa favola è stata scritta per quegli uomini, che opprimono gli innocenti con finti pretesti.

Al posto del lupo mettiamo quel sospettoso e sbrigativo italiano e al posto dell’agnello quell’ingenuo e generoso ragazzino di colore. Provo a parafrasare la fiaba di Fedro alla luce dell’episodio di cronaca.

Un maturo cittadino di Torino e un quindicenne ragazzino di colore si incontrano in strada mentre il ragazzo soccorre una donna in difficoltà. Allora il primo, sollecitato dal suo pregiudizio razzista, cerca un pretesto per attaccare briga. «Perché», dice, «non lasci in pace quella donna, non vedi che sta male». Il ragazzo, timoroso, di rimando: «Ho visto questa donna svenire, l’ho presa al volo». Il torinese ribatte: «Stavi approfittando della situazione, vergognati!». Il ragazzo risponde: «Ho solo cercato di ricordare le nozioni di primo soccorso apprese alle scuole medie che ho frequentato». «Dovevi chiamare i soccorsi e non ti dovevi permettere di toccare quella donna!». «Ma io…ho agito in buona fede…». «Voi immigrati siete tutti uguali…». «Ma io veramente sono un cittadino italiano…». A quel punto l’italiano si ricorda di essere di pelle bianca e così afferra il ragazzino e gli grida: «Mulatto, spostati, tornatene al tuo paese! Non mi interessa niente dei tuoi diritti!». Questo episodio viene riportato e, in parte condito ad hoc, per tutti coloro che cercano finti pretesti per esprimere il loro vero razzismo.

 

 

 

I rutti di Rutte

Il Consiglio europeo straordinario riunito a Bruxelles per cercare un accordo sul prossimo bilancio comunitario e sul Recovery fund per fronteggiare la crisi pandemica si è rivelato un vero e proprio scontro tale da mettere in crisi la stessa sussistenza della Unione Europea. I principali fronti di scontro sono il volume e l’equilibrio tra sussidi e prestiti del Recovery fund, la governance degli aiuti e le correzioni al bilancio 2021-2027. L’Olanda non cede di un millimetro nel chiedere un voto all’unanimità dei leader europei sui piani di ripresa nazionali.

Rutte pretende che sia sufficiente il veto di un singolo Paese, proposta inaccettabile per l’Italia, “incompatibile con i trattati e impraticabile sul piano politico”. A stretto giro è arrivata la dura risposta olandese: l’impraticabilità del voto del Consiglio all’unanimità non “la beviamo”, questa “è una situazione eccezionale, che richiede una solidarietà eccezionale e per la quale si possono trovare soluzioni straordinarie”.

L’Olanda – capofila del fronte dei frugali che vede schierati anche Austria, Svezia e Danimarca – insiste appunto sul voto all’unanimità dei leader sui piani di ripresa nazionali. E di conseguenza sulla possibilità di bloccare con un veto l’erogazione di fondi ai Paesi che non facessero riforme secondo i desiderata dell’Aja. La proposta di mediazione arrivata venerdì scorso dal presidente del Consiglio Ue Michel è stata giudicata insufficiente: prevedeva che la Commissione conducesse una valutazione e il Consiglio la votasse a maggioranza qualificata (55% dei Paesi membri, cioè almeno 15 Paesi su 27, che devono rappresentare almeno il 65% della popolazione Ue). All’Aja non basta perché non si fida della neutralità della Commissione, che in passato avrebbe dato prova di usare “due pesi e due misure” nell’applicazione del patto di stabilità.

Quanto alle sovvenzioni a fondo perduto, “se vogliono che le concediamo invece dei prestiti, allora devono dare garanzie molto forti”, ha ribadito il premier Mark Rutte. Appoggiato dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz secondo cui “è cruciale” che gli aiuti siano usati per “riforme lungimiranti e non per progetti orientati al passato”. Ai nordici però sta a cuore anche e soprattutto che restino invariati o comunque siano fissati “a un livello sufficiente” gli “sconti” sui versamenti al bilancio Ue di cui hanno goduto finora.

Non so come finirà: probabilmente uno straccio di accordo lo troveranno. Abbiamo però forse toccato il fondo riguardo allo spirito di solidarietà. È l’Europa degli egoismi nazionali e del perseguimento dei propri interessi particolari. Il futuro europeo, a queste condizioni, lo vedo veramente fosco. I paesi cosiddetti frugali vogliono ridurre al minimo possibile il loro contributo al bilancio comunitario e, nello stesso tempo, pretendono un diritto di veto per la concessione degli aiuti ai vari stati europei ed un potere decisivo di controllo su come verranno utilizzati.

“Frugale” è colui che è moderato, semplice, parco nel mangiare e nel bere, colui che è amante della vita sobria e parsimoniosa. Avaro è chi, per un eccessivo attaccamento al denaro o un esagerato senso del risparmio, è estremamente restio a spendere, non solo per altri ma anche per sé, restio a fare, a dare, a concedere. Penso quindi si debba parlare non tanto del gruppo di “frugali”, ma del gruppo di “avari”.

Siamo arrivati al dunque europeo che dovrebbe chiamarsi solidarietà, ai fondamentali della Ue e alla regola d’oro di mio padre: “S’a t’ tén il man sarädi a ne t’ cäga in man gnan’ ‘na mòsca”. Dobbiamo innanzitutto avere atteggiamento autocritico per noi italiani che tendiamo a chiuderci nel nostro guscio, illudendoci di poter bastare a noi stessi: pura follia sovranista. Poi possiamo e dobbiamo anche stigmatizzare l’atteggiamento dei benestanti e benpensanti, una sorta di usurai in senso politico, che alzano l’asticella della condizionalità ad un punto tale da rendere impossibile ricorrere agli aiuti. Stiano molto attenti, perché anche per loro, prima o poi arriverà la necessità di essere aiutati e le loro mani chiuse non potranno ricevere gli aiuti. Un tempo, per concludere certi pessimistici e sconfortanti discorsi, si diceva: “Povera Italia!”. Oggi possiamo tranquillamente aggiungere: “Povera Europa!”.

 

 

Popolo di poeti e di…laureati in scienze informatiche

La mia ormai lontana esperienza scolastica e universitaria è stata improntata al criterio della rigida selezione. Il passaggio dalla scuola elementare alla scuola media fu segnato dall’esame di ammissione, l’esame più difficile di tutta la mia vita: un bambino di dieci anni, sottoposto a prove scritte e orali riguardanti italiano, storia, geografia e matematica, interrogato dai potenziali insegnanti della scuola d’accesso. Lo superai con fatica e ne uscii con gli abiti inzuppati di sudore come se fossi caduto in un laghetto. Si trattava della prima selezione a cui si era sottoposti: proseguire il percorso formativo normale o ripiegare sull’istruzione professionale.

Poi arrivò la difficile scelta della scuola media superiore. Per me la selezione avvenne in base alle possibilità economiche della mia famiglia, che non erano tali da consentirmi e garantirmi una lunga carriere scolastica, classica o scientifica che fosse, e allora studiai per diventare ragioniere, non per virtù, ma per necessità. Erano tempi in cui un diploma scolastico aveva un certo valore e dava prospettive occupazionali abbastanza concrete e quindi mio padre mi consigliò (sic!) di “prendere in fretta un pezzo di carta”, che mi desse il più alla svelta la possibilità di lavorare.

Mi diplomai a pieni voti e, siccome l’appetito vien mangiando, ebbi l’ardire di tentare di proseguire gli studi all’università iniziando contemporaneamente a lavorare (le possibilità non mancavano). Per quanto concerne l’università allora esisteva un vero e proprio blocco: ci si poteva iscrivere solo a certe facoltà strettamente in linea col titolo di studio. Per me, ragioniere, la strada era quasi obbligata: economia e commercio a Parma, sociologia a Trento, lingue orientali a Verona. Ho frequentato economia a Parma ed è stato un bene, perché se avessi scelto sociologia a Trento, con la sensibilità sociale che mi ritrovavo, avrei potuto anche diventare un brigatista rosso (fu quella infatti la culla culturale del brigatismo), mentre a quei tempi le lingue orientali erano poco più di un miraggio.

Mi laureai a tempo di record, rinunciando all’abbinamento studio lavoro che mi si rivelò ben presto  impraticabile. Una volta laureato, ho provato la via dell’insegnamento universitario (assistente: ma capii subito che non c’era niente da fare) e valutato la strada dell’insegnamento nelle scuole medie inferiori e superiori (ragioneria, tecnica commerciale, diritto ed economia, matematica), che si rivelò troppo lunga. La mia famiglia non poteva attendere ulteriormente e io dovevo cominciare a lavorare rendendomi autonomo. Mi capitò, quasi per caso e grazie ad alcuni amici, un posto di lavoro nel mondo cooperativo, che allora non conoscevo, e lo accettai (fu decisivo il consiglio di un mio carissimo compagno di studi, che mi orientò, senza giri di parole, ad accettare). Strada facendo, pur tra difficoltà e titubanze, si rivelò, per certi versi, la scelta giusta da tutti i punti di vista: un percorso professionale un po’ distante rispetto alle aspettative di studio, ma interessante e stimolante.

Ho voluto fare questa digressione per il gusto, tipico degli anziani, di parlare del passato, ma anche per sottolineare come i criteri siano radicalmente cambiati, le selezioni totalmente e velleitariamente eliminate e, se non eliminate, introdotte in modo assurdo a livello di settimana enigmistica o poco più. Al di là di tutto bisogna considerare come la vita sia strana e riservi sorprese, che vanno al di là delle nostre pur giuste aspirazioni e convinzioni. Mia sorella condensava questa filosofia in una battuta dialettale: “as fa cme as pol e miga cme as vol” (si fa come si può e non come si vuole). E magari, strada facendo, si scopre, che è stato meglio così…

Quindi, se il mondo del lavoro offre sbocchi occupazionali per i laureati in materie tecnico-scientifiche bisogna pur tenerne conto, rinunciando magari alle prospettive di prima scelta. Stando ai dati statistici, il 23% delle aziende italiane cerca laureati in scienze e ingegneria e non li trova perché gli studenti scelgono altri ambiti. Nelle decisioni di livello universitario si dovrebbe quindi tenere conto dei tassi di occupazione offerti dai diversi indirizzi di studio. Sarebbe teoricamente bello e giusto che ognuno potesse scegliere la propria strada senza condizionamenti di carattere socio-economico, ma bisogna stare coi piedi in terra, fare bagni di sano realismo, iscriversi alle facoltà che possono offrire maggiori possibilità a livello professionale.

È inutile inflazionare gli studi classici, quando il mondo del lavoro chiede ingegneri e tecnici informatici. Non ho idea di come si possa perseguire concretamente la tendenza all’incontro fra opzioni studentesche, programmi universitari ed esigenze dell’economia. Si parla di piani mirati…Forse il primo e più importante piano mirato ognuno se lo deve elaborare personalmente, abbinando la voglia di studiare con quella di lavorare, senza raffreddare i sacrosanti entusiasmi giovanili, ma coniugandoli col realismo della necessità di lavorare.   Questo discorso vale per i singoli, per le famiglie, per le aziende, per l’intera società che non può assistere imperterrita alla pericolosissima fiera della disoccupazione.

Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori, o meglio: popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori. È la parte rimasta più famosa di un discorso che Benito Mussolini pronunciò il 2 ottobre 1935 contro la condanna all’Italia, da parte delle Nazioni Unite, per l’aggressione all’Abissinia. Questa stessa citazione campeggia sulle quattro facciate del Palazzo della Civiltà Italiana, o della Civiltà del Lavoro, uno splendido edificio che si trova a Roma nel quartiere dell’EUR. Lungi dalla vomitevole  retorica di stampo fascista, non sia mai che ci si trasformi in un popolo di ingegneri e di esperti informatici, ma trovare una giusta via di mezzo sarà più necessario che opportuno.

 

Su le mascherine!

Non era ancora scattato l’obbligo e già si discuteva sul dove e come comprarle. Le si dovevano indossare e non si sapeva se effettivamente avessero qualche efficacia protettiva. Quando finalmente si è riusciti ad averne la facile disponibilità, dopo un periodo di speculazioni e di prezzi diversificati, si è cominciato il conto alla rovescia per dismetterle. Le regioni si stanno sbizzarrendo a varare regole particolari creando un ginepraio in cui non è facile districarsi. Ci sono luoghi chiusi, ma molto spaziosi in cui è obbligatorio indossarle, ci sono luoghi aperti ma piuttosto stretti e vocati all’ammassamento delle persone in cui non è obbligatorio metterle.

I guanti hanno fatto il loro tempo, sono diventati addirittura pericolosi, meglio sanificarsi continuamente le mani fino a spellarsele. Le mascherine invece tengono botta: sembrano l’ultima barriera difensiva contro il covid 19, salvo fare una confusione pazzesca a livello di obbligo. Un mio sarcastico collega, di fronte alle varie confusioni normative, sosteneva che erano scientificamente volute e create per poi poter sanzionare la gente e incassare soldi a livello di multe. Non arrivo a tanto pregiudizio, ma qualche domanda uno se la fa. Forse le regioni dopo aver fatto a gara fra di loro per essere le più rigorose e restrittive, adesso giocano a fare le più permissive in un’escalation di riaperture al limite del ridicolo.

In questi giorni si è posto il problema se rinnovare o meno lo stato di emergenza: il governo vorrebbe fare di testa sua, il parlamento rivendica voce in capitolo, le regioni, come detto, marciano in ordine sparso. Non ci si capisce un cavolo. Temo che possa finire all’italiana, in una colossale, tacita e penosa situazione in cui tutti se ne fregano nonostante gli indici tutt’altro che tranquillizzanti e nonostante la situazione internazionale induca a molta prudenza. Se a Parma non ci sono decessi, non posso illudermi perché dietro l’angolo c’è la Lombardia in cui la situazione non è affatto incoraggiante, ma soprattutto perché la mondializzazione della vita non ci consente distrazioni nazionalistiche e men che meno regionalistiche o addirittura campanilistiche.

Adesso abbiamo oltre tutto la possibilità di gridare all’untore immigrato: una ragione in più per chiudere i porti e gli accessi ai poveri diavoli, mentre magari il coronavirus ci arriva più dai voli intercontinentali in classe di lusso che dai barconi che tentano di attraccare sulle nostre coste. Più andiamo avanti e più brancoliamo nel buio: mi immagino il casino che scoppierà in vista della prossima vaccinazione antiinfluenzale di massa e della possibilità di operare la vaccinazione anti-coronavirus senza sperimentazione alcuna.

La situazione è molto complessa, ma l’impressione, fin dall’inizio dell’emergenza, è che forse la stiamo ulteriormente incasinando con i nostri assurdi tira e molla. Dei malati e dei morti non parla più nessuno, ora si parla di ferie distanziate, di disoccupati ammassati e di soldi in arrivo da investire. Si fa l’abitudine a tutto, anche a morire. Ognuno fa quel cazzo che vuole e chi vivrà vedrà. Nel frattempo divertiamoci con il carnevale delle mascherine. Ai tempi del fascismo mi sembra fosse vietato andare in maschera, forse perché il regime temeva la concorrenza a livello carnevalesco. Oggi, fatte le debite e confuse eccezioni, è amaramente obbligatorio mascherarsi, forse per coprire la vergogna di avere fatto cattivo uso della libertà.

Come si legge sul sito “Adige.it”, le mascherine sono diventate il nuovo modo per essere “di tendenza”. C’è chi è attratto da quella con il disegno delle zanne, ma poi guarda quell’altra con l’arcobaleno e lo slogan ormai inflazionato: “Tutto andrà bene”. Sono comparse mascherine sui siti di moda, sui più noti portali di shopping, nelle home page delle tipografie online. Il gadget del momento. C’è perfino chi propone mascherine personalizzate con le proprie iniziali o un’immagine scelta dall’acquirente. Tutte rigorosamente lavabili, anche se – specificano le varie pubblicità – non si tratta di dispositivi medici. La nostra società metabolizza tutto. Sembra trascorsa una vita da quando eravamo chiusi in casa: oggi usciamo, andiamo in vacanza, socializziamo liberamente. Basta mettersi la mascherina. Non passerà molto tempo che anche le mascherine andranno in cavalleria anche se i virus continueranno a marciare contro di noi.