Il ponte dei sospiri democratici

Della cerimonia, giustamente mesta, di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, che ha sostituito quello crollato il 14 agosto di due anni fa, ho apprezzato la discrezione e la delicatezza del presidente della Repubblica nei confronti dei famigliari delle vittime: l’ennesima lezione di umanità e di stile dal Capo dello Stato. Non ripeto le sue parole perché potrei solo rovinarne la semplice profondità e l’apprezzabile disponibilità.

Mi viene invece spontaneo cogliere due messaggi provenienti dalla vicenda del tragico crollo e della immediata ricostruzione. Si fa un gran parlare di nuovi investimenti in infrastrutture finalizzati alla crescita socio-economica del Paese. Prima, però, siamo seri e vediamo di mettere veramente in sicurezza le vecchie e le nuove infrastrutture, per evitare che crolli qualche soffitto sulla testa degli alunni di una qualche scuola. Siamo tutti un po’ prigionieri della mentalità dello “straordinario” e finiamo col trascurare l’ordinario che rischia di diventare “straordinario per la sua precarietà”. Chi governa questo Paese si rimbocchi le maniche e imposti un piano di controllo, revisione e manutenzione di tutte le infrastrutture esistenti: soldi spesi molto bene anche se non se ne vedrà l’esito, perché serviranno a evitare le catastrofi e gli elenchi di morti e feriti.

Una seconda riflessione critica riguarda i tempi record di realizzazione del nuovo ponte di Genova. C’è di che rimanere stupiti e ammirati. E allora, perché tante lungaggini e ritardi nella realizzazione di altre strutture forse anche meno impegnative? È tutta questione di fari puntati? Ci si doveva in qualche modo far perdonare una enorme disgrazia? Si doveva dare dimostrazione della capacità di ripresa del nostro sistema? Tutti motivi plausibili, ma non mi sento soddisfatto da queste ipotetiche risposte.

Si dice sempre che quando gli italiani si impegnano veramente non li batte nessuno. E allora, cari italiani, vediamo di impegnarci sempre, non solo sulla spinta degli occhi puntati di mezzo mondo. La creatività e la fantasia non ci mancano, l’intelligenza, la professionalità e la laboriosità non ci fanno difetto. Cosa ci manca? Il senso dello Stato e lo spirito di servizio. Lo Stato lo vediamo come un lontano nemico da esorcizzare e combattere. La solidarietà è vissuta come medaglia da appuntarsi sul petto, ma non come stile di comportamento abituale.

Non siamo capaci di aiutare la politica a farsi carico dei veri nostri problemi e la politica non è purtroppo in grado di sollecitarci e spronarci all’impegno. La chiave di collegamento fra queste due necessità dovrebbe essere la democrazia. È nato prima il bisogno di socialità o la scarsità della politica? L’uovo del qualunquismo o la gallina del malgoverno? La laboriosità che costruisce i ponti o il menefreghismo che li fa crollare? Tutti i ponti, non solo quelli stradali.   I cittadini hanno la classe politica che meritano o è la politica che fa i cittadini?

“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa famosa frase, associata dai più a Massimo D’Azeglio, sta a significare che per quanto l’Italia geograficamente e politicamente nel 1861 risultasse unita, in essa regneranno sempre culture, tradizioni e lingue (dialetti) diversi tra loro. “Fatta la democrazia, bisogna fare i democratici”: una parafrasi della frase di cui sopra, che dovrebbe significare come la democrazia venga soprattutto dopo il voto e prima che crollino i ponti. Non è quindi questione di uovo o di gallina, ma di – mi si perdoni la brutta similitudine – pollaio democratico. La nostra politica è molto simile ad un pollaio, peccato però che sia un pollaio assai poco democratico.

 

L’Italia degli ossimori

Palazzo Chigi, attraverso l’Avvocatura dello Stato, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar del Lazio, che aveva accolto l’istanza della Fondazione Einaudi per ottenere l’accesso agli atti del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile in base ai quali sono stati adottati i dpcm per far fronte all’emergenza covid 19. I giudici amministrativi hanno sospeso in via cautelare l’effetto della sentenza del Tar.

La Lega non perde l’occasione per attaccare il governo sulla secretazione degli atti del Comitato tecnico scientifico: Il gruppo del Carroccio al Senato ha scritto alla presidente Elisabetta Casellati perché metta in campo “tutte le iniziative istituzionali necessarie per permettere ai parlamentari di accedere agli atti, ai pareri e a ogni documento del comitato scientifico della Protezione Civile e utilizzati dal presidente Giuseppe Conte per emanare i dpcm”.

Il governo è contrario alla desecretazione. L’avvocatura parla di “danno concreto all’ordine pubblico e la sicurezza che la conoscenza dei verbali del Cts, nella presente fase dell’emergenza, comporterebbe sia in relazione alle valutazioni tecniche che agli indirizzi generali dell’organo tecnico”. Nella memoria si richiama poi, a titolo esemplificativo, “quanto avvenuto nel recente passato nel corso dell’emergenza epidemiologica in atto, in riferimento all’allarme sociale ingenerato dall’allora paventata chiusura delle scuole e previsione di limiti ai trasferimenti nel territorio nazionale ed alle problematiche, in alcuni casi anche di ordine pubblico, verificatesi nell’imminenza della decisione di creare una “zona rossa” in alcune regioni del nord Italia, a seguito della diffusione di notizie in ordine alle valutazioni effettuate dal Comitato Tecnico Scientifico”. Per questo secondo il governo “appare evidente che anche sotto il profilo dell’opportunità (…) sia legittimo confermare quanto meno il differimento dell’ostensione dei verbali in parola, al termine dell’emergenza in atto, vale a dire ad un momento nel quale possibili implicazioni derivanti dai medesimi verbali in parola, consentano una lettura più oggettiva rispetto all’attuale fase storica di emergenza e di allarme”. L’esecutivo quindi chiede di attendere almeno il 15 ottobre, quando scadrà la proroga dello stato di emergenza.

L’avvocatura inoltre ricorda che i Dpcm “sono atti amministrativi generali, frutto di attività ampiamente discrezionale ed espressione di scelte politiche da parte del governo che trovano la propria fonte giuridica nella delega espressamente conferita dal Legislatore all’esecutivo e rinvengono la propria ragione nell’esigenza temporanea ed urgente di contenere e superare l’emergenza epidemiologica causata dal Covid-19″. Per questo l’amministrazione ha ritenuto “che gli atti istruttori prodromici alla loro emanazione fossero sottratti ex lege all’accesso generalizzato”. Quanti spingono per rendere pubblici gli atti di cui sopra accusano il governo di “non fare sapere agli italiani quali sono le reali ragioni alla base degli innumerevoli decreti del Presidente del Consiglio”.

Staremo a vedere come finirà la diatriba giuridica. Non capisco quale possa essere lo scopo di conoscere i contenuti di questi documenti riservati se non quello di creare ulteriore confusione nel quadro delle opinioni scientifiche sulla base delle quali continuiamo a brancolare nel buio e di portare acqua al mulino dei negazionisti più o meno striscianti e ruspanti. La prudenza governativa inocula però ulteriormente nei cittadini il dubbio, peraltro già esistente, di essere stati tenuti all’oscuro della realtà. È un po’ come la questione del malato e del suo diritto a conoscere la verità sulla sua malattia: chi vuole rivelarla tutta senza pietà e cautela, chi ritiene sia meglio oscurarla e chi la vuole centellinare con estrema cautela a seconda delle prevedibili reazioni dell’interessato.

Non mi addentro pertanto nel merito della questione e mi limito a lapidarie, ironiche ed indirette riflessioni. Quando un mio simpatico zio invitava qualche persona a casa sua, tra il serio e il faceto, era solito dire: «S’at vol gnir a ca mèja, sta a ca tòvva…». In fin dei conti è l’atteggiamento paradossale che adottiamo davanti a tanti problemi. Adottiamo cioè l’etica degli ossimori, tendiamo a pensare e a comportarci in modo contraddittorio. Guglielmo Zucconi, giornalista, scrittore e parlamentare, con una stupenda battuta sosteneva simpaticamente che gli Italiani vorrebbero “i servizi segreti pubblici”. Ora siamo alle relazioni scientifiche riservate ma accessibili a tutti.

Nel nostro paese oltre i servizi segreti pubblici vorremmo i pentiti santi, i giudici perfetti e via discorrendo. Questo è un modo per lasciare le cose come stanno, salvo riprendere le lamentazioni alla prima occasione nel girone infernale del qualunquismo e della sfiducia rappresentanti il brodo di coltura ideale per tutte le minchiate politiche. Vorremmo sapere la verità fino in fondo per poi correre dietro ai mistificatori di turno. Il mondo è bello perché è vario: non c’è detto più popolare, ma non c’è nemmeno detto contro cui si scagliano maggiormente le animosità e i pregiudizi.

La volpe e il coronavirus

«Stamani mentre mi stavo rinfilando questo bello scafandro ho pensato a quanti mesi abbiamo tirato nel cesso, ho pensato a tutti quegli imbecilli che continuano a dire: “Ma il virus è finito”. Non è finito un c….o! Voi andate al mare che io mi diverto a sudare dentro sto coso di plastica». È lo sfogo pieno di rabbia – poi cancellato da Facebook – di un’infermiera dell’ospedale San Luca di Lucca, dove in questi giorni si continua a lottare contro il coronavirus. L’infermiera se la prende con chi continua a sottovalutare il rischio di una ripresa dei contagi. «Avete fatto bene – prosegue amaramente ironica nel suo post – a riaprire le discoteche, era di primaria necessità. Fate bene ad andare in giro senza mascherina, fate proprio bene! Vi meritate l’estinzione. Mi raccomando ora ricominciate con quella buffonata degli eroi».

Sono perfettamente d’accordo con questa infermiera in prima linea, disgustata dalla irresponsabilità e stupidità di troppa gente. Perché “quanno ce vo, ce vo”: la considero infatti una schietta, liberatoria e ironica invettiva contro la sistemica stupidità che accompagna la (finta) battaglia contro il coronavirus.

D’altra parte, a pensarci bene, tutto si spiega con la scala di valori che ci siamo insensatamente costruiti e che ostinatamente rispettiamo. Da giovane studente, per sostenermi economicamente e forse per accarezzare un sogno didattico mai realizzato, davo qualche lezione a ragazzini in difficoltà di apprendimento a livello scolastico. Ricordo il caso di lezioni impartite in materia di storia: eravamo, se ben rammento, ancora all’uomo primitivo e ai suoi bisogni primari. Provai a interrogare quel simpatico ragazzino chiedendogli qual era, a suo giudizio, il bisogno essenziale a cui l’uomo delle caverne doveva rispondere. Silenzio assoluto! Allora provai a dare, come si suole dire, un aiutino con i gesti, cercando di rendere l’idea della necessità di sostenersi e di avere la forza di sopravvivere. Ad un certo punto, equivocando clamorosamente i miei suggerimenti gestuali, mi arrivò una risposta apparentemente strana: lo sport! Scoppiai a ridere, chiesi scusa al mio ingenuo interlocutore, recuperai il discorso e lo portai faticosamente a ragionare seriamente. Aveva sputato cos’era per lui la cosa fondamentale, che veniva prima di ogni altra necessità: lo sport appunto.

Probabilmente oggi mi sentirei rispondere: il ballo in discoteca. Effettivamente anche gli uomini primitivi forse ballavano intorno ai pentoloni in cui facevano bollire qualche animale o addirittura qualche loro simile. Anche per loro valeva il discorso della rimozione psicologica, del divertirsi per non pensare al peggio, dell’evadere dalla triste e condizionante realtà. L’importante è andare in discoteca, è partecipare alle movide, è bulleggiare a destra e manca: vale per i giovani, ma anche per i meno giovani per i quali l’imperativo categorico ed irrinunciabile sono le vacanze. Tutto il resto viene dopo ed in subordine. Tempo fa un carissimo amico in vista dell’apertura della stagione estiva, mi diceva: «Vedrai, fra poco comincerà la solita bagarre delle vacanze: si abbandonano e si accantonano i vecchi negli ospedali o negli ospizi, si lasciano i cani e i gatti lungo le strade, ci si libera di ogni e qualsiasi fardello umano e animale per andare in vacanza…».  Oggi ci si libera persino dalla paura del covid 19, ci si convince che “sia andato tutto bene”, attualizzando finalmente quanto diceva il noto e demenziale ritornello che ci ha accompagnato durante il lockdown.

La tentazione di rimuovere gli ostacoli è sempre forte, ma diventa paradossale quando c’è in ballo la stessa esistenza. Il negazionismo non è un vezzo culturale che ritorna ciclicamente di moda, ma è una costante della nostra mentalità bacata. Nella famosa favola, la volpe vuol far credere che sia inutile fare tanti sforzi per un grappolo d’uva acerba; l’unica che probabilmente è riuscita a ingannare è solo se stessa.  La morale del racconto è che non bisogna disprezzare ciò che non si può ottenere. Noi stiamo andando oltre e rimuoviamo culturalmente non solo ciò che non possiamo ottenere (ci riteniamo onnipotenti…), ma ciò che ci dà fastidio (ci riteniamo onniscienti…).  Poi, dopo avere folleggiato, siamo costretti a tornare alla realtà e ci sgraviamo la coscienza mettendo sugli altari coloro che, per necessità e/o virtù, hanno tenuto i piedi in terra: loro ci salvano e ci salveranno.

Sono due i ritornelli di accompagnamento alla stagione del coronavirus. Il primo l’ho già indirettamente citato: “andrà tutto bene!”. Il secondo, apparentemente più profondo e culturalmente più pretenzioso, è: “niente sarà più come prima”. Osservando amaramente la realtà si può concludere che tutto è andato e sta andando malissimo e, ancor peggio, che nulla sta cambiando. Siamo sempre noi con i nostri incalliti e gravissimi limiti e difetti a prova di coronavirus. Il presidente della Repubblica, da par suo, ha fornito la morale civica nel tentativo di parare il colpo dell’insensatezza in cui stiamo precipitando: «Libertà non vuol dire diritto a far ammalare gli altri». Il monito di Sergio Mattarella peraltro è arrivato proprio nella giusta occasione, vale a dire nel corso della cerimonia del Ventaglio per il tradizionale saluto, prima delle ferie estive, con i giornalisti accreditati.

Le sistemiche gaffe della Rai

Riporto da “La repubblica” a firma di Alberto Custodero. La diretta, a volte, può giocare brutti scherzi. È il caso del servizio del Tg2 che, proprio in una diretta dal Senato a pochi secondi dalla chiusura delle votazioni sul caso Open Arms, ha annunciato “il colpo di scena”. “Salvini non andrà a processo, non è stata concessa l’autorizzazione”. La giornalista era nella sala dei Postergali, quella usata per le dirette nella quale non ci sono agenzie, non ci sono computer e non ci sono nemmeno schermi dai quali seguire i lavori in Aula. “Lo spoglio si è concluso pochi istanti fa, ha annunciato la conduttrice del Tg2, che ha ceduto la linea all’inviata in Parlamento.

La cronista posa il telefono e prende la parola. “È proprio di ora il risultato, non è passata l’autorizzazione a procedere…” è stato l’incipit del servizio della cronista di Palazzo Madama. Pare che l’errore di interpretazione del voto dell’Aula le sia stato suggerito al telefono, pochi istanti prima della diretta, dal suo caporedattore.

“Sembrava un voto scontato – prosegue lo sfortunato servizio – visto anche il sì di Iv. E invece no, ci sono stati 141 voti favorevoli ma 149 no. Quindi Salvini non andrà a processo. Questo è davvero un colpo di scena perché tutta la maggioranza era compatta per dire che non c’era interesse generale”. “Ma il centrodestra compatto ha detto no: Salvini ha fatto l’interesse generale”.

Si dice il peccato, ma non il peccatore. Sul peccato si possono dire inoltre tante cose: pressapochismo, faziosità, mancanza di professionalità, semplice gaffe? Naturalmente la clip dello sfortunato servizio è girata sui social. Lo svarione non è passato inosservato. E come avrebbe potuto non essere notato?

Per me l’occasione non è tanto quella di ridere per un clamoroso infortunio televisivo: tutti possono sbagliare e quindi non è il caso di sghignazzare né di ironizzare sotto sotto sulla indiretta beffa per Salvini. L’episodio mi ha invece risollecitato alcune domande sulla Rai, sul suo personale, sui suoi bilanci.

Quanta gente ha il microfono in mano senza sapere l’importanza e la delicatezza del compito che le viene affidato… Quanta e troppa gente fa informazione in modo superficiale al limite del banale, parziale se non addirittura fazioso… Quanta e troppa gente si occupa di cronaca e attualità politica senza avere la preparazione culturale adeguata… Quante risorse sprecate in inutili duplicazioni e ripetizioni… Quante cose non vanno in Rai… Ben vengano le gaffe se servono a migliorare il servizio pubblico radio-televisivo.

Il televisore, seppure in ritardo, entrò in casa mia, senza invadenza, accolto con simpatia ma senza fanatismo: uno strumento e non un fine. A volte mio padre, proprio per segnare marcatamente il distacco con cui seguiva i programmi TV, si alzava di soppiatto dalla poltrona e quatto, quatto se ne andava. Mia madre allora gli chiedeva: “Vät a lét?”. Mio padre con aria assonnata rispondeva quasi polemicamente: “No vagh a lét”. Era un modo per ricordare la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice appunto all’altro: “Vät a lét?”; l’altro risponde: ”No vagh a lét” E l’altro ribatte: “Ah,  a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

Il dialogo tra mio padre e la televisione non era come quello tra due sordi: sapeva godere anche della TV ma con una certa parsimonia (la usava spesso come sonnifero che provocava solenni russate, sistematicamente negate all’evidenza), forse intravedeva per tempo il pericolo che l’immagine assorbita acriticamente porta con sé, forse prevedeva la debordante saga informativa. Per non parlare di intrattenimento salottiero e di sport chiacchierato. Non se ne può più!

 

Chi non muore si rivede: Massimiliano Cencelli

Ho seguito, seppur distrattamente e con scarso interesse e molto fastidio, la vicenda del rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari, che, a quanto pare, ha scatenato un putiferio polemico di “cencelliana” memoria.

L’articolo 72 della Costituzione italiana stabilisce che le commissioni parlamentari siano composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi politici. Le 14 commissioni di Camera e Senato quindi sono una fotocopia in piccolo degli equilibri dell’aula. In esse risiede Il cuore del processo legislativo: è in questi organi che si svolge la maggior parte del lavoro sugli emendamenti, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni. La nomina delle presidenze di tali organi non è quindi di secondaria importanza.

Manuale Cencelli è un’espressione giornalistica con cui si allude all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso elettorale. L’espressione viene spesso usata in senso ironico o dispregiativo, per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di meritocrazia. Il modo di dire trae origine dal cognome di Massimiliano Cencelli, un funzionario della Democrazia Cristiana, che si esercitò nell’arte di trovare difficili equilibri tra le correnti democristiane.

Da una parte quindi il peso politico dell’appuntamento di cui sopra, dall’altra il rischio di svilirlo a livello di mero mercanteggiamento fra partiti e correnti. Mi sembra sia successo un po’ così. Non me ne scandalizzo, ma mi permetto di non esserne entusiasta.  Probabilmente su questa vicenda si sono scatenati i latenti contrasti fra le diverse componenti della maggioranza parlamentare e di governo.

Purtroppo non è stato decisivo il criterio di scelta della competenza, si è preferito ripiegare sulla mera appartenenza: mai come in questo momento storico occorrerebbe prestare la massima attenzione alla preparazione ed all’esperienza dei candidati a svolgere un ruolo politico. Si tratta di qualità che scarseggiano nell’attuale classe politica, se poi di esse addirittura ce ne freghiamo e premiamo gli equilibrismi partitici e le rappresentanze in senso fideistico, la frittata è fatta.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’éra un stuppid, ancòrra méj…». A quel punto chiesi: «E tu papa, ce l’avevi quella tessera lì?». «Ah no po’!» mi rispose seccamente.

Forse la nostra giovane e debole democrazia non ha perso questo brutto vizio? Nella mia esperienza politica ho spesso assistito ad episodi di mera e clientelare spartizione di potere a scapito della competenza con danni incalcolabili a carico delle istituzioni e dell’intera società. Non so come sia finita la questione delle presidenze delle commissioni per la maggioranza parlamentare: una dimostrazione di debolezza. Per l’opposizione l’infantile e strumentale soddisfazione di scompigliare i giochi. Per il Parlamento l’ulteriore indebolimento della sua importante e fondamentale funzione. Per la politica un regalo ai qualunquisti sempre in agguato. Per la società un messaggio di sfiducia in un momento in cui ci sarebbe bisogno di iniezioni di fiducia. Per tutti un altro episodio da dimenticare

Alla domenica sera mio padre chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”. Purtroppo è così anche per chi tiene in qualche considerazione la politica.

 

 

 

 

Negare è comodo, criticare è serio

Nel settore accademico della storiografia, il revisionismo è il riesame critico di fatti storici sulla base di nuove evidenze o di una diversa interpretazione delle informazioni esistenti, considerando tutte le parti politiche e sociali in causa come testimoni importanti. L’uso negativo del termine revisionismo si riferisce invece alla manipolazione della storia per scopi politici. Inoltre occorre non confondere il revisionismo a tutti gli effetti con la pseudostoria, il revisionismo politico, il negazionismo e le teorie del complotto.

Con queste correnti di pensiero bisogna andarci molto cauti. Il negazionismo è infatti un termine con cui viene indicata polemicamente una forma estrema di revisionismo storico, la quale, mossa da intenti di carattere ideologico o politico, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia moderna ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza o la storicità.

Sembra pertanto poco appropriato e molto esagerato usare il termine negazionismo per esprimere un certo scetticismo su come è stata individuata, analizzata, vissuta e combattuta la pandemia da covid 19. Tutto è relativo anche il coronavirus – Pirandello docet – e non è sbagliato del tutto interrogarsi sulla realtà come ci viene descritta e somministrata: la scienza non era e non è univoca su questo fenomeno, i media hanno inscenato una indegna gazzarra, la politica ha brancolato nel buio, la gente era ed è frastornata e sballottata tra la disperazione psicologica e sociale e l’evasione totale.

Nella sala della biblioteca del Senato si è tenuto un convegno, organizzato dal critico e senatore Vittorio Sgarbi e dall’esponente del Carroccio, Armando Siri, con la partecipazione di medici, scienziati, esperti e ricercatori “negazionisti” per testimoniare e convincere cittadini e governo che in Italia il coronavirus non esiste più. Non esiste più o non è mai esistito? Il vero negazionismo sarebbe il secondo, mentre il primo sarebbe soltanto un’opinione sull’evoluzione della pandemia.

Tra i vari interventi, alcuni dei quali fortemente esibizionistici al limite del pagliaccesco, altri spudoratamente strumentali dal punto di vista politico, ho scelto il più neutrale e in buona fede. “Ho accolto questo invito ma sono lontano dalla politica”. Ha esordito così il tenore Andrea Bocelli, invitato al suddetto convegno. “Quando siamo entrati in pieno lockdown ho anche cercato di immedesimarmi in chi doveva prendere decisioni così delicate. Poi ho cercato di analizzare la realtà e ho visto che le cose non erano così come ci venivano raccontate”, ha ammesso. “Io conosco un sacco di gente, ma non ho mai conosciuto nessuno che fosse andato in terapia intensiva, quindi perché questa gravità? C’è stato un momento in cui mi sono sentito umiliato e offeso per la privazione della libertà di uscire di casa senza aver commesso un crimine e devo confessare pubblicamente di aver disobbedito a questo divieto che non mi sembrava giusto e salutare”», confessa Bocelli. Per lanciare poi un appello sul ritorno dei bambini a scuola: “Bisogna riaprire le scuole e riprendere i libri. Spero – ha concluso il celebre tenore – che tutti insieme usciremo da questa situazione terribile”.

Purtroppo, a differenza di Bocelli, ho conosciuto alcune persone decedute a causa del coronavirus, ho toccato con mano il dramma dei loro famigliari. Ho cercato anch’io di analizzare la realtà e mi sono ribellato alle stucchevoli diatribe fra scienziati e alla valanga di notizie da cui ero sommerso. Ho cercato anch’io di immedesimarmi in chi doveva prendere decisioni delicatissime e le ho, seppure criticamente, accettate e rispettate. Ho notato anch’io una certa qual esagerazione rigorista a cui malauguratamente ha fatto riscontro una scriteriata vena trasgressiva. Sono anch’io convinto che occorra riaprire le scuole e tornare a studiare coi metodi tradizionali. Non per questo intendo iscrivermi al movimento negazionista. Non so se e come ce la faremo ad uscire dalla tremenda situazione che continuiamo a vivere. Se essere negazionisti vuol dire non rassegnarsi ed appiattirsi su di essa, sono d’accordo. Se invece vuol dire far finta di niente, passare un colpo di spugna su tutto e ricominciare come se niente fosse, mi iscrivo immediatamente al partito degli “accettazionisti”.

Ecco la grande vera emergenza

Giuseppe Conte a Palazzo Madama ha chiarito che durante il Consiglio dei ministri è emersa la necessità di allungare lo stato di emergenza sino a ottobre.  «La proroga – ha spiegato Conte nell’aula del Senato – è una facoltà espressamente prevista dalla legge e attivabile ogni qual volta, anche a distanza di tempo dell’evento, si rende necessaria. Questa esigenza si verifica quasi sempre. Lo dimostrano diversi precedenti». Del resto, argomenta il capo del governo, lo stato di proroga si rende necessario per contrastare la pandemia «che non si è risolta. C’è una imprevedibile evoluzione, e la pandemia non ha esaurito i suoi effetti. Se decidessimo diversamente cesserebbero di avere effetto le ordinanze», osserva il presidente del Consiglio ricordando che sono state adottate 38 ordinanze in questi mesi. «Pur in assenza», quindi, spiega il presidente del Consiglio, «del vincolo normativo» ritengo doveroso condividere «con il Parlamento la decisione della proroga dello stato di emergenza».

Il senato ha approvato la proroga con la netta contrarietà dell’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia. Secondo loro il provvedimento è inutile, sostanzialmente illegittimo e forzatamente volto a dare pieni poteri al premier.  Salvini ha citato al riguardo l’autorevole opinione del costituzionalista Sabino Cassese, il quale è critico sulla proroga dello stato di emergenza: “Abbiamo reagito bene all’emergenza anche se tutte le norme sono state impostate, secondo me, in maniera sbagliata. La società è stata migliore del proprio governo”. Se viene prorogato lo stato di emergenza si adotta “un provvedimento sia illegittimo che inopportuno”. “Si dichiara lo stato di emergenza ma la domanda è: siamo in uno stato di emergenza in questo momento? Inoltre – aggiunge Cassese – viene data la spiegazione che bisogna comprare i banchi monoposto per le scuole e le mascherine. Lo stato è in condizioni tali che ha bisogno di dichiarare lo stato di emergenza per acquistare banchi e mascherine?”

Che la situazione emergenziale dal punto di vista sanitario non sia superata è innegabile e purtroppo lo dimostrano i dati dell’andamento della pandemia nel nostro Paese, ma soprattutto nel mondo. Non sono giuridicamente attrezzato per valutare la legittimità della proroga e per analizzare il cortocircuito costituzionale e legislativo, anche se forse non è il momento di sottilizzare più di tanto. Faccio fatica a capire se si stiano facendo questioni di lana caprina o se il problema abbia effettiva pregnanza. Mi pare che la domanda sia: il governo ci sta marciando? Intende affrontare i problemi con mano pesante e accentratrice? Sta esagerando e intende coprire con l’eccesso di potere la scarsità di capacità di incidenza sulla realtà? Probabilmente ci sarebbe materia più che sufficiente per impostare una tesi di laurea in diritto costituzionale e/o amministrativo.

Sull’opportunità di prorogare per qualche mese lo stato di emergenza è difficile fare una valutazione: se da una parte si rischia di prolungare l’ansia della gente (peraltro inspiegabilmente molto più preoccupata di fare le vacanze), dall’altra si punta a mantenere alta l’attenzione generale su una situazione ancora molto difficile e preoccupante. Certamente il governo non sta brillando per chiarezza di linea e per efficacia di azione, ma bisogna ammettere che la situazione è talmente complessa da non sapere da che parte prenderla. All’enormità dei problemi dovrebbe corrispondere un’eccellente qualità nella classe politica e di governo.

Fin dall’inizio della pandemia ho fatto un parallelo tra il secondo dopoguerra e il dopocovid 19. Molte le analogie nella drammaticità dei problemi del Paese, troppe diversità nel livello qualitativo dei governanti. Ci sarebbe bisogno di un Alcide De Gasperi e di un Palmiro Togliatti, mentre ci troviamo alle prese con un Giuseppe Conte e un Matteo Salvini. Gli Usa, anziché sostenere un secondo piano Marshall, ci possono dare solo una mano ad andare nel fosso: confidare nel riscatto di Biden rispetto al disastro di Trump, è “la sperànsa di malvestìi ca faga un bón invèron”, anche se è vero che “putost che niént è mej putost”. L’Europa, che dovrebbe essere la bella novità rispetto agli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, non è in grado di farsi carico della situazione e preferisce limitarsi a fare di conto. Vedo solo due personaggi che potrebbero guidare adeguatamente l’Unione Europea: Angela Merkel e Mario Draghi, entrambi ormai fuori dai giochi salvo miracolosi recuperi. La vera emergenza è questa! Non c’è decreto che la possa risolvere, non c’è dibattito che la possa affrontare!

 

Le ragioni del cuore

Quando ho letto che Marco Cappato e Mina Welby rischiavano la galera, sono andato in ansia. Nell’aula della Corte d’Assise di Massa Carrara, il pm Marco Mandi aveva chiesto infatti per loro una condanna a 3 anni e 4 mesi. Ma l’aveva fatto, codice alla mano, pronunciando queste parole: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare».

Ho tirato un sospiro di sollievo quando è uscita la sentenza: «Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale. Ma il gesto compiuto da Mina Welby e Marco Cappato, che il 13 luglio 2017 accompagnarono Davide Trentini, 53 anni, malato di Sla, a morire in una clinica Svizzera, è stato ritenuto degno di assoluzione. Così come era già successo per Dj Fabo, è arrivata un’altra sentenza storica.

Su questa sentenza incide il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2019, che così ha stabilito: «Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Cappato fa notare che la sentenza di ieri rafforza questo principio: «Davide Trentini non aveva sostegni vitali, cioè macchine. Ma probabilmente i giudici hanno interpretato in senso più ampio l’idea di sostegno vitale includendovi, come dicevamo noi, anche terapie farmacologiche e pratiche manuali necessarie alla sopravvivenza». Resta inevasa l’indicazione della Consulta: «In attesa di un indispensabile intervento del legislatore…».

Nell’ultimo atto di Bohème, la famosa e stupenda opera di Giacomo Puccini, di fronte all’agonia dell’amica Mimì, il filosofo Colline decide di vendere la sua vecchia zimarra per ricavare un po’ di denaro con cui affrontare l’emergenza e consiglia a Schaunard di fare anche lui un atto di pietà: accennando a Rodolfo chino su Mimì addormentata, gli suggerisce di allontanarsi con umana discrezione per lasciarli soli. Schaunard, musicista, si alza in piedi e commosso si rivolge a Colline: «Filosofo ragioni! È ver! … Vo via!». In quella soffitta tacciono i rigori dell’arte per fare spazio alle delicatezze del cuore.

Meno male che i giudici della Corte d’Assise di Massa Carrara hanno ragionato più col cuore che col codice penale. Ora bisognerebbe che altrettanta disponibilità a ragionare di cuore la dimostrassero i legislatori e gli uomini di Chiesa. I primi devono sforzarsi di trovare una regolamentazione ragionevole relativamente ai casi di suicidio assistito, evitando di confondere questo discorso con quello dell’eutanasia vera e propria (discorso diverso, che tuttavia non va sbrigativamente esorcizzato): non si può continuare a relegare questi drammi umani nel dimenticatoio per delegarli a pochi, coraggiosi e ammirevoli kamikaze dell’etica.

I secondi, mi riferisco alle gerarchie cattoliche, devono uscire dalla tortura del dogmatismo, optando evangelicamente per l’umana pietà, per la carità che non può e non deve imporre sofferenze assurde a nessuno in nome di astratte regole religiose. Il discorso è delicato, ma proprio per questo deve essere affrontato col cuore e non col catechismo.

 

Il casinista Fontana ispira tenerezza

Se non ho capito male, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, durante il periodo dell’emergenza Covid, avrebbe assegnato con una certa leggerezza una fornitura di camici e set sanitari ad un’azienda di proprietà del cognato. Una volta accortosi dell’errore avrebbe suggerito al cognato di trasformare la fornitura effettuata in una donazione. Poi, accortosi di avere danneggiato significativamente il cognato, ha tentato di ristorarlo dal danno facendogli un bonifico, che però non è andato a buon fine, in quanto, come scrive il Corriere della sera, la milanese «Unione fiduciaria» lo ha bloccato  “perché la somma, l’assenza di una coerente causale, le parti correlate, la qualifica «pep» del cliente (persona esposta politicamente), e la provvista da un conto svizzero dove nel 2015 Fontana dopo la morte della madre aveva «scudato» 5,3 milioni detenuti dal 2005 da «trust» alle Bahamas, erano tutti indici fatti apposta per far «suonare» i protocolli antiriciclaggio della fiduciaria e indurla a inviare una «Sos-segnalazione di operazione sospetta» a Banca d’Italia. Quella che – come ha spiegato il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli – ha messo in moto l’inchiesta dei pm Furno-Scalas-Filippini.

Andando al sodo, mi sembra che il governatore Fontana abbia combinato un gran casino, ma non abbia rubato un bel niente e che quindi si stia facendo un gran polverone intorno al nulla. Addirittura lo stanno accusando di aver danneggiato la regione Lombardia, perché la fornitura in questione si sarebbe trasformata in donazione, con esclusione di 25.000 camici residui che non sarebbero stati forniti.

Dal punto di vista generale mi sembra che sia troppo difficile non avere conflitti di interesse al punto che, paradossalmente, sarebbe opportuno non accettare incarichi pubblici per non incorrere in rischi quasi inevitabili (a meno che non si abbia famiglia, non si sia mai svolta alcuna professione, non si abbia alcun patrimonio e si abbia una laurea in diritto amministrativo con tanto di master sul conflitto di interessi). Nel ginepraio della pubblica amministrazione ci si muove con molte difficoltà: da una parte si chiede immediatezza e snellezza nelle procedure, dall’altra si passa al microscopio il comportamento senza badare alle situazioni emergenziali in cui viene adottato. Non mi sento quindi di buttare la croce addosso a Fontana. Non mi interessa la sua collocazione politica: userei lo stesso atteggiamento anche con amministratori di opposta tendenza.  Oltre tutto, sposando un criterio piuttosto popolaresco, peraltro usato anche da Indro Montanelli, non ha la faccia del disonesto, ma della brava persona. Certo ha fatto un errore e per rimediare all’errore ha commesso altri errori: alla fine ne esce legalmente male, politicamente malissimo ed eticamente maluccio.

A mio avviso i giudici, a cui non voglio togliere il sacrosanto mestiere, stanno esagerando: c’è tanto marcio da cui ripulire il Paese, senza bisogno di vederlo a tutti i costi o di trasformare le pagliuzze in travi. La lotta politica è diventata cannibalesca e l’avversario viene attaccato e distrutto a prescindere. La Lega si strappa le vesti e grida al complotto, senza pensare che la prima gallina che canta ha fatto l’uovo. I politici stanno dimostrando di non avere competenza, esperienza, rigore e credibilità e quindi, in buona sostanza, non sono capaci di governare e amministrare. I media, lasciamo perdere…

 

Berlusconi bifronte

Come ben sintetizza Alessandro Trocino sul Corriere della sera, il problema sembra essere ora lo strumento per gestire i fondi europei: task force ministeriale o commissione bicamerale. Finito il rapido brindisi per il successo nella trattativa europea sul Recovery Fund, comincia una trattativa complicata per la gestione dei 209 miliardi di euro in arrivo dall’Europa, mentre resta sempre inesplosa, ma innescata, la miccia dei 36 miliardi del Mes, il fondo salva Stati che il Pd chiede di usare per le spese sanitarie e il M5S continua a ritenere non necessario e pericoloso. Tanto che al Parlamento europeo Lega, M5S e FdI hanno votato un emendamento che chiedeva di escludere il ricorso al Mes come strumento anti-crisi, bocciato anche grazie ai voti di Pd, Forza Italia e Italia Viva.

Sui miliardi che arriveranno con il Recovery l’idea di Palazzo Chigi era una cabina di regia formata da ministri e funzionari ministeriali, presieduta dal premier. Poi si è pensato di allargare ad altri ministri e tecnici. Ma diversi partiti temono un ulteriore accentramento di poteri a Palazzo Chigi, dopo l’epoca dei dpcm firmati dal solo premier. Renzi ha invitato Conte a portare il dibattito in Parlamento ad agosto. FI propone, con una mozione al Senato, una commissione bicamerale, ma anche nel Pd si spinge per una parlamentarizzazione della gestione dei fondi.

Mi sembra giusto e opportuno che, data l’importanza strategica e gestionale dell’utilizzo dei fondi europei, la primaria responsabilità venga affidata ad uno strumento di emanazione parlamentare. Devo quindi dare atto a Silvio Berlusconi ed a quanto rimane del suo partito di stare giocando benino, finalmente con senso delle istituzioni e spirito collaborativo, la grossa partita politica inerente al “gruzzolo” di provenienza europea. Mi è venuto però spontaneo, a livello di gossip, osservare come il lupo berlusconiano stia perdendo i vizi politici e mantenga invece quelli “sessuali”.

Quando si seppe che Berlusconi aveva una relazione stabile con Francesca Pascale, me ne rallegrai, sperando che gli servisse a rinsavire umanamente, abbandonando il vezzo di collezionare amanti più o meno occasionali e più o meno sincere. Non avevo e non ho alcun particolare interesse per le avventure erotiche del cavaliere, ma il vedere un uomo di una certa età in balia delle pulsioni libidinose fino al punto da cadere nel baratro della prostituzione di lusso mi suscitava pena e non certo invidia. Purtroppo “l’avventura pascaliana” è scaduta e finita nel solito squallido rituale delle buone uscite. Appena quattro mesi fa un comunicato di Forza Italia confermava la fine della relazione tra Silvio Berlusconi (84 anni a settembre) e Francesca Pascale: «Continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente e la signora, ma non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia».

Non capisco il perché simili notizie debbano essere politicizzate al punto da formare oggetto di comunicati di un partito politico: la vedo come la riprova della paradossale personalizzazione di Forza Italia, costretta ad occuparsi persino delle battaglie di letto del suo storico leader, ma soprattutto come la conferma dell’assurdo intreccio tra politica e sesso portato avanti dal cavaliere, salvo poi pretendere discrezione e neutralità dai giudici.

La politica non è una partita umana a se stante, ma è mescolata con le vicende delle persone che la incarnano: tutto però dovrebbe avere un limite. Mi auguro che l’attempato personaggio non voglia tornare in sella esibendo nuove fidanzate, di cui abbiamo effettivamente fatto il pieno. Torno alla domanda da cui sono partito: come mai il lupo berlusconiano sta perdendo i vizi politici e rischia invece di mantenere quelli “sessuali”? La risposta consiste nel protagonismo a tutti i costi: per essere protagonista in politica gli è necessario fare la parte del moderato, assennato ed europeista uomo di centro, mentre per mantenere intatta l’immagine di macho ha bisogno di tenere in bella vista il letto a due piazze. Mentre prima mischiava con un certo successo machismo sessuale e leaderismo politico, ultimamente ha ripiegato su una sorta di Berlusconi bifronte: mentre Giano con una faccia guardava il passato e con l’altra il futuro, il cavaliere, con tante macchie e con tanta sfrontatezza, da una parte guarda alla politica peraltro mescolata ai suoi affari imprenditoriali e dall’altra alle donne, meglio dire spudoratamente al ciarpame femminile. Un po’ di garbato gossip, seppure politicamente condito e insaporito, ogni tanto me lo posso concedere? Me lo sono concesso!