Geppetto in discoteca

Ma che razza di società abbiamo costruito? Il problema fondamentale all’ordine del giorno è costituito dalle discoteche, dove i giovani scommettono sulla loro e altrui vita. Quali mascherine, quale distanziamento? Tutti in pista a ballare, a fare casino, a far finta di divertirsi. Ci sarebbero tutti i presupposti per chiudere questi potenziali focolai di covid, ma guai a chi tocca le discoteche.

Sono anziano e non posso pretendere una società a misura di anziano. Mi rendo perfettamente conto che i giovani hanno le loro esigenze (?), che le vacanze sono diventate un rito irrinunciabile, che i rapporti interpersonali si giocano anche e soprattutto nelle movide, le quali hanno ben poco da spartire col movimento sociale ed artistico diffuso in Spagna dalla fine degli anni settanta con la caduta della dittatura franchista. Il termine movida ha infatti via via perso tale connotazione culturale e socio-artistica ed è stato, ed è tuttora, utilizzato per indicare l’animazione, il “divertimento” e la vita notturni.

Sono stato giovane anch’io, mi piacevano lo svago e il divertimento, ma non ho mai vissuto per divertirmi e non ho mai pensato al divertimento come la base irrinunciabile della mia esistenza. Il problema quindi non è il rapporto tra divertimento e lotta al coronavirus, ma il ruolo e il posto che il divertimento può avere nella vita. Di conseguenza lo stretto nodo socio-economico consiste nel fatto di avere costruito una società che sta in bilico sul filo del rasoio dei consumi di evasione. Sembrano quindi fuori dal mondo le opinioni che riporto di seguito, anche se hanno di per sé motivazioni razionali e in parte condivisibili: è inutile però partire dalla fine facendo finta che la società sia diversa, interpretando il ruolo di grilli parlanti, di pedagoghi fallimentari, di politici del giorno dopo.

“Se i numeri non cambiano sarà inevitabile; la prossima settimana si cercherà di condividere una scelta rigorosa con tutte le regioni”. Così il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia in un colloquio con La Stampa incentrato su una nuova possibile stretta sui locali della movida, discoteche (che – dice – non si sarebbero dovute riaprire) e stabilimenti balneari.  “Si è avuta molta più attenzione ad aprire le discoteche a giugno che ad altro. Questa per noi è una scelta non accettabile. Non abbiamo nulla contro le discoteche, ma se hai chiesto a un Paese di stare chiuso in casa, se hai chiuso le aziende, speso miliardi e miliardi per pagare la cassa integrazione alle persone per non lavorare, poi non puoi per pura propaganda, per rispondere a qualche lobby che ti sta vicina, riaprire le discoteche e infischiartene delle ricadute che avrà questa scelta”. Lo ha detto la ministra Teresa Bellanova a Lecce, presentando la lista di Italia Viva a sostegno del candidato presidente della Regione Puglia, Ivan Scalfarotto.

In Emilia-Romagna per evitare un rialzo dei contagi di Sars-Cov2, una nuova ordinanza firmata dal presidente Stefano Bonaccini prevede di dimezzare la capienza per gli ingressi alle discoteche (sarà ridotta del 50%) e stabilisce l’obbligo di indossare sempre la mascherina. Disposta anche la eventuale chiusura immediata del locale non appena accertate le infrazioni. Il provvedimento è in vigore dalle 13 di Ferragosto e vale per quelle all’aperto ora in esercizio in regione. Quelle al chiuso infatti non hanno mai riaperto dopo il lockdown. La stessa cosa in Veneto.

Ai grilli parlanti rispondono i “Lucignolo” di turno con i loro sacrosanti Paesi dei balocchi: i gestori delle discoteche. “Ancora una volta si colpisce un settore che viene identificato come un luogo in cui tutti mali della società convivono. Adesso ci è stato affibbiato il ruolo degli untori, ci è stato affibbiato anche quello. Prima drogavamo i ragazzi, li ubriacavamo, adesso li contagiamo nonostante non ci sia un solo caso di ragazzo o ragazza che si sia contagiato nei nostri locali”. Così il presidente del Silb-Sindacato Italiano Locali da Ballo Emilia-Romagna, Gianni Indino, commenta l’ordinanza con cui la Regione prevede di dimezzare la capienza per gli ingressi in discoteca e stabilisce l’obbligo di indossare sempre la mascherina. “Non siamo il capro espiatorio per niente e per nessuno. C’è qualcuno che ci porta come fossimo uno scalpo e ci dà in pasto all’opinione pubblica”.

In mezzo i “Pinocchio” moderni che tendono però a rimanere burattini vita natural durante e i “Geppetto”, come me, che non si rendono conto di avere contribuito a “burattinizzare” le persone e la società. Ci vorrebbe proprio una fata dai capelli turchini, invece è arrivato mangiafuoco.

 

 

La minestra bossiana e la finestra salviniana

È veramente cosa cattiva e ingiusta delineare il quadro politico italiano tenendo conto delle strategie (?) di Matteo Salvini: mi sento quasi umiliato, ma è perfettamente inutile e dannoso negare l’evidenza, salendo su una sorta di Aventino più culturale che politico. In Italia bisogna fare i conti con Salvini! E proviamo a farli.

In questo momento fortunatamente sembra che i conti non quadrino: i consensi sono in calo, i processi incombono, il sorpasso della Meloni è dietro l’angolo, i contrasti interni sono crescenti, le tattiche si aggrovigliano. L’ultima uscita di Salvini sembra effettivamente poco azzeccata: sta regalando le tessere del vecchio partito “Lega Nord Padania” o meglio sta tentando di scambiarle con quelle del suo nuovo partito “Lega Salvini”. Nel 2018 infatti è nata la “Lega per Salvini premier” e a fine 2019 è partito il doppio tesseramento, senonché quella che doveva essere una sorta di riserva a cui attingere per dare l’idea di una certa continuità di linea politica si sta rivelando una spina nel fianco di Salvini da parte dei nordisti irriducibili che vorrebbero scompigliare i giochi usando il vecchio logo alle elezioni amministrative a Mantova e nei comuni emiliani. E allora è partito un tentativo di svuotare la scatola impolverata trasferendone il contenuto in un’altra pronta all’uso.

Il capofila dei nordisti, Gianni Fava, attualmente defilato, prende le distanze in modo piuttosto netto e si fa portavoce del sospetto che Salvini vogli utilizzare la Lega Nord come semplice deposito per poi trasferire nome e simbolo al suo nuovo partito Lega per Salvini. Di fronte a queste menate quelle della cosiddetta prima repubblica impallidiscono. Può darsi finisca tutto in tribunale a suon di carte bollate. Al di là di questa guerricciola fratricida ci sta però un vero e proprio contrasto a livello di linea politica. Dice Fava in una intervista rilasciata a le Repubblica: «Se competi con Meloni sullo stesso campo, la gente preferisce la destra populista originale, non la tua imitazione. Detto questo, quelli sono voti che noi leghisti del Nord non avremmo mai voluto. Eravamo e restiamo post ideologici, aperti, democratici, di certo antifascisti. L’appiattimento sulla destra europea populista è errore gravissimo che Salvini pagherà».

La Lega ha due punti di forza: il forte radicamento territoriale e una dignitosa classe dirigente impegnata a livello amministrativo. Sembra che questi legami si stiano allentando se non addirittura strappando. La base del Nord, come detto, è in subbuglio e i vari Zaia, Giorgetti e c. non perdono occasione per prendere le distanze da Salvini, che imperterrito continua la sua solitaria guerra mediatica. Lo slogan, ai tempi di Umberto Bossi, era: padroni a casa nostra. I leghisti duri e puri sono rimasti lì ed a loro non interessa fingere di spadroneggiare a Roma e Bruxelles con alleanze spurie e castranti.

C’è però un elettorato leghista allargato al quale è difficile prendere le misure: va dal no agli immigrati, che, tutto sommato gira e rigira, resta l’opzione di fondo, all’euroscetticismo di stampo populista, dall’ordine e sicurezza intesi in senso meramente protezionista all’opposizione di maniera ai poteri forti. La gente che ha in testa questa scala di (dis)valori cosa aspetterà ad aprire gli occhi? Le nostalgie nordiste filobossiane  non hanno una grande presa sul nuovo elettorato salviniano. Ci vorrà tempo per svegliarsi. Il centro-sinistra non sembra in grado di riassorbire l’emorragia, il centro destra praticamente non esiste. Al momento   accontentiamoci del buon senso (?) nordista: è quanto passa il convento. Siamo messi proprio male.

Un sindaco ai Raggi x

Scrivo questo commento al buio, vale a dire senza conoscere l’esito della burlesca consultazione referendaria grillina sulla ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma. Un tempo quando si voleva lasciare le cose come stavano si faceva una commissione, oggi i pentastellati, quando sono in difficoltà e non sanno che pesci pigliare, promuovono un referendum sulla piattaforma Rousseau dall’esito (quasi) scontato, dando l’impressione di essere democratici e lasciare decidere (?) ai loro sostenitori.

Anche solo per provare a giudicare l’operato di un sindaco bisognerebbe vivere per molto tempo nella città da esso amministrata. Personalmente ho bazzicato Roma molti anni fa con escursioni mordi e fuggi dovute a impegni di carattere professionale: ne ho sempre tratto l’impressione che nella nostra capitale anche il più piccolo dei problemi rischi di diventare insormontabile. Da allora in Campidoglio si sono succeduti diversi personaggi espressione di cangianti coalizioni politiche:  senza voler fare ingiustamente d’ogni erba un fascio, i romani, in un certo senso, le hanno provate tutte con risultati a volte discutibili, talora  insoddisfacenti, spesso addirittura sconfortanti. Stando ai dati emergenti dai monitoraggi mediatici, la città vive in un’emergenza continua ed articolata, dai rifiuti ai trasporti, alla viabilità.

Quando le cose vanno male, sembrerebbe relativamente facile decidere per il cambiamento: peggio di così, si dice, non potrà andare. Invece Roma dimostra che non c’è alcun limite al peggio, sembra che la politica si sia accanita contro la capitale promuovendola a “vituperio delle genti”. Il problema che però sta a monte del giudicare gli amministratori pubblici dovrebbe consistere nell’individuare se ed in quale misura le cause del male siano remote o recenti. Gli ultimi anni, quelli della sindacatura raggiana, hanno migliorato o peggiorato la situazione proveniente dalle amministrazioni precedenti? A questo problema se ne aggiunge un altro: Virginia Raggi ha avuto il tempo sufficiente per almeno avviare un processo di cambiamento, lasciando magari intendere di avere delle idee bisognose però di un certo lasso di tempo per ottenere qualche benefico effetto?

Ai suddetti interrogativi dovrà rispondere l’elettorato romano, e prima ancora, la base degli iscritti pentastellati chiamata frettolosamente a pronunciarsi. Mi sembra che il discorso possa così ridursi ai minimi termini: Virginia Raggi merita una prova d’appello o deve fare le valige e togliere il disturbo? La politica ormai, a tutti i livelli, ci propina personaggi inadeguati al ruolo, che dovrebbero ricoprire, per impreparazione, inesperienza, incapacità, inettitudine. Più il compito è arduo più l’inadeguatezza diventa dannosa e clamorosa. Fare il sindaco di una grande città come Roma è un’impresa estremamente difficile: nessuno ha la bacchetta magica, ma qualche qualità dovrebbe pur credibilmente presentarla.

Temo che l’esperienza dell’amministrazione Raggi, per come si è formata, per come si è concretizzata e per come si è logorata, non dia sufficienti garanzie. L’interessata se ne dovrebbe rendere conto, ma purtroppo, con i tempi che corrono, nessuno osa farsi da parte: non lascia, ma vuole raddoppiare. Chi ha o può trovare qualcosa di meglio si dia da fare: vale per i grillini, vale per tutti. Nessuno si può presentare esibendo un passato virgineo; i pentastellati ci hanno provato ma non ci sono riusciti.

La città di Parma con l’allora grillino Federico Pizzarotti tentò di giocare la carta del nuovismo a tutti i costi, che, strada facendo, si è trasformata – rendendosi vieppiù autonoma rispetto “all’ideologia pentastellata” – nel continuismo a basso costo, vale a dire in un’ordinaria amministrazione di tipo condominiale,  che punta a mettere un po’ d’ordine nei conti, a sistemare qualcosa, ma soprattutto a non fare ulteriori buchi ed errori. Parma ha segnato l’inizio del pretenzioso grillismo governante e, seppure a livello periferico, ne ha comportato la fine. La Raggi non ha avuto la freddezza e la serietà di sottoporsi ad un simile bagno di umiltà e rischia quindi di essere la coda in cui sta il veleno del fallimento dei cinque stelle. La Raggi si ripropone goffamente come una sorta di amministratore di sostegno per una città in cui la politica non è in grado di svolgere la sua funzione: troppo tardi per una simile auto-retrocessione, troppo presto per rinunciare alla sfida politica di alto livello. Meglio la Raggi di un salto nel buio? Proverei prima a dissipare le tenebre accendendo una piccola fiamma. Lo dico non per dare un dispiacere ai grillini, non per fare un assist al partito democratico, non per sfidare la destra a misurarsi nel concreto, ma per il bene dei Romani, di Roma e dell’Italia.

Capitalismo, la luna, il coronavirus e tu

La gara per la conquista dello spazio rappresentò “l’aspetto sportivo” della guerra fredda tra l’Urss e gli Usa: la prima tappa fu vinta dall’Unione Sovietica col lancio del primo uomo,  Jurij Gagarin, che portò a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 a bordo della Vostok 1 ed ebbe una carriera politica tale da incarnare l’estrema politicizzazione della navigazione nello spazio .

In seguito a questo storico volo, che segnò una pietra miliare nella corsa allo spazio, Gagarin divenne infatti una celebrità internazionale e ricevette numerosi riconoscimenti e medaglie, tra cui quella di Eroe dell’Unione Sovietica, la più alta onorificenza del suo paese. La missione sulla Vostok 1 fu il suo unico volo spaziale, anche se in seguito venne nominato come cosmonauta di riserva nella missione Sojuz 1, conclusasi in tragedia al momento del rientro con la morte del suo amico Vladimir Komarov. Successivamente Gagarin fu vice direttore del centro per l’addestramento cosmonauti, che in seguito prese il suo nome. Nel 1962 venne eletto membro del Soviet dell’Unione e poi nel Soviet delle Nazionalità, rispettivamente la camera bassa e la camera alta del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica. Per ironia della sorte Gagarin morì nel 1968 a seguito dello schianto del MiG-15 su cui si trovava a bordo in occasione di un volo di addestramento.

La seconda tappa vide il trionfo americano con lo sbarco sulla luna. Apollo 11 fu la missione spaziale che portò i primi uomini sulla Luna, gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il 20 luglio 1969. La prima passeggiata lunare fu trasmessa in diretta televisiva per un pubblico mondiale. Nel mettere il primo piede sulla superficie della Luna Armstrong commentò l’evento come “un piccolo passo per [un] uomo, un grande balzo per l’umanità”. Apollo 11 concluse la corsa allo spazio intrapresa dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica nello scenario più ampio della guerra fredda, realizzando l’obiettivo nazionale che il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy aveva definito il 25 maggio 1961 in occasione di un discorso davanti al Congresso degli Stati Uniti: “prima che finisca questo decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra”.

Questa stratosferica gara fu in gran parte fine a se stessa e venne infatti seguita dalle tifoserie nazionali e internazionali al di là di quelle che potevano essere le conseguenze socio-economiche per il progresso mondiale. La guerra fredda è finita (?) o meglio ha preso altre pieghe, altre dimensioni e altri protagonisti anche se il discorso ritorna continuamente d’attualità assumendo, con la fine delle ideologie, sempre più spudoratamente connotazioni meramente economiche. La corsa al vaccino anti-covid ha scatenato immediatamente gli appetiti delle grandi potenze e dei loro inqualificabili leader.

Moderna, un’azienda statunitense di biotecnologie, ha annunciato che il governo degli Stati Uniti si è assicurato una fornitura per 100 milioni di dosi di mRNA-1273 (vaccino anti-Covid) per una cifra pari a 1,5 miliardi di dollari. È inoltre prevista l’opzione per gli Stati Uniti di acquistare ulteriori 400 milioni di dosi. “Apprezziamo la fiducia del governo americano nella nostra piattaforma di vaccini mRNA e il costante supporto”, ha affermato Stéphane Bancel, amministratore delegato di Moderna. “Stiamo portando avanti lo sviluppo clinico di mRNA-1273, con lo studio di Fase 3 in corso condotto in collaborazione con NIAID e BARDA. Parallelamente, stiamo aumentando la nostra capacità di produzione con i nostri partner strategici, Lonza, Catalent e Rovi, per affrontare questa emergenza sanitaria globale con un vaccino sicuro ed efficace”.

Gli Usa battono e la Russia risponde. “Stamattina per la prima volta al mondo è stato registrato un vaccino contro la nuova infezione da coronavirus”. Il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato così il via libera del ministero della Sanità al primo farmaco contro il Covid, che a sua figlia è già stato somministrato. Si chiamerà Sputnik V per analogia con il lancio del primo satellite artificiale terrestre nel 1957. “Lo Sputnik-1 – si legge sul sito dedicato al vaccino – ha intensificato la ricerca spaziale in tutto il mondo. Il nuovo vaccino russo contro il Covid-19 ha creato un ‘momento Sputnik’ per la comunità mondiale. Dunque il vaccino è stato chiamato Sputnik V”. Sviluppato dall’Istituto Gamaleya di Mosca, ha iniziato la fase 3 dei test clinici – che normalmente dura mesi e coinvolgono migliaia di persone – soltanto la scorsa settimana, motivo per cui suscita molto scetticismo all’interno della comunità scientifica, perplessa dalla volontà di Mosca di volerlo registrare prima della fine della sperimentazione.

A questi signori non interessa niente della vita di milioni di persone, interessa il business miliardario della commercializzazione del vaccino. C’è da tremare perché la scienza si dovrà piegare ai tempi ed ai modi di questa corsa affaristica planetaria con i conseguenti dubbi sull’efficacia e sulla innocuità del vaccino e perché la sua somministrazione avverrà probabilmente secondo criteri aberranti.

Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo invitante e, almeno per me, inquietante: “Il capitalismo ha i secoli contati”.  La descrizione del libro è così sintetizzata: “Alcuni sostengono che il capitalismo avrebbe imboccato una strada di autodistruzione di cui si può prevedere il necessario percorso e la sua inevitabile fine. Per Giorgio Ruffolo non è vero. Non c’era niente, nel passato del capitalismo, che fosse necessario e inevitabile. E non c’è niente di simile nel suo futuro. Perché le origini del capitalismo possono essere rintracciate ben prima della nostra epoca, prima dell’emersione del volto potente e inquietante dell’impresa contemporanea. Perché già l’antichità dell’Occidente, tra Grecia e Roma, conteneva in sé i segni di quella attrazione verso il denaro e verso la produzione di valore che costituisce l’essenza della produzione e dello scambio capitalistico. Il passato del capitalismo gode quindi una durata straordinariamente lunga, e questo spinge Ruffolo a guardare al futuro nella certezza che il capitalismo non avrà vita troppo breve. Perché esso ha dentro di sé la capacità di adattarsi ai tempi più diversi, l’elasticità necessaria a catturare l’immaginazione degli uomini di qualsiasi epoca, gli strumenti indispensabili per continuare a essere lo scenario economico del futuro”.

Molti si rallegreranno, ormai pochi si schiferanno, tutto il mondo è capitalistico, la gara a chi lo è di più è aperta e sicuramente il covid 19 è l’occasione che fa il capitalismo ancora più ingiusto e vorace. E pensare che si continua a dire che “col coronavirus niente sarà più come prima”. C’era una importante canzone degli anni cinquanta del secolo scorso intitolata “Come prima più di prima”: la possiamo intonare ad amaro commento degli sviluppi capitalistici nella lotta al coronavirus.

 

 

Le pentole del post-comunismo

Riporto di seguito quanto scrive Giuseppe Agliastro, corrispondente de La Stampa. “Sono state elezioni all’insegna della paura e della più turpe repressione politica le presidenziali che si sono concluse ieri in Bielorussia. In questi mesi, gli oppositori sono stati sbattuti in galera, scherniti, costretti a fuggire o a nascondersi. Ma questo non ha fermato le proteste contro il regime di Aleksandr Lukashenko e nella tarda serata di ieri – dopo che le autorità hanno annunciato la vittoria schiacciante dell’«ultimo dittatore d’Europa» – si sono registrati scontri e nuovi arresti in diverse città del Paese, tra cui la capitale Minsk, blindata con polizia, esercito e mezzi militari.

I media danno notizia di alcuni feriti e dell’uso di granate stordenti e lacrimogeni da parte degli agenti e il timore è che il governo ricorra a un uso sproporzionato della forza contro i dimostranti che da mesi scendono in piazza a decine di migliaia sfidando colui che stringe in pugno il Paese da oltre un quarto di secolo. La candidata di spicco dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, ha chiesto di evitare in ogni modo la violenza, ma ha anche messo in discussione i controversi risultati elettorali. «Credo ai miei occhi e vedo che la maggioranza è con noi».

La popolarità di Lukashenko è in caduta libera, gli exit poll governativi indicano però il satrapo bielorusso come il vincitore delle elezioni con l’80% dei voti, la solita maggioranza bulgara a suo favore. Molto distante Tikhanovskaya, data al 6,8%. Ma è dal 1995 che l’Osce boccia le elezioni in Bielorussia perché non rispettano gli standard democratici. Incalzato dalle proteste, Lukashenko ha fatto arrestare gli oppositori più scomodi e li ha accusati di essere in combutta coi 33 presunti mercenari russi arrestati a Minsk con l’accusa di voler destabilizzare il Paese. «Lukashenko ha chiarito di voler mantenere il potere a ogni costo», ha spiegato alla Reuters il politologo Aleksandr Klaskovsky. «La domanda è a che prezzo».

C’è poco da fare, la democrazia non si conquista dall’oggi al domani: è caduto il muro di Berlino, si è sfaldato l’impero sovietico, alcuni Paesi dell’est-europeo hanno aderito all’Ue, la storia ha camminato, ma la democrazia è stata rinviata a data da destinarsi, perché ha bisogno di maturare nelle coscienze delle persone prima e più che negli assetti istituzionali.

Aveva ragione Gorbaciov quando teorizzava un percorso progressivo di cambiamento e ristrutturazione; avevano ragione gli amici di Ceausescu quando definivano un semplice colpo di stato la caduta del regime rumeno; ha ragione chi sostiene che è stato troppo rapido e sbrigativo il percorso europeo di alcuni stati post-comunisti dell’Est.

Scoperchiare le pentole senza abbassare il livello del gas ottiene solo il risultato di avere una tracimazione devastante: è successo nella ex Iugloslavia, è successo in Russia e Paesi collegati, succede in Polonia e Ungheria. Le macerie del comunismo non sono state rimosse ma riciclate e dalla padella in parecchi casi si è finiti nella brace. Il caso della Bielorussia è emblematico. A noi non rimane che fare il tifo per gli oppositori a questi regimi: hanno davanti una vita molto difficile, una strada in salita. D’altra parte è sempre stato così: in democrazia non ci si va in carrozza. I regimi autoritari trovano il modo di sopravvivere con le mance generalizzate di regime: meglio un piatto di minestra garantito che un cenone promesso.

Tempo fa mi raccontava un amico di avere ascoltato gli sfoghi di un ex carcerato: li traduco in italiano, anche se in dialetto avevano ben altra forza espressiva. “In galera, tutto sommato, non si sta male, nessuno ti rompe le scatole, si mangia a sbaffo, si guarda la televisione…”. È tutta questione di sensibilità e di mentalità. Non è un caso se molti finiscono col ritornare in carcere. Il carcere educa al carcere. La dittatura educa alla dittatura. Deve intervenire una “cruenta” rottura di schemi, altrimenti anche le migliori intenzioni dei pochi finiscono nel dimenticatoio dei molti. È pur vero che sono le minoranze che fanno la storia, ma non sempre sono minoranze positive e costruttive.

In questi giorni ho rivisto la stupenda inchiesta di Sergio Zavoli “Nascita di una dittatura”. Quanti errori da parte dei partiti democratici, quante divisioni tra i socialisti, quante titubanze nei popolari, quante miopie sul nascente fascismo. Ci vollero anni di battaglie, ci volle una resistenza di popolo, ci volle una nuova classe dirigente purificata nel sangue per avviare una democrazia. E il percorso è ancora in atto. Il discorso vale anche per la Bielorussia e per i Paesi di quella collocazione geo-politica. Cosa possiamo fare noi? In gioventù scendevo in piazza assieme a tanta gente. Oggi le uniche piazze riempite in modo ficcante sono state quelle delle “sardine”. Ma parliamoci chiaro: chi si preoccupa dello strapotere di Lukascenko? Sbagliamo a fregarcene, perché l’autoritarismo è una brutta pandemia, che si combatte solo con il vaccino democratico in costante e continua sperimentazione.

Una piccola grande presa per…i fondelli

Un giorno un mio conoscente piuttosto intelligente e attento alle cose della politica mi chiese provocatoriamente: “Secondo te è più qualunquista l’uomo della strada che si scandalizza delle porcherie dei politici o il politico che fa le porcherie?”. Non mi iscrivo al partito dei qualunquisti, che oggi si fa chiamare partito dell’antipolitica, ma se la politica si desse una regolatina non sarebbe male.

Cinque parlamentari, nonostante usufruissero dell’indennità da deputati, hanno chiesto e ottenuto il bonus per le partite iva previsto dalle misure anti covid 19, in quanto evidentemente svolgono a tempo perso un’attività di lavoro autonomo. Non è questione di quantum: non saranno certo questi pochi soldi a mettere in crisi le casse dello Stato. È questione di dignità e onestà di fronte ai cittadini, oltre tutto in un momento drammatico: una vera e propria presa in giro per i tanti soggetti che stanno soffrendo le conseguenze della pandemia, un perfetto assist a chi vuole screditare le istituzioni con badilate di fango.

Un Parlamento, dove succedono queste cose e purtroppo anche di peggio, può essere tranquillamente ribattezzato “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Mi chiedo se un rappresentante del popolo possa scendere a questi livelli. Non mi interessa il partito di provenienza. Questi signori dovrebbero avere il buongusto di rimettere il loro mandato e tornarsene alle loro partite iva. Non voglio assolutamente generalizzare: sono sicuro che in Parlamento siedano fior di galantuomini, ma proprio per questo le mele marce vanno rapidamente eliminate. Oltre tutto si tratta di una furbata veramente meschina: compromettere la propria dignità e quella del Parlamento per una simile sciocchezza. Gente che probabilmente non sapeva fare il proprio mestiere, che non sa cosa voglia dire essere un deputato, che, diciamolo pure, non sa nemmeno rubare e si fa miseramente scoprire con le dita nella marmellata. Che pena!

Qualcuno troverà in questo episodio un motivo ulteriore per ridurre il numero dei parlamentari, per abbassarne la retribuzione, per ridurre all’osso la rappresentanza e la partecipazione democratica vista brutalmente solo come un male necessario. Non sono per niente d’accordo, anche se mi chiedo chi abbia mandato in Parlamento questi bambini scemi a divertirsi assai poco innocuamente.

Mio padre raccontava un fatterello, che non ho mai capito se fosse un aneddoto di sua invenzione o un episodio veramente accaduto: a un arbitro, che stava svolgendo il suo compito in modo vergognoso, si avvicinò un giocatore e gli chiese: “Scusi lei è venuto qui di sua esclusiva iniziativa o è stato inviato qui dall’autorità federale competente?”. Una offesa elegante ma pazzesca, che costò una squalifica pesantissima al calciatore in vena di provocazione. Verrebbe spontaneo indirizzare una domanda simile ai deputati di cui sopra: qualcuno li avrà pur candidati e votati…Il discorso a questo punto si farebbe molto complesso e lo lascio immaginare.

Mi limito a ricordare un altro episodio, quello di un funzionario pubblico così incapace e confusionario da meritare una reprimenda, da parte del suo superiore, al massimo dell’umiliazione possibile: “Lei d’ora in poi non faccia niente, legga, pensi ai fatti suoi e, se proprio non sa come trascorrere il tempo in ufficio, dorma”. Non ho idea di quale provvedimento disciplinare siano passibili i furbetti del bonus, ma, se fossi il presidente della Camera dei deputati, appurata inequivocabilmente la realtà dei fatti, non mi accontenterei di scuse, di restituzioni del maltolto, di spiegazioni impossibili, insisterei per le dimissioni. Per il loro bene, ma anche per il nostro. Questa volta mi esprimo da intransigente giustizialista: sì, perché, scusatemi, ma mi sento preso per il … .

Troppi stregoni a caccia delle streghe

Credo di essere stato facile profeta nel prevedere, nei giorni scorsi, che la desecretazione dei verbali del comitato tecnico scientifico sull’emergenza covid 19 non avrebbe fornito utili elementi, ma avrebbe creato solo ulteriore confusione, sollevando il solito polverone di polemiche strumentali. Da questi verbali appare che il comitato aveva consigliato in data 03 marzo di istituire una ulteriore zona rossa nei comuni lombardi di Alzano e Nembro, parere disatteso dal Governo nel senso che si preferì dopo tre giorni imporre il lockdown in tutta la Lombardia, per poi estendere la chiusura il 09 marzo a tutta l’Italia in contrasto con il suddetto Comitato che consigliava chiusure articolate e diversificate per regione.

Pur non essendo un ammiratore ante litteram di Giuseppe Conte e del suo strano e zoppicante governo, mi sforzo di essere obiettivo e di valutare, come mi ha insegnato mio padre, i pro e i contro. Innanzitutto bisogna riportare indietro il calendario a quei drammatici giorni in cui era oltre modo difficile capire la situazione e decidere il da farsi. Del senno di poi son piene le fosse e probabilmente lo stesso Conte, se potesse tornare indietro, eviterebbe certi errori commessi.

In secondo luogo gli organismi scientifici non erano e non sono depositari di assolute verità: lo hanno dimostrato ampiamente snocciolando contraddizioni in un tira e molla spesso poco dignitoso e molto clamoroso.  Se, da una parte, Conte si rimette al pensiero forte degli scienziati, lo si accusa di debolezza, di appiattimento e di declinamento delle proprie responsabilità; se, dall’altra parte, decide in parziale dissenso con i pareri fornitigli, lo si accusa di assurda muscolarità, di fastidiosa presunzione e di petulante preoccupazione mediatica.

In terzo luogo bisogna chiedersi come avrebbe reagito la pubblica opinione davanti a immediati drastici provvedimenti, allorquando non esisteva nella gente e forse nemmeno nelle forze politiche e nelle cosiddette forze intermedie una seria consapevolezza della gravità della situazione e c’era ancora chi sosteneva che si trattasse di una mera, seppur grave, influenza. Non dimentichiamoci infatti che un certo qual negazionismo, anche a livello scientifico, c’era e c’è tuttora. Chi governa deve valutare anche l’impatto psicologico, sociale ed economico dei provvedimenti in via di emanazione.

In quarto luogo mi pare che il comportamento del governo sia, tutto sommato, riconducibile ad una, per certi versi coerente seppure discutibile, scelta di fondo: nei limiti del possibile adottare misure di carattere generale per semplificare e armonizzare le regole, agevolarne il rispetto e ottenerne il massimo effetto. È meglio entrare a gamba tesa rischiando di far male ai cittadini, creando ulteriore panico, oppure è meglio non fare falli ed aspettare un attimo, rischiando di compromettere l’esito della partita? Non ho una risposta.  È pur vero che il medico pietoso fa la piaga puzzolente, ma è altrettanto vero che il medico precipitoso può sbagliare diagnosi e terapia. Capisco l’ansia di ottenere giustizia da parte dei famigliari delle vittime, ma non si può cercare a tutti i costi un capro espiatorio su cui scaricare le colpe. Il discorso vale a tutti i livelli e in tutti i sensi.

Quanto a coerenza e linearità nei comportamenti, chi è senza peccato scagli la prima pietra: tutti abbiamo brancolato e stiamo ancora brancolando nel buio, scienziati compresi. Al buio è molto difficile scegliere e magari nel giro di qualche giorno la situazione cambia, mutano gli umori, e le decisioni adottate, pur in buona fede, si rivelano sbagliate, mentre quelle riconducibili alla demagogia hanno il vantaggio (?) di essere per loro natura volubili e camaleontiche.

In conclusione, si poteva governare meglio l’emergenza pandemica? Certamente sì. Però stiamo attenti ad evitare metodi sbrigativi ed illusori. La caccia alle streghe è storicamente la ricerca di persone (quasi sempre donne definite streghe) o di prove di stregoneria, spesso legate a superstizione o isteria di massa. Metaforicamente con questa espressione si intende un’indagine pubblica condotta per scoprire supposti e gravi errori. Non ripetiamo tragici errori del passato anche recente: non aggiungiamo al danno enorme della malattia la beffa infinita della ricerca dei colpevoli ad ogni costo.

 

 

La pillola va giù, ma i drammi tornano su

“L’aborto farmacologico è sicuro. Va fatto in day hospital, nelle strutture pubbliche e private convenzionate, e le donne possono tornare a casa mezz’ora dopo aver assunto il medicinale”. La novità è nelle nuove linee d’indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza che verranno emanate dal ministero della Salute. Pagine elaborate dopo che il ministro Roberto Speranza ha ricevuto il parere del Consiglio superiore di sanità. Non è più necessaria la spedalizzazione che comprometteva l’impostazione e la finalità sdrammatizzante dell’aborto farmacologico.

Stiamo pur sempre parlando di pannicelli caldi per l’aborto, un problema delicatissimo, che però va affrontato senza riserve mentali ed ipocrisie frenanti o enfatizzanti. Non accetto l’atteggiamento di chi si attesta sull’ultima spiaggia del rendere ripida la salita verso l’interruzione di gravidanza, ma non accetto nemmeno che l’aborto possa essere una bandiera da sventolare nella battaglia sui diritti della donna. Parliamo comunque sempre di una scelta minimalista da non ideologizzare né a favore né contro.

L’aborto non è un diritto in assoluto, è un diritto di ripiego, è la presa d’atto di una sconfitta individuale e collettiva. Sono d’accordo che sia meglio un’amara sconfitta di una vittoria imposta, ma non c’è niente di cui gioire e rallegrarsi. Le battaglie etiche e sociali andrebbero fatte prima: è inutile intestardirsi a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati così come è goliardico festeggiare la chiusura della stalla vuota.

Non mi sento di colpevolizzare la donna che decide di interrompere la sua gravidanza: è una decisione che rispetto, ma mi chiedo se un po’ tutti (dal suo partner alle strutture socio-assistenziali, da chi può rimuovere i condizionamenti economici a chi può educare ad una maternità responsabile, etc. etc..) abbiano aiutato la donna a prendere questa decisione in modo consapevole e costruttivo e se tutti cerchino di aiutarla prima e dopo la decisione. Sì, perché anche il dopo-aborto è pur sempre un dramma che la donna vive spesso in assoluta solitudine umana, psicologica, etica e religiosa.

Riprendo quanto scrissi in passato sull’argomento: una sofferta ma doverosa ripetizione. Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi, all’entrata, in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione?

Diceva don Andrea Gallo (cito a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Provocatori interrogativi rimasti nella mia immaginazione. È comodo scendere in piazza ad inneggiare al diritto di abortire, è comodo pregare per o addirittura contro…, è facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria e…chi ha il problema si arrangi…, è facile obiettare lasciando la patata bollente in mani altrui, è illusorio pensare di risolvere i problemi a valle mentre a monte si creano i presupposti del dramma umano, è inutile e pericoloso aggrapparsi al proibizionismo per nascondere le magagne di una società permissiva, è altrettanto inutile pensare di far quadrare i conti della persona e della società con un permissivismo spinto fino alle estreme conseguenze. Tra proibizionismo e permissivismo c’è l’area dell’interventismo positivo a tutti i livelli e in tutti i sensi.

Di fronte a questo problema vado in crisi di coscienza e mi interrogo prima di sputare sentenze. L’aborto è certamente una scelta drammatica. Mi oppongo strenuamente alla vomitevole, bigotta e spietata colpevolizzazione della donna che, certamente in modo sofferto, decida in tal senso e non accetto per nessun motivo di accusarla, né sul piano civile, né sul piano etico, né a livello religioso. Lei, sì, farà i conti con la sua coscienza e chissà quanta sofferenza ne ricaverà. Semmai bisognerebbe sforzarsi di essere più vicini alla donna in procinto di assumere decisioni così delicate e anche dopo che le abbia assunte. Persino la Chiesa, a livello istituzionale, sta assumendo qualche seppur tardivo e insufficiente   atteggiamento di comprensione. Abbandoniamo quindi ogni velleità e rispettiamo la coscienza di tutti, anche quella dello Stato laico.

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Ilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Cappucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…». Con tutto il rispetto per l’allora papa credo che pregare sia importante, ma non basti.

 

I farisei alla riscossa

La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ‘creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle. “Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ‘A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale – riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede – è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità”. Ma l'”io”, che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: “segno-presenza dell’azione stessa di Cristo”. “Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione”, spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito “Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?”, la risposta del Vaticano è: “affermativamente”. “Negativamente” è la risposta che si dà al quesito principale: “È valido il Battesimo conferito con la formula: ‘Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?”.

In pratica i battesimi con la formula ‘noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica – secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano – potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ‘ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che “Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti”. Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: “Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato”.

Da uomo della strada, la prima reazione stupita a questa notizia, che ho riportato integralmente così come pubblicata dall’Ansa, è stata: in Vaticano hanno del tempo da perdere. Con tutti i problemi che ha il mondo e la Chiesa possibile che ci si perda in queste disquisizioni? Altro che beghe di frati!

La seconda reazione, da cattolico praticante, dopo un primo senso di incredulità, è una semplice domanda: pensiamo veramente che la potenza salvifica di Dio si lasci condizionare dalle parole di una formula, che non è magica, ma espressione di una volontà sostanziale? Se non è puro fariseismo questo? Consiglio a tutti di rileggere i brani evangelici in cui si narrano i formalismi (sciocchi e/o dettati dall’ansia di difendere il potere) dei farisei e la reazione stizzita, quasi violenta, di Gesù di fronte a tali atteggiamenti: la questione battesimale di cui sopra si inquadra perfettamente in questo contesto di assurda e colpevole superficialità.

La terza reazione di sconforto mi porta a ricordare il mio battesimo. Sono stato battezzato in casa di mio zio sacerdote, gravemente ammalato: il sacramento non fu amministrato da lui, materialmente impossibilitato a farlo, ma dal parroco territorialmente competente, in un clima di sofferta partecipazione. Lo zio, da cui ho indegnamente ereditato il nome e che considero il mio santo protettore, mi poté solo dare un bacio di benedizione in quanto la zia suora ebbe la sensibilità di renderlo possibile. Pochi giorni dopo il mio battesimo lo zio Ennio finiva il suo calvario, terminava le sofferenze accettate, o meglio offerte, in un cammino di autentica santità. Ebbene, mi è sempre stato detto che la celebrazione casalinga del rito era stata autorizzata: sarà vero? Dove sarà questa autorizzazione curiale? Stai a vedere che il mio battesimo non era valido…L’eccezione fatta per il mio caso infatti è forse ben più trasgressiva della piccola modifica “noi ti battezziamo”. Probabilmente il mio spirito critico nei confronti della Chiesa nasce proprio dal mio battesimo celebrato in ambiente assai poco canonico.

La quarta reazione ironica riguarda un amico sacerdote alle prese da sempre con qualche problema di balbuzie, superato intelligentemente e brillantemente cambiando le parole su cui è più facile incagliarsi. Si comporta così anche nella celebrazione eucaristica. Vuoi vedere che anche quelle messe sono a rischio Congregazione della fede? A volte registravo che qualcuno si stupiva di questi cambiamenti: non capiva il motivo per cui erano fatti, si scandalizzava un po’ perché non aveva la furbizia di comprendere la situazione. No, forse era un inviato speciale della Congregazione delle fede. Attento caro don … a non farti scomunicare e d’ora in poi rassegnati a sottoporti fino in fondo alla tortura della balbuzie!

Quinta e ultima reazione, forse la più cattiva: papa Francesco, che consente giustamente alle mamme di allattare al seno i battezzandi nella Cappella Sistina, possibile che si lasci invischiare in queste beghe pseudo-liturgiche? Non vorrei che uscisse una nota vaticana in cui l’allattamento in Cappella si considera possibile solo per le madri con seno a misura “small”. Se l’eccezione del “noi ti battezziamo” serve a rendere l’idea di una maggiore partecipazione al rito battesimale, a dare un respiro più comunitario al sacramento, dovremmo essere in pieno solco conciliare. E allora? Caro papa Francesco stai attento alle trappole, perché ho la netta impressione che in Vaticano ci sia gente che si diverte a metterti in difficoltà. Mandali tutti, per favore, a dar via i piedi.

 

 

 

 

Il dio della televisione

Non mi piace unirmi al coro celebrativo alla morte delle persone: il rischio di fare un manierato epitaffio è sempre dietro l’angolo della comoda e stucchevole memoria elogiativa. “Fäls cmé ‘na lapida” si dice in dialetto parmigiano. Mi sento però quasi in dovere di fare un’eccezione per Sergio Zavoli, tentando scrupolosamente di evitare il rischio.

I media, come al solito, sono saltati addosso all’evento (che non vuol dire seguirlo e farlo seguire): stanno involontariamente tradendo la sua preziosa eredità giornalistica e televisiva. Quanta nostalgia per Sergio Zavoli, il quale durante l’alluvione di Firenze aprì la finestra e fece vedere e sentire l’acqua dell’Arno che scorreva per le vie del centro: l’approccio disincantato ma rispettoso ai fatti per valutarne umanamente la portata.

Il mio indimenticabile insegnante di italiano lo definiva “il dio della televisione”: in effetti fu l’inventore del giornalismo televisivo, riuscendo a coniugare la proposizione dell’immagine con il diritto di cronaca, aggiungendo all’obiettività dell’immagine l’eco del resoconto giornalistico in un mix coinvolgente e stimolante.

Davanti al giornalismo televisivo, così sbracato e così vuoto, spesso mi chiedo: ma dov’è il cuore? E, senza cuore, pensiamo di essere liberi di pensare, giudicare, decidere. Riteniamo di essere intelligenti. Un tempo si diceva, dal punto di vista fisico, che il cuore era il padrone di casa. Oggi si preferisce affermarlo del cervello. Se pensiamo alla miglior vita materiale, è giusto. Ma se badiamo all’esistenza totale dobbiamo tornare al cuore, non al muscolo che sovrintende alla circolazione del sangue, ma alla sede della coscienza in cui siamo interpellati da Dio e dagli uomini. Non avevo mai pensato che si potesse vedere col cuore! Invece Zavoli era capace di vedere e raccontare col cuore buttandolo oltre l’ostacolo dell’obiettività e della razionalità.

I suoi colleghi di oggi, anziché tesserne gli elogi, sarebbe meglio che si facessero un bell’esame di coscienza, che ripassassero la lezione e imparassero finalmente che è inutile raccontare le immagini, ma bisogna andare oltre per esprimere il loro impatto e commentare il loro messaggio. In questo senso è molto più facile fare giornalismo sulla carta stampata o alla radio dove il protagonista è il cronista: in televisione protagonista è l’immagine e il cronista deve essere capace di lasciarla lavorare in pace e di coglierne l’effetto vitale, usandola come un grimaldello per sviscerare la realtà che vi sta dietro.

I giornalisti televisivi sono preoccupati di non essere spiazzati dall’immagine e allora tendono a metterla in secondo piano rispetto al loro logorroico commento: no, non ci siamo e Sergio Zavoli lo ha dimostrato sul campo. Penso di fare cosa a lui gradita ricordandolo come giornalista più che come dirigente Rai e come politico. Era capace di aprire la finestra sui fatti per coglierne l’essenza, come fece appunto in occasione dell’alluvione di Firenze. E Dio sa quante alluvioni ci siano e quante finestre si dovrebbero aprire. E lui infatti era il dio della televisione.