L’Occidente amico del giaguaro

Garry Kasparov è stato campione del mondo di scacchi, è un attivista politico e oppositore di Putin che attualmente vive in esilio in Croazia. Ha espresso desolati giudizi sul recente attentato contro Aleksej Navalnyj, oppositore e combattente contro la corruzione in Russia: “Un messaggio chiarissimo dentro e fuori la Russia: nessuna voce contro il regime di Vladimir Putin è più tollerata: tutto ciò è anche conseguenza di un Occidente che non muove mai un dito contro i metodi “mafiosi” del Cremlino”.

L’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica si conclude con una domanda: “Cosa crede succederà adesso?”. Kasparov risponde: “La voce dell’Europa è debole e disunita e negli Stati Uniti c’è un presidente come Donald Trump che, al pari degli altri leader sovranisti, non è certo un’invenzione di Putin, ma di sicuro gioca a suo favore”.

In ordine alla grave situazione della Bielorussia sull’orlo di una guerra civile scatenatasi dopo l’esito di elezioni truccate da parte del regime di Lukashenko, Bernard-Henry Lévy scrive su La Repubblica: “L’Europa deve capire che è sola, ridotta alle sue forze e priva del sostegno di un’America repubblicana che ha rotto con l’eredità antitotalitaria del presidente Reagan. Essa deve tenere conto della terrificante frana che ha fatto sì che si passasse, anche al suo interno, dallo spirito di Jan Patocka e Bronislaw Geremek, a quello di Matteo Salvini, Viktor Orbàn, Jaroslaw Kaczinski e dei fautori della Brexit. E deve sapere che spetta a lei, tuttavia, venire in soccorso e fare in modo che questo evento si trasformi in una rivoluzione di velluto alla Vaclav Havel piuttosto che in una sanguinosa primavera in cui, come a Praga nel 1968, sarebbe affidato ai carri armati di Putin restaurare un ordine post-sovietico”.

Non so se l’Europa potrà e saprà darsi un colpo di reni democratico: la vedo assai dura. L’Unione Europea è troppo ripiegata su se stessa, è intenta a guardarsi l’ombelico, che, peraltro, non è assolutamente l’ombelico del mondo. Se non sappiamo raccogliere il grido di libertà proveniente dal di fuori, difficilmente riusciremo a solidarizzare all’interno. Rinchiudersi nei propri problemi non aiuta a risolverli, ma li esaspera e li colloca in un contesto sbagliato.

Quanto agli Usa non riesco a capire se si stia effettivamente mettendo in moto una situazione nuova in vista delle prossime elezioni presidenziali. È sempre molto difficile intuire gli sviluppi della politica americana. La “cotta trumpiana” sembrerebbe avviarsi a soluzione anche in conseguenza della disastrosa gestione dell’emergenza covid. Temo tuttavia che Trump possa avere sette vite come i gatti: disfarsi di personaggi simili è molto difficile. La candidatura di Joe Biden sembra forte, ma in realtà è debole: è forte di un compromessone fra le diverse anime democratiche e fra diversi interessi economici, ma è debole per uno Stato in cui la politica è vista come scelta radicale e leaderistica. C’è poi l’incognita di un sistema elettorale paradossale, che, dopo avere catapultato quattro anni fa il perdente alla Casa Bianca, potrebbe mantenercelo per i prossimi quattro nonostante tutto. Non vorrei che partisse nell’elettorato americano l’idea di una scelta fra il poco-sicuro e il molto-incerto, una sorta di “meglio stare nei primi danni” anche se sono enormi.

Vedere la politica e la democrazia ridotte in questo modo mi rende triste. Le idee non contano niente, persino i legittimi interessi non trovano sbocchi, tutto si gioca nel fumo mediatico peraltro tutto da riscoprire in base alle ristrettezze del covid.  Trump sta riciclando la sua minestra rancida, Biden sta cucinando una minestra tutta da scoprire. C’è poco da stare a tavola. Non mi resta che fare il tifo più contro Trump che a favore di Biden, come fanno molti tifosi in campo calcistico. Nel recinto di Biden vedo comunque una parvenza di discorso politico, mentre sul lato opposto vedo solo demagogia. Di questi tempi bisogna sapersi accontentare.

Tornando agli oppositori russi e ai contestatori bielorussi, non si illudano dell’aiuto euro-americano. Dovranno fare affidamento sulle loro forze e combattere a mani nude. Con il carissimo amico Gian Piero Rubiconi si parlava spesso di politica, non era la sua vocazione principale, ma se ne interessava e riusciva, come in tutte le cose, a trovare una sua originalità di analisi e di proposta. Era un libero pensatore: aveva idee aperte e progressiste, cosa che lo portò nel 1956 a fare a botte all’università in difesa dei moti rivoluzionari in Ungheria contro il regime comunista. Lo ricordava spesso, proprio per confermare che non era mai stato prigioniero di schemi e che aveva vissuto con la mente puntata sugli ideali di libertà. Ci sarà qualcuno in Occidente disposto a fare a botte a sostegno degli oppositori ai regimi post-sovietici di Putin e Lukashenko? E magari, perché no, contro i populisti e sovranisti amici del giaguaro?

Elezioni regionali: poca politica e molta antipolitica

Sulle elezioni regionali grava da sempre il dubbio se abbiano o meno un significato politico di rilevanza nazionale. Ogni volta che l’elettorato, a qualsiasi livello, si pronuncia, la cosa assume inevitabilmente e giustamente una portata politica, anche se limitatamente a ciò per cui si vota. Invece i riflessi amministrativi, soprattutto quelli regionali, impattano inevitabilmente sugli equilibri parlamentari e governativi.

Le elezioni regionali del 20-21 settembre, ammesso e non concesso che si possano svolgere in condizioni di sicurezza, riguardano sette regioni: Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta. Quasi nessuno, in preparazione del voto, effettua analisi serie e obiettive sui risultati ottenuti dalle giunte e dai presidenti regionali. Da una parte si parla di governi e governatori regionali enfatizzandone i pur rilevanti poteri, dall’altra si finisce col riportare il tutto in ambito nazionale per valutare l’effetto dei risultati sulla tenuta della maggioranza giallorossa, sui rapporti tra M5S e PD, sulla scalata della Lega di Matteo Salvini.

Il ruolo istituzionale delle regioni è molto importante: se ne è avuta una dimostrazione con la gestione dell’emergenza covid. Siamo purtroppo al limite della confusione fra poteri, con la situazione ulteriormente complicata dalla disomogeneità esistente fra gli indirizzi politici nazionali e locali. Ci sarebbe da mettervi mano a livello costituzionale per fare un po’ di chiarezza e di ordine, invece si preferisce picconare la Costituzione a vanvera, come sta succedendo con la drastica riduzione del numero dei parlamentari.

Le domande poste agli e dagli elettori dovrebbero essere le seguenti: come hanno amministrato gli uscenti e chi si pone in alternativa ha credibilità e capacità? Le candidature rispondono a criteri di competenza ed esperienza? Quali sono le linee programmatiche dei candidati e quale spessore evidenziano? Invece i punti in questione sembrano essere la sfida tra pentastellati e democratici, il consenso che riusciranno a raccogliere il dentista di Grillo, attrici, cantanti, nani e ballerine di varia storia e provenienza, la rivincita toscana di Salvini nella partita di ritorno dopo l’insuccesso emiliano dell’andata. Si ipotizzano già i risultati: 4 a 3, 3 a 4, etc. e per ogni esito si pensa all’effetto immediato. Come si fa per il valzer delle panchine nei campionati e nelle Coppe calcistiche.

Il M5S si è fatto dare un indirizzo dai propri iscritti: dalla piattaforma Rousseau è uscito un voto favorevole all’accordo periferico con il Pd, salvo poi preferire il ruolo di battitori liberi a costo di perdere capra e cavoli. Una presa in giro bella e buona, ma l’elettorato grillino è ormai talmente disilluso che reagisce scappando, non si capisce dove.

Il Pd, pur disposto a pagare prezzi salati sull’altare dell’alleanza giallorossa, deve fare i conti con un alleato (?) sgusciante e imprevedibile e quindi si vede costretto a combattere in solitudine e in condizione di manifesta inferiorità numerica contro il centro-destra. Se la Toscana dovesse andare a destra sarebbe veramente un bel guaio. Non so fino a che punto potrà funzionare il voto disgiunto grillino fra lista regionale pentastellata e candidato governatore di centro-sinistra.

In questi giorni sto rileggendo un libro sul pensiero e l’azione politica di Mino Martinazzoli: “Uno strano democristiano”. Il libro è del 2009, ma, per certi versi, è attualissimo. Si legge: “Possiamo dire che il sogno dell’alternanza della democrazia compiuta oggi è raggiunto, ma è certamente una cosa diversa da quella che Moro immaginava. La sua morte è una cesura su un certo tracciato. Con lui avremmo raggiunto una democrazia dell’alternanza attraverso la politica, senza di lui l’abbiamo raggiunta attraverso l’antipolitica. È, cioè, un’alternanza senza partecipazione, con l’emergere di assetti partitici che più che rappresentare si autorappresentano. Il grande problema in campo è la stanchezza democratica. Una stanchezza che Moro temeva più di ogni altra cosa. Sapeva che essa avrebbe potuto costituire il vero rischio per le istituzioni che il Paese stava ancora consolidando. Temeva lo svuotamento dei valori democratici, accantonati per far posto all’ipertrofia del privato, al ripiegamento sul sé Individuale. Avvertiva il paradosso delle democrazie mature, che stentano a suscitare impegno ed energie destinate alla politica”.

Non credo siano, da parte mia, assurde nostalgie, ma sincere, oserei dire commosse rivisitazioni della politica. L’alternanza, dopo il bagno affaristico proposto dal regime berlusconiano, si ripropone quale scelta tra un populismo strisciante ed ambivalente e un popolarismo debole e balbettante. Cosa andremo a votare il 20 e 21 settembre Dio solo lo sa: ci viene propinata una sorta di polpetta avvelenata, un mix tra un assurdo e dispettoso referendum, un voto con le porte girevoli pentastellate, un agguato destrorso. E la democrazia? Ne parleremo alla prossima occasione!

Evviva la “squola”

La storica impossibilità di riformare la scuola italiana mi ha sempre innervosito, irritato e indispettito: tutti i tentativi operati sono regolarmente andati a vuoto, anche quelli proposti da fior di ministri. I motivi, al di là delle obiettive difficoltà di mettere mano ad un mondo articolato e complesso, ci dovranno pur essere. La ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, anziché mettere il dito nelle pieghe, o per meglio dire piaghe, della sua incompetenza e inadeguatezza, ha pensato che la miglior difesa sia l’attacco ed è partita in contropiede all’assalto del sindacato: «Le scuole riapriranno dal 1° settembre nonostante sia in atto un sabotaggio da parte di chi non vuole che ripartano».

Questo l’attacco in un’intervista al quotidiano La Repubblica. Azzolina ha fatto aperto riferimento ai sindacati scuola e ad un vero e proprio loro sabotaggio per impedire la riapertura delle scuole. In particolare non vorrebbero il concorso aperto a tutti. “Ho collaborato io stessa con un sindacato della scuola fino al 2017. Non c’è dubbio però che in questo ruolo mi sia trovata di fronte a una resistenza strenua al rinnovamento”, afferma la ministra, che poi spiega la sua posizione: “Non è un mistero che i sindacati siano contrari al concorso con prova selettiva: vorrebbero stabilizzare i precari, immissione in ruolo per soli titoli». Le critiche lasciano intendere che il sindacato mantenga una storica posizione conservativa dello status quo e uno strenuo atteggiamento corporativamente volto alla difesa degli interessi dei lavoratori della scuola.

Secondo un retroscena, pubblicato sempre da Repubblica, le parole della ministra Azzolina troverebbero un antefatto in una riunione a Palazzo Chigi, durante la quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe parlato in modo esplicito di “ricatto del sindacato”. Secondo il virgolettato contenuto in un articolo del suddetto giornale, Conte avrebbe detto: «Siamo di fronte ad un ricatto inaccettabile da parte del sindacato. Ci stanno dicendo: se fate fare il concorso noi non facciamo ripartire la scuola. Immaginano una ratifica della situazione esistente: immettere in ruolo i precari ope legis. Ma i concorsi sono indispensabili, come è chiaro, a garantire trasparenza ed equità. Nel rispetto dei diritti acquisiti da ciascuno, i concorsi valutano i candidati per titoli e merito: non possiamo chiudere la porta a centinaia di migliaia di giovani proprio mentre chiediamo nuove competenze, digitalizzazione, modernità. I sindacati stanno chiedendo ai propri iscritti di mettersi in aspettativa, sollecitando l’invio in massa di diffide preventive ai dirigenti scolastici, sollevando per via burocratica questioni che bloccano di fatto la possibilità di ripartire». L’incontro si sarebbe concluso con una forte dichiarazione del premier: «I sindacati hanno svolto e svolgono un’azione fondamentale, da parte di questo governo c’è il massimo ascolto e rispetto di tutte le legittime istanze, che sono davvero tante: purché i sacrosanti diritti di chi lavora non si trasformino in rendita di posizione di chi li rappresenta. Ogni trattativa è aperta, ogni ricatto è da respingere».

Naturalmente la reazione dei sindacati non si è fatta attendere. Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha definito inaccettabili le accuse provenienti dal ministro, ha dichiarato di difendere i lavoratori senza nascondersi dietro ricorsi e diffide, ha sottolineato i ritardi nell’avvio della messa in sicurezza delle scuole e nel processo di regolarizzazione del personale precario, ha ribadito che il sindacato ha l’ambizione di rappresentare tutti, vale a dire le persone che lavorano nella scuola, i lavoratori che mandano i propri figli a scuola e gli studenti, ha concluso impegnando il sindacato verso l’interesse generale del buon funzionamento del sistema di istruzione con l’obiettivo comune che la didattica riparta in presenza e in sicurezza per tutti.

Non ho la capacità e la possibilità di entrare nel merito dello scontro in atto, registro le posizioni in campo ed esprimo gravi preoccupazioni sul futuro della scuola a breve, medio e lungo termine. Non posso però esimermi dal tornare al punto dell’incipit di questo commento. Se “ecclesia semper reformanda est” come afferma il protestantesimo in riferimento appunto alla Chiesa, si potrebbe dire che “schola numquam reformanda est”. Spero di non avere “maccheronizzato” il latino. Voglio cioè dire che la politica e il sindacato hanno entrambi storicamente delle gravi responsabilità nella gestione del sistema scolastico, basti pensare alle titubanze sul discorso del tempo pieno, che, a mio giudizio, è un punto irrinunciabile per una scuola veramente impegnata e impegnativa. Se il sindacato si è spesso e troppo nascosto dietro la mera difesa degli insegnanti, la politica però non ha scherzato e purtroppo dimostra ancora una volta la sua pochezza di visuale e di convinzione. Proprio in questi giorni ho esaltato quanto la scuola mi abbia dato in termini di conoscenza e di formazione: merito soprattutto degli insegnanti che ho avuto. Sì, perché la scuola non la fanno i ministri e i sindacati, ma gli insegnanti. E allora, mettiamoli una buona volta in condizione di lavorare molto e bene, di guadagnare il giusto, di aggiornarsi continuamente, di dialogare con gli studenti e le loro famiglie. Il sindacato non li difenda e rappresenti a prescindere dal loro valore e dal loro impegno, i governi non li trattino come pezze da piedi, gli studenti non li considerino come avversari e le famiglie come comodi bersagli per il loro scaricabarile. Che il covid ci costringa ad essere seri e ad evitare insulse e dannose polemiche: ognuno si prenda le sue storiche ed attuali responsabilità e la smetta di pensare e scrivere la scuola con la “q” del qualunquismo corporativo, della quiete conservatrice e della quaresima perpetua.

Alla Calenda italiana

“È la degenerazione totale della politica, una cosa che non ha eguali in Europa”. Questo il commento di Carlo Calenda riguardo la vicenda di Rousseau e le nozze Pd-M5S. In un’intervista alla Stampa, il leader di Azione descrive il momento politico attuale come contrapposizione fra un polo populista e uno sovranista, con i partiti delle grandi famiglie europee – Pd e Forza Italia – schiacciati nel ruolo di subalterni”. “È evidente – afferma Calenda – che un Paese con un debito immenso e un rischio chiaro per la tenuta dello Stato, potrebbe non sopravvivere a questa situazione. Dal taglio ai parlamentari al giustizialismo, dalla velleità di nazionalizzare anche il gelato alla non modifica dei decreti sulla Sicurezza sino a Quota100, che rimane, l’agenda la fanno i Cinquestelle. Il populismo grillino si sposa col massimalismo Pd. La loro saldatura non è tattica, ma sociale e politica”.

Quanto al ruolo del suo movimento, Azione, Calenda dice che “ciò che conta è il pensiero che esprimi. Azione è la casa di popolari, liberali e riformisti, le tre grandi famiglie che hanno fatto l’Europa. L’obiettivo è il buon governo che vada oltre lo scontro sterile ed ideologico su tutto, dai migranti al Mes. Estremizzare è lo schema di gioco populista e sovranista. Per nascondere l’incapacità del governo danno del fascista agli altri. In assenza di una discussione seria, si finisce per distruggere il Paese. Popolari, liberali e riformisti son la maggioranza che ci voterà”.

Zingaretti e Berlusconi, i partiti tradizionali, dice ancora Calenda, “hanno festeggiato il Recovery Fund, senza badare al fatto che avremo meno fondi Peep dalla Bce l’anno prossimo. L’Italia ha perso l’autonomia finanziaria, avrà sempre bisogno della spalla dell’Europa e della Bce. Se andassero al governo delle forze antieuropeiste, il rischio di tracollo finanziario sarebbe immediato. Come fai a disegnare un piano di investimento e crescita se sei contro tutto? Guidati da populisti e sovranisti, se ci affidiamo all’ex venditore di bibite o a quello che non frequentava il Viminale quando era ministro, sul mercato non ci andiamo ma più da soli”.

Sono tutti ragionamenti abbastanza condivisibili, ma la politica, che è pur sempre un’arte, non è tale sul piano figurativo, ma su quello interpretativo della realtà. «Se uno arrivasse da Marte penserebbe a una commedia felliniana» dice simpaticamente Carlo Calenda. È vero, ma le sue considerazioni sembrano arrivare dalla luna, tanto sono prive di sbocchi alternativi concreti. Che pranzo passa il convento? Una minestra pentastellata e un secondo piddino. Il menù di riserva, l’inciucio del patto anti-inciucio del centro-destra, comporta una minestra scaldata e speriamo che gli italiani non siano disposti a ingoiarla. Nella cucina in divenire “Italia viva” di Renzi sta con un piede dentro e uno fuori rispetto all’attuale equilibrio di governo e può rappresentare solo un piccante aperitivo. “Azione” di Calenda sembra un contorno alla ricerca del sapore: mira a scompigliare i giochi – sarebbe interessante – ma chi può fare nel centro destra la quinta colonna per un ritorno alla normalità di stampo europeo? Berlusconi? Purtroppo, ed è paradossalmente amaro ammetterlo, non conta un cazzo. Anche auspicando che il cavaliere con tante macchie sia almeno senza paura, i numeri sarebbero lontanissimi dalla costituzione di una maggioranza europeistica tra popolari (+ Europa + Italia viva + Azione + Forza Italia) e socialisti (Pd + Leu). Non mi dispiacerebbe mandare a casa i populisti grillini e godrei come un grillo a mettere fuori gioco i sovranisti di Lega e Fratelli d’Italia. Mi sembrano però scenari fantasiosi e inagibili.

Forse l’elettorato allo sbando potrebbe trovare in queste prospettive qualche rinsavimento, ma i tempi devono essere lunghi pena il rischio di portare l’Italia in braccio alla destra con un nuovo presidente della Repubblica ridotto ad apprendista stregone. Non vorrei che la sacrosanta critica di cui sopra portasse la gatta al lardo fino a lasciarci lo zampino. O ci affoghiamo nel mar grande di Mario Draghi (per quel che so nuotare, politicamente parlando, vedrei molto bene questa immediata eventualità) o, diversamente, mi sono fatto l’idea che in questo strano periodo storico occorra pazienza, poi ancora pazienza, per finire con altra pazienza. Chiedere l’impossibile (almeno al momento) ritorno alla logica dei poli europeisti non vorrei finisse col legittimare e consolidare l’unico polo in via di saldatura, cioè il destra-destra di Salvini e Meloni, che ha i suoi problemi di tenuta politica e territoriale.

I nervi scoperti della gioventù

In questi giorni mi va di toccare, senza troppi riguardi e con linguaggio forse poco corretto, argomenti delicati, mi va di effettuare impietose analisi della realtà. Oggi è la volta dei giovani. Li osservo con relativa invidia, ma con molta pena. Li vedo così evanescenti, così stralunati, così persi dietro cose che non contano niente. E mi chiedo: cosa potrà risvegliarli da questo torpore valoriale ed esistenziale. Non certo gli anziani, che ne hanno fatto una sorta di brutta copia per i loro sogni inconfessabili. Non certo la famiglia che li vezzeggia e li foraggia in modo scriteriato. Non certo la scuola che li trascina su percorsi approssimativi e superficiali. Non certo la politica che li considera carne morta da cannoni disoccupazionali e deresponsabilizzanti. Dopo tutte queste risposte negative, mi convinco che solo le dure prove della vita potranno maturarli e costringerli a tornare coi piedi per terra e con la testa in avanti.

Una battuta che ho sentito ripetere da mio padre in occasione di rimproveri martellanti rivolti da madri o padri, un po’ isterici e troppo esigenti, ai loro figli bambini, magari per farli smettere certe abitudini (succhiarsi il dito pollice) o certi vizietti infantili (attaccarsi alle gonne della mamma) è la seguente: “A t’ vedrè che quand al se spóza al ne la fa miga pu”. Della serie diamo tempo al tempo. Oppure di fronte a certi comportamenti adolescenziali piuttosto caparbi per non dire testardi era solito commentare: “S’al fa tant a catäros la moroza a cambia tutt”. Certo mio padre non aveva a che fare con il problema droga, con le stragi del sabato sera, con la violenza gratuita dei giovani d’oggi, ma anche ai suoi tempi i problemi esistevano e lui adottava le sue ricette. La vita sentimentale e quella sessuale erano per lui due riferimenti importantissimi. Oggi purtroppo non è più così: tutto viene rapidamente consumato e non c’è il tempo per digerire e assimilare queste esperienze di vita. In fin dei conti però riteneva, come penso anch’io, che la vita, in un certo senso, ti costringa a maturare.

Può essere un grave lutto, una grave malattia, una sconfitta clamorosa, una delusione cocente a scuoterti e a costringerti a ripensare l’esistenza: vale per tutti, a maggior ragione per i giovani. Non vorrei, ma purtroppo credo sarà così e che fra questi eventi sconvolgenti ci sia il covid. Finora i giovani (non) l’hanno affrontato con noncuranza, pensando da una parte che non li riguardasse per motivi anagrafici, ritenendo, dall’altra parte, che la vita, intesa come libero sfogo nel divertimento a tutti i costi, non potesse essere condizionata da fattori esterni di carattere sanitario.

Cosa sta succedendo? I giovani si stanno ammalando, l’età media dei soggetti colpiti dal coronavirus si sta abbassando precipitosamente, i loro comportanti disinvolti al limite dell’irresponsabile li stanno buttando in pasto alla pandemia. Il covid, per tutti, ma anche per le recalcitranti giovani generazioni, si sta rivelando un fattore di sconvolgimento esistenziale: una gravissima e pericolosissima malattia, che sta diventando paradossalmente una terapia maturante.

Quando, durante la mia ormai lunga vita, ho vissuto esperienze di sofferenza in campo sentimentale, famigliare, umano in generale, mi sono rifugiato e mi sono consolato in e con un ragionamento: se ne uscirò, non potrò dire che sia andato tutto bene, ma avrò esperienza e maturità per affrontare le nuove prove della vita. Una sorta di allenamento, di preparazione, di rincorsa. Sento qualcuno che dice: “la sperànsa di malvestìi ca faga un bón invèron”. No, “la forsa ‘d prepareros al pés”. Per risalire occorre spesso toccare il fondo e noi lo stiamo toccando. I giovani se ne facciano una ragione. Si diano, come tutti, una mossa psicologica, si destino dal torpore delle movide, degli apericena e delle nottate in discoteca. Sarà dura, ma potrebbe essere anche un bene.  Tutto il mal non vien per nuocere. Masochismo bello e buono? Può darsi, ma…

 

Dall’indecifrabile libro del piccolo profeta Gioele

É stato Pino Lo Bello, carabiniere in pensione che stava partecipando alle ricerche, a trovare i resti del piccolo Gioele, il bambino di 4 anni scomparso il 3 agosto insieme con la madre Viviana Parisi, poi trovata morta. Le squadre che partecipano alle operazioni si sono dirette sul posto per un sopralluogo, insieme al Procuratore di Patti Angelo Cavallo che coordina le indagini. Il luogo si trova a circa 200 metri dall’autostrada Messina-Palermo dove la mamma e il figlioletto sono stati visti per l’ultima da un testimone, dopo un lieve incidente.  Il carabiniere protagonista del ritrovamento ha dichiarato: “Mi sono infilato in posti dove altri non arrivavano”.

A questa ammirevole persona che si è volontariamente impegnata, dopo essermi doverosamente complimentato per l’esito del suo lavoro, vorrei raccontare un piccolo episodio tratto dal libro dei miei ricordi paterni: davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”. A buon intenditor poche parole: il pizzico di esibizionismo presente nel volontariato rischia di togliere genuinità al pur meraviglioso fenomeno.

“Cinque ore di lavoro di un volontario rispetto a 15 giorni di 70 uomini esperti mi fanno sorgere dei dubbi oggettivi sui metodi adottati per le ricerche. La mia non vuole essere una polemica, ma la semplice considerazione di un marito e padre distrutto per la perdita della propria famiglia”. Lo afferma Daniele Mondello, papà di Gioele e marito di Viviana Parisi, sul proprio profilo Facebook. “Nonostante il dramma che mi ha travolto – scrive – trovo doveroso ringraziare quanti mi hanno aiutato. Dedico un ringraziamento particolare al Signore che ha trovato mio figlio. Se non ci foste stati voi, chissà se e quando lo avremmo ritrovato”. “Viviana e Gioele – conclude Daniele Mondello – vi ringraziano ed io vi mando un abbraccio enorme, siete stati grandi!”.

Con tutto il rispetto possibile e immaginabile per una persona così tragicamente colpita nei suoi affetti, forse non sarebbe male se Daniele Mondello ai dubbi sui metodi adottati per le ricerche (sinceramente non saprei cosa altro avrebbero dovuto fare) ne aggiungesse qualcuno sulla sua vita di coppia e di famiglia: comunque siano andate le cose (infatti forse non si saprà mai), qualcosa non è andato per il verso giusto e, senza volere colpevolizzare alcuno, maggiori affiatamento e interessamento preventivi non avrebbero guastato. Sono vicende impossibili da capire e da valutare dal punto di vista umano e giudiziario, ma chi ne è stato direttamente o indirettamente protagonista dovrebbe farsi un po’ di esame di coscienza, anziché scaricare immediatamente le colpe sugli altri, magari proprio su coloro che si son dati da fare nel compimento delle loro funzioni istituzionali e professionali.

Anche la società, anziché rifugiarsi nell’evento, vivendone con sadica curiosità i vari aspetti, dovrebbe interrogarsi sul come e perché questi drammi possano succedere nel disinteresse e nell’indifferenza generale. È inutile commuoversi, piangere, imprecare, analizzare l’accaduto, cercare spiegazioni pseudo-scientifiche. Quando un dramma si verifica al di là della porta accanto, forse qualcuno poteva rendersene conto e fare qualcosa prima che succedesse il fattaccio. “Chi l’ha visto” è il titolo di una trasmissione televisiva, che mantiene, nonostante gli anni, tutta la sua verve mediatica. Si cerca chi ha visto i buoi dopo che sono scappati dalla stalla. Sarebbe molto meglio provare a vedere cosa succede nelle nostre stalle, nel rispetto della privacy, ma anche in ossequio a quel minimo di solidarietà che dovrebbe connotare i nostri rapporti.

 

L’unico fuoriclasse in panchina

Non mi sono accontentato dei soliti sbrigativi resoconti giornalistici, né dei commentatori a caccia di argomenti appetitosi, né delle esercitazioni dietrologiche più o meno strumentali. Ho voluto ascoltare integralmente e con molta attenzione l’intervento che Mario Draghi ha svolto al meeting di Rimini.

Non è stata una lezione e nemmeno una provocazione: si è trattato di una completa ricognizione sulla situazione socio-economica con la lucida individuazione di linee di intervento per il breve, medio e lungo termine. Consiglio a tutti di riascoltarla, ne vale la pena.

Non credo che dietro ci sia una candidatura o una disponibilità a ricoprire qualche ruolo politico: qualcuno ha cominciato a lavorare di fantasia per auspicarla o per esorcizzarla.    C’è molto di più. La dimostrazione, se mai ce ne fosse stata ulteriore necessità, che Mario Draghi rappresenta una risorsa per il Paese. Non è sempre detto che le risorse vadano immediatamente impiegate col rischio di sprecarle. Bisogna però riflettere: in un momento così grave e difficile diventa superficiale tenere nel cassetto una carta simile, aspettando tempi più adatti per paura di rovinare questa opportunità.

L’ammalato è grave, abbiamo un potenziale medico in grado di diagnosticare il male in tutte le sue componenti e di impostare un’adeguate terapia. Lo teniamo in panchina, facendo la fine di Ferruccio Valcareggi ai mondiali del 1970 quando non mise in campo Gianni Rivera nella partita di finale contro il Brasile? Avremmo forse comunque perso, ma perché non provare. Il problema è che Draghi è indubbiamente un fuoriclasse, ma non esisterebbe la possibilità di schierare attorno a lui una squadra di governo adeguata.

Nel famoso fiasco di Traviata al teatro Regio non bastò l’intervento del baritono Renato Bruson a salvare lo spettacolo: il soprano steccava, il tenore stonava, il direttore batteva la solfa. Anche Bruson, suo malgrado, venne coinvolto in una disfatta perniciosa. Le similitudini reggono fino a mezzogiorno, ma le ho introdotte per rendere l’idea della necessità di utilizzare al meglio certe notevolissime competenze, esperienze e sensibilità. Si potrebbe dire: ora o mai più. Sarebbe un’iniezione di fiducia efficacissima per tutto il sistema a livello nazionale, europeo ed internazionale. I leader scarseggiano, sono quasi inesistenti, ne abbiamo uno da spendere e non ce la sentiamo di metterlo in campo?

Certo non possiamo pretendere da lui che faccia il kamikaze, rimanendo prigioniero delle asfittiche logiche politiche e dei calcoli di bassa lega (il termine ha volutamente un doppio senso). Non voglio insegnare il mestiere al presidente della Repubblica, ma un serio e seppur cauto tentativo di costruire un governo attorno a Draghi varrebbe la pena di essere effettuato, pur con tutta la riservatezza e la diplomazia di cui Mattarella è capacissimo.

“Se non ora quando” è il titolo di un libro di Primo Levi: vuole significare che è inutile aspettare che le cose si sistemino da sole, e rinviare l’inevitabile. Le cose non si risistemano da sole: la vita è una sola, ed è tua, e bisogna ricostruirsela ora e solo ora, nonostante tutto. Sono arciconvinto che i due personaggi in grado di guidare l’Italia in questa drammatica fase storica siano due: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Il primo deve rimanere a fare il capo dello Stato per molti anni ancora, il secondo dovrebbe impegnarsi in prima persona assumendo l’incarico di presidente del Consiglio. Gli si dia carta bianca per la scelta dei componenti del governo, da concordare e nominare con il presidente della Repubblica e poi…voglio proprio vedere chi in Parlamento avrà il coraggio di votare contro, anche perché sono sicuro che una simile coraggiosa iniziativa avrebbe l’appoggio dei cittadini mettendoli di fronte alle proprie responsabilità.

La competenza è la ricetta giusta in questo momento.  Nella mia modesta carriera (?) mi capitò di avere l’incarico di sindaco in un importante ente politico: esordii sfoderando tutta la competenza professionale su cui potevo contare. Il direttore, personaggio politico di primo piano, si alzò è venne a stringermi la mano soddisfatto di avere finalmente un interlocutore competente nel delicato ruolo che ero chiamato a svolgere. Iniziai e continuai così e ottenni grosse soddisfazioni e diedi il mio contributo alla vita di quell’ente. Chiedo scusa per avere fatto questo riferimento personale: solo per fare un esempio di vita vissuta. La competenza e la professionalità dovrebbero pagare sempre, figuriamoci in frangenti come quelli attuali in cui regnano sovrane la confusione e l’incertezza.

Toccare la Chiesa nel portafoglio

Ci sono anche sette laici, tra i quali sei donne, tra i tredici nuovi membri del Consiglio per l’Economia, l’organismo istituito da Papa Francesco nel 2014 con il compito di sorvegliare la gestione economica e vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e finanziarie dei Dicasteri della Curia Romana, delle Istituzioni collegate con la Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. In questo organismo ci sono anche sei cardinali, che sono in minoranza numerica. Alla Chiesa non si possono applicare, tout court, i criteri democratici, anche se un po’ di democrazia non farebbe male.

Ho da sempre sostenuto come sia più facile che un laico passi per la cruna dell’ago del celebrare la messa piuttosto che avere potere nelle questioni economiche e affaristiche della Chiesa. Forse sono stato un po’ rafforzato nella mia idea e un po’ smentito nel mio pessimismo, anche se è molto presto per cantare vittoria, se l’irlandese Ruth Kelly, ex ministro Labour, fra le sei esperte chiamate da Francesco, ha dichiarato che “Nelle finanze vaticane servono più laici e donne”.

Mi permetto di allargare il discorso a tutta la vita della Chiesa: la partenza, seppure lenta e in salita, mi pare quella giusta. Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etici a una persona o a una istituzione bisognasse guardarne e toccarne il portafoglio. È lì che casca l’asino, è lì la prova del nove di certa generosità a parole, di certa disponibilità teorica. «Tochia in-t-al portafój…».

Intendiamoci bene la Chiesa è bella perché è varia: ci sono laici ben più clericali dei preti, ci sono donne che anche nella vita ecclesiale puntano alla parità dei difetti con gli uomini, ci sono preti che vanno a donne (non mi scandalizzo, anzi gradirei che potessero farlo apertamente e seriamente come lo dovrebbe fare qualsiasi laico) e ci sono donne che vanno a preti (il fascino del proibito funziona sempre), ci sono leccapreti di vocazione e/o di convenienza, ci sono atei devoti che la danno su alle gerarchie ecclesiastiche e le sostengono politicamente, ci sono cattolici maturi e adulti che se ne sbattono le balle dei diktat papali, cardinalizi, episcopali e clericali in genere, ci sono vescovi commissari implacabili e vescovi padri aperti e misericordiosi. Ce n’è per tutti i gusti…

Non illudiamoci quindi che basti mettere sette laici, di cui sei donne, su tredici nel Consiglio per l’Economia per risolvere il problema dell’intrigo affaristico che aggroviglia le finanze vaticane, tuttavia accontentiamoci di un passettino in avanti.  Si leggono ricostruzioni faraoniche del patrimonio della Chiesa istituzione: tutto compreso arriviamo a 2 mila miliardi, un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, con appartamenti di lusso spesso affittati a prezzi di favore (non certo ai poveracci di turno). Sono cifre da capogiro: indubbiamente vanno interpretate alla luce delle complesse esigenze ecclesiali, ma lasciano molti dubbi e molto amaro in bocca. Come lascia più di un dubbio l’istituto dell’otto per mille ed il suo utilizzo. Possibile che per certe iniziative non salti fuori neanche un granellino di tutto questo bendiddio? Mi auguro che i componenti del Consiglio di cui sopra abbiano il coraggio di mettere il naso in questa realtà a costo di lasciare un dito negli ingranaggi.

Ma c’è o ci dovrebbe essere, come scrive Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, l’altra Chiesa, quella dei preti scalzi: «Può sembrare strano che papa Francesco parli a vescovi e cardinali e additi loro un prete scalzo, un povero prete animato e purificato dal fuoco della Pentecoste, un ministro che serve, che – secondo l’etimologia – si preoccupa della “minestra”, della razione di cibo quotidiano per ciascuno, un servitore fedele che sa come l’anelito più profondo deposto nel cuore degli umani si esprime attraverso un corpo che prova fame, sete, freddo, dolore. Eppure è questo il pastore esemplare: un prete scalzo che sa farsi prossimo con la povertà del suo essere e del suo agire». Lasciamo perdere gli scandaletti (?) emergenti qua e là: anche se ce ne sono un po’ troppi, questo potrebbe rientrare nella disonestà fisiologica dei pochi avverso la virtù dei molti. Ma non è proprio così. Alla base di tutto ci sta l’attaccamento al denaro dei chierici. Mi sono sempre chiesto, in senso puramente razionale, di fronte al più altolocato dei cardinali e/o al più umile fraticello che tirano ai soldi, che arrivano addirittura a trattare male i poveri e gli accattoni (ho visto con i miei occhi): ma chi glielo ha fatto fare di abbracciare una vocazione religiosa? Se proprio volevano puntare a mammona non lo potevano fare meglio standosene nell’anonimato degli ignavi?

Qualcuno mi obietterà che la tentazione è sempre forte e poi che forse questi preti accumulano ricchezze, a volte rubano, a fin di bene, per sostenere le loro diocesi, le loro congregazioni, in poche parole per aiutare la Chiesa, arrivando magari a defraudare i poveri per poi elargire loro un obolo riparatore: la giustizia che fa a pugni con l’elemosina e viceversa. Sinceramente non capisco!

Qualcuno mi butterà in faccia l’esigenza che i laici, prima di criticare i preti, dimostrino concretamente di seguire gli insegnamenti evangelici e abbiano il coraggio di togliere le travi dai loro occhi per poi riuscire ad eliminare quelle dei porporati e del clero tutto. È vero! Faccio quindi un discorso generale e globale. Non è accettabile che l’accoglienza ai poveri non sia prassi quotidiana di tutti i preti, di tutti i frati, di tutti i credenti, di tutte le parrocchie, di tutte le comunità religiose, di tutte le associazioni cattoliche. Probabilmente il difetto sta nel manico. È l’impostazione della Chiesa Istituzione a dare i brividi: troppe le commistioni col potere, troppi i privilegi, troppe le concessioni, troppi i vantaggi impropri. È giunta l’ora di reagire con una certa decisione (si badi bene, non cattiveria). Intransigenti coi poveri e comprensivi coi ricchi, rigorosi in materia sessuale ma permissivi nelle ingiustizie sociali. Basta! Signori Cardinali e Signori Preti o cambiate musica o cambiate religione. E voi, signori laici componenti del Consiglio per l’Economia cattolica saprete entrare a gamba tesa a costo di rischiare l’espulsione? La gara è durissima, ma a proposito di gare dure abbiamo degli illustri precedenti di chi ha accettato di andare in croce pur di rompere certi equilibri di potere e certe gerarchie di valori.

 

 

 

 

 

Si è ristretto lo stretto

È un atteggiamento classico, di fronte a problematiche complesse e impegnative, quello di deviare su un aspetto particolare, meglio se riconducibile e riducibile ad un sì o un no. Sta puntualmente succedendo per lo stretto di Messina, dando per scontato quello che scontato non è, vale a dire la necessità, l’utilità e la fattibilità di una infrastruttura che bypassi lo stretto. Finora si era parlato di un ponte, ma in questi ultimi giorni è rispuntato anche il progetto di un tunnel sottomarino.

Temo che tutto il discorso progettuale intorno agli investimenti per le infrastrutture finalizzati alla ripresa dello sviluppo socio-economico con l’utilizzo anche e soprattutto dei fondi europei possa finire in una mega bolla di sapone così come storicamente si è rivelata l’idea di un collegamento tra la Sicilia e il continente. Stando alle ricostruzioni giornalistiche, del tunnel dello stretto si cominciò a parlare nel 1969 e si arrivò al 1980 col parere favorevole dell’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga. Poi una lunga pausa di silenzio fino ai giorni nostri.

Più insistente e reiterato il discorso del ponte sullo stretto di Messina: consiglio di andare a rileggerne la storia, per ricavarne a contrariis un’utile lezione anti-demagogica e anti-sperpero.  Sarebbe interessante riprendere anche la storia ben più piccola, ma ugualmente emblematica, della metropolitana parmense, progetto che finì con il coraggioso e tardivo alt del sindaco Vignali ad un progetto frutto di megalomania e affarismo.

Tutto finirà nel nulla dopo aver sollevato un polverone dibattimentale in cui tutti si eserciteranno ad esprimere pareri e formulare analisi. Forse sarà meglio portare a compimento i progetti già varati e in stand by totale o parziale e dedicarsi a nuovi progetti a sicura ed immediata efficacia, senza rincorrere pazze e fuorvianti idee. C’è già naturalmente chi si schiera a favore del tunnel e chi preferisce il ponte.

Ho un debole per Luigi Pirandello e per la sua opera teatrale “Così è (se vi pare)”, incentrata su un tema molto caro a Pirandello: l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri. Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità a conoscere la verità assoluta.

Che la Verità assoluta esista o meno è cosa tantomeno irrilevante: è questo il messaggio finale di lettura dell’opera dove Pirandello mette lo spettatore di fronte ad una sorta di ‘barriera sul palcoscenico’ costringendolo ad interrogarsi sul significato stesso di ciò che ha appena visto e l’assenza stessa di significato. Protagonista assoluto di scena, il dramma esistenziale della vita umana nella sua infinita complessità, ed in virtù del teorema, il fatto che la Verità assoluta, quella imprescindibile non esiste. A seguito dell’acceso dibattito tra i personaggi di un piccolo ambiente provincial-borghese infatti, la Verità è per ciascuno ‘come pare’.

Ho richiamato per l’ennesima volta questo affascinante tema pirandelliano, perché ben si attaglia alla problematica relativa allo stretto di Messina. Da una parte, se non erro, Dante Alighieri ci mette autorevolmente in guardia dal rischio di semplificare la realtà mistificandola con comode e marginali semplificazioni; dall’altra Luigi Pirandello ci scoraggia portandoci relativisticamente, provocatoriamente ma seriamente, con i piedi per terra. In mezzo Giuseppe Conte, tentato dalla grandeur, un M5S in vena di revisionismo politico-programmatico, un Pd, come al solito, a ruota libera nel promettere troppo e mantenere poco, un centro-destra in cerca di scoop magari facendo credere agli italiani che si farà prima e meglio a rimpatriare gli immigrati.

Mio padre, amante della vita, scandiva scherzosamente le tappe future della sua esistenza sui fatti che gli stavano a cuore, del tipo: riuscirò a vedere le prossime olimpiadi? E io riuscirò a vedere il ponte o il tunnel sullo stretto di Messina?   Scherzi a parte, non me ne frega niente! Vorrei vedere finalmente qualche progetto serio, fattibile, utile, lasciando stare le fughe in avanti e all’indietro (sì, perché il ponte sullo stretto è acqua passata che non macina più). Non vorrei esagerare parafrasando la storica fantozziana battuta: “il ponte (o il tunnel) sullo (o sotto lo) stretto di Messina è una cagata pazzesca!”.

 

 

 

Le ciabatte “grillate”

«Loro fanno due legislature e vanno a casa. Questa è una guerra: o vinciamo noi o andiamo a casa, questo è il mio parere». Era il febbraio del 2014 quando Beppe Grillo diceva queste parole durante una conferenza stampa alla Camera dei Deputati dopo le brevi consultazioni con Renzi. Sempre nella stessa sede aveva detto: «Non c’è la mediazione o la transizione, fare le coalizioni. È finito questo mondo». Nel 2014 Beppe Grillo si esprimeva pubblicamente e categoricamente così. Sembra passato un secolo, invece è passata di moda l’antipolitica.

Con la recente consultazione on line gli iscritti al M5S hanno infatti rivisto le regole per la reiterazione dei mandati elettivi, dando sostanzialmente il via libera alla ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma, e si sono dichiarati possibilisti sull’eventualità di alleanze con gli altri partiti. Il massimalismo grillino è andato a farsi benedire e i cinque stelle sono rientrati nella normalità della politica. Da una parte mi fa piacere, dall’altra resto piuttosto sconcertato di fronte a questi continui giri di valzer concettuali e progettuali.

Non sono uno storico, ma credo che piroette come quella di passare nel giro di pochi mesi dal contratto con la Lega all’accordo col Pd non abbiano precedenti altrettanto clamorosi e radicali. È vero che i grillini hanno sempre sostenuto come destra e sinistra siano ormai categorie politiche superate ed equivoche e che quindi destra e sinistra vadano trattate come era solito fare il duca di Mantova con le donne (“questa o quella per me pari sono”), ma cerchiamo di essere seri…

Enrico Mattei è stato un grande imprenditore, partigiano, politico e dirigente pubblico, che ha segnato indelebilmente e positivamente la vita del nostro Paese. Diceva in modo spregiudicato: «Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa e scendo». Se Grillo intendesse mai emularlo non esiterei a dirgli: “Cala Tèlo”. Cioè vola basso, perché a certi personaggi non sei degno nemmeno di sciogliere i legacci delle scarpe, in dialetto “net ghe port adrè gnanca il savati”. Mio padre, in merito alle somiglianze, di me diceva: «Al m’ somilia da chi in zo!» segnando la cintola dei pantaloni. Credo si possa tranquillamente applicare questa piccante similitudine a Beppe Grillo, ed ancor più ai suoi delfini, rispetto alla caratura etica, culturale e politica di un Enrico Mattei.

Quindi è cambiato tutto rispetto alle velleità iniziali movimentiste del grillismo: niente più limiti rigidi alle candidature, niente più pregiudiziali per le alleanze. D’altra parte hanno preso atto che improvvisare continuamente i propri rappresentanti è un rischio grosso: incallirsi nella improvvisazione e nella impreparazione è semplicemente irrazionale. Partire dalla presunzione assoluta di fare da soli è l’anticamera della “idiozia” o, come in parte è successo, della “farfanteria” (termine usato da Andrea Camilleri, che sta più o meno per menzogna). “Chi fa da sé fa per tre” e poi “l’unione fa la forza”. Mio padre non si rassegnava e si chiedeva con insistenza: «E alóra cme la mètemia?».

E allora caro Grillo come la mettiamo? Stai diventando un politico a tutto tondo o un opportunista a tutto spiano? Forse da tempo ti è sfuggita di mano la situazione, forse vedi che il tuo movimento è alla frutta e cerchi disperatamente un pezzo di torta per finire dignitosamente l’avventura. Non credo però che la torta ideale sia quella di Virginia Raggi, ma, come si dice a Parma, “la bòtta la dà al vén c’la ga”.