Bose senza pose

Il caso Bose/Bianchi continua a tenere banco mediatico nonostante le secchiate gelide di Avvenire. Il 21 agosto è riesploso il “caso nel Monastero di Bose”, con il delegato del Vaticano (Padre Amedeo Cencini) che ha rilevato come Enzo Bianchi ancora non abbia lasciato Bose nonostante il provvedimento dello scorso giugno sull’allontanamento del fondatore dalla sua “creatura”. Notizia prontamente smentita dall’interessato. Dopo alcuni giorni è stata la volta di Massimo Recalcati su La repubblica ad intervenire con un pezzo dal titolo molto ben centrato: “Vaticano non tocchi Enzo Bianchi, quale pietas nel cacciarlo da Bose?” ed a prendere le difese di Padre Bianchi attaccando duramente il Vaticano.

«Era proprio necessario allontanare Enzo Bianchi e altri fratelli e una sorella dalla Comunità che ha fondato con un decreto vaticano inappellabile?», si chiede Recalcati dopo aver ricordato come Enzo Bianchi abbia fondato praticamente da solo il Monastero di Bose alla fine del 1965, incarnandone questa inizialmente «folle e solitaria comunità spirituale». Nel tempo è divenuto un vero e proprio Monastero “multireligioso” che ospita fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, con la difficoltà sorta nel momento in cui si è cercato di trovare un “sostituto” al “priore” e fondatore: «Ogni fondatore vive il rischio di confondere la responsabilità del suo atto di fondazione con un diritto illimitato di proprietà sulla sua creatura», ammette Recalcati che però contesta il decreto del Vaticano, accusandolo di «sapore medioevale» invece che avviare un lavoro di dialogo e riconciliazione con l’intera Bose.

Sempre secondo Recalcati l’effetto del decreto vaticano è senza appello: «smascherare Bose, mostrare che sotto sotto tutto è rivalità invidiosa, conflitto insanabile, impossibilità della fratellanza, assenza di Vangelo. Questo ha significato colpire al cuore non tanto il fondatore ma la sua creatura e un intero popolo che in essa credeva. Possibile che questo effetto non sia stato contemplato dagli estensori del Decreto?». In maniera sibillina però Recalcati pone l’accento sulla possibilità che possa invece essere stato proprio questo l’intento voluto dalla Santa Sede. Lo psicanalista attacca poi direttamente Padre Cencini sulla scelta di allontanare Bianchi anche in questi ultimi giorni: «egli non sa che fratello Enzo oggi è un uomo anziano, con problemi di salute e bisognoso di assistenza? Sfuggono al delegato vaticano, psicoterapeuta, la vulnerabilità e la fragilità di fratello Enzo? C’è davvero qualcosa di cristiano nel suo atteggiamento?». Secondo Recalcati, Enzo Bianchi ha il diritto di restare fino alla fine della sua esistenza nel posto che ha fondato, per di più in epoca di Covid come questa: «vuole spegnere per riportare tutti i fratelli e le sorelle ad una normalizzazione senza desiderio, alla negazione del carisma, alla neutralizzazione del fuoco del Vangelo. Padre Cencini obbedisce al Decreto vaticano mentre contraddice la legge del Vangelo e la fiducia che lo stesso papa Francesco gli ha assegnato», attacca ancora Recalcati non prima di lanciare pieno sostegno all’anziano priore piemontese. «Quale pietas, non solo cristiana ma anche solamente laica, si rivela nell’imporre ad un anziano con gravi problemi di salute di abbandonare la sua casa e lasciare i luoghi che ama? Forse pensa lo psicologo Cencini che questo sia il solo modo per spegnere la forza del transfert e il carisma di Enzo Bianchi al fine di riportare la normalità a Bose? Ma il cristianesimo non è forse l’esperienza di un’eccedenza, di una “follia”, come diceva Paolo di Tarso, della eccedenza e della follia del desiderio?».

E il Papa? Non so che dire. Probabilmente sta adottando la politica del pietoso silenzio, quella del “laissez faire, laissez passer”, che non gli impedisce tuttavia di andare avanti per la sua strada, ma rischia di lasciare intatte certe posizioni clericali e gerarchiche. Forse ritiene opportuno non prendere di petto certe opinioni e situazioni per non acuire i contrasti e scatenare polemiche ulteriori. Sono un po’ perplesso, ma bisognerebbe essere al suo posto per giudicare.

Mi basta al riguardo riportare di seguito testualmente quanto scrive Paolo Rodari su La Repubblica. “Si chiama La costa del Limay. È un ‘condominio sociale protetto per donne trans’, costruito nel quartiere Confluencia di Neuquén, la città più popolosa della Patagonia. È stato inaugurato lo scorso 10 agosto grazie all’impegno di una suora di clausura, la carmelitana Mónica Astorga Cremona, che da anni accoglie le trans che vivono in condizioni di disagio, spesso in fuga dalla prostituzione e bisognose di occupazione: dodici miniappartamenti con un salone comune. Secondo quanto riporta l’agenzia Telam, l’inaugurazione è stata salutata anche da papa Francesco, il quale, nonostante sia a conoscenza dell’ostilità di parte della Chiesa locale per il lavoro della religiosa, ha voluto scriverle queste parole: «Cara Mónica, Dio che non è andato al seminario, né ha studiato teologia, ti ripagherà abbondantemente. Prego per te e per le tue ragazze. Non dimenticare di pregare per me. Gesù ti benedica e la Santa Vergine ti assista. Fraternamente, Francesco»”  

La politica senza pensiero è come un albero senza radici

Mia sorella aveva un debole per le persone intelligenti. Affermava convintamente che quando una persona è intelligente è più che alla metà dell’opera, perché questa sua qualità, cascasse il mondo, non viene mai meno. Personalmente vado anche oltre, mescolando qualità mentali ed etiche: preferisco infatti avere a che fare con un cattivo intelligente piuttosto che con un buono stupido.

Per Ciriaco De Mita sono passati gli anni, forse ha sbagliato a rimanere abbarbicato alla politica, che peraltro rappresenta una passione presente nel sangue e quindi irrinunciabile ed inevitabile, forse incarna un po’ troppo la vocazione al notabilato, forse mantiene intatta nel tempo una certa fastidiosa presunzione, tuttavia a livello di intelligenza politica non dimostra affatto i suoi novantadue anni, ben portati da tutti i punti di vista e che gli danno un surplus di esperienza e di schiettezza.

Ritengo giusto ripercorrere brevemente la sua vita politica. Ciriaco De Mita è un politico a tutto tondo, ex Presidente del Consiglio, più volte ministro e dal 2014 sindaco di Nusco, sua città natale. Raggiunse l’apice del potere politico negli anni ottanta quando fu Presidente del Consiglio dei Ministri. È stato inoltre segretario nazionale e poi presidente della Democrazia Cristiana e quattro volte ministro. Deputato dal 1963 al 1994 e dal 1996 al 2008 ed europarlamentare dal 1999 al 2004 (contemporaneamente deputato ed eurodeputato) e, dopo la DC, ha fatto parte del Partito Popolare Italiano, della Margherita e dell’Unione di Centro.

Ha inizialmente aderito al progetto del Partito Democratico. Non ricandidato alle elezioni politiche del 2008 per via dello statuto del PD che puntava a un rinnovo della classe politica, ha aderito all’Unione di Centro. Ultimo importante incarico ricoperto è stato quello di presidente della seconda Bicamerale per le riforme costituzionali tra il 1993 e il 1994. Fu soprannominato ironicamente il padrino della DC (per le sue origini meridionali, difese con orgoglio: non è colpa mia se non ho un nonno di Abbiategrasso) e l’uomo del doppio incarico (segretario della DC e presidente del Consiglio con tanto di querelle sulla famosa staffetta con Bettino Craxi).

Tra i principali esponenti della cosiddetta Prima Repubblica, ha avuto indirettamente una forte influenza su tutta la vita politica degli anni successivi. Fu De Mita a nominare Romano Prodi suo consigliere economico e poi presidente dell’IRI, dando inizio alla sua carriera politica. Sempre a De Mita si deve l’impegno in politica di Sergio Mattarella. Fu inoltre un antesignano del dialogo col PCI con la sua teoria del patto costituzionale, per certi versi anticamera del compromesso storico.

Con un simile curriculum non mi stupisce che elargisca sferzanti giudizi sull’attuale classe politica. Salvini “non ha un pensiero” e il Pd “è niente”. Lo ha detto nel corso della presentazione della lista dei Popolari alle elezioni regionali in Campania. Secondo l’ex presidente del Consiglio “siamo in un periodo in cui il pensiero dei popoli è scomparso e resta la stupidità di quelli che parlano. Mi dispiace fare un solo nome – ha aggiunto – ma basta fare quello di Salvini: se avete notato non ha mai un pensiero da esprimere ma solo un accenno da introdurre, è una parola a metà”. De Mita ha usato parole dure anche per il Partito democratico: “E’ niente, è senza pensiero. Io questa cosa l’ho intuita ed è stata elemento di rottura. L’ultimo congresso del Pd si è chiuso senza pensiero, è stata la prevalenza di un gruppo rispetto all’altro gruppo, come se le persone fossero candidate al governo e non alla realizzazione di obiettivi”.

Ai tempi in cui militavo nella DC, De Mita non era il mio leader, ma rappresentava un punto di riferimento per quella sinistra democristiana in cui mi collocavo convintamente. La fine della sua segreteria, pur piena di contraddizioni tra idealità e pragmatismo, rappresentò per me l’occasione per uscire alla chetichella dal partito nonostante le insistenze di parecchi carissimi amici. A posteriori sono orgoglioso di avere purtroppo intravisto la successiva deriva della segreteria di Arnaldo Forlani e la degenerazione del potere nel CAF (accordo politico-governativo tra Craxi, Andreotti e Forlani).

A distanza di tanto tempo mi ritrovo perfettamente d’accordo con De Mita per quanto concerne la sua breve e lapidaria analisi socio-politica di cui sopra. Ha messo il dito nelle due piaghe: la generale e totale mancanza di pensiero politico, pur con diverse gradazioni fra destra e sinistra e all’interno dei due schieramenti, e la debolezza culturale prima che politica del partito democratico. L’intelligenza non gli è mai mancata (pur attualmente espressa con il dente avvelenato) e lo dimostra, anche se non basta. Se gli attuali esponenti politici di grido ne avessero almeno un pochettino… Purtroppo però l’intelligenza c’è o non c’è, non sono ammesse misure di ripiego, come nella barzelletta, che amava raccontare Enzo Biagi: quella madre un po’ troppo buona e comprensiva, che giustificava la trasgressiva gravidanza della giovanissima figlia, affermando che la ragazza era sì incinta, ma solo un pochettino.

Sanità non fa sempre rima con santità

Del batterio killer in un reparto pediatrico a Verona si era parlato qualche tempo fa in sarcastica coincidenza con la scorpacciata di ciliegie da parte di Matteo Salvini mentre il presidente della regione Veneto Luca Zaia parlava dell’inchiesta in occasione di una conferenza stampa. La penosa esibizione del leader leghista aveva in senso mediatico prevalso sulla delicatezza e gravità della questione dell’infezione, che ha causato morti e danni irreversibili a parecchi bambini, presumibilmente dovuta ad un batterio sconosciuto e contro il quale non si era potuto intervenire efficacemente. Già questo fatto della “devianza mediatica” la dice lunga e induce a serie riflessioni sul come e cosa stiamo vivendo. La notizia che aveva fatto scalpore non era tanto il dramma sanitario, ma la figuraccia di un Salvini in versione menefreghismo gastronomico. Giusto scandalizzarsi, eccome. Tuttavia rimaneva e rimane soprattutto il fatto inquietante di una sanità annichilita di fronte ad un batterio e imprigionata in comportamenti al limite della malasanità.

Affronto la questione facendo riferimento alla cronaca di Enrico Ferro su La Repubblica. Finalmente, dopo un anno e mezzo di verifiche e soprattutto dopo la battaglia legale avviata da una mamma, si scorge uno spiraglio di verità nella tragedia del Citrobacter all’Ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento a Verona. Dopo la morte di quattro neonati e la chiusura del reparto, ora si scopre che il batterio letale si era annidato in un rubinetto dell’acqua utilizzata dal personale della Terapia intensiva neonatale e anche nei biberon. Carenze igieniche, sottostima del problema e protocolli di sicurezza non rispettati, tutto questo ha generato una epidemia. È la conclusione a cui giunge la relazione di una delle due commissioni nominate dalla Regione Veneto, come indicato dal Corriere del Veneto.

Si tratta della cosiddetta “commissione esterna”, coordinata da Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’Università di Padova. Secondo le conclusioni della commissione esterna, il Citrobacter avrebbe colonizzato il rubinetto forse a causa di un mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene. Ricorrere all’acqua del rubinetto e non a quella sterile, è stato probabilmente un errore fatale. I primi controlli da parte dei vertici dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Verona erano stati avviati a gennaio poi erano stati interrotti a causa dell’emergenza coronavirus. L’intero reparto di Ostetricia – Punto nascite, Terapia intensiva neonatale e Terapia intensiva pediatrica – è stato riaperto, dopo che il 12 giugno scorso il direttore generale dell’Aou veronese, Francesco Cobello, ne aveva disposto la chiusura, procedendo alla totale sanificazione degli spazi. Un’altra relazione sarà consegnata alla Procura della Repubblica di Verona.

Il Citrobacter ha ucciso Leonardo a fine 2018, Nina a novembre 2019, Tommaso a marzo scorso e Alice il 16 agosto scorso. Altri nove hanno riportato lesioni cerebrali permanenti mentre sarebbero addirittura 96 quelli colpiti dal batterio. Decisiva nella vicenda la perseveranza di Francesca Frezza, madre di Nina: “Nina ha subito accanimento terapeutico. Ci è stato negato di avere accesso alla legge 219, non è mai stata attuata una programmazione condivisa di cura, nonostante la prognosi infausta che confermava l’irreversibilità della malattia e la non aspettativa di vita. Le è stata negata la terapia del dolore tramite le cure palliative (legge 38). Nina ha trovato pace e dignità solo dopo aver chiesto le dimissioni e averla trasferita all’ospedale Gaslini di Genova, dove è stata amata e “curata” con amorevole assistenza fino al suo ultimo respiro. Ho voluto raccontare la mia vicenda non per avere giustizia, in questo confido pienamente nella procura di Verona, ho chiesto ascolto affinché da questa tragedia avvenga il cambiamento, perché non succeda più e per lanciare un messaggio che in Italia le cure Palliative esistono e tutti i bimbi malati e inguaribili sono un bene prezioso della società, vanno tutelati e rispettati come persone e come individui”.

Fin qui la cronaca oltre la quale si intravedono delle brutte “magagne”. Durante la degenza ospedaliera di mia sorella, che ormai preludeva purtroppo alla sua fine, mi sforzavo di esserle vicino e questi miei tentativi erano apprezzati dagli altri degenti, i quali lanciavano messaggi consolatori del tipo: “Lei è fortunata ad avere un fratello così premuroso…”. Mia sorella non gradiva e, con il suo realismo al limite della spietatezza, rispondeva: “Non è oro tutto quel che luccica…”. Il discorso vale anche per “la sanità in odore di santità” in conseguenza dell’esperienza covid. Come del resto tutte le esperienze umane, anche nei reparti ospedalieri si fa molto, anzi moltissimo per i pazienti, ma si commettono anche errori e leggerezze. Mio padre, dopo aver subito un grosso intervento chirurgico andato a buon fine, ammetteva di non avere abbondato in elogi e ringraziamenti verso il personale ospedaliero e si chiedeva: “Se l’intervento fosse andato male, saremmo stati pronti col fucile spianato a scaricare colpe sugli operatori sanitari. È andata bene e tutto tace!”.

Detto questo bisogna pur ammettere che qualcosa non ha funzionato nell’ospedale veronese finito nell’occhio del ciclone e soprattutto che spesso all’interno delle strutture sanitarie esiste un colpevole silenzio di fronte ai propri limiti ed errori, una certa reticenza ad ammetterli che indispettisce e infastidisce. Certo, se per me commettere un errore nel redigere un bilancio contabile era grave pur non mettendo a rischio la vita di nessuno, per un medico l’errore può essere fatale ed avere conseguenze disastrose.

Poi emerge anche il discorso dell’accanimento terapeutico: questione delicatissima sollevata dalla madre di una vittima. Purtroppo la missione del medico è contenuta in mezzo a due paradossi. Da una parte la necessità di non rassegnarsi mai di fronte alla malattia: non c’è più niente da fare, mentre, come diceva il mio caro medico e amico, “c’è sempre qualcosa da fare”; dall’altra parte la consapevolezza che la vita della persona va difesa nel rispetto di essa e non a prescindere dalla persona e dai suoi diritti. Anche perché, come ebbe autorevolmente a dirmi un medico specialista a cui mi ero rivolto ripetutamente per approfondire certi miei disturbi, la medicina non è una scienza esatta, assai più collegabile alla letteratura che alla matematica. Forse è anche per questo che le inchieste in campo sanitario finiscono sempre in una bolla di sapone: c’è senz’altro un forte spirito di corpo che blocca sul nascere l’accertamento della verità, ma c’è anche una obiettiva difficoltà ad individuare precise responsabilità in un campo così difficile e complesso. “Io voglio andarci fino in fondo” sosteneva un mio conoscente sull’orlo dell’ipocondria. E una voce fuggita dal seno di un collega gli rispondeva laconicamente: “In queste cose non ci si arriva mai in fondo…, se non per andare al cimitero… “.

 

Le donne portano i pesi e subiscono le misure

In un momento storico in cui la società dovrebbe cambiare (il condizionale è d’obbligo), affinché questo anelito non resti la versione parolaia del dopo-covid, occorre cercare, come ci consiglia Archimede, un punto d’appoggio per mutare il mondo. Pochi giorni or sono “Donna”, il supplemento settimanale de La Repubblica, ha individuato le 100 donne che cambiano il mondo: attiviste, scienziate, economiste, politiche, artiste, ambientaliste, scrittrici, sportive. Se il futuro sarà migliore per tutti lo dovremo (anche) a loro. Personalmente vorrei togliere “anche” e sostituirlo con “soprattutto”. Passo ad esporre brevemente (?) i miei dubbi, le mie perplessità e le mie speranze al riguardo.

Tra la televisione e i social che presentano e sfruttano la donna oggetto, la sociologia che la individua come motore del mondo che cambia, la psicologia che la analizza come oggetto della maschile violenza estrema e la politica che si riempie la bocca di pari opportunità ma finisce col relegarla al ruolo di moglie e compagna da soma non so se trovare un perfetto legame o una drastica discontinuità. Se sono le donne a determinare in gran parte i consumi, esse stesse diventano almeno complici della macchina consumistica per eccellenza, vale a dire dei media che (a dir poco) le propongono in scosciamento, sculettamento e stettamento continuo. I media sono infatti sorgente e foce del consumismo, centro e culmine del sistema, strumento e scopo del capitalismo spendaccione. E perché le donne non reagiscono a chi le vuole turlupinare con la parità in materia pensionistica senza tener conto di un’intollerabile disparità di diritti (stipendi, carriere, precariato etc.)? Le discutibili analisi sociologiche cui ho fatto riferimento ritagliano alla donna un ruolo di primo piano: possono aiutare a capire l’influsso della galassia femminile sulla politica e sulle scelte elettorali ai vari livelli.

Già dal punto di vista quantitativo l’elettorato femminile italiano (e non solo italiano) è in netta prevalenza, se aggiungiamo il dato qualitativo, arriviamo, in teoria, ad una sorta di democrazia a misura di donna. Allora perché sono così scarsamente rappresentate nei diversi consessi, dal parlamento ai consigli di circoscrizione? Perché spesso ricoprono il ruolo di battitrici libere in senso deteriore, di mero supporto al potere, di compiacenti comparse di regime?  Perché subiscono imperterrite un super-lavoro fatto di pulizie della casa, di preparazione dei cibi, di effettuazione della spesa, di cura dei figli, di assistenza agli anziani, supplemento quantificato dall’Istat in due ore medie giornaliere? Forse la peggiore delle risposte viene dal fatto che proporzionalmente alla conquista femminile di spazi culturali di autonomia sale la violenza maschile che “uccide” le donne, nel senso di tarpare loro le ali, di strumentalizzarne le doti, ma anche nel senso della concreta e fisica “eliminazione per amore”. Mi chiedo soprattutto il motivo per cui molto spesso le donne restano imprigionate nella loro vis polemica, consumata in superficiali conflitti con le persone, a scapito di una sacrosanta battaglia contro il sistema che finisce col ghermirle irrimediabilmente dal punto di vista psicologico, sociale, economico e politico. Ho profonda stima e grande ammirazione per l’universo femminile e quindi vorrei capire.

Gli scatenati sociologi sostengono che la rivoluzione rosa nei consumi si basi sulle scelte delle donne dettate da autonomia economica, sano pragmatismo e maggiore informazione: teoria assai discutibile. Provo a ribaltarla, se possibile, sul campo politico. La maggiore disponibilità reddituale dovrebbe comportare una notevole resistenza ai messaggi fasulli della propaganda elettorale continua. La concretezza di scelta dovrebbe smascherare le promesse puramente demagogiche di cui la politica è zeppa. L’abbondante informazione posseduta (quale poi?) dovrebbe scoprire la realtà delle proposte programmatiche nella loro superficialità di dibattito e di scontro.

Proviamo a ragionare sull’aspetto superficiale delle donne: sono spesso belle, eleganti, affascinanti (se non è ancora chiaro, le donne mi piacciono molto: di uomo ci sono anche troppo io), emancipate, indipendenti; soprattutto lavorano, spendono, fanno vacanze, leggono, vanno al cinema ed a teatro, escono con le amiche. Dell’improvvisato campione dovrebbero far parte anche le persone sole, maltrattate, sfruttate, disoccupate, immigrate. I dati regionali sull’immigrazione attestano che a Parma le donne immigrate sono quantitativamente prevalenti rispetto agli uomini e costituiscono una percentuale ragguardevole ed in costante aumento sul totale della popolazione femminile. E allora perché le une e le altre non comprendono l’imbroglio di una società fumosa, virtuale e vanagloriosa? Le prime magari si illudono di vivere nell’alta società, le seconde non contano niente.

Perché concedono fiducia ad una classe politica vuota? Perché si lasciano incantare ed incartare dalla politica dell’immagine? Perché? Non ho la risposta facile. Ne azzardo una. Non c’è donna o uomo che tenga. Se manca un forte ancoraggio ai valori, se non esiste memoria storica, se trionfa l’egoismo, se vale più l’apparire dell’essere, se l’altro è visto come un competitore, se il lavoro è vissuto in funzione della carriera, l’eventuale rivoluzione rosa cambierà il colore ma non la sostanza della nostra società. Mi permetto pertanto di suggerire alle donne tre piste di contestazione al regime.

Quella della concretezza. Vogliamo smascherare o quantomeno verificare la società modello, quella dei servizi alla persona? Facciamo la prova finestra dei bisogni concreti, quelli di cui le donne sono inevitabilmente subissate: gli asili nido, le scuole materne, le case di riposo, l’assistenza domiciliare agli anziani, i trasporti pubblici, l’assistenza sociale alle famiglie in crisi, l’alloggio a canone accessibile e via discorrendo. Lungi da me relegare la donna nel forzoso ruolo di casalinga operatrice sociale, ma è innegabile come sia il soggetto portante il peso maggiore di certi problemi e sarebbe opportuno riuscisse a sottoporre ad un esame spietatamente critico la nostra fumosa perfezione.

Quella della correttezza. Proviamo a scovare l’affarismo che ci attanaglia? Chissà perché penso sia più un vizio maschile che femminile. Consegnerei volentieri alle donne una virtuale scopa per una spietata pulizia da tutti i legami sporchi tra potere politico e potere economico: impegnate nella battaglia contro la corruzione, ben lontane dalla facile “puttaneria di regime”.

Quella della semplicità. Basta con le sceneggiate, finiamola con le chiacchiere, andiamo al sodo, usiamo la cartina di tornasole della solidarietà: a chi può rivolgersi una donna emarginata, con problemi esistenziali insormontabili, vittima di violenza, imprigionata nella sua debolezza economica e sociale? Anche su questo piano ho maggior fiducia nelle donne. Se vogliono, sanno essere attente agli altri, senza demagogia ma con tanta disponibilità.

Sia chiaro! Non auspico una spersonalizzazione della donna, al contrario vedrei bene una femminilizzazione giocata in chiave contestatrice del sistema e non avida nel divorare le sue briciole. Impegnata in una battaglia per l’effettiva parità dei diritti e possibilmente non dei difetti.

Si nota qualche significativa presenza femminile nella classe dirigente, a livello politico (ministri, parlamentari, assessori, consiglieri), sociale (sindacalisti), economico (dirigenti aziendali), burocratico (pubblici funzionari), mediatico (giornalisti e persino direttori di giornali), ma ho l’impressione che tutto resti bloccato dalla storica mancanza di fiducia della donna verso le sue simili e da una sorta di “complesso” frenante, fasullamente superato con l’esibizionismo. Alla fine sostanzialmente ne viene opacizzato l’apporto culturale e ne viene marginalizzata la verve. Resta solo la solita equivoca corsa all’immagine. Coraggio!  Per determinare qualche cambiamento bisogna “lavorare di gomito”, senza pietà e senza paura di sbagliare. Tanto, peggio di così… Forse mi illudo, ma a qualcuno bisogna pur attaccarsi. Proviamo convintamente con le donne. Chissà!

 

 

 

Tra preoccupante sconforto e baldanzoso delirio

Nella mia poco spensierata vita fanciullesca avevo due riferimenti extra-familiari: l’asilo e il teatro. Il primo mi dava ansia al limite dell’angoscia, il secondo mi dava gioia. All’asilo andai solo un anno: non mi piaceva, soffrivo nel mescolarmi agli altri bambini, mi preoccupavo di non riuscire a scrivere con gli stampini per la paura che mi venissero sottratti dai miei coetanei più furbi di me, non mi sentivo a mio agio. Chissà quali catastrofiche vitali premesse avrebbe dedotto uno psicologo. Basto io per dirvi che fu l’inizio di una sofferta e mai vinta lotta contro l’insicurezza. Per fortuna c’era il teatro, il Regio, con cui ebbi il primo approccio a quattro anni per assistere a “Un ballo in maschera” di Verdi (per la cronaca, Bergonzi, Stella e Silveri gli interpreti), per poi fare l’ingresso ufficiale il primo gennaio 2007 con una memorabile Turandot. Così la mia infanzia trascorse anche fra il panico dell’asilo prima e della scuola poi e l’estasi del teatro: due istituzioni fondamentali nella vita di una persona e di una comunità.

Purtroppo dopo tanti anni sono ancora qui a fare i conti con l’ansia che dilaga e con la gioia che si restringe (manco a farlo apposta infatti i teatri sono chiusi e chissà quando potranno riaprire i battenti). Ho letto una interessante intervista ad un pedagogista che dà alcuni consigli ai genitori in occasione del prossimo rientro a scuola dei loro figli: evitare di caricare di paure e ansie il ritorno in classe, che dovrebbe essere invece una festa. Per me andare a scuola non è mai stato una festa e, come detto sopra, mi ha sempre procurato una certa preoccupazione, se non una vera e propria ansia. Capisco però il significato dell’appello e lo condivido.

Ormai siamo condannati a vivere in ansia: paura del covid, paura per i continui disastri atmosferici, paura della povertà dietro l’angolo, paura della solitudine, paura…Si può vivere così? Un allerta continuo, che non ci aiuta, ma ci spaventa e ci condiziona. Alle disgrazie obiettive i media aggiungono l’enfasi e la maniacale insistenza. Temo che molte persone, i giovani in particolare, reagiscano nel modo più sbagliato possibile: il delirio di onnipotenza nell’esorcizzare i pericoli, vivendo nella più totale ed irresponsabile fuga dalla realtà. Da una parte l’ansia fatta sistema personale e collettivo, dall’altra lo sballo individuale e sociale, da una parte l’overdose di informazioni sanitarie e di consigli comportamentali e dall’altra il bullismo negazionista e menefreghista.

Dice lo psicologo Daniele Novara: «Non bisogna terrorizzare i bambini: e stai lontano dalla maestra, e non toccare i compagni, mi raccomando se no prendi il virus. Troppe apprensioni bloccano i bambini e, cosa più grave, rendono ai loro occhi la scuola un luogo dove addirittura i compagni e la maestra diventano pericolosi». Il discorso vale per i bambini, ma vale anche per gli adulti: rischiamo l’isolamento e lo scoraggiamento e molti, un po’ per celia e un po’ per non morire, buttano, come si suole volgarmente dire, “il prete nella merda” e si comportano come se niente fosse. Il soggetto depresso passa normalmente da stati di abbattimento a momenti di euforia. Se andiamo avanti così tutta la società cadrà in una sorta di depressione globale, rimbalzando scriteriatamente dalla prostrazione emotiva all’artificiale baldanza.

Mi soffermo sull’emergenza scolastica: è un aspetto molto delicato. Il problema è molto serio perché c’è il rischio, assai poco calcolato, di sovvertire il sistema educativo con effetti a cascata e nel tempo a venire. Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per noi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Attenzione quindi a non farsi prendere dall’ansia del distanziamento, perché potrebbe costarci molto cara in termini umani e sociali. Però bisogna anche difendere la propria incolumità. Valla a trovare la giusta via di mezzo, che non consiste certamente nelle discoteche e nelle movide affollate e spensierate.  Sento dire in questo periodo che esisterebbe anche un diritto al divertimento: ce lo siamo inventati noi. Esiste il diritto di vivere, che è tutto un altro discorso. Bisogna sforzarsi di vivere e di vivere al meglio, ancorandoci ai valori che né il covid né le intemperie, né le povertà possono distruggere. Nel finale dell’opera Ernani di Giuseppe Verdi, Elvira è tentata di reagire tragicamente al destino avverso che gli sta rubando l’uomo amato. Il vecchio Silva, autore di quel disastro, le grida: «No, sciagurata…arrestati…il delirar non vale».  Silva non era credibile in questo appello. Noi dobbiamo esserlo, abbiamo il dovere di esserlo verso chi sta dando fuori di matto: “Arrestatevi…il delirar non vale”.

Il sogno a occhi aperti sul razzismo

Sulla scalinata del Lincoln Memorial il 28 agosto del 1963 l’allora leader del movimento per i diritti civili pronunciò il suo celebre “I have a dream”. Martin Luther King, che fu poi ucciso a Menphis nel 1968, sognava un’America senza razzismo, pacificata e integrata. Sono passati 57 anni e quel sogno non è mai stato così lontano dalla realtà come in questo periodo e così vivo nel mio animo. Riprendo di seguito le cronache di questi giorni.

Il 28 agosto 2020 a Washington erano migliaia i manifestanti, arrivati da varie parti degli Usa per ricordare quel discorso che ha segnato la lotta per i diritti civili degli afroamericani e per tutte le minoranze negli Usa. La manifestazione è caduta in coincidenza della nuova ondata di proteste per il caso Blake, il giovane afroamericano di Kenosha, in Wisconsin, colpito alle spalle dalla polizia e rimasto paralizzato, ma arriva anche nell’anno della barbara uccisione di George Floyd ad opera della polizia avvenuta a Minneapolis. La Casa Bianca è blindata, con centinaia di poliziotti e uomini del secret service schierati. Gli interventi più’ attesi sono stati quelli del reverendo Al Sharpton e quello del figlio di Martin Luther King.  La manifestazione di quest’anno era intitolata “Marcia dell’impegno, metti giù il ginocchio dal collo”, proprio in memoria di George Floyd, l’afroamericano soffocato dal ginocchio di un poliziotto a Minneapolis, pratica diffusa dalle forze dell’ordine durante gli arresti. “Non vogliamo solo che questa sia un’estate di malcontento”, ha detto il reverendo Al Sharpton, organizzatore della marcia: “Vogliamo fare come 57 anni fa, andare dal Governo nazionale e dire che abbiamo bisogno di una legislazione”. Gli attivisti chiedono l’approvazione di una legge ferma al Senato che consenta di perseguire gli agenti di polizia per cattiva condotta e per abuso di potere. Tra gli speaker della manifestazione anche i familiari di Floyd e di Jacob Blake, l’afroamericano colpito con sette colpi di pistola dalla polizia di Kenosha in Wisconsin. “Aspettiamo l’uguaglianza da trecento anni”, ha sintetizzato Don Carlisle, un cinquantenne arrivato presto con un gruppo di amici. “Tecnicamente, abbiamo costruito questo Paese e siamo ancora trattati in modo ingiusto”.  Per protesta si è fermato anche lo sport.

Donald Trump “non ha nemmeno menzionato il nome di Jacob Blake”, né ha menzionato i manifestanti uccisi a Kenosha, nel discorso alla Casa Bianca che ha dato il via alla sua campagna per le elezioni presidenziali del 3 novembre, ha sottolineato il reverendo. “Dimostra che c’è ancora molto lavoro da fare”.  Ieri sera si sono registrate numerose proteste nei pressi della Casa Bianca dopo il discorso di accettazione della candidatura alla presidenza da parte di Trump che, durante la Convention, ha ripetutamente indicato i recenti casi di saccheggi e distruzioni, durante alcune proteste nelle città’ guidate dai democratici, come prova che il candidato presidenziale democratico Joe Biden sarebbe la scelta sbagliata. Biden ha criticato il modo in cui Trump ha gestito i disordini per l’ingiustizia razziale, affermando di aver gettato benzina sul fuoco.

Intanto oggi la Cnn divulga la notizia che Blake è ammanettato al suo letto d’ospedale: lo ha denunciato la sua famiglia. Lo zio di Blake, Justin Blake, ha detto all’emittente usa che il padre del 29enne è andato a trovare il figlio nell’ospedale di Wauwatosa (Wisconsin), dove è ricoverato, e gli si è “spezzato il cuore” quando lo ha visto ammanettato. “Questo vuol dire aggiungere la beffa al danno”, ha commentato Justin Blake. Il giovane, ha proseguito, “è paralizzato e non può camminare e loro lo tengono ammanettato al letto. Perché?”. Come è noto, Blake è stato colpito alla schiena domenica scorsa da sette proiettili sparati da un poliziotto di Kenosha mentre cercava di entrare nella sua auto dove lo aspettavano i suoi tre figli piccoli. Il video del fatto ha fatto il giro del web infuocando di nuovo le proteste antirazziali e creando scene da guerra civile.  “Non ho alcuna comprensione personale del motivo perché sarebbe necessario tenerlo ammanettato”, ha detto il governatore del Wisconsin, Tony Evers, ai giornalisti. “Spero che potremo trovare un modo migliore e fare di più’ per aiutarlo a riprendersi”, si è augurato. Nel frattempo però né l’ospedale né la procura riescono a fornire ragioni della decisione. E la rabbia tra i cittadini afroamericani cresce, alla luce anche del trattamento indulgente che gli agenti avrebbero riservato al 17enne bianco responsabile dell’uccisione di due afroamericani nella notte di guerriglia a Kenosha.

La Casa Bianca ha contattato per la prima volta la famiglia di Jacob Blake. A parlare con sua madre però non è stato il tycoon ma il suo chief of staff Mark Meadows, che ha riferito di aver espresso il sostegno del presidente e di aver apprezzato l’appello alla pace da parte della donna, sullo sfondo delle proteste razziali. Sì, perché Donald Trump sta impostando la sua campagna elettorale sulla “difesa dei cittadini onesti contro le frange radicali che scatenano proteste violente”. Economia e ordine sono i suoi temi chiave e non a caso accusa il campo democratico di estremismo e socialismo. È estremismo protestare contro vomitevoli rigurgiti razzisti sostanzialmente coperti se non fomentati dalla Casa Bianca? Reagire alla violenza non è violenza, anche se la reazione a volte può sconfinare in episodi di rivalsa e di vendetta. Martin Luther King era fautore di un movimento non violento ed è molto opportuno il richiamo alla sua predicazione, al suo sogno che rimane vivo. È ordine reprimere con la forza gli scontri innescati da episodi di chiaro stampo razzista? Il razzismo è tuttora presente nel dna della società americana e Trump fa finta di niente, fa il pesce in barile. Accettando la nomination repubblicana ha sostenuto: «L’America non è soffocata dalle tenebre, è una fiaccola che illumina il mondo».

Il figlio maggiore di Martin Luther King grida: «Non ne possiamo più. C’è un ginocchio sul collo della democrazia e la nazione non potrà sopravvivere a lungo senza l’ossigeno della libertà. Ma la speranza non è ancora svanita, il cambiamento è ancora possibile e si ottiene con qualcosa di più delle marce e dei discorsi retorici. Si ottiene quando è data a tutti la possibilità di votare…». L’accesso al voto per i neri resta ancora difficile, ma essi non si devono stancare di lottare e di votare senza ricorrere alla violenza. Donald Trump fa finta di temere i brogli e quasi certamente butterà in rissa l’esito elettorale qualora fosse a lui sfavorevole. Tanto per cominciare pone ostacoli al voto dei neri, poi si vedrà… Chiediamoci il perché a distanza di oltre mezzo secolo siamo ancora incatenati alle discriminazioni razziali e, sia chiaro, non nell’ultimo dei Paesi africani, ma nel primo dei cosiddetti Paesi civili e democratici. Una stupenda canzone di Bruno Martino diceva: “E la chiamano estate questa estate senza te, ma non sanno che vivo ricordando sempre te…”. Oso parafrasarla nel seguente modo in ricordo di Luther King e della mia giovinezza da lui illuminata: “E la chiamano democrazia questa democrazia senza te, ma non sanno che vivo ricordando sempre te…”. E sia chiaro che chi pensa di squalificarmi definendomi un inguaribile sognatore, sappia che mi fa il più bello dei complimenti.

La ciambella evangelica nel naufragio trumpiano

Non sono un appassionato cultore delle religioni.  Ammetto di nutrire da sempre un certo scetticismo riguardo alle prospettive di unificazione, o per lo meno di dialogo, fra le diverse confessioni cristiane: mantengo intatta, nonostante i tentativi anche sinceri, l’impressione che si tratti di divisioni dottrinali molto influenzate da questioni di potere. Gesù, pur non essendo un prete dell’epoca, conosceva molto bene i “suoi polli” e, pur aborrendole con nettezza, le commistioni tra religioni e potere: in fin dei conti la sua morte può essere fatta risalire proprio al timore, da parte dei capi religiosi, di perdere il controllo della situazione. Per questo pregò con intensità ed insistenza affinché i suoi discepoli potessero rimanere uniti nel suo nome, senza cadere nella tentazione del frazionismo o del settarismo al fine di difendere i loro “orticelli clericaloidi”.

Di quanto sopra ho la riprova nell’atteggiamento dei cristiani evangelici americani di fronte alla presidenza di Donald Trump. Li osservo a distanza e leggo con stupore la loro prevalente adesione a questo strambo personaggio. Ho sempre avuto, seppure superficialmente, un occhio di riguardo per le questioni sollevate, in estremo dissenso rispetto al cattolicesimo, da Martin Lutero: l’essenzialità del vivere la fede in Cristo, il rifiuto di un certo insistente ritualismo, l’opposizione alla gerarchizzazione e clericalizzazione dei rapporti ecclesiali, etc. etc. Proprio per queste ragioni resto a bocca aperta quando sento e leggo che negli Usa gli evangelici hanno sostenuto e, cosa ancor più strana, continuano a sostenere Donald Trump, il quale si aggrappa sempre più all’appoggio religioso per uscire da una situazione di estrema difficoltà nella raccolta dei consensi.

Evidentemente agli evangelici non sono bastati questi quattro anni di “cazzate” per capire i profondi e insanabili contrasti fra la politica trumpiana e la fede evangelica. I legami, da quanto mi è dato capire, sono di carattere squisitamente doroteo, vale a dire questioni di potere: la religione che non cerca di ispirare la politica proponendo i propri valori con la testimonianza e con l’impegno, ma che si accontenta dei succosi piatti di lenticchie consistenti nella salvaguardia di spazi di potere e di aree di influenza. La democrazia americana mostra sempre più la corda del lobbismo su cui è costantemente in bilico e nell’asfissiante gioco lobbistico i cristiani evangelici svolgono un ruolo notevole.

Ricordo come un mio carissimo collega sostenesse che un credente, a qualsiasi religione appartenesse, non avrebbe potuto che essere politicamente di destra. Ragionamento apparentemente brutale e fazioso, ma non destituito di ogni fondamento. Se infatti mettiamo in primo piano gli interessi strutturali della religione finiamo per forza di cosa in braccio al potere, meglio se esercitato in senso reazionario o conservatore, senza correre alcun rischio di conflitto valoriale; se invece facciamo riferimento al dettato evangelico, non possiamo che essere laicamente lontani dal potere e a fianco di chi dal potere viene emarginato, discriminato, torturato e maltrattato in tutti i modi. La storia è tutta lì a dimostrarlo.

Tornando agli Usa sinceramente, pur concedendo a tutti la buona fede, non riesco a capire come un credente in Cristo possa votare per Donald Trump: le sue politiche sono la sistematica contro-rivoluzione cristiana, dal populismo al sovranismo, dal protezionismo al razzismo, dall’affarismo al clientelismo. È pur vero che in politica due più due non fa quattro, che non c’è limite al peggio, che i democratici non brillano certo per apertura agli ideali cristiani. È pur vero che non è facile essere e stare nel mondo senza essere del mondo. È pur vero che la fede non deve cercare riscontri obiettivi nella politica. Tutto quello che volete, ma che un seguace di Cristo appoggi Donald Trump mi fa letteralmente schifo. Così come mi fa schifo l’ostilità di tanti cattolici americani nei confronti di papa Francesco. Forse cattolici ed evangelici statunitensi hanno trovato una convergenza di fatto nella conservazione del potere religioso e laico. D’altra parte, come detto all’inizio, le divisioni fra cristiani avevano e hanno tuttora un bruttissimo sottofondo proprio nelle questioni di potere.

 

I telefoni azzurri dell’omertà europea

É più che scontato che mio padre amasse la buona compagnia, assai meno scontato è il fatto che esigesse una concreta ospitalità irridendo clamorosamente alle tavole spoglie: “Atenti a strabucher i bicer.”  Quando mia madre educatamente osava rifiutare col solito manierato “non si disturbi”, da provocatore nato la correggeva immediatamente: “No, no, ch’al s’disturba pur” (lascio immaginare i rimproveri che a freddo si buscava dalla moglie, ma quel che aveva detto non si poteva più ritirare).

Chissà perché di questo strano galateo paterno mi è sovvenuto leggendo i contenuti della telefonata segreta (?) tra Conte e Putin con il relativo giro d’orizzonte sugli eventi che caratterizzano o dovrebbero caratterizzare i rapporti tra Russia ed Unione Europea: soprattutto la crisi bielorussa e il caso del blogger avvelenato Alexey Navalny. Da giorni, il Cremlino ha intensificato i suoi contatti con i maggiori Paesi europei: è partito da una telefonata con la cancelliera Angela Merkel, poi è stato il turno del presidente francese Emmanuel Macron, del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, e poi, per oltre un’ora, ha conversato con il premier italiano Giuseppe Conte. Faccio di seguito riferimento al chiaro resoconto di Francesca Sforza su La stampa.

In testa all’agenda del colloquio, i fatti di Minsk, cruciali per il futuro delle relazioni tra Russia e Ue, oltre che per la martoriata popolazione bielorussa. Il premier Conte ha fatto presente che di fronte a manifestazioni e proteste di queste dimensioni non è pensabile girarsi dall’altra parte, e pur consapevole del fatto che non ci può essere una soluzione della crisi in Bielorussia senza il consenso (e diciamo pure l’approvazione) di Mosca, ha sollevato l’importanza di una mediazione internazionale affidata all’Osce. Il problema però, come confermano anche fonti russe, è che quello che gli europei considerano «un tentativo di mediazione» è visto dai russi come «un’interferenza». «Durante lo scambio di opinioni sulla situazione in Bielorussia dopo le elezioni presidenziali – si legge nella nota del Cremlino diffusa da Gazeta.ru – la parte russa ha sottolineato quanto controproducente possa essere ogni tentativo di interferire negli affari interni della Repubblica». Ma se Lukashenko perdesse il controllo della situazione, chi si farebbe carico della gestione del Paese, ha chiesto l’Italia di fronte alla fermezza con cui Mosca rifiuta eventuali interventi di mediazione europea. Putin ha fatto capire che una perdita di controllo da parte di Lukashenko sarebbe un disastro per tutti, e che per questo avrebbe consigliato lui stesso, a Lukashenko, di incontrare gli altri ex candidati alla Presidenza per cercare di trovare una soluzione di compromesso. Per quanto riguarda un possibile sostegno militare al dittatore, Putin ha ricordato che in base al Trattato di Sicurezza Collettiva, la Russia, qualora fosse avanzata la richiesta, sarebbe «obbligata» a offrire il proprio aiuto. E ha anche detto che Lukashenko quella richiesta l’ha già avanzata, ma la Russia non ritiene che ci siano al momento le condizioni per un intervento. «Se però la situazione dovesse precipitare, e si dovessero verificare attacchi a palazzi delle istituzioni – ha detto Putin – allora la valutazione sarà diversa».

Ho capito: il fattivo interesse europeo si chiama “interferenza”, mentre l’eventuale aiuto russo sarebbe una risposta obbligata alla richiesta di aiuto. Non siamo molto lontani dalla teoria della “sovranità limitata” di sovietica memoria. Mentre la Russia si erge a Paese amico della Bielorussia per tenerla al guinzaglio a costo di soffocare le rivolte popolari contro il regime di Lukashenko, l’Europa dovrebbe stare a guardare fidandosi ciecamente della mafia putiniana. È finita la guerra fredda? Ma fatemi il piacere: dalla padella della rigida spartizione delle aree siamo passati alla brace della subdola consultazione sugli interventi. Dalla guerra fredda alla pace dei sepolcri più o meno imbiancati!  Se proprio devo essere sincero preferivo i comunistoni sovietici e il loro barbaro regime burocratico allo schifoso populismo di Putin, il quale non a caso era a capo dei servizi segreti sovietici e penso abbia sulla coscienza tali e tanti misfatti da far impallidire Hitler. Siamo nella perfetta continuità. Il discorso vale a Est e purtroppo anche per l’omertà occidentale. Il garbo e la discrezione con cui operano gli Europei non è abile diplomazia, ma vomitevole e pilatesco atteggiamento. Così va il mondo…

Sono in molti gli analisti che vedono una stretta correlazione tra le rivolte in Bielorussia e il ruolo di oppositore portato avanti da Alexey Navalny, e certo le circostanze temporali tra i disordini a Minsk e l’avvelenamento a Tomsk facilitano loro questo genere di congetture. Ma il premier Conte, in linea con i partner europei, si è limitato a valutare i contorni «preoccupanti» che circondano l’intera vicenda. Il presidente russo gli ha detto di essere anche lui interessato all’accertamento della verità, tanto da voler istituire una commissione d’inchiesta per far luce sull’accaduto. Allo stesso tempo, Putin ha fatto notare come sia importante, in questa fase, una grande condivisione dei risultati scientifici con la parte tedesca. «Al momento – ha detto – non pare risultino tracce della sostanza incriminata nell’organismo della persona colpita (il nome di Navalny non è stato mai pronunciato dal presidente nel corso di tutta la telefonata), ma soltanto gli effetti che questa avrebbe avuto nel medesimo organismo». Difficile quindi, secondo, i russi, far derivare direttamente la presenza dell’agente Novichok nel corpo del blogger. Indizi, ma non prove, e per questo «senza condivisione delle informazioni sarà difficile capire cosa è accaduto».

Le acrobazie russe non sono lontane da quelle fasciste dopo la morte di Giacomo Matteotti. E noi facciamo finta di ascoltare le false elucubrazioni di Putin: la prima gallina che canta e che continua a fare uova avvelenate. In politica estera la prudenza e la cautela sono importanti, ma non devono sfociare nella fuga dalle proprie responsabilità etiche e politiche. Possibile che l’Unione Europea non possa fare qualcosa di più rispetto alle ridicole telefonate di cui sopra? Se l’anelito democratico, che sta serpeggiando in Bielorussia, aspetta un riscontro europeo, penso dovrà riavvolgere frettolosamente le bandiere o bagnarle nel sangue. Dei Bielorussi, diciamola tutta, all’Europa non può fregare più di tanto: avremo il coraggio di alzare la voce solo se Putin ci verrà a toccare nel vivo. Non so come e non so quando. Nel frattempo leghisti e pentastellati lo ammirano e lo considerano un punto di riferimento diretto o indiretto. E questa sarebbe la seconda o la terza repubblica italiana (ho perso il conto!)? Ogni giorno che passa rimpiango la prima, laddove la politica estera aveva una sua dignitosa e coerente dimensione. Acqua passata macina solo nei miei ricordi… Mio padre esigeva che gli amici si disturbassero nell’ospitalità, io esigerei che almeno si esprimessero chiaramente nella solidarietà.

Il sindaco Pizzarotti, più spretato che convertito

Sono solito accettare le prediche purché vengano da pulpiti autorevoli, competenti, credibili e soprattutto coerenti. Ragion per cui non mi farò certo dettare il voto al prossimo referendum dal sindaco Federico Pizzarotti. Questo signore è capitato per caso a fare il sindaco di Parma per demerito del Partito democratico in vena di sciagurate scelte in quel di Parma e per merito di Beppe Grillo in vena di scherzare col fuoco dell’inceneritore parmense dei rifiuti.

Stringi stringi l’elezione nell’ormai lontano 2012 è dovuta a queste due ragioni: la candidatura piddina assolutamente sbagliata (Vincenzo Bernazzoli per gli smemorati) e la demagogica quanto impossibile promessa dello stop all’incenerimento dei rifiuti. I parmigiani, me relativamente e parzialmente compreso, stanchi della presuntuosa inconcludenza del partito democratico, e fuorviati da una polemica strumentale sulla difesa dell’ambiente, decisero di aprire le porte del municipio al movimento cinque stelle inaugurando così indirettamente e incolpevolmente (?) la stagione grillina a livello nazionale.

Federico Pizzarotti ha avuto il tatticistico buongusto di ammettere i propri limiti, di abbandonare le chimere propagandistiche, di fare un bagno di realismo finanziario dopo tanti dissennati sperperi (non suoi), ma soprattutto di prendere progressivamente le distanze dal suo movimento e dalle velleitarie battaglie grilline. Questo gli ha consentito di riacchiappare la fiducia dei parmigiani, rassegnati all’amministrazione di basso profilo dopo le lunghe esperienze di affaristica e salottiera deriva.

Sia chiaro che nessuno è entusiasta di Pizzarotti e tutti lo bevono da botte. Non si erga quindi a coscienza critica e si accontenti di amministrare il condominio senza rompere troppo i coglioni. Non avrei rispolverato questi ragionamenti se non mi fossi visto tirato per la giacca (si fa per dire) dai consigli pizzarottiani in materia di referendum sul taglio dei parlamentari. Pur arrivando ad analoghe conclusioni di voto per il “no” ho letto con fastidio le sue menate, che vorrei di seguito riprendere sottoponendole all’esame finestra del suo curriculum da “maddaleno” pentito.

“Ci avviciniamo al giorno del voto sul referendum costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari, previsto per il prossimo 20 settembre. Lo anticipo: voterò no al taglio, e lo argomento”. È quanto scrive il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, in un lungo post su Facebook. “Voglio essere libero da preconcetti e visioni dogmatiche, dove chi vota sì lo fa per dare un duro colpo alla casta (ma quando mai), e chi vota no invece lo fa per spirito di conservazione contro chi minaccerebbe la democrazia (ma quando mai). Una riforma è buona o brutta a seconda dei punti di vista, ma non buona o brutta tout court.

Caro sindaco Pizzarotti, Lei si è affacciato alla politica proprio sulla base dei presupposti che ora mette in discussione: l’anticasta e l’antipolitica erano il suo punto di partenza o meglio il punto di partenza di chi inventò e portò avanti la sua candidatura. Lei ha cominciato un po’ troppo presto a sputare nel piatto dove mangiava e quindi la sua cucina politica non mi convince, perché la vedo opportunistica e frettolosa. Se Lei ha la memoria corta, io ce l’ho piuttosto buona e lunga.

Per me questa riforma è semplicemente insensata: si tratta di interrogarsi sul funzionamento della nostra democrazia, che come tutte le democrazie ha i suoi aspetti burocratici”, prosegue. “I numeri ci parlano ora di una rappresentanza più o meno equilibrata tra le principali nazioni europee, ma con il taglio dei parlamentari la rappresentanza democratica italiana diminuirebbe in misura non indifferente: 1 parlamentare per ogni 100 mila abitanti. Non è un attentato alla democrazia, non viene meno il principio democratico ma, cosa non da poco, si ridurrebbe la rappresentanza territoriale per numero di abitanti e ciò si riverberebbe sul funzionamento della macchina democratica: già ora sentiamo i parlamentari poco vicini ai territori e alle loro esigenze (o non è così?), figuratevi dopo la riforma”, sottolinea Pizzarotti.

Egregio signor sindaco, proprio Lei parla di democrazia e osa propinarci una lezioncina in merito? Lei, che proviene da un movimento assemblearista, parla di rappresentanza? Lei, che ha fatto parte di un partito che designa i suoi candidati in base a consultazioni burletta effettuate sul web, osa preoccuparsi del legame tra parlamentari e territorio? Lei, che si è lasciato inventare dai populisti, è diventato un rigido difensore dei meccanismi costituzionali ed istituzionali del funzionamento della nostra democrazia?

“Ma a fronte di cosa si tagliano i parlamentari? Dicono quelli che la vogliono: a fronte di un risparmio economico. Ma rispetto al bilancio dello Stato è un risparmio esiguo! Ma davvero il risparmio va fatto sulla rappresentanza (principio democratico sostanziale) e non, chessò, sui dicasteri, sulla burocrazia (investire sul digitale è, a sua volta, un risparmio economico), sulle decine di enti pubblici la cui funzionalità è dubbia e farraginosa, sullo stipendio stesso dei parlamentari, che ancora oggi fa tanto discutere? Queste voci vanno tutte bene? Non ci sono sperperi di denaro pubblico?”, si domanda il primo cittadino di Parma. “Però vorrei che al tempo stesso non si riducesse la discussione sul risparmio economico, favorevoli o contrari. Quanto è povera la nostra azione politica, e le nostre idee sulla democrazia, se ci soffermassimo esclusivamente su questa voce? – continua -. Sarebbe come dire che la politica è un’attività positiva e benefica quando chi la fa sa spendere, quindi risparmiare, meno degli altri.

Lei, esimio primo cittadino parmense, abiura la fede nel risparmio sui costi della politica, da cui ha preso le mosse nel 2012? Lei si tuffa nella piscina del benaltrismo e vuole insegnarci a nuotare nel riformismo provenendo dal mare assurdo del “tutti ladri e tutti stupidi”? Lei rifiuta la stretta logica referendaria dopo avere fatto professione di fede nel più becero dei radicalismi di facciata?

No: è la qualità che conta. È la qualità delle nostre azioni, la qualità delle nostre riforme, la qualità delle nostre idee, la qualità dei nostri investimenti, la qualità dei nostri servizi, la qualità della nostra rappresentanza – argomenta -. È la qualità l’obiettivo verso cui dobbiamo dirigerci. Invece vedo poca qualità e tanta, tanta semplicità. D’altra parte chi ha voluto questa riforma costituzionale è quel partito che ha posto per se stesso principi inderogabili e granitici per poi rinnegarli il giorno dopo. Non c’è qualità in tutto questo, solo tanta tanta arrogante semplicità. Voto NO al referendum, e non perché la democrazia sia sotto minaccia, ma perché ci stiamo indirizzando verso una democrazia senza qualità”, conclude Pizzarotti.

Lei, simpatico buontempone della municipalità, ci richiama alla qualità della politica, dimenticandosi di avere militato in un partito di improvvisatori, che ha fatto dell’inesperienza e dell’incompetenza le sue cifre caratteristiche? Lei dimentica di essere arrivato a reggere il comune di Parma senza avere alcuna esperienza amministrativa, senza essere dotato di preparazione, senza avere professionalità consona al ruolo pubblico in cui veniva inopinatamente catapultato. Lei mi dirà che, anche in politica, errare è umano e di avere avuto il coraggio di non perseverare negli errori. Si è convertito? Io direi piuttosto che si è spretato e divertito alle spalle prima dei parmigiani e poi dei grillini. Sì, perché una conversione politica, tipo quella di Saulo sulla via di Damasco, per essere credibile deve comportare il pagare di persona, mentre invece Lei su questa conversione ha fondato le sue fortune, trovando il modo di rimanere al suo posto dopo pazzesche giravolte politiche, che peraltro non sono ancora terminate. Ero comunque già orientato a votare “no” al prossimo referendum anche per i motivi da Lei sollevati, e voterò “no” pur se questi motivi, messi in bocca a un testimone poco credibile come Lei, rischiano di perdere pregnanza e valore.

 

Il teatro etico

Il movimento «Non Una di Meno» ha scritto una lettera aperta alla sovrintendente della Fondazione Arena di Verona Cecilia Gasdia, lamentando la presenza nel cartellone del programma del festival lirico in corso del direttore d’orchestra austriaco Gustav Kuhn e del tenore spagnolo Placido Domingo. Entrambi, viene sottolineato, sono stati accusati di molestie e abusi di potere.

«Le accuse hanno avuto delle conseguenze: indagini, abbandono o allontanamento da prestigiosi incarichi internazionali e cancellazione degli spettacoli dai cartelloni dei principali festival del mondo, viene rilevato. Verona rappresenta evidentemente un’eccezione». La lettera è stata sottoscritta da altri movimenti, associazioni e singole persone che saranno rese note sulla pagina Facebook del Movimento.

«Noi siamo quelle che lottano per un finale diverso della Carmen di Bizet, conclude la missiva. Siamo quelle che non sono disposte a sollevare nessuno e in nome di nulla dalle conseguenze dei propri comportamenti. Siamo quelle che non stanno in silenzio di fronte alla complicità. Siamo quelle che chiedono e le chiedono: perché ci sono voci che contano e altre no?”.

Ammetto di essere rimasto negativamente sorpreso e addirittura schifato dalle squallide vicende venute a galla nella vita di Placido Domingo. Confesso di non avere presente il personaggio Gustav Khun e quindi, come sempre purtroppo succede, lontan dagli occhi… Nel mondo dello spettacolo era ed è arcinoto che esistano queste vomitevoli prassi sessuali ed è giusto respingerle, condannarle, stigmatizzarle e prevenirle in tutti i modi.

Lungi da me colpevolizzare le vittime: è un vizio antico e inaccettabile. Tuttavia, se le denunce e i conseguenti movimenti di protesta avvenissero in tempi reali e non a babbo morto o a molestia consumata, sarebbe molto meglio ed avrebbero ben altro impatto. Parlo fuori dai denti: se sono una cantante lirica e mi accorgo che per calcare la scena di un teatro prima devo calcare il letto di qualche personaggio importante, non dovrei neanche minimamente adattarmi a questa prassi con la riserva mentale di vendicarmi in un secondo momento. Il coraggio bisognerebbe averlo da subito e non a scoppio ritardato. D’accordo, meglio tardi che mai, ma se vogliamo moralizzare un ambiente lo dobbiamo fare in modo netto e immediato, altrimenti a posteriori tutto diventa più sfumato e discutibile.

La seconda riflessione riguarda l’eventuale ostracismo nei confronti di chi si renda responsabile di certi comportamenti. È un discorso molto delicato, sempre e comunque, senza alcun aggiuntivo riguardo se la sessualità viene rubata da artisti in carriera. Pierpaolo Pasolini non era certamente uno stinco di santo nel vivere la sua sessualità e probabilmente avrà molestato ragazzini sfruttando la sua posizione e financo il suo denaro, finendo addirittura col rimanere vittima dell’ambientaccio con cui entrava in combutta sessuale: a nessuno venne in mente di squalificarlo a vita come poeta, scrittore e regista. Mi si dirà che sono paragoni impossibili e che un conto è la vox populi un conto sono le realtà processuali. L’esempio, con tutto il rispetto per la persona citata, mi è servito solo a rendere l’idea di una possibile forzatura etica. Inoltre bisogna tenere conto che non sempre le realtà processuali arrivano a smascherare le realtà di vita vissuta. E allora? Forse è meglio lasciare che la giustizia faccia il suo corso senza infierire a latere. Non si tratta di complicità o di stare in silenzio di fronte ad essa, ma di evitare ogni e qualsiasi strumentalizzazione seppure a fin di bene.

Posso io, direttore di un grande teatro, mettere un blocco all’ingaggio di artisti processati per reati sessuali? Forse scadiamo nel teatro etico! Magari dovrebbero essere gli interessati a chiedere scusa e a togliere l’incomodo, ma è pretendere troppo, così come è pretendere troppo che i molestati denuncino immediatamente i tentativi subiti. La società si cambia con il movimentismo di denuncia e di protesta, ma anche e soprattutto con le coscienze individuali e le loro coraggiose difese e conversioni. Non volevo scadere nel teatro etico e probabilmente ci sto ricadendo. Chiedo scusa e spero di essermi spiegato.