Siamo tutti diversamente normali

L’omofobia è la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità, della bisessualità e della transessualità e quindi delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali basata sul pregiudizio. L’Unione europea la considera analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo. Con il termine “omofobia” quindi si indica genericamente un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti avversi all’omosessualità o alle persone omosessuali.

L’omofobia è ad un tempo timore ossessivo di scoprirsi omosessuale e avversione nei confronti degli omosessuali. Il termine è infatti utilizzato con diversi significati. Le definizioni di omofobia esistenti possono essere sintetizzate in tre principali prospettive: accezione pregiudiziale, accezione discriminatoria e accezione psicopatologica:

  • l’accezione pregiudiziale considera come omofobia qualsiasi giudizio negativo nei confronti dell’omosessualità. In questa definizione vengono considerate manifestazioni di omofobia anche tutte le convinzioni personali e sociali contrarie all’omosessualità come ad esempio: la convinzione che l’omosessualità sia patologica, immorale, contronatura, socialmente pericolosa, invalidante; la non condivisione dei comportamenti omosessuali e delle rivendicazioni sociali e giuridiche delle persone omosessuali. Non rientra in questa accezione la conversione in agito violento o persecutorio nei confronti delle persone omosessuali.
  • l’accezione discriminatoria considera come omofobia tutti quei comportamenti riconducibili al sessismo che ledono i diritti e la dignità delle persone omosessuali sulla base del loro orientamento sessuale. Rientrano in questa definizione le discriminazioni sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella cultura, gli atti di violenza fisica e psicologica (percosse, insulti, maltrattamenti).
  • l’accezione psicopatologica considera l’omofobia come una fobia, cioè una irrazionale e persistente paura e repulsione nei confronti delle persone omosessuali che compromette il funzionamento psicologico della persona che ne presenta i sintomi. Tale valutazione diagnostica includerebbe quindi l’omofobia all’interno della categoria diagnostica dei disturbi d’ansia e rientrerebbe all’interno dell’etichetta di fobia specifica. A differenza delle prime due accezioni, l’omofobia come fobia specifica non è frutto di un consapevole pregiudizio negativo nei confronti dell’omosessualità quanto piuttosto di una dinamica irrazionale legata ai vissuti personali del soggetto. Quest’ultima definizione, per quanto più attinente alla radice etimologica del termine, ad oggi non è sostenuta da una letteratura sufficiente da farla inserire nei principali manuali psicodiagnostici.

Ho tentato di fare chiarezza in materia, prima di addentrarmi nell’argomento, prendendo spunto da un fatto curioso: Marco e Denis, due uomini di Padova, che dopo la loro unione civile hanno deciso di festeggiare in Puglia l’inizio della loro vita insieme. E qui hanno avuto un’amara sorpresa: lo chef del resort Canne bianche a Fasano, dove soggiornavano, ha disegnato con la salsa la forma di un pene in un piatto destinato alla coppia. “Ci siamo sentiti umiliati”, dicono i due. “Pensavo di essere in un piccolo paradiso, ma, nonostante la cura dei dettagli, il personale è evidentemente poco selezionato e omofobo: siamo stati derisi dai camerieri, lo chef con la salsa ha scritto volgarità nei piatti e ridendo con i colleghi voleva farli portare a tavola”. Viaggio di nozze rovinato, quindi, e la loro denuncia è arrivata fino a Mixed Lgbti, associazione di Bari che si occupa proprio di tematiche Lgbt e di genere.

I soggetti omosessuali hanno mille ragioni per protestare ed esigere rispetto. Nei loro confronti, senza pensare alla violenza vera e propria che molto spesso si scatena, rimane sempre una vena di irrisione, di derisione, di compatimento, che ferisce tanto quanto e forse ancor più del rifiuto clamoroso e violento.

Ci dovrebbe essere uno sforzo, da parte di tutti e a tutti i livelli, di normalizzare nel modo più assoluto le scelte di vita di questi soggetti, senza insistere nella teorizzazione e nella contrapposizione. Ho l’impressione invece che gli omosessuali tendano più ad enfatizzare e ad esibire la loro diversità che a farla rientrare appunto nella normalità.

Non ricordo chi, forse lo scrittore Luca Goldoni, accennava ironicamente al rischio che, a forza di parlare di omosessualità, i diversi diventassero gli eterosessuali, invertendo paradossalmente il discorso.  Ripulita dall’ironia, questa affermazione mi sembra abbastanza seria e significativa di un clima conflittuale in cui viene collocata a tutti i costi la questione. Se non c’è conflitto, lo si va a cercare, se ne sente il bisogno, si vuole essere discriminati a tutti i costi per rivendicare la propria libertà e normalità. È un salto culturale che le persone omosessuali dovrebbero cercare di fare, quello di non sentirsi sempre e comunque sul banco degli imputati e di voler passare su quello dei giudici, ma di vivere con assoluta semplicità la loro vita senza bisogno di protagonismo aggiuntivo. Solo se arriveremo lì, avremo sconfitto l’omofobia, diversamente terremo aperta una sorta di guerra infinita in cui abbiamo tutto da rimettere e niente da guadagnare e in cui trovano brodo di coltura e libero sfogo i mai sopiti rigurgiti omofobi.

Partecipando a feste di nozze ho a volte assistito alla stupida gag del piatto di frutta offerto alla sposa, costituito dalla pornografica combinazione tra una banana e due arance oppure della torta nuziale con sopra la statuina dello sposo con enorme fallo in erezione: cose sciocche, triviali e fastidiose. Forse il piatto col pene al pomodoro rientra in questa categoria di stupidaggini sessuali. Capisco il disappunto di chi subisce simili scherzi, ma forse non è il caso di farne un caso.

Così come l’esibizionismo spinto dei gay-pride che non fa certo bene alla normalizzazione del concetto e della prassi omosessuale: il volere a tutti i costi marcare la propria diversità portandola ai confini della provocazione estrema. Un po’ come le persone che parlano continuamente di sesso, sbandierando le loro avventure erotiche: coprono spesso le loro impotenze, insufficienze e manie. Qualche rara volta mi è capitato di parlare a tu per tu con persone omosessuali o comunque rientranti in situazioni sessuali Lgbt e le ho trovate d’accordo sulla mia tesi, anzi a volte addirittura indispettite dall’esibizionismo e dal protagonismo controproducente. A sollevare questi discorsi bisogna però stare attenti perché si può finire inopinatamente da una parte nel calderone indistinto dell’omofobia o dell’ipocrisia perbenista e dall’altra parte in quello del lassismo o del transgender.  Il solito modo manicheo di affrontare i discorsi. Sotto sotto continuiamo a considerare il sesso un tabù e lo affrontiamo con cattiveria, con senso di colpa e soprattutto con bigottismo o antibigottismo, facendo un favore ai bigotti di tutti i generi.

Per concludere mi sembra opportuno riportare di seguito testualmente quanto scrive Paolo Rodari su La Repubblica. “Si chiama La costa del Limay. È un ‘condominio sociale protetto per donne trans’, costruito nel quartiere Confluencia di Neuquén, la città più popolosa della Patagonia. È stato inaugurato lo scorso 10 agosto grazie all’impegno di una suora di clausura, la carmelitana Mónica Astorga Cremona, che da anni accoglie le trans che vivono in condizioni di disagio, spesso in fuga dalla prostituzione e bisognose di occupazione: dodici miniappartamenti con un salone comune. Secondo quanto riporta l’agenzia Telam, l’inaugurazione è stata salutata anche da papa Francesco, il quale, nonostante sia a conoscenza dell’ostilità di parte della Chiesa locale per il lavoro della religiosa, ha voluto scriverle queste parole: «Cara Mónica, Dio che non è andato al seminario, né ha studiato teologia, ti ripagherà abbondantemente. Prego per te e per le tue ragazze. Non dimenticare di pregare per me. Gesù ti benedica e la Santa Vergine ti assista. Fraternamente, Francesco».

 

 

 

 

Cappio passato non macina più

16 marzo 1993. Una giornata rimasta nella storia, perché proprio quel giorno fu rapito Aldo Moro. E in aula a Montecitorio venne sventolato un cappio. L’autore iscritto come primo cittadino nella valanga di boutade parlamentari è Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord, che con quel gesto estremo chiede pulizia nella classe politica corrotta. La scena del cappio è entrata anche in una fiction di Sky, “1993”, nella scena in cui il deputato leghista Pietro Bosco, dai banchi della Camera, prende al collega Orsenigo il cappio e lo agita. «Un falso storico – commentò Luca Leoni Orsenigo rivendicando la paternità unica del gesto – fa solo parte della finzione cinematografica. Il cappio era mio, l’ho agitato io e non lo ha mai toccato nessun altro leghista».

Sono passati oltre 27 anni. Il 10 settembre 2020 tre commercialisti vicini alle Lega e coinvolti nell’inchiesta milanese relativa alla vicenda Lombardia Film Commission e la compravendita di un immobile a Cormano nel Milanese da oggi pomeriggio sono agli arresti domiciliari. Ad eseguire l’ordinanza di custodia cautelare che riguarda anche Fabio Giuseppe Barbarossa, sono stati i militari del nucleo di Polizia economico-finanziario della Guardia di Finanza. Ai tre professionisti, insieme a una quarta persona anch’essa ai domiciliari, sono stati contestati a vario titolo i reati di peculato, turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

La vicenda non è per niente una buona notizia per Salvini. Infatti, come scrive la Stampa, si tratta di nomi “pesanti” nell’architettura finanziaria della Lega: uno è infatti amministratore al Senato del gruppo del Carroccio, il secondo è invece revisore del partito alla Camera. I nomi dei due commercialisti erano entrati pesantemente anche nell’inchiesta sulla scomparsa dei 49 milioni di fondi pubblici che la Lega avrebbe dovuto restituire allo Stato.  E poi c’è il commercialista nel cui studio è stato fondato e domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.  Uno infine è cognato di quest’ultimo e, nell’inchiesta, considerato un “prestanome”.

Questa volta il cappio rimane tra gli attrezzi della cantina, scoppia invece l’ira della Lega dopo gli arresti: giustizia a orologeria poco prima del voto. Salvini tace e lascia parlare i suoi, ma non ha dubbi: è una entrata a gamba tesa della magistratura. Una bomba in casa del Carroccio a dieci giorni dal voto alle regionali del 20 e 21 settembre. Proprio adesso che la Lega e tutto il centrodestra stanno macinando consensi in una Regione come la Toscana considerata inespugnabile fino a poco tempo fa, ma ora è in bilico grazie alla candidatura della leghista Susanna Ceccardi. E mentre c’è un testa a testa in Puglia. Matteo Salvini non ha alcun dubbio che si tratti di una entrata a gamba tesa della magistratura in un momento politicamente delicato e favorevole per la Lega.

Non entro nel merito della complicata ed articolata vicenda giudiziaria che sta diventando assai pesante per la Lega: chissà se e quando ci si arriverà in fondo e anche questo non è un bene per nessuno. Sono sempre perplesso davanti a certe iniziative della magistratura prese alla vigilia di consultazioni elettorali, che puzzano di intromissione lontano un miglio: sarebbe opportuno un po’ più di discrezione e di cautela per non influenzare impropriamente gli elettori con atti che a volte si dimostrano addirittura infondati o con accuse che, successivamente, vengono talora fortemente ridimensionate se non archiviate.

Quello che mi dà fastidio è il pendolo della strumentalizzazione politica. Ciò che ieri o ieri l’altro era da auspicare, ostentare, celebrare ed osannare, con l’esaltazione della scopa della magistratura contro la corruzione, oggi viene visto con dubbio e sospetto: niente cappio, niente manette, niente monetine, ma tanta imbarazzata perplessità sull’operato dei magistrati inquirenti. È cambiata la magistratura? Non credo proprio. È cambiata la politica? Purtroppo no, la sporcizia è rimasta in circolo e viene ripetutamente a galla come un fiume carsico. È cambiata l’informazione? No, è troppo spesso alla ricerca dello scandalo per lo scandalo o del clamore mediatico fine a se stesso. E allora? Cambiano le convenienze, l’opportunismo la fa da padrone, si oscilla spudoratamente fra giustizialismo e garantismo, fra populismo e istituzionalismo, fra qualunquismo e partecipazione. Chi ieri sbraitava lanciando accuse e manciate di fango senza andare per il sottile, oggi sottilizza e spacca il capello in quattro. L’elettore, il cittadino, di fronte a questi vergognosi cambiamenti, dovrebbe squalificarne i protagonisti, invece ne segue acriticamente le strane gimkane e applaude freneticamente. Gilberto Govi parlava sarcasticamente di “marionetti”; Simon Boccanegra esclamava ironicamente: “Ecco le plebi!”. Io mi limito a dire agli sguscianti politici ed ai cittadini faciloni: “Buffoni!”.

 

 

Bellezza femminile e bruttezza maschile

Ho profondo rispetto e grande ammirazione per le donne al punto che, come purtroppo molto spesso succede, leggendo episodi di stupri e violenze ai loro danni, resto letteralmente sconvolto e confuso. Non riesco a capacitarmi. In questi giorni è successo in ben due occasioni: a Pisticci, un paese in provincia di Matera a margine di una festa di compleanno, una “serata aperta” con cibo e alcol a volontà; a Paglia Verde, in un tratto di spiaggia libera, al Circeo, nella notte di ferragosto con una passeggiata serale in riva al mare che si trasforma in un incubo.

Faccio fatica anche a leggere le cronache tanto è lo sgomento da cui sono preso, anche se le modalità sono sempre assai simili e seguono un copione letteralmente vomitevole. Su questi fatti è già stato detto e scritto di tutto sia dal punto di vista psicologico che sociologico e infatti anche le immancabili analisi, dico la verità, lasciano il tempo che trovano.

Sintetizzerei a modo mio la situazione, a costo di apparire retorico, semplicista e manicheo: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. Come risulta evidente non è un giudizio estetico, vale a dire rispondente al gusto e al senso della forma, ma morale, vale a dire rispondente ai valori dell’animo. Mi vergogno di far parte della categoria, sì, perché forse anche la sola appartenenza fa scattare in me un senso di colpa.

Giovani uomini sordi davanti alle grida di due quindicenni che li imploravano di smettere mentre le violentavano a turno.  Se fosse plausibile cambiare sesso, lo farei. Non basta infatti condannare, scandalizzarsi, riprovare simili comportamenti. Penso sia arrivato il momento di fare qualcosa di più. Sento già chi auspica condanne esemplari, la castrazione chimica, provvedimenti giudiziari drastici. Non servono a niente. C’è chi vorrebbe scaricare colpe sulle famiglie, degli aggressori e delle aggredite: ne hanno, ma tendono a rimediare intervenendo a babbo morto, a stupro avvenuto, con atteggiamenti perbenisti o giustificazionisti. C’è chi impreca contro la rilassatezza dei costumi, contro l’eccessiva libertà lasciata ai giovani, contro le straripanti civetterie femminili, contro la droga facile, contro la mentalità dello sballo, contro la pornografia, contro i media, contro la società che guarda e tace.

L’altro giorno mi sono imbattuto in una trasmissione televisiva pomeridiana, che parlava di donne in modo ammiccante e inaccettabile, ben peggio di quanto possa succedere in uno sbracato bar di periferia. Mi è sovvenuto quanto affermò Monsignor Riboldi, battagliero vescovo di Acerra, durante un convegno: disse di preferire la pornografia pura a certi spettacoli televisivi ammantati di perbenismo.

Quindi tutte verità parzialissime e insufficienti a spiegare e combattere queste situazioni estreme (chissà quante ce ne saranno che non vengono a galla par paura, per vergogna, per quieto vivere). Dovrei allora sparare la mia diagnosi e la mia ricetta. Non ce le ho! Torno all’assioma di cui sopra: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. È nel profondo della coscienza individuale che bisogna andare a rovistare. Solo lì uno può capire il male che ha fatto, solo partendo da lì si può uscire. Una presa di coscienza che da individuale si dovrebbe fare collettiva, ma non è detto che questo succeda.  Però la ritrovata consapevolezza personale è comunque già qualcosa di importante e benefico. Ma certa gente la coscienza non ce l’ha o se la mette sotto i piedi… Ce l’abbiamo tutti e prima o poi ad essa dobbiamo rispondere.

Alcuni sorridono di fronte all’esame di coscienza serale consigliato a livello religioso. Non c’è niente da ridere, anzi c’è da piangere al buio se non lo si fa, c’è da piangere in piena luce se si ha il coraggio di farlo. Non voglio scomodare il demonio anche se ricordo sempre quanto racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale. Aveva avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avevano sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».

In totale e disinvolta controtendenza rispetto alla biblica, storica, religiosa e umana criminalizzazione della donna da Eva in poi, mi permetto di dissentire e faccio risalire al maschio l’origine dei mali dell’umanità: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. Qualcuno si sente toccato nel vivo? Benissimo, ne sono contento. A qualcuno viene da ridere? Malissimo, perché il prossimo stupro è dietro l’angolo.

 

La prigione dell’evasione

Riprendo una, banalmente tragica, notizia di cronaca da La Stampa. “Le statue e le strutture in cemento che richiamano i fasti dell’antica Roma devono essere stati un richiamo troppo forte e così una coppia di turisti a passeggio nella piazza principale di Tirrenia, sul litorale pisano, è entrata in quel giardino privato, di pertinenza dello stabilimento balneare Imperiale, e lei si è aggrappata con le braccia a una trave per farsi scattare una foto dal compagno. La struttura però ha ceduto di schianto colpendola alla testa e al collo. La donna, 43 anni, è morta quasi subito, prima ancora che arrivasse l’ambulanza. Ora saranno gli accertamenti disposti dal pm di Pisa Giovanni Porpora, che coordina le indagini dei carabinieri, a stabilire se sia stata una terribile fatalità o se la tragedia si poteva evitare”.

Alcuni giorni or sono ero in forte ansia per un diluvio temporalesco che si stava abbattendo sulla città. La strada in cui abito era diventata un fiume in piena, causa anche le bocchette intasate dalle foglie, che non ricevevano più: c’era il rischio di allagare cantine e garage. Osservavo con apprensione la situazione di quasi emergenza, dopo essermi precipitato a sgombrare ed aprire al massimo gli scarichi cortilizi per prevenire il peggio. Ebbene, una persona esce in strada e si reca sul punto di massimo ingolfamento acquatico. Pensavo tentasse di agevolare il tiraggio di una bocchetta, invece si è fatta un selfie, è uscita dall’acqua ed è rientrata precipitosamente in casa.

Siamo diventati tutti cronisti della nostra vita, senza scrupoli e senza etica. Prima viene la forma dell’evento col suo clamore d’immagine e poi la sostanza del dramma. A costo di rimetterci persino la vita. Mia madre si chiederebbe: “Podral andär bén al mónd?”.  Sembrano sintomi trascurabili e inevitabili della leggerezza umana. Certamente, ma sono anche chiari indizi della perdita del senso e del significato della vita. Anche il Papa si piega a questo andazzo e si sottopone alla tortura dei selfie scattati dai suoi visitatori.

Tutti sono in vena di autocelebrazione, ognuno vuole sentirsi protagonista di se stesso, tutti in prima pagina ed effettivamente qualcuno ci arriva, magari lasciandoci le penne. Intendiamoci bene: sono molto dispiaciuto della morte di questa giovane e bella donna, mi immedesimo nel dramma del suo compagno, che le ha fatto da sponda in questo paradossale e sciocco gioco, la ritengo vittima di un andazzo stupido e perverso da cui dovremmo uscire. Le vacanze estive, quest’anno più che mai, non sono state una meritata occasione di relax e divertimento, ma un ossessivo e controproducente sfogo sbattuto in faccia ai problemi. Tutto sempre sopra le righe, alla ricerca della trasgressione, dell’avventura. La disgrazia capitata a Tirrenia è solo una piccolissima, ma non trascurabile, punta dell’iceberg.

Di fronte alla frenetica impostazione delle vacanze e dell’evasione in genere (che rischia di essere una prigione peggiore della monotonia quotidiana) con bagni di folla nelle discoteche, nelle movide, etc. etc., mi viene spontaneo ricordare l’asciutta e pur simpatica verve di mio padre.  Si alzava molto presto al mattino per andare a curiosare tra i pescatori al porto e per godere il clima mattutino. Nuotava alla marinara, detestava gli scherzi in acqua (lui così scherzoso sulla terra ferma), non riusciva a leggere il giornale (un punto irrinunciabile della sua giornata) in spiaggia per effetto della brezza, che glielo spiegazzava continuamente, amava il sole e si esponeva molto volentieri senza preoccuparsi nei primi giorni, quando si notava l’impronta della canottiera (aveva lavorato al sole), e senza temere scottature o arrossamenti. Una giornata incrociò una bella bagnante che gli disse con fare materno: “Che scottatura, lei stanotte non dorme!” E mio padre di rimando: “Bene, così penserò a lei”. Era un bagnante sui generis, stava volentieri in compagnia con noi ragazzi, adolescenti, ma non era invadente e ci lasciava vivere in pace: ricordo ancora le risate che ci procurava con la sua tipica nonchalance. Era un uomo distensivo anche se qualche volta era tenuto al guinzaglio, si fa per dire, da mia madre. Sopportava con fatica il camminare sulla sabbia bollente e ripeteva al riguardo un vecchio adagio: “Magnär sensa bévor, fär l’amór sensa tocär, caminär int al sabión, j én tre cozi da cojón”. Aveva un suo specifico modo di godere la vacanza, piuttosto contagioso, ma semplice, liberale ed aperto agli altri. E se provassimo a fare così???

 

 

Il gobbo leghista

Il leader della Lega Matteo Salvini è stato aggredito a Pontassieve, in provincia di Firenze, durante un’iniziativa politica per le elezioni regionali della Toscana. La notizia è stata diffusa su Twitter dall’ex sottosegretario Guglielmo Picchi. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il presunto aggressore, una donna di origine africana, avrebbe strappato a Salvini il rosario e danneggiato la sua camicia. Dall’audio e dal video, postati sul sito del Corriere della Sera, si possono chiaramente sentire le parole con cui questa donna congolese si è espressa: a mio giudizio non ha tanto aggredito, ma ha inveito contro Salvini: “Ti maledico!”.

Ho fatto immediatamente il collegamento con la trama di Rigoletto, l’opera lirica di Giuseppe Verdi. Nel primo atto improvvisamente irrompe il Conte di Monterone, vecchio nemico del Duca di Mantova, che lo accusa pubblicamente di avergli sedotto la figlia. Rigoletto lo deride: è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso e allora il conte sfida orgogliosamente e apertamente il Duca, che lo fa arrestare. Ma prima che venga portato via dalle guardie, il vecchio lancia la sua maledizione al Duca (“Se al carnefice pur mi darete, spettro terribile mi rivedrete“) e soprattutto allo stesso Rigoletto (“E tu, serpente, tu che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!“). Da questo momento in poi la maledizione diventerà per Rigoletto un’ossessione che non lo abbandonerà più per il resto dell’opera. Il gobbo, evidentemente, è assai più superstizioso del suo padrone: se questi ignora bellamente le parole di Monterone (anche perché egli è incurante delle conseguenze delle proprie azioni), il buffone ne resta invece profondamente colpito (“Orrore!“, grida sul finire della scena).

La donna congolese ha dimostrato grande e nobile (sic!) rabbia nell’inveire contro Salvini, il buffone di turno, che con le sue provocazioni deride gli immigrati e i loro drammi. La gran parte della gente scuoterà il capo e così esprimerà un senso di compatimento verso quella donna esagitata e fuori di sé: non faccio parte della maggioranza silenziosa anti-immigrati. La grancassa del politicamente corretto farà finta di scandalizzarsi e condannerà la violenza da qualunque parte e per qualsiasi motivo venga: non mi associo a questo stucchevole, raffazzonato e manierato coro. Non plaudo a quel gesto, ma lo considero per quello che è: un esagerato episodio di protesta spontanea e umana. Non riesco a vedervi una manifestazione violenta, ma semmai solo un eccesso colposo in legittima difesa. Il fatto poi che a Salvini sia stato strappato il rosario fa finalmente giustizia di una triviale strumentalizzazione religiosa perpetrata dal caporione leghista (quale leader? ma fatemi il piacere…). Il danneggiamento della camicia ha anch’esso il suo significato simbolico: la reazione di chi è nudo davanti alle proprie tragedie contro chi è vestito di cattiveria perbenista ed egoista.

Le maledizioni non attaccano e, se per caso attaccassero, non avrei alcuna soddisfazione nel vederne i malefici effetti sul buffone leghista.  Mi auguro, anzi gli auguro, che la maledizione possa mettergli in crisi la coscienza, non per superstizione, ma per revisione etica e politica. Chi semina odio raccoglie zizzania. Certamente Salvini sparge veleno in lungo e in largo. Quella della donna in questione non è però zizzania: è debordante amor proprio, sbracata e irrazionale difesa del proprio onore e della propria reputazione. In poche parole non ne poteva più…

Chissà che questo episodio non sortisca lo stesso effetto della famosa citofonata alla famiglia tunisina in località Pilastro di Bologna. Allora probabilmente gli fu fatale atteggiarsi a giustiziere del piffero e perse le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Può darsi che questa volta la maledizione di cui sopra gli faccia perdere le elezioni in Toscana. Forse invece lo rafforzerà facendolo passare per vittima: la manovra è già partita. So che non è giusto ma sarei tentato di essere paradossalmente e provocatoriamente riconoscente alla donna di colore, che ha osato reagire, a modo suo, al subdolo, ma ancor più schifoso, razzismo di stampo leghista: della serie “quanno ce vo, ce vo”.  Non ci spero molto: forse Salvini, come Rigoletto, capirà la verità e ripensando alla maledizione ricevuta esclamerà: “Ah, la maledizione”.

Uccisori e guardiani di Willy

Willy Monteiro Duarte, 21 anni, è stato aggredito e preso a calci e pugni perché ha cercato di proteggere un amico coinvolto in una rissa. Per la sua morte sono stati arrestati quattro giovani dediti alla violenza. Una notte di inaudita violenza costata la vita al ragazzo di 21 anni di origine capoverdiana e residente nella vicina Paliano, morto dopo essere stato picchiato a sangue dal branco mentre tentava di placare una rissa. Inutile l’intervento dei sanitari del 118, Willy è giunto in ospedale senza vita.

Secondo una prima ricostruzione, Willy e l’amico sarebbero rimasti coinvolti in una rissa in un locale e quando il branco ha aggredito l’amico, Duarte sarebbe intervenuto invitando gli aggressori a smetterla. Ma i quattro si sono accaniti sul ragazzo massacrandolo di botte. E scappando subito dopo a bordo di un’auto di grossa cilindrata. Un pestaggio opera di un gruppo di coetanei, già noti alle forze dell’ordine.

Willy, figlio di una coppia di capoverdiani trasferitasi molti anni fa a Paliano e impegnata in una locale azienda agricola, era cresciuto nel piccolo centro della provincia di Frosinone ed era perfettamente inserito nel paese, dove giocava nella locale squadra di calcio e dove aveva anche partecipato alla sfilata in abiti storici per la rievocazione del Palio. Aveva una sorella più piccola, frequentava l’istituto alberghiero di Fiuggi e lavorava come aiuto cuoco all’Hotel degli Amici di Artena.

Di fronte a un simile fattaccio, non voglio sembrare integralista cattolico, anche perché non lo sono, ma mi affido alle voci provenienti dalla Chiesa, l’unica istituzione autorevole e credibile in grado di dare un’interpretazione nel senso dell’autocritica personale e comunitaria e del riscatto individuale e sociale. Faccio riferimento ai resoconti pubblicati dal quotidiano Avvenire.

“Siamo tutti corresponsabili”, “seduti su una polveriera che può esplodere” da un momento all’altro. È la denuncia del vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella, dopo la morte di Willy Monteiro. “L’ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci – dice il presule – ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo”. “Tutti siamo corresponsabili – denuncia il vescovo -. Da dove provengono i virus della prepotenza, della violenza, della vigliaccheria, del disprezzo della vita, della stupidità che generano queste tragedie e gettano nella disperazione intere famiglie e comunità? Siamo quotidianamente seduti su una polveriera, che può esplodere improvvisamente e di cui non abbiamo consapevolezza”. Apicella si rivolge alle famiglie, alla Chiesa, alla scuola, alle istituzioni “perché siano partecipi “di quella fondamentale e indispensabile opera di civiltà che si chiama educazione e che va rivolta a tutti, anche agli adulti”. E chiede ai parroci di diffondere il messaggio nella prossima messa domenicale.

“Barbarie pura” quella che ha portato a massacrare a morte il giovane Willy Monteiro da parte di un gruppo di coetanei. Don Luciano, parroco di Colleferro, parlando con l’Adnkronos dell’atroce pestaggio, va oltre la denuncia. Per cercare di capire il perché di tanta “follia”. “Dietro questi ragazzi c’è il vuoto, un vuoto di valori, di famiglie scardinate, latitanti. Oggi sono i social a educare… Ma anche la Chiesa – ammette il sacerdote che ieri sera ha incontrato i famigliari di Willy insieme al sindaco – non riesce più ad incidere, a fare quello che faceva prima. Davanti abbiamo un muro: il muro dei facili guadagni, di una economia che rischia di prevalere sull’uomo, dei social, della droga”. Il parroco di Colleferro parla avendo negli occhi il teatro del pestaggio: “In quel boschetto, dopo la mezzanotte, inizia la ‘vita’: droga e prostituzione. Ci si prostituisce per 10/15 euro per potere comprare droga. Quel parchetto è un tappeto di preservativi la mattina. Ho pure suggerito alle forze dell’ordine di mandare uomini in borghese ma ho l’impressione che si lasci correre. Che ci si sia arresi”. Don Luciano torna alla notte del pestaggio: “E dire che quel ragazzo, Willy, era lì per mettere pace dopo avere terminato la sua giornata di lavoro come aiuto cuoco. Colleferro non c’entra nemmeno molto visto che questi sono barbari di Artena. Siamo alla pura follia, ma la verità è che raccogliamo i frutti amari della mancanza di valori condivisi. Non solo non vale più il principio di amare il prossimo, si è smarrito il senso della ragione. In balia della ‘cultura’ dei Superman, della forza, della violenza cieca e gratuita”.

Non ho niente da aggiungere, mi sento solo in obbligo di riflettere: anch’io ho certamente la mia parte di responsabilità per questa deriva valoriale che ci sta distruggendo. Non mi sento di criminalizzare nessuno. È vero che non bisogna confondere le vittime con i carnefici, ma chi sono le vittime e chi sono i carnefici. Non siamo forse tutti vittime e carnefici? Il Signore mi dice: “Dov’è Willy, tuo fratello?”. E io rispondo: “Non lo so. Son forse il guardiano di mio fratello Willy?”.

E dal profondo Delrio la luna mia ripescherò

Graziano Delrio: “Di scuola si è parlato tardi e male. La colpa è di tutti ma ora si acceleri”. Così il capogruppo del Pd alla Camera. Nel panorama politico italiano, così penosamente avvitato su se stesso, mi sembra per diversi motivi il personaggio più serio e affidabile.

Innanzitutto non sputa sentenze, è portato a ragionare in modo pacato: non esibisce muscoli e non propone ricette miracolose. Lascia intendere di non avere solo certezze, ma anche tanti dubbi e di essere quindi disposto a dialogare e a discutere senza presunzione.  Purtroppo in un mondo come quello attuale finisce con l’essere considerato un politico senza spina dorsale, un parlamentare di seconda categoria, un signor nessuno in un parterre di padreterni.

Non è fazioso, sa ammettere limiti ed errori della propria parte politica: ha saputo sintetizzare ammirevolmente le pecche nell’azione governativa sulla scuola: bisognava cercare di fare presto e bene e si è finito col fare tardi e male. Senza scaricare colpe e responsabilità, mettendo nell’armadio le bacchette magiche, che non servono a nulla.

Graziano Delrio non è un leader? Se per leader intendiamo un fanfarone che sputa sentenze, è un gran bene che non lo sia. Se intendiamo un punto di riferimento personale e politico, lo può essere, anzi è forse l’unico personaggio con un’adeguata statura etica e politica. Ma il partito democratico è alla ricerca di qualcuno che dia sempre ragione a tutti, che difenda l’esistente o vuole una guida autorevole e innovativa nei contenuti e aperta e dialogante nei modi?

Il segretario Pd Nicola Zingaretti, sta andando avanti a zig zag: da una parte si sfoga e sembra prendere le distanze dal governo e soprattutto dal M5S: “Il Pd ormai è libero, ovunque alternativo alla destra ed eccetto in un caso sempre avversario dei cinquestelle. Di certo sarà il primo partito della coalizione e probabilmente, eccetto in Veneto, il primo partito in assoluto ovunque. Per chi sta alla finestra e non combatte, come gli alleati o Calenda, è facile nascondersi, ma è anche impossibile vincere. Il Pd invece dopo il voto comunque darà le carte. E poi si vedrà”. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Io ci vedo solo tatticismo esasperato.

Dall’altra parte Zingaretti illustra alcuni progetti per trasformare l’Italia; il “Paese che produce”: trasferimento tecnologico, competenze, sostenibilità; “Il Paese che sa”: investimenti in scuola, università e ricerca; “il Paese che unisce”: infrastrutture, digitalizzazione e reti ferroviarie; “il Paese che è sul territorio”: lotta al dissesto idrogeologico; “il Paese per i giovani”: lotta alla dispersione scolastica e per favorire la natalità; “il Paese che prende cura”: infrastrutture per il sociale e per un welfare che aiuti le donne; “il Paese che amministra”: sburocratizzazione e giustizia più veloce.

Non si può però tenere i piedi in due paia di scarpe: quelle del governo e quelle di partito battitore libero in vena di varare programmi ambiziosi e onnicomprensivi. Mi sembra che il Pd voglia un po’ fare il verso al M5S puntando ad essere una forza politica di protesta e proposta. E se Zingaretti andasse a casa, si concentrasse sulla regione Lazio di cui è governatore e lasciasse il pallino della segreteria piddina a un personaggio come Delrio, non sarebbe meglio? Un segretario che parli poco e lavori molto. Chissà che qualcuno non ci stia pensando. Mi sembra l’unico erede possibile rispetto alla seria classe dirigente di un tempo ormai lontano. E se Conte fosse costretto a fare le valige (eventualità non del tutto peregrina) e Draghi fosse effettivamente stanco (ne avrebbe più di un motivo) e si volesse comunque per tante ragioni evitare le elezioni politiche anticipate (chi ha detto che dopo Conte c’è il diluvio), non vedrei male un premier come Graziano Delrio. Molte volte la storia mi ha dato ragione, ma a distanza di molto tempo. E qui di tempo ce n’è pochissimo.

 

 

 

Scegliere o non scegliere, questo è il problema

L’ex sindaco di Los Angeles, Antonio Villaraigosa, intervistato da Alberto Flores d’Arcais per il quotidiano La Repubblica sulle previsioni elettorali americane, dichiara: «Il dato nazionale conta poco, contano quei sei o sette Stati in bilico che decideranno il risultato finale. Se i democratici perdono qui, hanno perso, anche se Biden avesse quattro milioni di voti in più. I repubblicani stanno mettendo in discussione ogni voto, a iniziare da quelli per posta, faranno ogni cosa per “rubare” le elezioni».

Forse non ci rendiamo conto fino in fondo: questa sarebbe la democrazia a cui fare riferimento? Due ipoteche gravano sulle elezioni presidenziali negli Usa: l’imbroglio istituzionale del voto a macchia di leopardo e il broglio sventolato in anticipo per mettere avanti le mani e rifiutare un’eventuale sconfitta.

Già Donald Trump aveva battuto quattro anni fa Hillary Clinton pur avendo ottenuto due milioni di voti in meno, ma la cosa potrebbe tranquillamente ripetersi in modo ancora più clamoroso. Negli Usa può vincere spudoratamente chi perde, non per un soffio, ma per milioni di voti. Roba da matti! Un simile sistema elettorale dovrebbe essere radicalmente cambiato e invece continua ad imperversare e rischia di falsare ancora la politica americana, e magari anche quella di tutto il resto del mondo, piazzando alla Casa Bianca un presidente di “larga minoranza”.

Negli Stati gravitanti attorno all’Urss le elezioni erano manovrate e il candidato ufficiale del partito unico vinceva con percentuali altissime, come avveniva soprattutto in Bulgaria. Da lì l’espressione “maggioranza bulgara” con la quale si intende una maggioranza schiacciante di consensi non sostenuta però da un libero dibattito oppure come conseguenza di palesi elezioni farsa, cioè elezioni il cui risultato ha evidenti discrepanze dal volere popolare. L’espressione deriva dalla situazione politica della Bulgaria, quando era il più fedele alleato dell’Unione sovietica, ma anche dal fatto che il dibattito interno era inesistente. Il termine ha spesso una forte carica negativa ed è talvolta usato in senso ironico. L’espressione è usata con lo stesso significato anche fuori dal campo strettamente politico.

D’ora in poi sarà bene aggiornare il lessico politico introducendo l’espressione “minoranza statunitense”. In Italia e in altre parti del mondo esistevano ed esistono le “maggioranze silenziose”, quelle parti ritenute maggioritarie in una data società, che non esplicitano pubblicamente le proprie opinioni e sono generalmente scarsamente partecipanti alla vita politica, ma che spesso la influenzano in forma passiva. La democrazia americana, capovolgendo uno dei principi basilari, introduce il vero e proprio ossimoro “maggioranza-minoranza”.

Ma non è finita. Se per caso ai democratici venisse in mente di vincere le elezioni facendo incetta di voti espressi per posta, si preparino ad essere accusati di brogli e a farsi scippare la vittoria. Non ho capito il perché, ma probabilmente solo in quanto il voto postale sarebbe teoricamente più favorevole al partito democratico. Altro ossimoro all’americana: il “voto-non voto”. Donald Trump guazzerebbe dentro una buffonata simile: per vincere ogni arma è ammessa, anche la più incredibile. E i voti a suo favore sembrano in ripresa. Ha gestito l’emergenza covid in modo indegno (quasi 200mila morti), ma basterà sbandierare l’ipotesi di un vaccino qualsiasi per conquistare il voto e coprire le drammatiche magagne.

Di fronte ad una simile situazione Giuseppe Conte, il premier italiano, introduce il suo ossimoro e “sceglie di non scegliere”. Questo o quello per me pari sono: il duca di Mantova, del verdiano Rigoletto, si esprime così a proposito delle donne. Qualcuno brutalmente dice, in piena mentalità machista: a me le donne vanno tutte bene purché respirino, intendendo che la donna va valutata solo dalla cintola in giù. La posizione di Conte, che sta perdendo non pochi colpi a livello intellettuale e politico, prevede che i gatti americani siano tutti bigi: «Tra Donald Trump e Joe Biden, chiunque vinca per l’Italia non cambia molto». Se proprio vuole fare solo della realpolitik, stia almeno zitto. Ultimo ossimoro della giornata.

 

Le passerelle e le passerone

Sessuomane è colui che ha un’attenzione morbosa per tutto quanto attiene al sesso e all’attività sessuale. Sessuofobo è chi ha paura ad affrontare qualsiasi azione o pensiero relativi alla sessualità. Fortunatamente non mi ritrovo in nessuna delle due fattispecie patologiche. Ricordo i tempi in cui dai parrucchieri per uomo si regalavano natalizi calendarietti con le donnine nude o mezze nude. “Vuole il calendario o preferisce un’agendina”, mi chiese il giovane garzone di bottega. Dammi l’agenda su cui annotare i numeri di telefono delle donne da frequentare: le passerone vere, perché non mi accontento di “guardonare” le femmine in passerella.

In questi giorni a Firenze si sono svolte sfilate di alta moda donna, di alta sartoria uomo e alta gioielleria. Dietro il paravento del rilancio economico di un settore importantissimo per il nostro Paese si nascondono passerelle mozzafiato di modelle e modelli (mi interessano molto meno) che legano perfettamente sesso, economia e voglia di reagire allo stress covid.

A Venezia è in corso il Festival del Cinema e nessuno si interessa ai film in proiezione. Tutti guardano il tappeto rosso dove sfilano le star. Cecilia Rodriguez ha infiammato Venezia con uno spacco spettacolare e vertiginoso. É arrivata da sola e non voleva passare inosservata. E ce l’ha fatta eccome. La sorellina di Belen ha sfoderato un vestito pirotecnico, che ha mandato in visibilio i fotografi i quali hanno cercato di immortalare ogni particolare. Specialmente i più piccanti. A Venezia sta vincendo lei, il suo vestito ‘enorme’ ma sensuale, che sembra coprire tutto, eppure… Tutti a bocca aperta per bellezza e originalità. Un vestito argentato con gonna che si allarga a dismisura. La soubrette ha catturato l’attenzione di tutti.

La sorella di Belen era arrivata a Venezia al Festival del Cinema per la prima del film “Padrenostro”, di Claudio Noce, con Valeria Solarino e Pierfrancesco Favino. Una grande occasione per farsi notare, e Cecilia non se l’è lasciata sfuggire. Indossava un abito da sera firmato Maria Lucia Hohan. Ma quello che ha lasciato tutti a bocca aperta, a partire dai fotografi, è stato uno spacco laterale all’altezza di coscia e glutei, e Cecilia non ha avuto paura di mostrare le sue curve, anzi ci ha giocato, voleva sedurre tutti e ci è riuscita.

Siamo alle eleganti ma indiscutibili saghe sessuali. Forse un modo come un altro per esorcizzare il covid e le sue ossessioni. Forse il modo più spiccio e accattivante per uscire dalla rientrante emergenza. L’evasione che per l’uomo parte dall’apertura virtuale della patta dei pantaloni, per la donna prevede la mostra reale ed ammiccante del proprio corpo. Eva vince sempre due a zero. E cosa c’entra il covid? C’entra eccome…meditate gente… È tutta una questione di sfiga, quindi… Facco come mio padre: quando si discuteva di politica, ad un certo punto sovrastava tutti ad alta voce: “A vris veddor cò i fan Barilla e Balestrieri”. E chi non capiva la stoccata ironica verso i trinariciuti rispondeva piccato: “Cò’ gh’éntra Barilla e Balestrieri”. Papà concludeva così: “N’al so miga, si vuètor ch’andì sémpor adrè”.

Arisa, Cecilia Rodriguez, Tania Cagnotto: chi si copre, chi si scopre, chi fa impazzire un po’ tutti a partire dai fotografi. Tutto sommato non sono né scandalizzato, né minimamente infastidito: la donna col suo meraviglioso corpo e con il suo animo (le due facce della stessa medaglia) è l’antidoto a tante sciagure. Purtroppo non ai femminicidi e agli stupri, che però non c’entrano niente col vero e proprio sano sesso.

Gli spacchi mi piacciono e mi aiutano ad essere uomo che vuole scoprire di essere tale, purché non mi fermi lì e vada oltre gli spacchi esibiti per puntare alla donna integrale. Non sopporto i sottanoni, mi piacciono i burkini, odio i bigottoni più o meno evangelici, ammazzerei (si fa per dire) chi guarda dal buco della serratura, mi fa schifo chi si schifa del sesso. È tutta questione di misura, di erotismo intelligente. Le donne le ho sempre preferite ben tenute, in ordine, belle, compatibilmente con i doni di madre natura, nell’anima e nel corpo. Sono tuttora di questo parere e allora concludendo non mi resta che rincarare la dose. A pensarci bene, ritengo molto meglio, da tutti i punti di vista, il vertiginoso abito con spacco inguinale, sfoggiato alcuni anni or sono a San Remo da Belen Rodriguez, e l’abito metallizzato plissettato con lo spacco vertiginoso indossato a Venezia dalla sorellina Cecilia, piuttosto che i sottanoni cardinalizi fruscianti intorno ai compiaciuti governanti italiani. Questione di gusti.

 

Abbasso la pubblicità, evviva la televisione pallosa

Ogni tanto fa capolino nel dibattito politico e negli indirizzi di governo l’eventualità di contenere la pubblicità sulle reti Rai alzando il canone o meglio aumentando la parte di canone che entra nelle casse dell’Ente radiotelevisivo.  Molti gridano allo scandalo perché dei vantaggi derivanti da questa tendenza usufruirebbero le televisioni private.

Le tv private facciano quello che vogliono, pur rispettando le regole, a me interessa che ci sia una televisione pubblica che si e ci liberi il più possibile dal condizionamento pubblicitario e che quindi possa programmare i palinsesti senza troppo preoccuparsi dell’audience, vedendosi costretta a sfornare la cosiddetta tv spazzatura o addirittura deficiente.

Fu in occasione di una visita a Gallo Grinzane, in provincia di Cuneo, il 19 novembre del 2001, che scoppiò una delle più violente polemiche sulla televisione spazzatura di cui si avverte ancora l’eco. In quell’occasione la signora Franca Ciampi, moglie dell’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, rispose così, mentre visitava il locale castello dove ha sede il premio letterario, al presidente della manifestazione Giuliano Soria, che la esortava a promuovere la lettura fra i giovani: ”Con me sfonda una porta aperta: noi abbiamo tre nipoti e a loro dico sempre non guardate quella deficiente , non me ne voglia Zaccaria, di televisione, ma leggete, leggete, leggete”, fu la risposta, riferita all’allora presidente della Rai.

Persino la perbenistica TV 2000, quella gestita direttamente e/o indirettamente dalla Conferenza Episcopale Italiana, è impiccata alla pubblicità: la manda in onda prima delle messe, dei rosari, degli Angelus del Papa, sfruttando la scia delle trasmissioni religiose e condendo la pubblicità stessa con menate pseudo-etiche, che fanno venire il latte alle ginocchia.

Io sarei sinceramente disposto a pagare un canone Rai maggiorato pur di alleggerire la televisione nello stillicidio pubblicitario, così come sarei disposto a pagare un obolo a Tv 2000 purché cessasse lo scandaloso effetto traino che mescola con simoniaca disinvoltura il sacro e il profano. Nessuno dice niente: tutti zitti, tutti contenti di bere pubblicità a colazione, a pranzo, a cena, a messa, al rosario, etc. etc.

Sembra che Giuseppe Conte e il suo governo lascerebbero alla Rai una porzione maggiore del canone tv, nell’ordine dei 150-200 milioni di euro, ma aumenterebbe la fetta di pubblicità per i concorrenti, che ben sappiamo a chi fanno particolare riferimento. Non è questa la riparametrazione da me sopra auspicata. Ma so di essere un inguaribile anticapitalista e antiliberista, forse un comunista.

Non ditemi che non sarebbe positivo poter scegliere la visione dei programmi senza subire il ricatto pubblicitario. Se la pubblicità è l’anima del commercio, contenerla entro certi limiti potrebbe essere l’anima dello spettatore televisivo. Sapeste quante e quali acrobazie tento per bypassare le interruzioni: cerco, telecomando alla mano, di liberarmi dall’incubo, ma non c’è niente da fare. Cambia canale, cambia ladro!

Si ironizza sulla televisione senza pubblicità considerandola “pallosa” e inguardabile. Posso fare un paragone azzardato, triviale e scandaloso? Per soddisfare brutalmente i propri istinti sessuali, è meglio ricorrere alla pornografia o alla prostituzione. È meglio masturbarmi con una bambola gonfiabile dove compro aria sporcacciona o provare un rapporto a pagamento con una donna tutto sommato assai meno sporcacciona di me. La pornografia è una risposta virtualmente obbligatoria che ti lascia con un palmo di naso. La prostituzione almeno la scegli, se vuoi, la paghi, a volte la puoi persino apprezzare nella sua schiettezza e sincerità. Pornografia=pubblicità; prostituzione=scelta della trasmissione con tutti i rischi del caso. Mi sono spiegato? Se fosse ancora al mondo la signora Ciampi, per la quale non avevo grande simpatia, forse sarebbe d’accordo con me e opterebbe per la castità della lettura. Ma siamo poi così sicuri che la lettura ci liberi dalla tirannia delle televisioni e dei social?  Infatti io non sono mai riuscito ad essere puro e casto al par di neve alpina…