I cavilli che diventano cavalli

Disturbo del metabolismo e del trasporto dei carboidrati. È questo il nome della malattia rara da cui è affetta una bambina calabrese di dieci anni. Una patologia importante e delicata che la porta a bruciare subito gli zuccheri e ad andare in ipoglicemia. Il rischio è il coma. Dopo anni a combattere per capire che cosa la piccola potesse avere, dal Bambin Gesù arriva la diagnosi e il piano terapeutico da seguire fatto, tra l’altro, da integratori che costano centinaia di euro al mese, ma possono rallentare il metabolismo degli zuccheri.

L’Asp di Catanzaro ha trovato un cavillo dopo l’altro, richiedendo addirittura che venisse cambiata l’intestazione del piano redatto su carta dell’Asp laziale. Ogni volta che un nodo veniva sciolto ne spuntava un altro. Il tutto mentre da Roma assistono sbigottiti e la piccola vive precariamente. La bambina deve, infatti, cibarsi di frequente, notte compresa, per ostacolare l’abbassamento dei livelli glicemici. Non sono ammesse distrazioni, l’organismo brucia velocemente gli zuccheri e il rischio del coma non è lontano. Tra l’altro la piccola non reagisce ad un farmaco salvavita utilizzato di solito in queste evenienze.

Ad un certo punto si deve riunire una commissione per decidere se la piccola abbia diritto o meno al piano terapeutico. «Non chiedo una pensione di invalidità, ma di potere curare mia figlia», dice il papà della bambina. Nel frattempo la vicenda è approdata in Procura, il padre esasperato ha scelto la strada della magistratura: «Chiedo semplicemente di avere accesso al piano terapeutico. È un nostro diritto», dice. Non ne sono sicuro, ma mi pare, dalle scarse notizie trapelate, che alla fine la vicenda si sia sbloccata, dopo un tira e molla a dir poco vergognoso.

Una sessione “ad hoc”. È una delle accuse formulate nell’ordinanza firmata dal capo della procura della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone, che ha portato ai cinque indagati dell’Università per stranieri. In pratica, un esame fatto apposta per consentire a Luis Suarez di ottenere il famoso livello B1 propedeutico alla cittadinanza italiana, in quel momento necessaria per giocare nella Juve (invece l’uruguaiano è passato poi all’Atletico Madrid). Per sostenere l’esame, il calciatore trentatreenne, era volato da Barcellona su un aereo privato, per approdare all’ateneo perugino e uscirne appena mezz’ora dopo. Prova superata, ma per la Procura solo grazie al trucco di domande e risposte concordate preventivamente e quindi in maniera illecita, con un punteggio stabilito ancora prima che l’esame iniziasse.

Al di là delle responsabilità che verranno accertate da chi ne ha il compito, emergono clamorosamente due pesi e due misure: la burocrazia tremenda e spietata per una bambina che rischia la vita, rapida e compiacente per un ricco calciatore che intende accasarsi in una nuova squadra a suon di milioni di euro. È lo specchio fedele di una società assurda, che funziona ad uso e consumo dei forti e rischia di scartare i deboli. Storia vecchia, si dirà. Fa però sempre un certo effetto apprendere che l’ingiustizia è dietro l’angolo. Sarà solo questione di burocrazia pesante, pedante, parziale e discriminatoria o ci sarà qualcosa di più? Fossi ministro della salute o della funzione pubblica proverei a chiedermelo. Da sessantottino incallito casco regolarmente nel tranello di buttarla in politica. Lo so, ma non mi convincono l’alzata di spalle, lo scuotimento del capo, l’allargamento delle braccia, il rassegnato inchino alla burocrazia criminalmente plenipotenziaria. Forse si potrebbe fare qualcosa. Forse si dovrebbe fare qualcosa!

 

 

 

Il canonico Samaritano

“Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico. Così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede. Pertanto, sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte. Per questo, «l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore»”.

Siamo al solito dogmatismo clericale interpretato alla perfezione dalla recentissima lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. Non accetto queste visioni dottrinarie, teoriche e radicali, che finiscono col creare assurde ed inaccettabili generalizzazioni. Quando in classe qualcuno faceva casino e non si riusciva bene a distinguerlo si finiva col punire tutti indistintamente mettendo tutti dietro la lavagna dei cattivi. Che dietro la lavagna ci finiscano i moribondi costretti a vivere non lo posso nemmeno pensare.

“Alcuni fattori oggigiorno limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica, che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza».[30] In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa”.

Mi chiedo: cosa c’entra con questo aulico ed accademico discorso un povero cristo (sic!) che, sottoposto a sofferenze inenarrabili, ritenga di non riuscire più a sopportarle sul piano fisico e psicologico e chieda di mettere fine alla propria esistenza terrena, uscendo di scena silenziosamente e in punta di piedi. Questo sarebbe egoismo? Individualismo? Disprezzo per la vita? Ma fatemi il piacere… L’alimentazione forzata, le cure palliative, gli antidolorifici sono la foglia di fico dietro cui si nasconde un caricare gli uomini di pesi insopportabili, toccando quei pesi solo col dito della finta solidarietà, più parolaia che teorica. Mi viene spontaneo fare un parallelismo farisaico con l’ammissibilità del metodo anticoncezionale Ogino-Knaus: l’importante è salvare la forma, il principio astratto, la regola religiosa. Il discorso, entro certi limiti, vale anche per l’aborto.

Riguardo al vizio della regolamentazione religiosa ritengo opportuno rifarmi a quanto diceva don Andrea Gallo: «Non è la tutela dei diritti individuali uno dei cardini del messaggio evangelico? La nozione di vita deve essere alta, ricca, personale più di quanto non sia una nozione di organismo, oggetto della scienza. Dov’è l’amore? Dov’è il rispetto del primato della coscienza personale? Dov’è la pietà? C’è un vuoto d’amore in questa crociata cattolica e avanza un pesante fondamentalismo. Esistono regole come la libertà di cura e il divieto di accanimento terapeutico anche nel catechismo. Mi sembra che si voglia respingere un principio sancito dalla legge, come la libertà di non accettare cure. A Piergiorgio Welby, per sua volontà, mentre ascoltava la musica di Bob Dylan, dopo essere stato sedato, è stato staccato il sondino ed è spirato: era come un malato di tumore con metastasi, sapeva che l’operazione non sarebbe servita a nulla e l’ha rifiutata. Si può accettare un’esistenza dolorosa in un letto, completamente immobile? Per Welby era un inferno. Chi aveva il diritto di decidere per lui?».

Non si dovrà, come disse in una stupenda battuta polemica Pier Luigi Bersani, accettare che a decidere modi e tempi della nostra morte sia il senatore Gaetano Quagliariello, preoccupato solo di compiacere i cattolici dotati di dogmatici paraocchi: penso di avere il sacrosanto diritto a decidere in proprio, dal momento che la vita è stata donata a me ed io ne devo e ne dovrò rispondere. Ho fatto esperienze tali da convincermi che non solo il testamento biologico sia sacrosanto, ma anche la prospettiva di una seria legislazione in materia di eutanasia non sia assolutamente da scartare a priori dal punto di vista etico e civile. Quindi non concedo nemmeno ad un gruppo di soloni chiusi nelle stanze vaticane di sindacare e speculare sulla mia vita e sulla mia morte.

Sono sicurissimo che il Padre Eterno non giudicherà chi ha deciso di mettere fine alle proprie sofferenze, richiamandosi alla lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, subdolamente intitolata “Samaritanus bonus”, ma lo abbraccerà piangendo e sussurrando: “Finalmente sei arrivato a casa, era proprio ora…”.

Per finire una parolina nell’orecchio a papa Francesco: ho l’impressione che dia persa la battaglia contro il dogmatismo curiale e si tenga in disparte da esso pur controfirmando i documenti ufficiali della Congregazione della fede. Un atteggiamento del genere io me lo posso permettere, lui (forse) no. Non può razzolare bene (gliene do atto) e predicare male (in certe topiche occasioni). Cerchi almeno di smorzare i sacri ardori e i reiterati rigurgiti della “scomunichite cronica”. Ho la presunzione di pregare perché il Signore gli dia questa forza.

 

Il vangelo secondo Trump

Il termine “temporale” indica il governo degli uomini. L’espressione potere temporale si usa però di solito in riferimento al periodo storico in cui il Papa, oltre ad essere sommo pontefice della Chiesa cattolica, è stato anche sovrano dello Stato Pontificio. In quel periodo ne sono successe di tutti i colori: la Chiesa ha perso il pelo, ma non il vizio dell’intromissione, che è durato nel tempo, seppure con alti e bassi, e non è mai completamente scomparso.

Ebbene gli Usa di Trump riescono a peggiorare le situazioni persino quelle concernenti i rapporti fra Stato e Chiesa, capovolgendo il discorso delle interferenze: non più la Chiesa che si intromette, ma l’America che si permette di parlare nella mano del papa e dei suoi collaboratori. Riprendo di seguito quanto scrive il quotidiano La Stampa. Il segretario di Stato americano punta il dito sugli accordi tra la Santa Sede e Pechino per la difesa dei cattolici. Pompeo si schiera apertamente contro il Vaticano: non rinnovi accordo con la Cina, metterebbe in pericolo sua autorità morale. Innanzitutto Trump si dovrebbe preoccupare della propria autorità morale che ha raggiunto infimi livelli da tutti i punti di vista.

Il governo degli Stati Uniti lancia una sonora bordata contro la politica di avvicinamento della Santa Sede alla Cina, e in particolare contro lo storico accordo tra il Vaticano e il governo di Pechino sulle nomine dei vescovi che, a due anni dalla firma, è ora in via di rinnovo. É in particolare il segretario di Stato Mike Pompeo ad affermare via Twitter che «due anni fa la Santa Sede ha raggiunto un accordo con il partito Comunista Cinese nella speranza di aiutare i cattolici in Cina. Ma l’abuso del Partito Comunista Cinese sui fedeli è solo peggiorato. Il Vaticano metterebbe in pericolo la sua autorità morale se rinnovasse l’accordo».

Pompeo va oltre e sottolinea che «il Dipartimento di Stato è una voce forte per la libertà religiosa in Cina e nel mondo. Continueremo a farlo e a essere a fianco dei cattolici cinesi. Chiediamo al Vaticano di unirsi a noi». «I cattolici sono fra le voci più forti a Hong Kong per i diritti umani, inclusi Martin Lee e Jilly Lai. Pechino li ha arrestati, li ha spiati per il ‘reato’ di promuovere la libertà. Il Vaticano dovrebbe stare con i cattolici e il popolo di Hong Kong», aggiunge il segretario di Stato Usa in una serie di tre tweet, ai quali allega anche un suo editoriale per First Things, rivista religiosa e conservatrice. Un editoriale nel quale afferma che la «storia ci insegna che i regimi totalitari possono solo sopravvivere nel buio e nel silenzio. Se il Partito Comunista Cinese» riuscisse ad «assoggettare la Chiesa Cattolica e le comunità di altre religioni, allora i regimi che disdegnano i diritti umani saranno rafforzati, e il costo per resistere alla tirannia da parte dei credenti salirà».

Da Oltretevere, al momento, non si hanno ancora reazioni ufficiali alle affermazioni provenienti dall’amministrazione Trump. Meno di una settimana fa era stato il primo collaboratore del Papa, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin a dichiarare che l’accordo sulla nomina dei vescovi, tra il Vaticano e la Cina, scadrà “ad ottobre” ma le intenzioni comuni sono di proseguire con il suo rinnovamento. «L’accordo non è ancora spirato – ha spiegato Parolin -, lo sarà nel mese di ottobre, scadranno i due anni dal momento in cui è entrato in vigore ed è stato firmato, quindi non si è ancora, compiuto».

Alla domanda se ci siano buone prospettive per il rinnovo, ha aggiunto: «Sì, io credo proprio di sì, la nostra intenzione è che sia prolungato, che si continui ad adottarlo ‘ad experimentum’. Se c’è la stessa intenzione anche da parte loro? Penso e spero di sì, anche se questi primi risultati» non sono stati particolarmente entusiasmanti «ma mi pare che si sia segnata una direzione che vale la pena di continuare poi si vedrà, rimane aperto però il discorso della collaborazione, va applicato in ogni epoca storica, anche nei confronti di questo grande Paese». Da Pechino, quasi in contemporanea, sono giunte assicurazioni sul fatto che l’intesa provvisoria del 2018 «è stata attuata con successo negli ultimi due anni grazie agli sforzi congiunti» e sulla volontà di «continuare a mantenere uno stretto contatto per migliorare ulteriormente le relazioni bilaterali» (tra Cina e Santa sede le relazioni diplomatiche si sono interrotte nel 1951).

Un processo che va avanti – l’attuale “ostpolitik” del Vaticano di papa Bergoglio – che evidentemente non va giù all’amministrazione Usa, impegnata in un duro scontro con Pechino su questioni come, tra le altre, il 5G, le guerre commerciali, la raccolta di informazioni, e anche la situazione di Hong Kong. Nei giorni scorsi era stato proprio il quotidiano dell’ex-colonia britannica, il South China Morning Post, a scrivere dell’imminente arrivo del capo della diplomazia Usa in Italia e in Vaticano, con incontri istituzionali e con i vertici d’Oltretevere, sottolineando che Pompeo cercherà di scoraggiare l’Italia dall’accettare investimenti cinesi in strutture portuali e farà pressione sulla Santa Sede proprio mentre essa sta curando con particolare attenzione le sue relazioni con la Cina Popolare.

In buona sostanza, agli Usa non interessa niente dei diritti umani in generale, dei diritti dei cattolici in Cina in particolare, a loro stanno a cuore gli interessi commerciali e gli equilibri internazionali. Nell’attuale politica americana è difficile capirci qualcosa: pensano di fare e disfare a loro piacimento, facendo un gran casino e poco più.

Non so come reagirà papa Francesco. Il rapporto fra Stato cinese e Chiesa cattolica è molto delicato: temo che l’ostpolitik vaticana possa sacrificare in parte la libertà dei credenti sacrificandola sull’altare dei buoni rapporti al vertice. Si tratta di una partita molto complessa che tuttavia non si può certo affrontare con l’accetta trumpiana.

“Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”: con questa lapidaria battuta Gesù diede una soluzione radicale al problema dei rapporti tra fede e potere civile. Certo non piacerebbero a Lui le alte acrobazie diplomatiche vaticane, i compromessi con i regimi, la ricerca di appoggi politici, anche se la Chiesa, come ogni cristiano, non deve essere del mondo, ma nel mondo. E nel mondo c’è la Cina con la sua storia. Non mi sento in grado di entrare nel merito, seguo con trepidazione e preoccupazione la sorte dei cattolici in Cina, un regime pericolosissimo perché riesce a mettere insieme il peggio del capitalismo e del comunismo. Figuriamoci cosa può uscire di buono da questo cocktail, per tutti e in primis per i cinesi e in particolare per i cattolici cinesi.

Una cosa però è certa: Gesù non ha risposto a chi lo voleva intortare coinvolgendolo nelle discussioni sui rapporti tra la fede e la politica, invitandolo a chiedere consiglio a Erode. Quindi non deve essere certo Trump (un attuale Erode di lusso) a dettare l’agenda politica al Vaticano. Tra i vangeli apocrifi non mi risulta che ce ne sia uno secondo Trump. Michael Richard Pompeo, detto Mike, è un politico e imprenditore statunitense, Segretario di Stato degli Stati Uniti dal 26 aprile 2018, sotto la presidenza Trump: non ce lo vedo nelle vesti di precursore alla Giovanni Battista, che chiede al Vaticano di convertirsi. Vada pertanto a farsi benedire o battezzare prima di pontificare.

 

Un voto contro gli “sborroni” di turno

Come al solito hanno vinto tutti. Il M5S si accontenta di aver dato una sforbiciata al numero dei parlamentari e di avere accarezzato la pancia populista del suo elettorato, che però si è assottigliato in modo clamoroso (giudicati molto bravi a dire dei no, molto bravi a tagliare, piuttosto penosi a governare).

Matteo Salvini si accontenta di aver messo un po’ di strizza al sedere del PD: quando però si passa dalle pagliacciate mediatiche alle urne, le cose cambiano e la Lega di Salvini cade regolarmente sull’asticella posta troppo in alto (vedi Toscana dopo Emilia-Romagna). Il risultato elettorale netto del Veneto non è farina del sacco salviniano, ma del suo principale contendente interno, vale a dire Luca Zaia.

Giorgia Meloni si consola con la conquista del governatore delle Marche e ridimensiona però le sue assurde e sconvolgenti pretese dopo aver prefigurato uno sfracello alluvionale contro il governo e l’attuale maggioranza. Il centro-destra incassa una secchiata sui suoi facili e velleitari entusiasmi.

Il Partito Democratico tiene con una certa disinvoltura le tre regioni chiave, Toscana, Puglia e Campania, di questa tornata elettorale anche senza l’appoggio dei pentastellati: l’elettorato, nonostante tutto riconosce al Pd un ruolo fondamentale nel Paese e sul territorio. Rimane la grossa difficoltà di questo partito che, come sostiene il sindaco di Scandicci, tiene, ma vince solo dove si sta meglio e perde dove c’è malessere e che quindi è da rifondare alla ricerca di una nuova identità non con occhio nostalgico al passato ma con attenzione al mondo che cambia e lascia indietro troppa gente.

Il governo Conte esce rafforzato, si salva bene dal punto di vista politico e tattico, conferma una certa qual strisciante seppure brontolante fiducia dei cittadini, ma deve trovare la forza per trovare equilibri programmatici più convincenti, per governare molto meglio a livello di competenza, di capacità e di coerenza, non accontentandosi della comprovata mancanza di alternative agibili.

Come al solito hanno perso i profeti di sventura che prevedevano un flop organizzativo dei seggi e di affluenza alle urne. I cittadini hanno espresso un voto molto pragmatico e dimostrato più senso democratico e più saggezza di quanto pensassi (anche se hanno accettato populisticamente e tout court un ridimensionamento parlamentare, ma hanno penalizzato le forze politiche populiste che lo sbandieravano), mettendo a tacere gli “sborroni” capaci di tutto e buoni a nulla.

Qualcuno sostiene che sia necessario andare a votare per nominare un nuovo Parlamento ridimensionato dopo l’esito del referendum, ritenendo l’attuale delegittimato a continuare e soprattutto ad eleggere il futuro presidente della Repubblica. Quella che doveva essere una spallata si è trasformata in un solletico strumentale: tutto andrà avanti dal punto di vista istituzionale senza grossi scossoni.

Adesso spostiamo l’attenzione su come governare più seriamente la ripresa, su come utilizzare bene e alla svelta i fondi europei, su come ridare slancio al Paese con occhio a coloro che vivono e rischiano grosse sofferenze. I disfattisti hanno preso la loro botta e me ne compiaccio vivamente. Guai però se tutto finisse con lo scorno salviniano e/o con il ridimensionamento meloniano. La politica è molto di più e merita di più.

Non provare per credere

Alla triste vigilia della guerra del Golfo, vale a dire agli inizi del 1991, durante una trasmissione sportiva in televisione, la conduttrice Alba Parietti, bellissima donna e a quel tempo incantatrice di calciodipendenti, a commento di una notizia flash sulla trattative per evitare in extremis la guerra, notizia che riportava la richiesta di aiuto a Dio da parte dell’allora segretario generale dell’Onu, ormai deluso e scoraggiato dalle umane diplomazie incrociate, con atteggiamento a metà tra lo scettico e lo sprezzante, ha sciorinato, in tono aggressivo, questa battuta: “Se Dio c’è, è il momento di dimostrarlo”.

Certamente il Padre Eterno non aveva bisogno di vedere accreditato il proprio ruolo da una pur affascinante donna di successo, la cui presunzione peraltro poteva arrivare fino al punto di lanciare un ultimatum a Dio richiamandolo alle proprie responsabilità. Povera Alba e poveri tutti noi che forse ci meritammo quella guerra, che non tardò purtroppo a scoppiare.

Facciamo un acrobatico ma significativo paragone con l’attualità. Alla viglia della consultazione elettorale regionale in Toscana, stando alla cronaca riportata da La Repubblica, Giorgia Meloni ha tirato anzitempo le somme politiche. «Qui se po’ fa’», ha azzardato in romanesco, aggiungendo: «Non abbiate paura di cambiare, di provare qualcosa che non avete provato mai in questa regione. Provate una persona di centro-destra, una donna che è lì perché capace. Se prendi un passante a fare il ministro ti ritrovi la Azzolina e lo paghi. Faremo della Toscana una terra forte, libera e coraggiosa». Fin qui le argomentazioni che sembrano uscite da uno spot pubblicitario in materia di detersivi per i piatti più o meno sporchi.

Il bello però è un altro. Sbilanciandosi ancor più di Matteo Salvini, forse indebolito dalle recenti ed avvolgenti inchieste giudiziarie a carico di “strani” personaggi del suo partito e di Silvio Berlusconi, che fa sempre più tenerezza che rabbia, sognando ad occhi aperti di dare una spallata al governo Conte, la leader (?) di Fratelli d’Italia fa appello al presidente della Repubblica, il quale “magari una riflessione dovrebbe pur farla, anche perché non è un banale acritico notaio e Conte non si dimetterebbe mai, mentre la Costituzione prevede lo scioglimento delle Camere”.

Certamente Sergio Mattarella non aveva bisogno di questo ripasso “bignamiano” sui poteri del capo dello Stato, tanto meno di uno sconclusionato discorso sullo scioglimento delle Camere e ancor meno di consigli sul comportamento riflessivo da tenere. Anche perché il pulpito da cui viene la predica è penoso e sbracato.  Che la presunzione di questa politicante da strapazzo arrivi fino al punto di permettersi di dare lezione al presidente della Repubblica, usando peraltro un tono stupidamente ironico e inaccettabilmente (quasi) minaccioso, non pensavo fosse possibile, invece purtroppo questo e altro.

Povera Giorgia e poveri italiani che forse, in fin dei conti, (non) si meritano di provare un governo di destra-destra, dopo averne più volte provato in passato, con catastrofici risultati, uno di centro-destra. Stando a Giorgia Meloni ci ritroveremo, come in Toscana, in una terra forte, libera e coraggiosa. Dio ce ne scampi e liberi.

ll 16 settembre Ursula von der Leyen è intervenuta al Parlamento europeo per fare il punto sullo stato dell’Unione. A un certo punto, mentre parlava delle politiche sui flussi migratori e criticava l’approccio delle destre europee, è stata interrotta da Jorg Meuthen, leader del movimento xenofobo e di estrema destra Alternative für Deutschland, che fa parte del gruppo a cui aderisce anche la Lega di Matteo Salvini, evidentemente infastidito dalle parole della presidente della Commissione europea. “C’è una differenza fondamentale di come le destre guardano all’essere umano. Ci sono loro, che predicano l’odio, e ci siamo noi”. Meditate gente…

Che i toscani e gli italiani ci pensino: questo è dunque il mio umile invito. Quanto a Sergio Mattarella ho estrema fiducia in lui, mentre non ne ho nel modo più assoluto in Giorgia Meloni, la quale, dopo essere andata a scuola di dizione, dovrebbe starsene zitta per carità della Patria a cui enfaticamente si richiama il suo nostalgico partito.

Lo sciopero tafazzista

É stato indetto uno sciopero dai sindacati di base per le giornate del 24 e del 25 settembre e riguarda tutto il mondo della scuola e dell’università: personale dirigente, docente, Ata, Ricerca. Le sigle interessate – Unicobas Scuola e Università, Usb P.I., Cobas Scuola Sardegna e Cub Scuola Università e Ricerca – non raccoglieranno forse un’adesione massiccia, ma potrebbero provocare comunque disagi notevoli, facendo incrociare le braccia a docenti, personata Ata, ausiliari, tecnici e amministrativi delle scuole e delle università. «Non potrà essere garantita la didattica», la formula che adotteranno i dirigenti di elementari, medie e superiori. «Non si può sapere per tempo la portata dell’adesione allo sciopero, il preside non può infatti sapere prima quali e quanti docenti aderiranno alla protesta; ci sono rischi di nuove interruzioni», ha confermato il presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, Antonello Giannelli.

La piattaforma delle rivendicazioni è ampia: si sciopera per chiedere investimenti veri nella scuola pubblica statale, classi con 15 alunni al massimo e un piano pluriennale serio per porre in sicurezza l’edilizia scolastica, l’assunzione di 240mila insegnanti, la stabilizzazione dei 150 mila precari con tre anni di servizio attraverso un concorso accessibile a tutti, l’aumento degli organici della Scuola dell’Infanzia, stabilizzazione diretta degli specializzati di sostegno e percorsi di specializzazione per chi ha esperienza pregressa. Oltre all’assunzione di almeno 50mila collaboratori scolastici «per ricoprire i paurosi vuoti in organico per la vigilanza» e l’incremento di 20mila fra assistenti amministrativi ed assistenti tecnici. Le risorse, fanno il conto i sindacati, nel Ricovery Fund ci sono.

Allo sciopero si aggiungerà il giorno successivo sabato 26 una manifestazione nazionale del Comitato «Priorità alla scuola» alla quale hanno dato il loro sostegno anche i sindacati rappresentativi del comparto scuola, da Cobas a Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola e Snals.

Non sono un esperto di politica scolastica, vedo chiaramente le insufficienze del sistema, ho notato benissimo come il governo abbia affrontato e stia affrontando in modo insufficiente e tardivo l’emergenza in questo importantissimo e fondamentale campo, ma proclamare uno sciopero in questo momento e in questa situazione, è semplicemente demenziale. Uno sciopero tafazzista!

Si sapeva che alla ripresa autunnale avremmo avuto un clima socialmente difficile, ma non pensavo si arrivasse a simili manifestazioni di irresponsabilità. Sì, perché la protesta è una cosa, la cagnara è altra cosa.

In questi giorni ho letto che il covid potrebbe avere conseguenze assai gravi anche sul cervello: non so se rientri nelle ormai solite sparate terroristiche o se il discorso abbia un certo fondamento scientifico.  Stiamo comunque attenti: il covid è un virus molto pericoloso in quanto può portare all’impazzimento anche sul piano dei rapporti sociali. Siamo tutti esasperati e frustrati dal clima di incertezza e di precarietà nella nostra vita. Se trasferiamo e scarichiamo queste tensioni nella società, siamo fritti in padella. Non è il momento di aggiungere benzina sul fuoco.

Prevengo ogni e qualsiasi accusa di anti-sindacalismo. Al riguardo so di avere le carte in regola. Nella partecipazione attiva alla vita politica ho aderito alla corrente democristiana sindacal-aclista, quella di Giulio Pastore prima e di Carlo Donat Cattin dopo. Ho sempre espresso una commossa e viscerale adesione alle battaglie sindacali.

Mi concedo anche una piccola digressione autobiografica. Mi è tornato infatti alla mente un piccolo episodio della mia vita in concomitanza con l’indizione dello sciopero di cui sopra. Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importava dei lavoratori della Salamini i quali stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. In un certo senso aveva vinto l’egoismo anche se gli stessi sindacalisti non avevano preteso da me un atto di coraggio.

Concludo: lo sciopero è un diritto sacrosanto, uno strumento politico fondamentale, un modo serio per protestare: la storia è piena di lotte e di conquiste sindacali meravigliose.  Non sciupiamolo, non sprechiamolo, non abusiamone. Ce ne potremmo pentire amaramente.

 

Il vaccino elettorale

Il vaccino contro il coronavirus potrebbe essere pronto entro tre o quattro settimane: lo ha detto il presidente americano Donald Trump in un town hall a Philadelphia. Nel caso, il vaccino arriverebbe prima delle elezioni Usa del 3 novembre.

Un vaccino è una preparazione artificiale costituita da agenti patogeni opportunamente trattati (e parti di essi) somministrata con lo scopo di fornire un’immunità acquisita. D’ora in poi occorrerà rivedere la definizione in “preparazione strumentale costituita da messaggi elettorali predisposti a tavolino divulgata mediaticamente al fine di orientare il voto dei cittadini”.

Ai lontani tempi della mia giovinezza a chi voleva sottovalutare le battaglie politiche giovanili di contestazione globale al sistema, bollandole come velleitarie e demagogiche, si rispondeva che “tutto al mondo è politica” e quindi tutto doveva essere rimesso in discussione. Al di là delle estremizzazioni sessantottine il discorso del “tutto è politica” non è sbagliato: ogni problema ha un suo risvolto a livello di scienza e tecnica, come teoria e prassi, avente ad oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica.

Anche il covid quindi è politica, ma non nel senso della smaccata e sporca strumentalizzazione trumpiana. A tutto c’è un limite. La risposta non si è fatta attendere: Donald Tump dovrebbe “lasciare quel dannato campo da golf” per “sedersi nello Studio Ovale” e mettersi al lavoro sul piano di aiuti per il coronavirus. Così lo sfidante democratico per la presidenza, Joe Biden, parlando con i cronisti in Florida dove è volato per fare campagna elettorale con gli ispanici in particolare nel mirino.

Non so quali siano gli umori statunitensi emergenti dalla campagna elettorale, penso non ci sia da stare allegri. Sono pessimista: gli americani, detta come va detta, di politica non capiscono un cazzo, quindi non mi stupirei se ripetessero l’errore di quattro anni fa. “Errare humanum est perseverare diabolicum”, generalmente ci si ferma lì, invece il detto latino ha una coda, vale a dire “fili mi erra sed culpam tuam semper declara”. Tradotto in italiano: “Sbagliare è umano, perseverare diabolico; figlio mio, sbaglia ma ammetti sempre la tua colpa”. Credo che gli americani non abbiano alcuna intenzione di ammettere la loro colpa, cioè di avere buttato il prete mondiale nella merda del populismo.

Per populismo si intende genericamente un atteggiamento ed una prassi politica che mira a rappresentare il popolo e le grandi masse esaltandone valori, desideri, frustrazioni e sentimenti collettivi o popolari. In questo momento storico la frustrazione popolare per eccellenza è costituita dalla paura del covid e quindi tutto torna alla perfezione. Donald Trump incarna la parte del perfetto populista per un popolo che gode nel farsi accarezzare la pancia.

Quando è scoppiata la pandemia, vedendo l’inettitudine del presidente americano nell’affrontare la conseguente emergenza e le contraddizioni clamorose in cui è caduto, mi sono detto: “Ci voleva il coronavirus per battere Trump!”. Mi sono sbagliato perché forse dovrò rettificare il tiro: “Ci voleva il coronavirus per salvare Trump!”. Evviva gli amici americani: ci hanno regalato tante cose buone in mezzo ai loro affaracci; da ultimo ci hanno regalato i loro affaracci senza cose buone.

La politica per interposta scheda elettorale

Ci stiamo avvicinando all’articolata consultazione elettorale, che sembra fatta apposta per fare casino politico. Si vota per alcune importanti regioni e contemporaneamente sul referendum per il taglio dei parlamentari. Dietro questi voti fa capolino il giudizio sul governo Conte bis e addirittura la sua eventuale caduta, che potrebbe passare dalla sconfitta del centro-sinistra in Toscana e/o dalla vittoria del “no” sulla riformina (?) costituzionale della sforbiciata al Parlamento.

Entrambe queste eventualità, finora ritenute poco probabili, stanno diventando possibili e atte a comportare un “liberi tutti” con successivo rimescolamento di giochi e di carte. Infatti, sia a destra che a sinistra, sotto sotto c’è chi fa il tifo e aspetta il momento per buttare il vescovo e i preti nella merda. Chi sarebbe il vescovo? Facile ad intuirsi: Giuseppe Conte, oberato, oltre che dalle drammatiche emergenze covid, dalle difficoltà di governo e politiche, internamente ed esternamente alla sua maggioranza. E i preti? Altrettanto semplice individuarli: Nicola Zingaretti, stretto fra uno stiracchiato e incoerente “sì”, una notevole debolezza emergente dagli ozi regionali, sempre più schiacciato sui ricatti pentastellati e lontano dalla promessa discontinuità (come sostiene Emma Bonino, dalla malcelata mutilazione del Parlamento ai decreti sicurezza, dalla prescrizione a quota cento emerge una spiazzante e invalidante continuità per il Pd); Matteo Salvini, sempre più isolato e contestato in casa dalla “fronda giorgettiana”, dalla crescente “autorevolezza zaiana”, comico interprete di una leadership sempre più contesa anche all’esterno “dall’onda meloniana”  e disturbata dal “malpancismo forzitaliota”.

Nicola Zingaretti sta evidenziando la sua intrinseca debolezza e la sua burocratica incoerenza: il “sì” non gli dona, la Toscana lo fa traballare, Saviano lo vuol distruggere, il suo partito ha bisogno di una guida ben più autorevole e decisa. Matteo Salvini ha un sacco di guai con la giustizia, è contestato in piazza, è guardato a vista dai suoi e combattuto dagli alleati. I risultati elettorali stanno diventando una sorta di prova del nove per la caduta di questi due “dei di cartapesta”.

Il movimento cinque stelle ha innescato un populismo, che sta coinvolgendo troppi soggetti politici: il “sì”, se vedrà la luce, sarà figlio di troppi e disomogenei genitori: grillini, leghisti e fratelli d’Italia. La lega di Salvini ha indetto l’ennesima gara per legittimarsi come forza di governo: ma parte sempre troppo da lontano e dal difficile e, anche se dovesse incassare un risultato regionale soddisfacente o addirittura clamorosamente vincente, non avrebbe la forza per metterlo a frutto politicamente. Un gran casino avvitato su se stesso. Il Pd gioca sempre in difesa col rischio di prendere gol nei minuti di recupero.

Ci vuole coraggio per andare a votare. Verrebbe voglia di starsene a casa, ma dietro l’angolo ci sono comunque due grossi pericoli da scongiurare: consegnare il Paese a sovranisti e populisti sperando soltanto che se le diano di santa ragione fra di loro; assistere al crollo, sul territorio, della sinistra col rischio di innescare profondi mutamenti nelle direttive fondamentali della politica italiana.

Un “no” rispedirebbe al mittente le velleità populiste di ogni tipo e genere; la conferma dei governatori regionali di centro-sinistra (almeno in Toscana) ricondurrebbe la politica ad un minimo di coerenza e consistenza programmatica. Non so cosa succederebbe al governo Conte. I grillini sarebbero incazzatissimi, ma non potrebbero far male a nessuno se non a se stessi; l’ammalato democratico prenderebbero un brodino caldo, che gli darebbe un minimo di forza per evitare almeno gli avvoltoi renziani e calendiani; i leghisti troverebbero forse il coraggio di mandare a casa Salvini, con un certo ritardo e con un certo sconquasso, ma sempre meglio uno Zaia ragionante che un Salvini sbraitante.

Mi tocca fare il tifo per il “no” anche se inquinato dagli abbonati al no, che non mi piacciono, ma per dare almeno una ridimensionata ulteriore alle velleità grilline; mi tocca accontentarmi in Toscana di un Eugenio Giani qualsiasi, che faccia da cotone emostatico all’emorragia  di sinistra; mi tocca sperare nella conferma di due casinisti come De Luca ed Emiliano per evitare casini ben più grandi e pericolosi; mi tocca mettere il naso in casa leghista per preferire una politica sbagliata (leggi Giorgetti e Zaia) al populismo becero (leggi Salvini sotto scacco di Meloni). È pur vero che la politica è l’arte del possibile, ma dovrebbe essere pur sempre un’arte e non un mero artificio difensivo contro il peggio. Invece…

 

Il vomito sessista nelle ampie scollature femminili

Proprio in questi giorni ho riflettuto e scritto sulla normalità nella diversità dei comportamenti sessuali, ma evidentemente sesso e normalità non vanno troppo d’accordo se stiamo ancora a discutere e polemizzare su un abito troppo scollato, il topless esibito in spiaggia, indumenti osée indossati a scuola. Queste polemiche sono scoppiate in Francia dove le attiviste di Femen hanno manifestato contro la decisione di imporre l’utilizzo di una giacca a una turista giudicata troppo “scollata” per visitare l’esposizione. È inoltre scattata la protesta contro il dress-code sessista consigliato in alcune scuole e contro l’episodio delle due donne in topless a Sainte-Marie-la Mer alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume.

Attingo dalla cronaca della corrispondente de La repubblica Benedetta Perilli. Partiamo dall’inizio. Indossava un abito troppo scollato per poter visitare le sale del museo d’Orsay, a Parigi, e così una visitatrice è stata costretta a indossare una giacca per poter ammirare l’esposizione. Un gesto che ha fatto molto discutere e che non poteva non essere vendicato dalle attiviste di Femen. Le femministe, note per le loro azioni di protesta a seno nudo, si sono introdotte nel museo e hanno posato in topless, con le mascherine e mantenendo le distanze di sicurezza, mostrando sul corpo le scritte “Non è osceno” e “L’oscenità è nei vostri occhi”. In un comunicato hanno spiegato la ragione della dimostrazione citando anche l’episodio delle due donne in topless alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume: “Il museo d’Orsay ospita numerose opere, molte delle quali nudi femminili e maschili, così come il celebre dipinto L’origine du monde di Gustave Courbet. Per quegli agenti un abito scollato è un problema, ma non crea loro alcun problema fissare i seni di una donna e giudicare com’è vestita”. Le attiviste hanno spiegato di voler combattere il pregiudizio sul corpo della donna che “ogni volta è come se venisse etichettato osceno o sconveniente” e che “solamente ricordando che il corpo non è osceno e sostenendo Jeanne (la turista allontanata dal museo) e tutte le donne vittime di discriminazioni sessiste si ferma la sessualizzazione del corpo delle donne”.

Intanto la rentrée scolastica è stata segnata sempre in Francia, oltre che dall’emergenza Covid, anche da una polemica sul dress code sessista imposto dalle scuole. Vari gruppi femministi e molti studenti hanno indetto per il 14 settembre una protesta contro la decisione di alcuni istituti scolastici di vietare indumenti giudicati “indecenti” come shorts, minigonne e crop top. Gli stessi indumenti che chi partecipa alla protesta ha deciso di indossare in forma ancora più audace. La protesta, nata spontaneamente sui social, ha ottenuto il sostegno della ministra Marlène Schiappa, delegata responsabile della cittadinanza, che in un tweet ha commentato: “Come madre le sostengo con sorellanza e ammirazione”. A favore del movimento anche le attiviste de Les Glorieuse che spiegano: “Osate top, gonne e trucco per reagire alle loro proposte sessiste. Vi invito a farlo tutti, senza preoccuparvi del vostro genere, uomini, donne, non binari. L’abbigliamento non ha un genere e possiamo indossare quello che vogliamo. Dimostriamoglielo”.

Fin qui la cronaca. Chi mi conosce sa della mia larghezza di vedute in materia sessuale e quindi non resterà deluso nell’apprendere che mi schiero apertamente con le attiviste di Femen. Hanno ragione da vendere: non è con questi atteggiamenti censori e bacchettoni che si difende il decoro, il buon gusto e la decenza. Noi partiamo sempre dalla forma per trascurare la sostanza. “Ottimo disse il conte e vomitò nell’ampia scollatura della contessa”: così dice una ben nota espressione usata spesso nel nostro parlare quotidiano. D’ora in poi bisognerà stare attenti all’ampiezza della scollatura della contessa più che ad evitare di vomitarle addosso.

Non vedo quale attentato al decoro potesse rappresentare la visitatrice di un museo con un abito un po’ scollato. Se proprio vogliamo insistere, sarà necessario fissare delle regole e applicarle. Quanti centimetri di profondità potranno avere le scollature delle donne? Poi si dovrà tenere conto anche delle dimensioni del seno, che influiscono certamente sull’apertura della scollatura. E poi magari prevedere dei correttivi da apportare seduta stante: spille da applicare in parziale chiusura della scollatura. Ma il bello viene a livello di chi dovrà fare questi controlli e verificare queste misure: un esercito di guardoni previamente selezionato e magari remunerato in…economia.

Sto naturalmente scherzando perché forse è il modo migliore per sgonfiare i non problemi.  E i topless? Pensavo che il discorso fosse chiarito da tempo, invece… Certamente più delicato il discorso nelle scuole. Intendiamoci bene, tutti sappiamo qual è il vero problema: trovare l’equilibrio tra la sacrosanta e naturale esibizione del meraviglioso corpo della donna e il contenimento degli istinti sessuali maschili in cerca di sfoghi ben oltre le righe. È pur vero che in questo caso l’occasione può fare l’uomo maniaco sessuale, ma è altrettanto vero che, se un uomo non riesce a contenersi, deve badare a se stesso e non pretendere di coprire le proprie vergogne considerando vergogne i seni femminili.

Una mia amica, parecchio tempo fa, mi raccontava di avere assistito ad un episodio curioso. Un distinto signore intendeva acquistare all’edicola una rivista pornografica e non si accontentava di sceglierla alla chetichella tra quelle esposte in vetrina, ma chiedeva insistentemente e ripetutamente all’edicolante se non avesse qualcosa di più spinto da offrire. Ad un certo punto, dopo aver quasi esaurito il campionario, l’edicolante si spazientì e disse al potenziale cliente: “Senta, forse è meglio che lei si rivolga ad una casa di appuntamenti: ce ne sono per tutti i gusti…”. Quel signore arrossì e se ne andò sconsolato.

Certo le donne devono essere attente a non trasformare il loro libero arbitrio in materia di abbigliamento in provocazione bella e buona per soggetti sessualmente deboli (o forti): la misura la conoscono benissimo, senza che venga loro ridicolmente imposta da guardiani-guardoni, da presidi-bacchettoni e da poliziotti-bigotti.

 

Un pretaccio in più da (rim)piangere

In una Chiesa ammalata di dogmatismo e clericalismo è difficile non essere borderline o, meglio, anticlericali. Ma tutto è relativo: anche nella comunità cristiana, così come ovunque, contano molto le persone. La struttura gerarchica lascia il tempo che trova, addirittura spesso indispone, indigna, allontana dal Vangelo. Mi aprono la mente ed il cuore, anche se non mi illudono più di tanto, le meravigliose e consolanti brecce aperte da Papa Francesco, purtroppo seguite da innovazioni istituzionali somministrate col bilancino, da concessioni (bontà loro…) tardive e cattedratiche alla logica evangelica. Esistono, grazie a Dio, le eccezioni tali da ripristinare la giusta regola. Ho conosciuto preti che di clericale non avevano niente. Chi li chiama pretacci, chi li chiama preti di strada. Io ho un debole per questi sacerdoti che seguono alla lettera il Vangelo e aiutano i poveracci di turno, acrobati senza rete, martiri della carità, testimoni dell’amore fraterno.

Tra questi colloco anche don Roberto Malgesini. Non lo conoscevo e quindi sono costretto a ricorrere per lui alle notizie di cronaca apparse su La Repubblica. 51 anni, “un vero prete di strada” come lo descrivono tanti, sempre schierato dalla parte degli ultimi: è stato accoltellato e ucciso a Como. L’aggressione è avvenuta sotto la casa dove abitava. Inutili i soccorsi: quando don Roberto è stato ritrovato, era disteso per terra con diverse ferite da arma da taglio e i sanitari ne hanno solo potuto constatare il decesso. Sul posto è arrivato anche il vescovo Oscar Cantoni ed è forte la commozione e il dolore tra chi lo conosceva. Il vescovo ha benedetto la salma di don Roberto prima che fosse portata via, e a pochi metri dalla chiesa di San Rocco si è formata una folla di fedeli, tra loro tanti migranti. Molti piangono e si abbracciano. “Dov’è il don? No, non può essere lui”, dice uno di loro ad alta voce. Ci sono stati anche dei momenti di tensione tra i parrocchiani e le persone assistite da don Roberto con accuse reciproche di averlo lasciato solo. Una donna italiana e un giovane africano sono anche venuti alle mani fino all’arrivo della polizia.

Il direttore della Caritas, don Roberto Bernasconi, racconta che era consapevole dei rischi che correva e usa anche parole dure per spiegare come si muoveva nel mondo don Roberto: “Era una persona mite, era cosciente dei rischi che correva. La città e il mondo non hanno capito la sua missione”. Paragona l’omicidio a un martirio: “Voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società”. E la Diocesi del sacerdote ricorda la bontà: “Era un pezzo di pane”. Il sindaco Mario Landriscina ha deciso di proclamare il lutto cittadino.

La mia vita cristiana è segnata da preti di questo tipo. Sono nato due mesi prima della morte di mio zio sacerdote. Di lui porto indegnamente il nome ed è il mio santo protettore. I report, che i responsabili della scuola di Teologia, frequentata a Roma da don Ennio, inviavano alla Curia Vescovile di Parma, contenevano, in mezzo ai giudizi sul profitto, una osservazione critica sulla sua condotta: era un po’ distratto. Ebbene, si dirà, può capitare a tutti di distrarsi durante le lezioni più impegnative e dure da digerire. Non si trattava di questo, don Ennio non si perdeva a guardare fuori della finestra. Era al contrario troppo attento, ma ai proble­mi dei ragazzi di borgata coi quali trascorreva parecchio tempo ed ai quali dedicava il cuore dopo aver rivolto la mente agli insegnamenti teorici. Criticandolo, in modo palesemente burocratico, gli facevano, a mio giu­dizio, il più bello degli elogi. Era portato ad interessarsi degli emargi­nati, soprattutto i bambini: era vicino agli ultimi in stile prettamente evangelico.

Tra questi preti  c’era senza dubbio don Sergio Sacchi, un sacerdote dotato di un sorriso accogliente verso tutti, disponibile a servizio degli ultimi, che non sapeva dire no a chi gli chiedeva aiuto, che cedeva il proprio letto a chi non aveva un rifugio per la notte, che offriva tutto quello di cui disponeva a chi non aveva da mangiare, che ascoltava chi aveva bisogno di sfogare i propri disagi e le proprie disgrazie, che riceveva rimproveri perché troppo fuori dagli schemi burocratici ed amministrativi, che era ritenuto un disordinato perché se ne fregava dei bilanci e delle loro perbenistiche quadrature, che veniva spostato da un incarico all’altro e da una parrocchia all’altra come se fosse un pacco postale, senza pretendere un “grazie” anzi sopportando critiche ed incomprensioni.

Manco a farlo apposta era amico di don Luciano Scaccaglia: di lui mi parlava quando io ancora non lo conoscevo e me ne tesseva gli elogi. Sarebbe troppo lungo e ripetitivo richiamare diffusamente la testimonianza di don Scaccaglia.  Alla sua vita e alla mia amicizia con lui ho dedicato ricordi e libri a cui rimando i lettori interessati ad approfondire il discorso.

Si tratta di sacerdoti che ti donano l’ossigeno, che ti riconciliano con la religione cattolica. Spesso penso ai palazzi vaticani dove si traffica, ci si compromette, si fa l’esatto contrario di quanto è scritto nel Vangelo. Mi dico: non tutto è così! C’era, novant’anni fa, anche don Ennio Bonati, c’erano, molto più avanti nel tempo, don Sergio Sacchi, c’era don Luciano Scaccaglia, c’era don Roberto Malgesini. L’elenco non è esaustivo ma emblematico.

Il sacrificio di don Malgesini mi ha commosso e turbato: di fronte a questi esempi devo ammettere di sentirmi un cristiano di merda. Quindi non ne faccio solo l’occasione per una polemica con la Chiesa più o meno ufficiale, con la società che sembra sapere solo odiare e discriminare, ma l’occasione per una profonda autocritica.

Chiudo ricordando un episodio più volte riportato nei miei scritti. Come dimenticare infatti ciò che raccontava, con rara e simpatica verve ironica, da don Andrea Gallo, il quale era stato chiamato a rapporto in Vaticano da un importante cardinale per discutere dei comportamenti pastorali border line del più pretaccio dei pretacci. Don Gallo scelse una linea difensiva semplice ed inattaccabile: «Io applico il Vangelo…». Momento di panico. Il cardinale ribatté laconicamente: «Beh, se la metti su questo piano!?». «E su quale piano la dovrei mettere…», chiese provocatoriamente don Gallo.