La pecora papale e i lupi curiali

Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo, facendo riferimento al palazzo del potere più fisicamente a lui vicino: «Bizoggna butär in tazér parchè a s’ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tutti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della impostazione affaristico-massonica della nostra società, che purtroppo ben si attaglia alla situazione della Curia vaticana. Si temeva e si sapeva che sotto la cenere del conservatorismo clericale covasse il fuoco dell’affarismo nelle alte gerarche vaticane. L’input del conclave a Bergoglio era stato proprio quello della pulizia nei sacri palazzi e il papa eletto aveva immediatamente capito l’antifona, scegliendo il nome più rivoluzionario che poteva: Francesco.

La società corrotta “spuzza” ha detto con grande incisività il papa e “spuzza” in parte la gerarchia cattolica nascosta nelle stanze vaticane. Stanno uscendo le testimonianze di monsignor Alberto Perlasca, assistente dell’allora cardinale Angelo Becciu all’interno della Segreteria di Stato, davanti ai promotori di giustizia vaticani: stando ai media – peraltro lanciati in una discutibile corsa allo scoop che, ad onor del vero, rischia di fare più confusione che verità – si aprono scenari inediti. Sembra addirittura che la creazione di un sistema economico parallelo servisse a Becciu per gestire “organicamente” il potere, creare dossier per screditare rivali, funzionari o uomini vicini a Papa Francesco che avrebbero potuto interrompere i piani dell’allora Sostituto alla segreteria.  Robe da matti anche per la chiesa “casta meretrix”, coraggiosamente e realisticamente ipotizzata, se non erro, da sant’Ambrogio.

Forse è iniziata l’epoca dello scoperchiamento della pentola curiale e cosa ne uscirà è difficile da prevedere. Papa Francesco, come afferma il ben informato padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, l’autorevole rivista dei Gesuiti, non è un ingenuo e non è un pontefice naif: ha avviato infatti un processo di purificazione profonda. Consapevole dell’assoluta necessità di promuovere e concretizzare una grande riforma strutturale all’interno della Chiesa, preferisce però partire da una riforma spirituale mettendo il Vangelo al centro di tutto e confidando nella forza del messaggio cristiano. In un certo senso sembra quasi che predichi bene e lasci razzolare lo Spirito Santo: vai avanti tu, perché a me scappa da ridere…

Il nodo della riforma incombe e incalza sempre più considerato il fatto che le strutture vaticane sono assai impermeabili rispetto ai reiterati richiami pontifici: lascia che dica, prima o dopo si stancherà… Penso che la schematizzazione dicotomica fra riforma spirituale e riforma strutturale lasci il tempo che trova e finisca per chiudere la Chiesa nel pollaio in cui non si capisce se venga prima l’uovo o la gallina. Effettivamente il papa sembra più orientato ad alimentare la pentola spirituale che non a scoperchiare quella strutturale: ha varato in modo “anomalo” e fuori da Roma la sua terza enciclica, visitando a sorpresa il monastero Valle Gloria di Spello e la chiesa di Santa Chiara, prima di giungere al Sacro Convento, per firmare sulla tomba di San Francesco la “Fratelli tutti” (il titolo è già un programma). Basterà l’affidamento al più grande dei Santi a sconfiggere l’andazzo clerico-conservatore-affaristico che imprigiona la Chiesa istituzione e “sputtana” la Chiesa comunità?

La predicazione del pontefice non si ferma peraltro alle parole, ma fa risuonare la musica dei gesti eloquenti ed emblematici come non mai: quelli che affascinano il popolo di Dio. A livello spirituale Francesco non è solo: può contare sull’aiuto dello Spirito Santo (sic!), sulle evocate e insistenti preghiere dei cattolici sparsi nel mondo (almeno quelli a lui favorevoli e sono tanti!), sulla protezione di San Francesco (non è poca cosa!), sul “tifo” sincero dei poveri, che dovrebbe valere molto di più delle truffaldine manovre dei ricchi.

Può darsi però che Gesù Cristo ad un certo punto consigli al suo vicario: aiutati che il ciel t’aiuta! E allora non ci sarà più tregua per le gerarchie in vena di potere e di intrallazzi col potere.  Intanto che c’è, Gesù Cristo potrebbe dargli un altro consiglio, spiegandogli che ai poveri che muoiono di fame bisogna aggiungere anche coloro che sono sopraffatti dal dolore, dal fallimento del loro matrimonio, dalle discriminazioni sessuali, dai drammi famigliari, dalle maternità difficili ai limiti dell’impossibile. Qualcosa (forse molto) il papa ha fatto in queste delicatissime materie, ma una flebo di coraggio non gli farebbe male. In conclusione, la pentola dell’affarismo curiale va scoperchiata, quella della spiritualità evangelica va alimentata e portata ad ebollizione. E quella del dogmatismo? Il brodo ristretto che in essa resiste va allungato e raffreddato con l’acqua fresca della carità.

 

Il diavolo fa le pentole e i coperchi

Due sconvolgenti fatti di cronaca mi inducono a riflessioni originali e personali. Due fidanzati vengono uccisi a coltellate da un loro conoscente che ha premeditato e pianificato il delitto: «Erano troppo felici e li ho uccisi per invidia». Un movente troppo assurdo per essere plausibile, troppo plausibile per essere assurdo.

Un ragazzo di 11 anni è morto lanciandosi dal balcone di casa, all’undicesimo piano, nel cuore della notte. Polizia e Procura, che stanno indagando sull’accaduto, ipotizzano il reato di «istigazione al suicidio». Il ragazzo, prima di scavalcare la ringhiera, avrebbe scritto un bigliettino nel quale chiede scusa alla mamma e fa riferimento a uno stato di paura vissuto, secondo quanto si apprende, alle ultime ore di vita: «Mamma, papà vi amo ma devo seguire l’uomo col cappuccio». L’undicenne allude, in particolare, a un uomo nero, e gli inquirenti non escludono possa essere stato vittima dei cosiddetti «challenge dell’orrore», del tipo «blue whale», un gioco che si svolge totalmente on-line, che comprende atti di autolesionismo fino al suicidio. Secondo quanto emerso finora, sembra che il ragazzo fosse sano e felice, praticasse sport e fosse perfettamente integrato.

Siamo di fronte a morti inspiegabili: o sfugge qualche elemento tale da giustificare simili vicende oppure siamo in presenza del male fine a se stesso, il male per il male. “È vero che la vendetta non risolve il problema, ma per pochi istanti ti senti soddisfatto”: così ha scritto l’omicida sul proprio profilo facebook. Nel secondo caso forse siamo addirittura alla morte procurata per gioco.

Chiedo scusa a psicologi, criminologi e sociologi: le loro analisi e le loro motivazioni non mi convincono affatto. Mi rifugio nel confronto assai poco scientifico, ma tanto umanamente palpitante, tra i miei genitori. Mia madre così come era rigorosa ed implacabile con se stessa era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Mio padre invece, con arguta ironia non credeva alle assurde giustificazioni riconducibili alla follia di un momento, alla patologia criminale, al delirio psicologico e, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’ à magnè dez scatli äd lustor. Col l’ é mat!”.

Non mi sento neanche di buttare la croce addosso alle famiglie, alla scuola, alla società in genere: sono stanco di questo datato scaricabarile sociologico. Certo, le crisi possono creare il brodo di coltura, ma ci vorrà pure qualcuno che metta in pentola il crimine. Come ho già scritto altre volte, non mi ritengo un fanatico che vede il diavolo aggirarsi nelle nostre strade, ma qualche dubbio atroce mi coglie. Mi risulta che papa Paolo VI, dopo avere dialogato con il professor Vittorino Andreoli, noto criminologo e famoso psichiatra, lo abbia accompagnato cortesemente all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!».

Cos’è che dà un carattere demoniaco a questi episodi. Ce ne sono tante di vicende malefiche, ce ne sono sempre state…Che evoca una presenza demoniaca attiva è la strada senza uscita, una sorta di inevitabile baratro a cui certi fatti conducono. La psicologia, la sociologia, l’antropologia, la criminologia, la medicina, persino la letteratura, ammutoliscono.  Quando il male viene commesso per il gusto di fare male, senza nessuna motivazione, senza ogni e qualsiasi ragione insana e/o patologica, devo arrendermi all’evidenza: ci puzza di zolfo. Il demonio va accanto a chi si mette in condizione di ospitarlo, ma sa giocare anche in proprio.

Non mi sembra una fuga dalle responsabilità umane ed etiche, ma l’ammissione di una debolezza davanti a cui le forze del male vanno a nozze. Il miglior esorcismo credo sia essere coerenti con la propria fede per chi ce l’ha, essere fino in fondo creature umane per chi crede comunque che non siamo su questa terra per fare una folle scampagnata in compagnia dei nostri istinti satanici.

 

 

Le cinque candele del “Dibba”

“Così facendo si andrà verso una direzione di indebolimento del Movimento 5 Stelle e si diventerà un partito come l’Udeur, buono forse più per la gestione di poltrone e di carriere. Non è quello per il quale ho combattuto”. Queste le parole di Alessandro Di Battista nell’intervista andata in onda nel corso della trasmissione ‘Piazzapulita’. Ha inoltre definito l’alleanza strutturale con il Pd “la morte nera”. Poi, l’accusa più dura: “Ci sono persone – dice – che spingono per la leadership collegiale perché c’è il pericolo che il capo diventi io, la verità è questa”.

Gli consiglierei innanzitutto di dare una ripassatina alla storia anche se a rinfrescargli la memoria ci ha pensato tempestivamente Clemente Mastella, fondatore nel 1999 dell’Udeur, un partito politico italiano legato ai valori del cristianesimo democratico, un’anima in pena alla ricerca di uno spazio autonomo tra il centro-destra caratterizzato dal berlusconismo imperante da una parte e dall’altra parte il centro-sinistra frastagliato e alla ricerca di un minimo di identità unitaria.

Mastella non ha risposto in punta di forchetta ed è andato giù durissimo: “Questo Robespierre dei miei stivali manifesta l’intenzione di prendersela con i suoi e chiama in causa il mio Udeur. Che era una cosa molto seria a differenza di questo gruppo di “personaggetti” senza cultura, insignificanti e loro sì davvero legati al potere”. E dunque, non prima di aver ricordato che lui con l’Udeur aveva il peso di determinare il destino dei governi e di aver ottenere per questo risultati politici importanti, si è tolto il macigno che si portava nei mocassini da più di un decennio: “A lui potrei dire soltanto una cosa: vaffa. Come voi dicevate a me quando, con Beppe Grillo e gli altri vi divertivate a Bologna. Ora mi diverto io. Vaffa, carissimo Di Battista: sei un grande leader mondiale dell’idiozia politica”.

In secondo luogo sarebbe più che opportuno per Di Battista un bel bagno di umiltà. Solo lui è così pieno di sé da non capire che il M5S senza Beppe Grillo non sarebbe mai nato, non avrebbe avuto i trascorsi successi elettorali e non avrebbe alcun futuro dopo i reiterati tracolli dei consensi? Si considera il salvatore del movimento? Finora non si è capito cosa voglia e cosa faccia e forse non lo sa neppure lui. Non pensavo che Grillo avesse tanta pazienza da sopportare queste nullità che osano autoconsiderarsi interpreti autentici del grillismo.

La morte nera non è l’alleanza strutturale col Pd, ma la deriva spontaneista e piazzaiola di un partito che è nelle istituzioni, che è al governo e che pensa di tenere i piedi in due paia di scarpe, se non addirittura in tre: al governo col Pd, semmai al governo con la Lega e forse, ancor di più, fuori dagli schemi a soffiare sul fuoco dell’antipolitica. Gli italiani hanno aperto gli occhi e non sarà certo Di Battista a richiuderli o a foderarli con il prosciutto vetero-grillista stagionato nel salumificio “Dibba”.

Silvio Berlusconi voleva mandare i grillini a pulire i cessi di mediaset: non si è sbagliato di molto, c’è voluto un po’ di tempo, ma sono in vista delle latrine di Camera e Senato, anche se hanno voluto ridimensionarle. Clemente Mastella li definisce personaggetti senza cultura: non si sbaglia di molto, sono dietro la lavagna a scrivere le aste e i puntini della politica. Beppe Grillo ha capito tutto, sta cercando di salvare il salvabile e li lascia dire non so fino a quando. Se li sento parlare di Stati Generali, mi viene da ridere. Siccome Mastella una certa cultura ce l’ha, ha colto nel segno definendo Di Battista un Robespierre da baraccone.

Mia madre di fronte a certe cavolate messe in atto dalla Chiesa si rifugiava in una battuta laconica e spassosa: “Za il cézi j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur!”. Io provo a girare il ragionamento sul M5S e Alessandro Di Battista: “Za i urni j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur, chi metton segretäri Di Battista e acsì il sincov stéli i se zmorson cme sincov candéli!”.

 

 

 

 

Sfida statunitense e sfiga mondiale

Durante una campagna elettorale in cui si contrapponevano Berlusconi e Prodi, Roberto Benigni, con la sua impareggiabile verve ironica, disse nel pieno di una trasmissione televisiva della Rai, fregandosene altamente della par-condicio: «Io non sono di parte, ma Berlusconi non mi piace…».  Non ho l’autorevolezza del grande Benigni, ma provo ad imitarlo: «Seguo la campagna elettorale americana con molto scetticismo, ma detesto Trump…».

Un tempo non avrei esitato ad alzarmi da letto in piena notte per seguire la diretta televisiva del dibattito Trump-Biden. L’altra notte me ne sono stato a letto e mi sono accontentato di leggiucchiare i commenti del giorno dopo. Perché? Due i motivi. Uno di carattere anagrafico riconducibile alla mia anzianità, che mi toglie vigoria fisica (per il momento, ringraziando il cielo, non mentale).  L’altro di ordine politico: si intuisce chiaramente che lo scontro, in vista delle presidenziali Usa, è di infimo livello e quindi scappa la voglia di interessarsene e di “tifare” per uno dei due candidati.

Il dibattito presidenziale a tratti è stata una rissa verbale: i due candidati si interrompevano a vicenda e parlavano uno sopra l’altro. Volavano anche insulti. Biden: “Sei un bugiardo e un clown”. Trump: “Non c’è nulla di intelligente in te”. Temo che avessero entrambi ragione da vendere e che i “complimenti” scambiati siano le reciproche nitide loro fotografie.

L’immagine di Trump sta venendo fuori in tutte le sue possibili e immaginabili sfaccettature negative: ultima e non ultima la patente di evasore fiscale.  Biden è scialbo, sembra capitato lì per caso, non è all’altezza del compito. Possibile che uno stato democratico con storia e tradizione, seppure contraddittorie, come gli Usa non riesca a mettere in campo niente di meglio? La pochezza statunitense la dice lunga sulla vacanza (irreversibile?) della politica. Stiamo assistendo allo scontro fra l’affarismo fatto politica e la politica fatta mantenimento dello status quo. Il resto è patetica scena mediatica.

Corte Suprema, gestione dell’emergenza Covid-19, economia, rivolte razziali, integrità delle elezioni, rispettive carriere politiche: per novanta fittissimi minuti i due hanno litigato intorno ai sei grandi temi scelti dal conduttore di Fox News Chris Wallace. Stando ai sondaggi sembra che “il duello” non abbia spostato nemmeno un voto. Forse Biden ha vinto la battaglia sul piano della decenza, ma è tutto da dimostrare che gli serva di fronte ad un elettorato alla ricerca dell’indecenza.

Problemi enormi a fronte dei quali si evidenzia una clamorosa inadeguatezza dei candidati alla presidenza. Non ripetiamo l’errore di quattro anni or sono, quando in molti alzavano le spalle e ributtavano la merda oltreoceano, illudendosi di poter prescindere dalla (non) guida politica statunitense.  Quella merda ce l’abbiamo addosso e non riusciamo a scrollarcela di dosso.  Ce ne sta arrivando addirittura una seconda ondata.

Ho l’impressione di assistere ad una sceneggiata, per la quale, come succede in certe fiction, sono previsti due finali uguali e contrari, con l’imprevisto dello stallo post-elettorale con tanto di coda di ricorsi e riconteggi, degni di una finta democrazia. Infatti durante il dibattito, quando si è passati a un tema serissimo come il voto postale, erano tutti esausti. L’ex vicepresidente invitava a votare ormai spompato. L’altro ripeteva meccanicamente “è una vergona, una frode”. “Finirà male”, diceva Trump. “Hai solo paura”, concludeva Biden. Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Sono contento di non avere la cittadinanza statunitense perché sarei in serio imbarazzo. Alla fine, seguendo il consiglio montanelliano, mi turerei il naso e voterei Joe Biden. “Putost che nient (Trump) è mej putost (Biden). Anzi, piuttosto che “un capace di tutto” è meglio “un capace di niente”.

 

 

 

I finti gol nella rete bucata dal coronavirus

«La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli». Marx si sbagliava di grosso. Io però, in piena era Covid, provo a parafrasarlo in questo modo: “Il calcio è il grido di chi pretende a tutti i costi il ritorno alla normalità, di chi muore dalla voglia di giocare con la realtà. È il vaccino degli illusi”.

Dopo la presa d’atto di una diffusa positività tra giocatori e staff del Genoa, i casi sono due. Leggiamo di seguito cosa dice l’esperto in materia. “Quello che sta accadendo al Genoa potrebbe rappresentare la Waterloo dei tamponi”. Lo scrive su Fb il professor Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova: “Dopo poche ore dall’esito di tamponi negativi per tutta la squadra si è assistito a numerose positività con probabili conseguenze importanti sul futuro del campionato di serie A. I tamponi possono dare, da una parte una falsa patente di negatività e di liberi tutti e dall’altra produrre un esercito di positivi asintomatici. Rischiamo di far circolare soggetti negativi al tampone ma in fase di incubazione che trasmettono il virus e chiudere in casa altri con tampone positivo che non trasmettono a nessuno. Occorre rimettere al centro la clinica fatta di segni e sintomi, che unita alla virologia, rimane lo strumento migliore per la gestione della pandemia”. Parlando all’Adn Kronos il professor Bassetti ha poi spiegato: “Il Genoa Calcio ha rispettato il protocollo, sono stati fatti i tamponi nel giorno della partita e, visto che erano negativi, si è disputato il match. Ma l’esame con i tamponi è tutto tranne che perfetto, si può essere negativi, ma dopo poche ore si può essere positivi. Il tampone deve essere governato dalla clinica perché altrimenti si danno ‘patenti’ di negatività troppo facilmente. Il mondo del calcio oggi ci sta dando l’esempio dei limiti dello screening con il tampone, abbiamo a disposizione una ‘palestra’ importane di test sugli asintomatici mai avuta prima, è importante quindi che si analizzi quanto accaduto e si arrivi alle conclusioni”. Prima ipotesi quindi, seppure indirettamente argomentata in modo canonico: rimettere in discussione protocolli, tamponi e via discorrendo e continuare a giocare in attesa di tempi peggiori.

Se, invece, si prende per buono quanto emerge dalle analisi e dalla prudenza dettata dal buon senso, non si dovrebbe avere dubbi: sospendere il campionato sine die, dopo averlo ricominciato con estrema leggerezza (basta vedere quanto succede sui campi di gioco, tra abbracci, saluti e baci) e con idee confuse (un protocollo gruviera). Ma come noto, chi tocca il calcio muore anche a costo di far morire chi col calcio non ha nulla da spartire. Le squadre entrano separatamente in campo e poi tutto va avanti come se niente fosse. È come fanno certi diabetici, che dopo aver mangiato e bevuto a volontà, dopo avere ingoiato una maxi-fetta di torta, giunti al momento del caffè, tirano fuori dalla tasca la saccarina in pillole. E addirittura fino a qualche giorno fa si ipotizzava una riapertura, seppure parziale, degli stadi per la gioia (?) dei tifosi assetati di pallone, ma soprattutto per ristorare le finanze delle società calcistiche testardamente affamate di affari campati in aria. Assistiamo, accompagnati da tanta sciocca e prezzolata enfasi giornalistica, ad un mercato virtuale dove le cifre rischiano di ballare per una sola stagione. Se questo non è oppio del popolo, cos’è?

Per la verità un po’ tutta la lotta al coronavirus sta assumendo sempre più il carattere del “facciamo finta che…”: la gente è stanca e comincia a preferire il voltarsi dall’altra parte, spinta in questo dai quotidiani balletti mediatici, dalle continue kermesse degli scienziati in cerca d’aria per i loro denti, dalle alluvioni di cifre sparate alla viva il parroco, dall’incertezza e dalla precarietà, che regnano sovrane nella testa di chi ci dovrebbe governare. L’economia è l’alibi per fingere di sopravvivere, il mondo della scuola sta diventando lo sfogatoio problematico delle difficoltà, mentre il mondo del calcio continua ad essere il castello in aria con tutti gli illusori ponti levatoi in difesa dell’indifendibile.

 

 

Acqua fetida al mulino dell’inequità

Quando si scherza si scherza. In certi casi però non si può continuare a scherzare. Riporto di seguito una choccante corrispondenza dagli Usa di Francesco Giambertone del Corriere della Sera.

“Mentre 50 milioni di americani in questi sette mesi hanno perso il lavoro a causa della crisidel coronavirus, i super ricchi negli Usa sono diventati ancora più ricchi. I 643 multimiliardari che vivono negli Stati Uniti hanno aumentato le loro fortune del 29% dal 18 marzo, mentre in mezzo mondo scattavano i lockdown e milioni di aziende fermavano le proprie attività.

Secondo un report dell’Institute for Policy Studies, un think thank progressista, il patrimonio complessivo di queste 643 persone è cresciuto di 845 miliardi di dollari, passando da 2.950 miliardi a 3.800: cioè quasi 5 miliardi di dollari in più al giorno.
L’uomo più ricco del pianeta ha fatto un altro salto in avanti: Jeff Bezos, fondatore e capo di Amazon – la piattaforma diventata per milioni di persone quasi l’unica possibilità di fare acquisti durante la chiusura – è passato dal possedere 73 miliardi ad averne 186.
Elon Musk ha praticamente quadruplicato il suo patrimonio, arrivando a 92 miliardi di dollari, e Mark Zuckerberg l’ha quasi raddoppiato, raggiungendo i 100 miliardi.

La notizia ha (prevedibilmente) suscitato scalpore e indignazione, e riportato in auge una proposta dei democratici Bernie Sanders e Ilhan Omar – entrambi dell’ala più radicale del partito – che chiede di istituire un’imposta una tantum per gli ultraricchi del tech: il «Make Billionaires Pay Act» tasserebbe al 60% i loro guadagni. Se passasse, Bezos e Musk verserebbero in due circa 70 miliardi di dollari di tasse (utili a coprire i costi sanitari degli americani). Alcuni Stati ci stanno già provando: il New Jersey, come annunciato ieri dal governatore dem Philip D. Murphy, è diventato uno dei primi ad aumentare le tasse sui redditi superiori al milione di dollari, alzando l’aliquota di quasi 2 punti percentuali (ora la tassazione è al 10,75%).

In questa misura «compensatoria» lo Stato punta a dare un aiuto da 500 dollari alle famiglie in difficoltà per la pandemia. Ma i Repubblicani avvertono che il provvedimento potrebbe portare alla fuga di migliaia di cittadini più abbienti. «Non abbiamo nessun rancore verso chi ha successo nella vita – ha risposto il governatore Murphy – ma in questi tempi senza precedenti è arrivato il momento del sacrificio anche per i più benestanti di noi»”.

So benissimo quali possono essere le motivazioni in difesa dello status quo: la fuga dei capitali, il disamore per gli investimenti produttivi, un freno ai meccanismi economici di sviluppo. Devo essere sincero? Non me ne frega niente! Scappino pure, si seggano a contare i loro soldi, si blocchino a contemplare l’economia. Non si può continuare a portare acqua fetida al mulino dell’inequità. Molte cose devono cambiare nel nostro sistema economico. Non è possibile che pochi ricconi la facciano da padroni del mondo.

Gesù, quando ha preso a bastonate i mercanti nel tempio buttandoli fuori e distruggendo i loro beni, non si è preoccupato del sistema economico di Israele né. tanto meno, della sopravvivenza economica della Chiesa di allora. Si è scatenato. E io, che mi dico cattolico, dovrei sottilizzare di fronte ai dati di cui sopra? Non so quale possa essere il punto d’attacco, ma ci deve pur essere. Basta! E se posso apparire comunista di ritorno, pazienza.

Dice papa Francesco in risposta a chi l’accusa di essere comunista e pauperista: «Parlare sempre dei poveri non è comunismo, è la bandiera del Vangelo. I comunisti ci hanno rubato questa bandiera, ma i poveri sono al centro del Vangelo». Qualcuno dirà che sono diventato un integralista: anche di questa accusa non me ne può fregar di meno. Questo cambiamento s’ha da fare!

Maria Maddalena alla riscossa

Secondo il ben informato vaticanista de La Repubblica la gestione dei fondi del Vaticano sarà sottratta all’ufficio del Sostituto alla Segreteria di Stato e affidata all’Apsa di monsignor Galantino sotto il controllo di un gesuita. Il progetto sarebbe stato definitivamente avviato circa dieci giorni fa: papa Francesco, in seguito allo scandalo del palazzo di Londra e alla destituzione del cardinale Angelo Becciu dai suoi incarichi, avrebbe deciso di togliere qualsiasi risorsa economica alla Segreteria di Stato, compreso il fondo che fino a ora era a disposizione del Sostituto e nel quale confluivano anche parte dei soldi dell’Obolo di San Pietro.

Cos’è l’Apsa? L’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica è l’organismo della Santa Sede che si occupa della gestione del suo patrimonio economico. Il suo presidente è attualmente il vescovo monsignor Nunzio Galantino. Con questa mossa il papa riconduce tutto il patrimonio ad un unico ente di gestione, tentando di evitare interferenze ed usi impropri da parte della politica vaticana di cui è responsabile la Segreteria di Stato e di cui Angelo Becciu è stato per diverso tempo sostituto, vale a dire un esponente di altissimo livello.

La Segreteria di Stato della Santa Sede è il dicastero della Curia romana che collabora più da vicino con il Papa nella guida della Chiesa cattolica, sia coordinando i vari uffici della Santa Sede sia curando i rapporti con gli Stati e gli organismi internazionali. Attualmente il segretario è il cardinale Pietro Parolin.

Ho la netta impressione che il papa stia un po’ giocando ai bussolotti e non abbia la capacità (il coraggio?) di cambiare veramente certe impostazioni: è in atto solo una sorta di palleggiamento di competenze all’interno della Curia, una razionalizzazione alla ricerca di qualche ulteriore garanzia di correttezza e lealtà. Non è questione di ristrutturazione degli uffici: se lo sporco c’è, così facendo, non si fa altro che nasconderlo sotto il tappeto, sperando che non esca, non inquini o addirittura che si volatilizzi per opera dello Spirito Santo.

Non è nemmeno questione di scelta oculata a livello di “porpore” più o meno fedeli al papa: l’esperienza insegna che la fiducia molto spesso non viene ripagata e certi personaggi sfuggono al controllo papale. Forse non si è stati sufficientemente attenti nelle scelte, forse qualcuno ha tradito e si è smarcato, forse la burocrazia vaticana, come del resto tutte le burocrazie, è talmente potente da lavorare in proprio.

Papa Francesco è stato eletto pontefice sulla base di un input abbastanza chiaro da parte dei signori cardinali stranamente orientati al cambiamento (una mossa dettata dallo Spirito Santo!): mettere ordine, ripulire e riformare la Curia. Fino ad ora non c’è riuscito. Ha fatto molte altre cose forse più importanti, ha portato una ventata di aria evangelica nella Chiesa come comunità, ma non è riuscito a trasferire quest’aria nuova a livello istituzionale, rimanendo impastoiato nei tremendi meccanismi curiali.

Si ha la sensazione e il timore che l’intenzione dei grandi elettori fosse quella di cambiare la facciata impresentabile, ma lasciando le cose sostanzialmente immutate, mandando il papa addirittura allo sbaraglio con il retropensiero del “vai avanti tu che a me scappa da ridere”.

Giunti a questo punto del pontificato o papa Francesco comincia veramente a usare il bisturi o non ne esce vivo. Il bisturi, a mio avviso, si chiama responsabilizzazione dei laici e valorizzazione delle donne. Avverto i deboli di cuore che adesso le sparerò grosse ed assai provocatorie. Uso delle metafore: è tempo che Maria di Magdala, una donna vera, bella, sensuale, affascinante e coraggiosa, assuma un ruolo decisivo nella Chiesa, correndo il rischio financo di risvegliare gli appetiti sessuali dei curiali maschi (meglio questi sani appetiti di quelli insani…). Traditore per traditore, è tempo che Giuda Iscariota torni in pista per soddisfare il suo appetito di potere anticlericale, correndo il rischio di buttare all’aria diverse certezze nelle istituzioni ecclesiali: non bastano i sinodi, ma occorrono democrazia e partecipazione allargate. Bisogna cioè reinterpretare e aggiornare il concetto di chiesa gerarchica e apostolica, sovvertendo certe gerarchie e allargando significativamente l’area apostolica.

Se Gesù aveva il coraggio di dire “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”, papa Francesco potrà avere il coraggio di dire “i laici e le donne devono essere protagonisti in Vaticano e nella gestione della Chiesa, mettendo un po’ in disparte i signori cardinali e, perché no, anche i signori vescovi e i signori preti”?

Termino con una stupenda provocazione di don Andrea Gallo: «Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

 

 

 

 

Tridico e tridisdico

Non sono iscritto al partito “della forbice” perché non credo che i problemi si risolvano tagliando sic et simpliciter a destra e manca. Questo approccio pseudo-politico è riconducibile alla propaganda, vale a dire ad azioni intese a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a influire sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse. Spesso il termine propaganda può polemicamente alludere a grossolane deformazioni o falsificazioni di notizie o dati, diffuse nel tentativo di influenzare l’opinione pubblica.

È successo grosso modo così con il taglio dei parlamentari e la gente, più o meno ingenuamente e/o qualunquisticamente, ha abboccato, aiutata anche dall’assenteismo di deputati e senatori, dalla loro inconcludenza e dalla loro incoerenza. Gli elettori hanno sempre ragione anche se potrebbero essere un po’ meno disponibili ad assorbire le panzane populiste: al partito “forbice” fa riscontro l’elettorato “spugna”. Non torno nel merito del discorso oggetto dell’ultimo referendum: è andata in un certo modo e occorre prenderne atto.

C’è pero una strana coda del serpente populista che sta emergendo. Tutti si sono scandalizzati del cospicuo aumento del compenso al presidente dell’Inps Pasquale Tridico: da 60 a 150 mila euro annui. Non sono in grado di valutare la professionalità, la quantità e qualità dell’impegno, l’attenzione e l’esperienza richieste a chi ricopre una simile carica. Stupisce comunque il clamoroso balzo in avanti oltretutto disposto nel momento meno adatto per una simile decisione, che effettivamente suona beffarda davanti all’opinione pubblica alle prese con preoccupazioni e sacrifici di vario genere.

Ma la stranezza che mi ha colpito maggiormente è stata la reazione del grillino (?) Luigi Di Maio e del leghista (?) Matteo Salvini. Il primo ha dichiarato in perfetto politichese: «L’aumento dello stipendio del presidente dell’Inps? Su questo chiederò chiarimenti nelle prossime ore». Il secondo ha sputato un po’ di veleno come sempre fa: «Tridico prima paghi la cassa integrazione alle migliaia di lavoratori che la aspettano poi si dimetta». Lasciamo stare il solito giochetto al rinvio adottato da Di Maio, il quale sembra aver assorbito alla perfezione tutte le peggiori cattive abitudini dei politici di vecchio stampo senza tuttavia averne assimilato le poche o tante buone qualità. Lasciamo stare che sembra quasi che Tridico debba pagare la cassa integrazione coi suoi soldi: più demagogia di così! Che lascia interdetti è il fatto burocraticamente provato che gli stipendi di oggi dei vertici di Inps, ma anche di Inail, sono frutto di un patto Lega-M5S siglato all’interno del governo giallo-verde fra l’allora ministro del lavoro e vice-presidente Luigi Di Maio e l’altro vice-presidente Matteo Salvini, con l’avallo del premier Conte. Oggi questi signori non possono far finta di niente, perché c’erano e non credo potessero dormire su partite così delicate.

E allora come la mettiamo? Molto semplicemente in quel momento a loro stava opportunisticamente bene così. Oggi, a distanza di pochi mesi, non sta loro più bene e se ne lavano le mani. Sicuramente allora stava bene per motivi di puro potere, mentre adesso non sta più bene per motivi di puro, deteriore e tardivo populismo.

Appare goffa e penosa la reazione del diretto interessato: «Non l’ho deciso io e non prenderò gli arretrati». Anche Giuseppe Conte non scherza quanto a dribbling politico: «Non posso prendere un impegno: ho chiesto un approfondimento. Fatemi fare una verifica». Non insisto perché questi personaggi mi fanno quasi tenerezza tanta è la loro insipienza. L’Inps non andrà in fallimento per il compenso del suo presidente, può anche darsi che l’aumento sia meritato e che quindi sia inutile stracciarsi le vesti. Però la cosa che mi dà veramente fastidio è l’incoerenza dei populisti a corrente alternata. Già il populismo non lo digerisco, figuriamoci se condito in salsa pentaleghista scaduta.

Di Maio spieghi perché sia sta fautore dell’auto-taglio di stipendio dei parlamentari grillini e poi sia andato a scivolare sulla buccia di banana del compenso ad un alto esponente della casta (uso questo termine non per disprezzare il signor Tridico che non conosco e non so di preciso che cavolo faccia, ma per sbugiardare i sedicenti anti-casta). Salvini spieghi perché Tridico andasse bene quando al governo c’era lui e adesso invece debba dimettersi. E questi personaggi sarebbero il nuovo della politica italiana? Se è così, torniamo pure in tutta fretta al vecchio.

 

Quando l’odore dei soldi copre quello delle pecore

Forse papa Francesco si sta stufando di essere, suo malgrado, coinvolto in affari poco trasparenti e soprattutto poco evangelici. La cronaca lo lascia intendere, anche se è presto per salutare finalmente un’entrata papale a gamba tesa nella curia vaticana. Mi verrebbe spontaneo pensare: era ora! Cosa è successo?

Le cronache riportano che, con un bollettino, il Vaticano ha fatto sapere che il cardinale Angelo Becciu ha rinunciato ai diritti del cardinalato (rimanendo tuttavia cardinale) e si è dimesso dall’incarico di prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, importante dicastero della Curia romana. «Oggi, giovedì 24 settembre, il Santo Padre ha accettato la rinuncia alla carica di Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e dai diritti connessi al Cardinalato, presentata da Sua Eminenza il Cardinale Giovanni Angelo Becciu», si legge nella nota. Siamo alle prese con le solite paroline “blizgose” di stampo squisitamente clericale, che dicono tutto e niente e che permettono di navigare nell’equivoco.

Scrive Salvatore Cernuzio su La stampa: “Non si conoscono attualmente le cause di questa decisione definita da molti scioccante, essendo stato Becciu, dopo una lunga esperienza come nunzio, il Sostituto della Segreteria di Stato vaticana per circa otto anni (2011-2018), quindi il numero tre del Vaticano. Stretto collaboratore di Francesco, molto stimato dal Pontefice argentino che infatti lo ha voluto creare cardinale e gli ha affidato anche l’incarico di delegato speciale presso l’Ordine di Malta reduce da una bufera interna e quindi sottoposto ad un commissariamento, il prelato nato a Pattada, in Sardegna, è stato per anni un personaggio molto in vista sia tra le mura Vaticane che presso l’opinione pubblica.

Nel Dicastero dei Santi, alla cui guida il Papa lo aveva posto nel maggio 2018, nessuno era a conoscenza di questa decisione improvvisa. I più stretti collaboratori del cardinale – apprende Vatican Insider – erano stati informati soltanto del fatto che Becciu sarebbe stato ricevuto nel pomeriggio di oggi in udienza da Papa Francesco nel Palazzo Apostolico per firmare i decreti di alcune beatificazioni. È probabile, quindi, che qualcosa sia accaduto durante l’udienza. Secondo le ricostruzioni di alcune agenzie, Becciu avrebbe appreso la decisione del Papa poche ore prima che venisse comunicata.

L’ipotesi più accreditata al momento è che dietro la mossa del Pontefice ci sia l’affaire del Palazzo di Londra, l’immobile acquistato dalla Segreteria di Stato per circa 160 milioni di euro negli anni in cui Becciu era sostituto, finito al centro di un’indagine della magistratura vaticana tuttora in corso che ha portato anche alla sospensione di cinque funzionari vaticani, tra cui monsignor Mauro Carlino, segretario personale dello stesso Becciu. 

Una inchiesta de L’Espresso afferma che il porporato sardo avrebbe dirottato denaro delle offerte dell’Obolo di San Pietro, un collettore di elemosine e donazioni per le azioni sociali della Chiesa, verso fondi speculativi e favori alla famiglia. Becciu ha invece sempre dichiarato l’estrema correttezza della trattativa, definita tuttavia «opaca» dal Segretario di Stato, Pietro Parolin: «L’investimento era regolare e registrato a norma di legge», ha affermato pubblicamente in diverse occasioni, definendo anche «infanganti» le accuse che la Santa Sede abbia usato i soldi dei poveri per acquistare il lussuoso palazzo di Sloane Avenue.

Da parte del cardinale non è giunta alcuna dichiarazione. Alle persone più vicine ha detto di voler mantenere per ora «il silenzio». Becciu continuerà a mantenere «il titolo cardinalizio» (il comunicato di questa sera della Sala Stampa vaticana riporta infatti la dicitura «Sua Eminenza»), svuotato però di ogni suo contenuto e di fatto ridotto ad un titolo meramente onorifico. I diritti legati al cardinalato ai quali Becciu rinuncia sono quelli espressi nei canoni 349, 353 e 356 del Codice di Diritto Canonico. Questi si riferiscono al «peculiare collegio» degli elettori del Papa, che partecipano ai Concistori, collaborano con il Pontefice e sono tenuti a venire a Roma ogni volta che sono convocati. Becciu perde inoltre la possibilità di partecipare ad un eventuale futuro Conclave per l’elezione del Papa”.

La questione, peraltro ancora tutta da chiarire a monte e a valle, merita qualche breve riflessione senza (s)cadere nella tentazione di fare del giustizialismo religioso. Non vivo su una sorta di luna evangelica e quindi non pretendo una totale avversione della Chiesa verso gli affari: anch’essa, come istituzione, ha bisogno del vile danaro per sopravvivere e sostenere le sue strutture e le sue iniziative. Di qui a brigare, speculare, lucrare su operazioni finanziarie border line il passo è però molto lungo. È pur vero che l’appetito vien mangiando e che “mammona” è sempre in agguato, ma…  In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.  Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?  E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?  E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano.  Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.  Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede?  Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?».  Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.  Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 

Seconda riflessione. Non sarebbe almeno opportuno che la cura degli affari e dell’economia venissero affidate ai laici? Resto affezionato ad una mia sconsolata e paradossale previsione riguardante la vita della Chiesa: sarà più facile che un laico celebri la messa piuttosto che abbia responsabilità decisive di carattere economico-finanziario. «In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani». Il problema potrebbe ripresentarsi in capo ai laici investiti di responsabilità economiche, Intanto però “i sottanoni” curiali sarebbero costretti a smettere di guardare dal buco della serratura delle camere da letto dei cristiani e di confabulare con i banchieri e ad occuparsi di altre questioni e magari, perché no, di attività in mezzo al gregge per essere finalmente pastori con l’odore delle pecore e non con l’odore dei soldi.

Terza e ultima riflessione. Se e quando qualcuno nella Chiesa, che semper reformanda est e che deve continuamente riesaminare sé stessa, per mantenersi sempre fedele, nell’azione e nella dottrina, al messaggio evangelico, sbaglia, dovrebbe farsi da parte o essere messo da parte, senza però far pagare ad esso il prezzo di strutture ed impostazioni sbagliate. No ai capri espiatori! Spero quindi che l’esonero del cardinale Becciu non diventi l’esempio di un inaccettabile e inutile tiro al bersaglio, ma che semmai sia l’inizio di un rinnovato stile di comportamento nell’auspicabile bene e nell’(in)evitabile male nella vita della Chiesa. Secondo papa Francesco la Chiesa o è «in uscita» oppure si «ammala». E si ammala di quei «mali» che si traducono in vizi e scandali che allontanano i fedeli. E se nel suo uscire, finisce coinvolta in qualche incidente, ben venga: «Meglio una Chiesa incidentata, che ammalata di chiusura». Ha perfettamente ed evangelicamente ragione, però bisogna intendersi su cosa significhi “in uscita”: non certo in “libera uscita” alla ricerca di affari più o meno puliti o sporchi.

 

 

Le boiate di BoJo e i sussurri di Mattarella

Faccio ancora una volta riferimento al criterio sbrigativo suggerito dal grande giornalista Indro Montanelli per giudicare le persone: “guardategli la faccia…”. Si attaglia perfettamente a quella di Boris Johnson, il premier britannico. Mia sorella non ha fatto in tempo a visionarlo, ma sono sicuro che, se fosse ancora in vita, non esiterebbe a sentenziare: «Che facia da stuppid!». Siccome, se e quando uno è stupido, lo è sempre, l’altro giorno Johnson si è lasciato sfuggire l’ennesima stupidata.

Ma vado con ordine e mi faccio aiutare dal quirinalista de La stampa, Ugo Magri, che prende la mira partendo dalla sponda italiana e scrive: “Con una battuta detta in privato, che però è diventata di pubblico dominio, Sergio Mattarella ha pareggiato i conti con il primo ministro britannico. Due giorni fa Boris Johnson s’era concesso giudizi poco lusinghieri sul nostro attaccamento ai valori di libertà. E subito il presidente gli ha risposto che «anche noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo a cuore pure la serietà». Il riferimento è alla lotta al Covid nella quale, dopo essere stati colti di sorpresa, ora stiamo ottenendo risultati migliori del Regno Unito. Questo perlomeno ha rinfacciato a Johnson il deputato laburista Ben Bradshaw, profittando di un question time alla Camera dei comuni: «Come mai Germania e Italia stanno facendo meglio?». Punto nel vivo, «BoJo» s’è lanciato sul terreno dell’antropologia politica, collegando le misure anti-Covid ai tratti distintivi delle nazioni, che per la gran parte corrispondono a luoghi comuni. «C’è un’importante differenza fra noi e molti altri Paesi nel mondo», ha detto in sintesi, «perché il nostro ama da sempre la libertà», dunque impossibile chiedere al popolo britannico di rinunciarvi per combattere l’epidemia. Sottinteso: se tedeschi e italiani si mettono in riga, magari è conseguenza della loro storia. Mattarella ieri era a Sassari per commemorare Francesco Cossiga a dieci anni dalla scomparsa. Dopo la cerimonia qualcuno gli ha chiesto di Johnson, e in quel contesto informale, senza microfoni né telecamere ma con qualche orecchio indiscreto, ha ribadito in fondo lo stesso concetto espresso già a fine luglio, quando aveva chiarito che «la libertà non è il diritto di far ammalare gli altri». Questione di serietà, appunto”. 

In politica, come del resto in tutti i campi dell’esistenza umana, è il tempo delle parole e delle frasi sparate alla viva il parroco. Dorian Gray mette in bocca ad un suo straordinario personaggio la seguente frase: “There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about”. Come spesso accade con le traduzioni, non rendono fino in fondo il significato della frase. In questo caso meglio restare letterali: “C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé”. Le altre traduzioni, più diffuse, introducono arbitrariamente il concetto di “bene” e “male”: “Parlarne bene o parlarne male non importa, purché se ne parli.” o “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.  

I protagonisti principali della scena politica internazionale sembrano osservare scrupolosamente questa paradossale ed ironica indicazione, parlando a sproposito, sparando cazzate in libertà, dicendo e disdicendo in continuazione: l’importante è avere l’attenzione mediatica e il consenso viscerale del momento. Il resto mancia. Per fortuna abbiamo un presidente della Repubblica che si comporta in modo contrario a questo penoso andazzo: parla poco, anzi pochissimo, e, quando parla, sa quel che dice. Nel caso di cui sopra non ha nemmeno parlato, ha solo sussurrato una reazione perfetta ad una gigantesca cavolata, l’ennesima per la verità, di Boris Johnson. Non c’è bisogno di gridare, basta anche bisbigliare la frase giusta al momento giusto.  Il presidente Sandro Pertini la diceva in altro modo per arrivare alle stesse conclusioni di Mattarella: “Il popolo italiano non è né primo né secondo agli altri popoli”.

Ebbene la politica italiana nel dopoguerra, tra i pregi e i difetti che è riuscita ad evidenziare, può vantare un grande merito: aver saputo offrire dei presidenti della Repubblica sempre all’altezza del loro compito. Non è un caso infatti che Mattarella abbia inserito il suo misurato spunto orgoglioso verso lo sboccato premier inglese nel contesto di una commemorazione di Francesco Cossiga. Come scrive Ugo Magri, “le parole che Mattarella gli ha dedicato nel suo discorso all’Università di Sassari, hanno ricollocato l’ex Picconatore finalmente al posto che gli spetta, nel Pantheon democratico, risarcendone in parte la memoria fin troppo bistrattata. Del suo predecessore, Mattarella ha valorizzato alcuni tratti che pure oggi conservano un significato. Per esempio il ferreo atlantismo, rimasto «un punto fermo anche nel suo tenace europeismo». Che sia un richiamo a non smarrire la rotta nelle relazioni internazionali?”.