Il topolino nel messale e la talpa in messalina

“Cherchez la femme”: nella Chiesa cattolica, maschilista a tutto spiano, non è facile trovarla nei posti di rilievo e di potere, eppure in questi giorni ne è spuntata una che sembra fare, una pur negativa, eccezione alla regola. Cecilia Marogna, 39 anni, cagliaritana, ufficialmente imprenditrice e consulente, è stata arrestata e trasferita a San Vittore. La donna, ribattezzata dai giornali «la dama del cardinale», appena verrà convalidato il suo arresto dalla corte d’Appello di Milano, dovrà chiarire davanti a un giudice della Santa Sede il suo ruolo nella vicenda di spoliazione delle finanze vaticane costate la porpora al cardinale Angelo Becciu, considerato il suo «sponsor». E a lei, le manette. Non intendo mettere nessuno alla gogna, mi limito a riprendere dal quotidiano La Stampa le notizie emergenti relativamente agli affari vaticani, che sembrano addirittura tingersi di rosa.

Secondo le scarne informazioni trapelate sui motivi del suo arresto, le accuse sarebbero due: peculato e distrazione di beni. Si tratta di reati contemplati dal codice penale vaticano che recepisce però in buona parte il codice italiano. La vicenda è quella nota, relativa a una somma di 500 mila euro che la donna, auto accreditatasi come «007» della Santa Sede per gli affari esteri, avrebbe ricevuto al fine di missioni di beneficenza. Soldi che invece, secondo le accuse, sarebbero stati spesi in abiti di marca e arredamento di lusso. Lo stesso cardinale Becciu aveva sostenuto nei giorni scorsi di essere stato truffato da Marogna. Non si capisce però come un porporato del suo calibro, già Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e soprattutto nominato nel 2011 da papa Benedetto XVI Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato vaticana, tra le cariche più importanti che riguardano l’attività politica e diplomatica della Santa Sede, abbia potuto fidarsi di una donna che lo avrebbe indotto a consegnare una somma del genere.

La vicenda, peraltro ancora tutta da chiarire e giudicare nelle sedi competenti, suona quale provocatoria risposta al recente appello di papa Francesco sulla preghiera per la valorizzazione del ruolo femminile all’interno della Chiesa. Spontaneo e facile fare dell’ironia: su due questioni serissime, vale a dire l’affarismo della Curia vaticana e la misoginia clericale, si profilano addirittura strane combinazioni tra soldi e donne, il modo peggiore per sdoganare il sesso femminile e portarlo alla ribalta nella vita ecclesiale. Qualcuno dirà: di affaristi ce n’è a sufficienza senza bisogno di andarli a cercare nelle donne. Quindi, si perpetuerà, in un certo senso la demonizzazione della donna e la volontà di tenerla lontana dai sacri recinti dove gli uomini ne combinano già di tutti i colori.

Cambiamo capitolo per dire che la montagna della sacrosanta riforma liturgica ha partorito il topolino del nuovo messale, il volume che serve a celebrare l’Eucaristia.  La revisione italiana del Messale scaturito dal Concilio arriva a diciotto anni dalla terza edizione tipica latina varata dalla Santa Sede nel 2002. La lunga e complessa operazione coordinata dalla Cei ha visto numerosi esperti collaborare con la Commissione episcopale per la liturgia fino a giungere nel novembre 2018 all’approvazione del testo definitivo da parte dell’Assemblea generale dei vescovi italiani. Poi, dopo il “via libera” di papa Francesco, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha promulgato il libro l’8 settembre 2019. E lo scorso 29 agosto la prima copia è stata donata al Pontefice.

Apprendo dal quotidiano Avvenire che la maggior parte delle variazioni riguarda le formule proprie del sacerdote. I ritocchi sono pochi e generalmente piuttosto insignificanti. Già nei riti di introduzione dovremo abituarci a un verbo al plurale: «siano». Non sentiremo più «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi», ma «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». È stato rivisto anche l’atto penitenziale con un’aggiunta “inclusiva”: accanto al vocabolo «fratelli» ci sarà «sorelle». Ecco che diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…». Poi: «E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle…». Inoltre il nuovo Messale privilegerà le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà». Si arriva al Gloria che avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Una revisione che sostituisce gli «uomini di buona volontà» e che vuole essere più fedele all’originale greco del Vangelo.

Dopo l’orazione sulle offerte, il sacerdote, mentre si lava le mani, non sussurrerà più sottovoce «Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato» ma «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Poi inviterà a pregare dicendo (anche in questo caso con piccole revisioni): «Pregate, fratelli e sorelle, perché questa nostra famiglia, radunata dallo Spirito Santo nel nome di Cristo, possa offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente». Dopo il Santo, il prete dirà: «Veramente santo sei tu, o Padre…». E proseguirà: «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito».
Nella consacrazione si avrà «Consegnandosi volontariamente alla passione». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi».

I riti di Comunione si aprono con il Padre Nostro. Nella preghiera insegnata da Cristo è previsto l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Quindi il cambiamento caro a papa Francesco: non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». Il rito della pace conterrà la nuova enunciazione «Scambiatevi il dono della pace» che subentra a «Scambiatevi un segno di pace». E, quando il sacerdote mostrerà il pane e il vino consacrati, dirà: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». Una rimodulazione perché nel nuovo Messale «Beati gli invitati» non apre ma chiude la formula e si parla di «cena dell’Agnello», non più di «cena del Signore». Al termine ci sarà la formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore». Ma i vescovi danno la possibilità di congedare la gente anche con le tradizionali parole latine: Ite, missa est.

Ho volutamente passato in rapida rassegna le novità per dimostrare, a contrariis, che purtroppo non serviranno a sgessare o sgelare le assemblee liturgiche: più che di revisione di frasi, parole e formule ci sarebbe bisogno di fare spazio alla spontaneità, alla fantasia, al coraggio di fondere il sacro con la vita. Quel coraggio e quella fantasia che non mancano a certa parte della gerarchia quando si parla di manovre economiche e di servire “mammona”: tutto è ammissibile, forse anche togliere le donne dal focolare domestico per ammetterle nel giro affaristico, tutto per fare soldi o per farseli mangiare da personaggi senza scrupoli. “Andate e mettete in discussione le messe ingessate e soprattutto i riti dell’affarismo vaticano”: così termina la mia personale liturgia.

 

 

 

 

Donne, donne, eterna sottospecie

Partecipando ad una celebrazione eucaristica, ho ascoltato durante la preghiera dei fedeli, che purtroppo ha quasi sempre un contenuto cervellotico e stereotipato, un’intenzione alquanto curiosa. La riporto a senso: preghiamo per coloro che hanno difficoltà nell’accostarsi ai sacramenti per le loro situazioni border line (uso questa espressione perché non ricordo le paroline melliflue liturgicamente usate). Presumo, anzi sono certo, che si facesse riferimento ai divorziati, ai conviventi, a quanti di fatto vivono “in odore di scomunica”.

«Preghiamo perché i fedeli laici, specialmente le donne, partecipino maggiormente nelle istituzioni di responsabilità della Chiesa». È l’appello lanciato da papa Francesco al termine dell’Angelus dell’11 ottobre 2020, in piazza San Pietro. «Nessuno di noi è stato battezzato prete né vescovo – ha osservato – siamo stati tutti battezzati come laici, laici e laiche. Sono protagonisti della Chiesa». Oggi c’è ancora bisogno di «allargare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa e di una presenza laica, si intende, ma sottolineando l’aspetto femminile, perché in genere le donne vengono messe da parte». Specificando con quel sibillino “si intende” che non si pensa nemmeno lontanamente al sacerdozio e forse nemmeno, dopo tanto parlare, al diaconato femminile. Bisogna «promuovere l’integrazione delle donne nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti», afferma il Pontefice. Stando attenti a non «cadere nei clericalismi, che annullano il carisma laicale e anche rovinano la faccia della Santa Madre Chiesa».

“Aiutati che il ciel t’aiuta” dice un vecchio adagio e dovrebbe ricordarlo anche il Papa. Ce  un altro aforisma che prevede “il predicare bene e il razzolare male”. Sono perfettamente d’accordo con lui quando mette il dito nella piaga della scarsa partecipazione delle donne ai momenti decisivi e decisionali nella vita della Chiesa. Le donne sono indubbiamente una grande risorsa inesplorata! Potrebbe essere proprio il protagonismo delle donne a spiazzare i bigotti e i conservatori sempre, più o meno correttamente, alla ribalta. D’altra parte è il Vangelo che evidenzia il protagonismo femminile: tutte coraggiose, piene di fede, sanguigne, passionali, sensibili e forti, da Maria di Nazaret a Maria Maddalena, dalle sorelle di Lazzaro a Elisabetta, dall’emorroissa all’adultera, dalla samaritana alle vedove. Questa presenza dava fastidio agli Ebrei osservanti di allora, che le consideravano creature di serie D, e dà fastidio oggi, crea soprattutto imbarazzo la capacità femminile di mixare coraggio e delicatezza, profondità e semplicità, femminilità e forza d’animo, fascino e riservatezza.

Il mio indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia spesso, introducendo la preghiera del canone eucaristico, si rivolgeva ai bambini, che circondavano l’altare (era anche  un escamotage dialettico per spararle grosse verso gli adulti e verso tutta la Chiesa al di là di S. Cristina), per ipotizzare la presenza all’ultima cena di donne e bambini, i componenti delle famiglie degli apostoli, le appassionate e coraggiose discepole: le donne, quindi, a correggere lo sguardo su una cena mestamente maschilista ed asessuata. Ebbene Suor Carmen Sammut, presidente dell’Unione internazionale superiore generali (una sorta di sinodo delle suore), ha afferma tempo fa in una intervista: «Ma lei, ha mai riflettuto sull’Ultima Cena? Nelle raffigurazioni, fatte anche da grandi artisti, quasi mai ci sono donne. Le pare possibile? Una cena senza donne? Eppure questa visione di una comunità ecclesiale senza donne, di una Chiesa, nei suoi vertici, solo maschile, ci è entrata dentro, l’abbiamo interiorizzata. Credo sia arrivato il momento di liberarcene e di dare il giusto peso alla presenza femminile nella Chiesa».

Il cardinale Pietro Parolin sembra abbia detto che di per sé una donna potrebbe diventare Segretario dello Stato Vaticano. Invece sempre Suor Carmen Mammut ha aggiunto al riguardo: «Segretario di Stato non lo so, ma andare alla guida di dicasteri sì, certo. Francesco l’ha ribadito: nella Chiesa si devono separare le funzioni, i ruoli dai “sacramenti”. Dunque una donna può essere messa in qualsiasi ruolo. E poi ha detto un’altra cosa molto forte. Ha parlato del codice di diritto canonico ed ha spiegato che, se una cosa è vietata dal codice, non significa che debba rimanere vietata per sempre. Il codice racchiude delle leggi, ma le leggi si possono cambiare». Non voglio essere malizioso ma credo che, tutto sommato, sarà più facile per le donne strappare la concessione di celebrare la messa piuttosto che di accedere al potere vaticano ed ecclesiastico. Arrivo ad essere ancora più malizioso: probabilmente la preclusione al sacerdozio è strumentale alla preclusione al potere a tutti i livelli. Le donne: sono sempre più convinto che da esse dipenda il nuovo a tutti i livelli, politico, sociale, religioso. Mi si obietterà che la presenza di donne in Vaticano potrebbe ulteriormente e sessualmente indurre in tentazione qualche monsignore o cardinale. Il gioco varrebbe comunque la candela: meglio essere attratti da una bella donna che da un chierichetto, meglio andare a letto spontaneamente con una funzionaria vaticana piuttosto che con un seminarista a pagamento. Più di così non posso sparare!

Papa Francesco è solito buttare giustamente sassi nella piccionaia conservatrice e bigotta o, se si preferisce, scagliare fulmini nel cielo (troppo) sereno del dogmatismo di comodo.  Rispondendo ad un quesito postogli in materia di diaconato femminile e sull’ipotesi dell’apertura di una commissione di studio in merito, ha risposto: «Sarebbe bene per la Chiesa chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò di fare qualcosa del genere. Lo farò. Accetto». In precedenza aveva affermato: «La Chiesa deve coinvolgere consacrate e laiche nella consultazione, ma anche nelle decisioni, perché ha bisogno del loro punto di vista: desidero un ruolo crescente delle donne nella Chiesa. Non si tratta di femminismo, ma di un diritto di tutti i battezzati: maschi e femmine». Dovrebbe però finire il tempo delle dichiarazioni d’intento, delle commissioni di studio, dei tira e molla teorici e financo delle preghiere. Non vorrei infatti che valesse anche per la Chiesa la malignità (?) secondo la quale per non risolvere un problema basta fare un gruppo di studio…o magari imbastire belle preghiere mettendo a posto la coscienza.

Torno quindi al punto di partenza: pregare per le questioni delicate e controverse che esistono all’interno della Chiesa. Sono partito dai divorziati, dai conviventi di vario genere, da coloro che sessualmente vengono tenuti a distanza dai sacramenti e dalla comunità ecclesiale. Arrivo anche alle donne e alla preghiera del papa per la loro piena integrazione nella vita della Chiesa. L’assimilazione, in un certo senso, è già un triste inizio. Mi viene spontaneo però ipotizzare una risposta piccata del Padre Eterno: “Ma cosa mi chiedete? Togliete voi questi ostacoli sui quali io…lasciamo perdere…”.

 

 

 

Gli Acutis della santità

Papa Paolo VI riteneva che per formarsi nella fede i giovani avessero la necessità di molti testimoni e quasi nessuna necessità di maestri della dottrina. Cosa intendeva il pontefice con queste parole? Per capire a cosa si riferisse il Santo Padre basti pensare a quanti Santi nel corso della storia della Chiesa hanno fatto la differenza dando il loro esempio e quanti invece vengono ricordati per le loro dissertazioni teologiche.  Paolo VI voleva far comprendere che per guidare i fedeli non c’era bisogno di un attaccamento dottrinale alle parole del Vangelo ma l’esplicitazione delle stesse attraverso la vita di tutti i giorni.

Era la mattina del 12 ottobre 2006 quando all’ospedale San Gerardo di Monza si spegneva per una leucemia fulminante – leucemia mieloide acuta M3 – un quindicenne milanese di nome Carlo Acutis. Una morte di quelle che lasciano straziati i familiari – Carlo era anche figlio unico – e storditi amici e conoscenti, per l’età e la velocità degli accadimenti, intercorsero pochissimi giorni tra la diagnosi e il decesso.

Carlo era nato il 3 maggio 1991 a Londra, dove i genitori si trovavano per motivi di lavoro. Crebbe a Milano in una famiglia in vista nel mondo finanziario italiano – controlla attualmente la Vittoria Assicurazioni – frequentando la parrocchia di Santa Maria Segreta. Fu segnato da una pietà profonda quanto precoce. Fece la Prima Comunione, con un permesso speciale, a sette anni. Ebbe un amore vivo per i santi – san Francesco in particolare – e soprattutto per l’Eucaristia, fino ad allestire una sorta di mostra sui miracoli eucaristici che oggi è rimasta online e ha avuto un successo inaspettato, anche all’estero. Sportivo e appassionato di computer, come tanti coetanei, si distinse per lo spirito di carità, a partire dai senzatetto che incrociava in città.

Il gesuita Roberto Gazzaniga, incaricato della pastorale dell’Istituto Leone XIII, storica scuola della Compagnia di Gesù a Milano, ha così ricordato in una memoria scritta Carlo, arrivato lì, al liceo classico, nell’anno scolastico 2005-2006: «L’essere presente e far sentire l’altro presente è stata una nota che mi ha presto colpito di lui». Allo stesso tempo era «così bravo, così dotato da essere riconosciuto tale da tutti, ma senza suscitare invidie, gelosie, risentimenti. La bontà e l’autenticità della persona di Carlo hanno vinto rispetto ai giochi di rivalsa tendenti ad abbassare il profilo di coloro che sono dotati di spiccate qualità».

Carlo inoltre «non ha mai celato la sua scelta di fede e anche in colloqui e incontri-scontri verbali con i compagni di classe si è posto rispettoso delle posizioni altrui, ma senza rinunciare alla chiarezza di dire e testimoniare i principi ispiratori della sua vita cristiana». Il suo era «il flusso di un’interiorità cristallina e festante che univa l’amore a Dio e alle persone in una scorrevolezza gioiosa e vera. Lo si poteva additare e dire: ecco un giovane e un cristiano felice e autentico».

Ho ripreso le note biografiche di cui sopra da un articolo di Franco Cassiani su Avvenire.

Quattordici anni dopo la sua morte Carlo Acutis viene proclamato dalla Chiesa beato. La Messa con il rito di beatificazione è stata celebrata ad Assisi, nella Basilica superiore di San Francesco, presieduta dal cardinale Agostino Vallini, legato pontificio per le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli. Il tutto è avvenuto nella città umbra perché lì Carlo fu sepolto – la famiglia ha un’abitazione in loco e il ragazzo aveva maturato un legame speciale con la culla del francescanesimo – mentre oggi le sue spoglie sono esposte alla venerazione dei fedeli nel Santuario della Spogliazione, dove sono state traslate lo scorso anno.

La guarigione ritenuta dalla Chiesa miracolosa e che ha portato Carlo alla beatificazione è avvenuta in Brasile, a Campo Grande, il 12 ottobre 2013. Come riporta la Congregazione delle cause dei santi, un bambino soffriva di seri disturbi all’apparato digerente, sin dalla nascita avvenuta nel 2010, e nel 2012 un esame aveva evidenziato una rara anomalia anatomica del pancreas. A causa di essa la vita del piccolo era caratterizzata da scarsa crescita e difficoltà nell’alimentazione. Più volte era stato ricoverato per disidratazione e processi infiammatori, solo un intervento chirurgico avrebbe potuto eliminare il problema, era stato il responso dei medici. L’intervento però non fu mai effettuato perché nel 2013, dopo che il bimbo ebbe toccato una reliquia del venerabile Carlo Acutis, si registrò qualcosa di sorprendente, che portò a una ripresa normale della sua crescita.

Esami clinici eseguiti negli anni successivi rilevarono che il pancreas non presentava più il problema anatomico iniziale. L’iniziativa di invocare l’intercessione di Acutis era stata presa dai genitori del bambino e dal parroco. Quest’ultimo nell’anniversario della morte di Carlo aveva organizzato una Messa, mentre la madre del piccolo aveva iniziato una novena per chiedere la guarigione. Familiari e parrocchiani si erano uniti a questa preghiera. La guarigione si presume avvenne durante la Messa, subito dopo il bacio della reliquia.

Mentre sono letteralmente assetato di testimonianze di vita cristiana, resto sempre piuttosto perplesso di fronte all’enfasi celebrativa, alle procedure burocratiche, alla spinta miracolistica con cui vengono collocati sugli altari quanti hanno semplicemente vissuto il Vangelo fino in fondo. Lungi da me interpretare ad oltranza il ruolo di avvocato del diavolo. La bellezza e il fascino dell’esempio di Acutis però consistono proprio nella ordinarietà di vita vissuta con grande fede e per questo la vita di questo giovane può rappresentare un punto di riferimento per i giovani: la santità non è qualcosa di (quasi) irraggiungibile e impossibile, è alla portata di tutti.

Quando portavo a casa un bel voto guadagnato a scuola, mio padre non si sperticava in elogi, faceva rientrare il pur gradito evento nella normalità, sottolineando come a nessuno venisse in mente di complimentarsi con lui dopo una giornata di lavoro durante la quale aveva dipinto con abilità alcune stanze.

La tentazione di supportare la religione a livello fantasmagorico e miracolistico è sempre presente e in agguato. Basti pensare che per diventare beati e santi, i defunti devono aver compiuto miracoli ufficialmente riconosciuti. È successo anche a Carlo Acutis come sopra riportato.  Con la beatificazione, il Cattolicesimo riconosce le virtù terrene di un defunto, la sua ascensione al Paradiso e quindi la capacità di intercedere presso Dio. Per diventare beati è necessario aver subito un martirio o aver compiuto un miracolo riconosciuto dalla Chiesa. La beatificazione apre poi la strada alla canonizzazione, ma per raggiungere la santità serve almeno un secondo miracolo ufficialmente accertato. Per la teologia cattolica, un miracolo è un evento eccezionale che va oltre il consueto ordine della natura. È un fenomeno che avviene sempre per volontà di Dio, ma che può manifestarsi anche per intercessione di una creatura. Spesso si tratta di guarigioni miracolose. In questo caso, l’evento viene considerato ufficialmente miracoloso solo dopo essere stato sottoposto a un’attenta analisi da parte di una consulta medica. Questa viene nominata dalla Congregazione per le cause dei santi ed è composta da specialisti credenti e non.

Così facendo si riduce la santità ad un percorso ad ostacoli effettuato senza alcuna penalità (non è così: santità non è perfezione ante litteram attestata da un tribunale vaticano) e si allontana il santo dalla sua vita, se ne fa un “santino”, che non serve a nessuno e a niente, se non a infoltire un discutibile pantheon. Non si innalzi quindi ad Acutis uno stereotipato altarino, ma lo si lasci vivere nella “mischia cristiana” assieme ai suoi coetanei, che hanno tanto bisogno di lui.

 

 

Perdono non è perdonismo

Liliana Segre ha parlato agli studenti nelle campagne di Arezzo, a Rondine, cittadella della Pace, raccontando ancora una volta quando bambina, a 13 anni, vide negli occhi l’orrore, diventò un “essere senza nome e senza sesso, senza dignità e insensibile, quello che volevano i miei aguzzini”.

“No, non ho perdonato, non è possibile, e non ho mai dimenticato, ma ho imparato a non odiare”, ha ripetuto spiegando che questa è una delle domande che le viene fatta più spesso dagli studenti. “Ma quando ebbi la possibilità di prendere la pistola e sparare all’ufficiale tedesco non lo feci. E quello è stato il momento in cui ho capito che non ero come i miei assassini ed è stato lì che sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad oggi”.

Ho letto l’enciclica papale “Fratelli tutti”, mi riservo di rileggerla ed approfondirla: è notevole per ampiezza e completezza. Mi aspettavo qualcosa di più sul piano teologico, spirituale, ecclesiale e pastorale: è una summa etico-sociologica in cui nuotare. Rimette in discussione tutto l’assetto mondiale e indica i presupposti culturali e sociali su cui impostare un’esistenza diversa. Evidentemente papa Francesco ha inteso chiarire ancora una volta e forse definitivamente che il fondamento della fede cristiana è il Vangelo e da lì devono partire tutti gli impulsi rivoluzionari o riformatori per la Chiesa e per il mondo. Penso quindi valga la pena di leggere questa enciclica in filigrana rispetto a quanto avviene giorno per giorno, considerandola una sorta di vademecum per rispondere agli interrogativi drammatici ed inquietanti del nostro vivere.

Oggi quindi la cito di seguito letteralmente sul tema del perdono, evocato dall’emozionante, umanissimo e profondissimo intervento della senatrice a vita Liliana Segre che ho sopra richiamato con tanta commozione. Scrive papa Francesco:

“Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare.

La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Nel ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai più!»”.

 

Il papaccio, il pretaccio e il…lavoraccio

Quando mi capitava di incontrare un simpatico e cordiale amico, un vecchio socialista verace, sapevo fin dall’inizio dove andava a parare il dialogo politico: di qualunque aspetto si parlasse la lingua batteva sul dento dolente del lavoro. Gli rendo merito e testimonianza dedicando alcune riflessioni al tema del lavoro, mettendo a provocatorio confronto la drammatica problematicità del momento storico con gli insegnamenti di papa Francesco, mutuati letteralmente dalla recentissima enciclica “Fratelli tutti” e riportati in corsivo, riservando poi al lettore un finale a sorpresa (un colpetto di scena).

Il fatto è che «la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio». Parole come libertà, democrazia o fraternità si svuotano di senso. Perché, in realtà, «finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale». Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante.

Come sintetizza una importante ed interessante ricerca pubblicata su “La Repubblica”, l’Italia celebra l’11 ottobre la sua settantesima giornata nazionale per le vittime del lavoro. E mai come quest’anno nella ricorrenza, assumono un “sinistro” rilievo i numeri di una strage silenziosa che non conosce contrazioni: sono le stimmate della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua distratta e cinica classe dirigente. Da gennaio ad agosto di quest’anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi dal lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica.

L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.

È inutile ed ipocrita imbastire un paradossale contrasto fra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro: vale per l’industria inquinante, vale per le attività economiche che producono armi e strumenti di morte, vale per il clima di pandemia in cui sembra che sia meglio sacrificare l’incolumità alla possibilità di lavorare e non impoverirsi. Il difetto sta nel manico, nella scala di valori in cui abbiamo messo al primo posto la proprietà privata e la ricchezza fine a se stessa. La pandemia sta facendo scoppiare le contraddizioni del nostro sistema e mette in evidenza come siano stati posti in secondo piano i diritti fondamentali alla salute ed al lavoro rispetto alla alienante e scriteriata produzione purchessia, addirittura cartolarizzata nella mera speculazione finanziaria.

Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro». Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.

La Costituzione italiana esordisce dichiarando che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Più avanti nel titolo riguardante i rapporti economici parla di tutela del lavoro, di equa retribuzione, dei diritti della donna lavoratrice, di iniziativa economica libera, che però non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, di funzione sociale della proprietà privata. La bussola della vita del nostro Stato è orientata inequivocabilmente verso il lavoro per tutti e a condizioni dignitose e garantiste.

Il caro ed indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia coglieva i gesti liturgici e, genialmente ed immediatamente, li allargava dal loro religioso simbolismo all’impatto esistenziale. Durante la celebrazione del Battesimo sull’altare venivano posti due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Vale anche e soprattutto per il discorso del lavoro a cui sto facendo sofferto riferimento. Questo, secondo i detrattori del cavolo (resisto alla tentazione di usare un termine volgaruccio che lascio alla facile intuizione del lettore), anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Per fortuna è arrivato papa Francesco, il papaccio che rende giustizia al pretaccio.

Insieme (quasi) alla chetichella.

Da tempo si vociferava della nascita di una nuova formazione politica in ambito cattolico. È passato quasi sotto silenzio mediatico questo parto. Stando a quanto ne riferisce, in modo molto chiaro e puntuale, Angelo Picariello su Avvenire, è nato un nuovo soggetto politico «di ispirazione cristiana, autonomo e non confessionale». Una sfida da vincere “Insieme”. Si chiama così il nuovo partito: un progetto a lungo coltivato e lungamente discusso fra varie sigle e componenti dell’associazionismo.

Lo ha presentato il professor Stefano Zamagni, l’ex presidente dell’Agenzia per il Terzo settore: una nuova formazione «che parta dal basso, non da una leadership, che semmai sarà un punto di arrivo, non di partenza». Un progetto per porre rimedio a una diaspora ormai trentennale, «concepita all’inizio con l’idea di favorire il bipolarismo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti – ha detto Zamagni – perché l’Italia non è bipolare e infatti il bipolarismo ha dato pessimi risultati, simili a quelli dei duopoli in economia». Un partito collocato rigorosamente al centro, perché «una democrazia liberale non può fare a meno di un partito di centro».

Ma non è tanto un problema di collocazione. È, soprattutto, una questione di contenuti, di temi, di valori, che sono stati progressivamente marginalizzati nel dibattito politico. «L’effetto del bipolarismo è stato la progressiva sparizione di un partito di ispirazione cristiana. E non si capisce perché questo pensiero non debba avere più dignità nella sfera politica». Il rischio, ora, è addirittura quello di una politica che non abbia più alcun pensiero, che si affidi alla democrazia diretta. Mentre, per Zamagni «la politica non deve limitarsi a dare delle risposte, deve anche saper giocare d’anticipo sui problemi, suscitando domande, perché altrimenti si rischia solo di inseguire i problemi che non si è stati in grado di prevenire».

Un partito, quindi, che sappia fornire una ricetta diversa dalla contrapposizione ormai datata fra statalismo e liberismo, «che hanno fallito entrambi», che promuova una «economia civile di mercato, in cui la famiglia sia soggetto, e non oggetto di mere elargizioni». Attento al magistero della Chiesa, «che però va letto per intero – ha concluso Zamagni – ad esempio la sostenibilità di cui parla il Papa, non è solo ambientale, ma anche antropologica». No quindi alla «servitù digitale», alla tecnica che si sostituisce all’uomo. Sì invece alla centralità della persona umana e a un’Europa che si faccia interprete di questi valori. Dignità della persona, rispetto della vita, «famiglia come primo ambito di fraternità e cellula fondamentale della società», centralità dell’educazione, rilancio della dignità del lavoro. Politiche per l’integrazione. Rilancio della sussidiarietà vera, che rimetta al centro i territori e non mero decentramento politico. Sono queste le priorità contenute nel documento di base.

A questa iniziativa politica aderiscono ex dirigenti sindacali, giornalisti impegnati nell’associazionismo pre-politico, docenti e studiosi. Da sottolineare il carattere non confessionale che dovrà avere questo nuovo partito, «laico, di ispirazione cristiana, aperto a non credenti che ne condividano il programma».

È partito alla chetichella, ma con premesse assai interessanti e prospettive tutte da coltivare ed approfondire. Tento di coglierne gli aspetti innovativi e caratteristici, anche a costo di ripetere pappagallescamente quanto sopra già richiamato al fine di meglio considerare i pro e i contro dell’iniziativa: la natura assolutamente laica e rigorosamente non leaderistica e personalistica ma partecipata dal basso; una forte attenzione ai contenuti ed ai valori riconducibili all’ispirazione cristiana in grado di mettere al centro i problemi e non le facili risposte; le scelte di fondo individuabili in un’economia civile di mercato, nella famiglia quale soggetto fondamentale, nel richiamo all’integrale magistero della Chiesa, nella centralità della persona umana, dell’educazione, della dignità del lavoro, nell’integrazione sociale, nella sussidiarietà autentica, nel ruolo dell’Europa quale interprete di valori su cui innestare le istituzioni e le politiche comunitarie.

Progetto un tantino generico, ma molto sostanzioso e stimolante. La levatura culturale ed etica dei promotori è un ulteriore segno di serietà dell’iniziativa. Si intravedono, è inutile nasconderlo, alcuni rischi: quello di fare anacronisticamente il verso alla democrazia cristiana; quello di cassare tout court il bipolarismo che è scritto nella storia dei Paesi democratici occidentali e che non andrebbe visto come una mera semplificazione di schieramenti, ma come lo sforzo di lavorare su obiettivi largamente condivisi in una contrapposizione autenticamente democratica (la terza fase di Aldo Moro rimasta incompiuta); quello di rinchiudersi in una sorta di problematica cittadella valoriale, sottovalutando il fatto che la politica è fatta di concretezza e di immediatezza e che la gente è sì stanca di proclami populistici, ma è comunque desiderosa di intuire fin dall’inizio sbocchi concreti agli enormi problemi che stiamo vivendo; quello di appiattirsi sul magistero della Chiesa, rischio che intravedo fin dall’inizio (non nascondo, pur con tutto il rispetto delle persone e delle intenzioni assai credibili, di sentire un po’ di odore di sacrestia seppure riveduto e corretto); quello di sottovalutare la schiacciante e globalizzante influenza dei meccanismi economico-finanziari, nascondendosi dietro una non meglio precisata terza via; quello di vagheggiare una collocazione politica centrale foriera di equivoci e frutto di semplicismi derivanti dalla storia  non sufficientemente studiata.

Aspetto con interesse il completamento della diagnosi e le prime indicazioni per la terapia: le malattie di fondo sono state individuate, restano da capire bene le cause delle patologie di cui soffriamo, rimane da tracciare un percorso curativo e riabilitativo, da proporre comunque una equipe medica all’altezza del compito (non solo ottimi diagnostici, ma anche validi e credibili terapisti e, perché no, coraggiosi chirurghi) e da individuare un metodo coinvolgente dei pazienti, togliendo ad essi l’illusione di guarire senza soffrire.

 

L’emblematica disputa sulle mascherine

Giriamola come vogliamo, senza voler essere prevenuto, pur rallegrandomi  della guarigione imminente e pur augurandogli un pieno ritorno alle sue funzioni e alla sua campagna elettorale, vedo nel comportamento di Trump l’immagine dell’uomo che vuol sembrare più forte della malattia, che non vuol fare i conti con essa e nega l’evidenza di una situazione drammatica che sta vivendo il suo Paese, finendo col sottovalutarla ed affrontarla in modo sbagliato, coinvolgendo in questa paradossale deriva (quasi) negazionista i cittadini che, a torto o a ragione, hanno in lui un punto di riferimento.

Cerchiamo di essere molto umili. Sì, perché l’unica ricetta che può funzionare è l’umiltà. Anche la scienza purtroppo segna il passo e le uniche certezze che ci offre sono: lavarsi spesso e bene le mani, tenere una certa distanza nei rapporti con le persone con le quali non ci sia comunanza di vita, indossare una mascherina negli ambienti chiusi e anche all’aperto. Sono norme di comportamento molto semplici e sembra siano le uniche a garantire un certo successo nella battaglia preventiva contro il coronavirus.

Smettiamola quindi di sottovalutare i rischi (non si tratta di una semplice influenza, è un’influenza molto ma molto pericolosa), non illudiamoci di poter far finta di niente e vivere come se il covid non esistesse, non rinviamo tutto ad un ipotetico vaccino di cui non conosciamo tempi ed efficacia.

«So che tenere la mascherina è faticoso, anche io faccio molta fatica a portarla perché ho dei problemi respiratori. Ma se la tengo io per otto ore, non c’è nessuno in quest’aula che non abbia la possibilità di tenerla». È stato questo l’appello della deputata di Italia Viva Lisa Noja, affetta da amitrofia spinale, ai suoi colleghi, «ancora troppe volte richiamati dalla Presidenza perché tendono a non indossare mascherine».

È inutile nasconderlo, l’uso della mascherina, al di là del relativo disagio che può indubbiamente creare, è stupidamente diventato un segno di debolezza, la fastidiosa ammissione della propria impotenza di fronte alla malattia, il segno di una retrocessione umana e sociale, il simbolo della rassegnazione al fatalismo. A tanto arriva la nostra presunzione: non vogliamo ammettere di essere in evidente difficoltà e di dover ricorrere a misure che consideriamo troppo banali per essere seriamente adottate, troppo importune per essere accettate.

Dall’altra parte c’è però anche il rischio di uscirne con le ossa rotte: tormentati, condizionati, isolati e impoveriti. I media non ci stanno informando ma tormentando; gli scienziati non ci stanno aiutando ma ci confondono le idee; i politici, non tutti, danno pessimi esempi; gli operatori economici, sulla base delle loro oggettive difficoltà, costruiscono allarmismo e catastrofismo; il clima di incertezza e precarietà incombe su di noi come un macigno. E allora?

La situazione psico-sociologica che stiamo attraversando è complessa e difficile. Aggiungo in merito una bellissima frase che mi ha detto una cara persona mia conoscente: “Dobbiamo restare noi stessi”. Mi sembra che contenga tutto!  L’ho ringraziato per quel consiglio così semplice, ma così profondo. Poi ho ripensato: un invito solenne a rimanere agganciati all’educazione ricevuta, ai valori della Costituzione, al senso civico, all’esperienza storica dell’antifascismo, alla cultura democratica, alle scelte per la pace e la non violenza.

È positivamente interessante che il governo stia puntando in parallelo a due provvedimenti: la proroga dello stato di emergenza con ulteriori provvedimenti anti-covid e nuove norme in materia di sicurezza e immigrazione. Sono previste modifiche importanti, rispetto alla normativa varata su ispirazione dell’allora ministro Matteo Salvini, in merito ai requisiti in base al quale verrà concessa la protezione internazionale. Vengono inoltre abolite le maxi multe nei confronti delle navi Ong che entrano in acque territoriali italiani dopo aver soccorso i migranti. Si torna anche a un sistema di accoglienza in cui i Comuni avranno un ruolo di primo piano attraverso gli Sprar. Finalmente un piccolo ma significativo passo verso un modo di governare che ci aiuti ad affrontare le situazioni nuove e drammatiche, rimanendo noi stessi.

La manciniana corazzata Potëmkin: una cagata pazzesca

Tra le tante cose fatte più male che bene, nella mia ormai lunga vita ci sono le lezioni, meglio dire ripetizioni, che davo a un simpatico ragazzino, poco portato allo studio: era faticoso ficcargli in testa certe nozioni. Un giorno eravamo alle prese con la storia degli uomini primitivi e bisognava capire quale fosse stato il loro primo bisogno che cercavano di soddisfare: si trattava del bisogno di nutrirsi, di mangiare, di sopravvivere. Non c’era verso di cavargli di bocca questa deduzione molto elementare. Provai ad aiutarlo facendo un po’ di scena: gli facevo gesti e movimenti che potessero evocare la ricerca di energia, di nutrimento, di forza. Mi guardava con aria dubbiosa, poi ad un certo punto, come improvvisamente illuminato, sparò la risposta: lo sport! Risi a crepapelle. Anche lui rideva, ma non troppo. Probabilmente si chiedeva cosa avesse detto di così ridicolo ed assurdo da suscitare la mia ilarità. Infatti, se da una parte poteva essere ed era una cavolata buttata a vanvera, dall’altra rappresentava una corrente seppure distorta mentalità: un bisogno secondario diventava primario, addirittura l’incipit esistenziale assoluto. Lo sport che riempie la vita.

Ebbene, il commissario tecnico della nazionale di calcio ha chiosato le parole del ministro della salute sulla priorità dell’apertura delle scuole rispetto agli stadi: “Lo sport è praticato da milioni di italiani, è una parte importante della società. Gli impianti riaprano in percentuale, come altrove”. Durante una delle tante stucchevoli conferenze stampa, fatte per riempire il tempo in vista delle prove della squadra nazionale e per giustificare lo stipendio di un pletorico staff dirigenziale e di vere e proprie frotte di giornalisti sportivi abituati a (non) lavorare sul nulla, Mancini ha risposto in modo penoso alle recenti dichiarazioni del ministro della Salute, Roberto Speranza, il quale aveva detto testualmente: “Dobbiamo puntare le nostre energie sulle cose essenziali. La priorità sono le scuole, non gli stadi. Non possiamo correre rischi per riportare migliaia di persone negli stadi”.

Sollecitato da una domanda, Roberto Mancini ha commentato: “Si dovrebbe pensare, prima di parlare. Lo sport è un diritto di tutti esattamente come la scuola. É una parte importante della società, come l’istruzione e il lavoro. Lo sport è praticato da milioni di italiani. Resto della mia idea, non sono condizionabile. Sono a favore della riapertura degli stadi in percentuale, come avvenuto in tanta parte d’Europa. In Polonia troveremo 25.000 spettatori, forse di più e io sono solo contento”. La Gazzetta dello sport, tanto per stare dalla parte del manico, ci vede una diversità di vedute, ma probabilmente anche l’insofferenza per un atteggiamento pregiudiziale, riduttivo dello sport e del calcio in particolare, venuto a galla più volte, fin dall’inizio della pandemia; una sottovalutazione dell’impatto economico e sociale del calcio professionistico che muove un indotto enorme e, a cascata, alimenta lo sport di base. Che ha una sua essenzialità”.

A quel punto mi sono chiesto: ma cosa sta dicendo? Il c.t. è impazzito? E dire che sembrava una persona seria ed equilibrata. Ha fatto un tiro mancino e ha detto una cagata pazzesca! Il bello è che prima di spararla ha fatto una premessa, vale a dire che prima di parlare si dovrebbe pensare. Lo sport secondo la Costituzione manciniana è un diritto di tutti esattamente come la scuola: siccome si tratterebbe di una riforma costituzionale, proporrei un referendum confermativo. Sono sicuro che vincerebbero i “sì”, tanta è l’alienazione mentale che provoca il calcio nella testa di chi lo segue.

I commentatori di Rai sport, palesemente imbarazzati, hanno fatto i salti mortali dialettici per dargli ragione, ma soprattutto per difendere il loro posto di lavoro. In Italia c’è il diritto di esprimere in assoluta libertà le proprie opinioni. Mancini lo ha fatto e ora, nel mio piccolo, lo faccio anch’io e mi sciacquo la bocca. Lo sport, quello calcistico in particolare, può contare su un vomitevole assetto pseudo-professionistico e di puro mercato, ed è quindi un’attività economica come tante altre, meno trasparente di altre e soggetta come le altre al rischio d’impresa. La scuola non c’entra niente col calcio e il ministro Speranza ha detto la pura e sacrosanta verità: mancherebbe altro che si mettessero sullo stesso piano la pubblica istruzione e la privata, seppure consistente, passione (si dovrebbe definirla in modo assai più spregiativo) calcistica.

Si dice che il popolo italiano sia composto da circa sessanta milioni di commissari tecnici, cioè di tifosi candidati a guidare la nazionale. Temo che a differenza delle scelte tecniche che vedono l’allenatore sistematicamente sul banco degli imputati, questa volta forse il popolo sarà d’accordo con lui. Dopo le cazzate di Mancini, so di andare contro corrente, ci sarebbero gli estremi per uno sciopero del tifo, ma a quello purtroppo ci ha già pensato il coronavirus.

Quel simpatico ragazzino, a cui impartivo lezioni private e che nel frattempo sarà diventato un adulto ed oggi sarà un anziano simpatizzante del pallone, avrà forse letto o addirittura ascoltato le porcherie di Mancini e si sarà chiesto: “Cosa aveva da ridere quel cretino che mi voleva insegnare la storia? Avevo risposto giusto e lui faceva il furbo. Il tempo è galantuomo…”.

 

L’esame alla finestra della sofferenza

Di ritorno da certe visite a persone ricoverate in ospedale, dopo avere toccato con mano la sofferenza presente nelle corsie, mio padre si illudeva e addirittura teorizzava la conversione ad una vita migliore per chi fosse costretto o avesse comunque l’occasione di entrare a contatto con chi è colpito dalla malattia, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano esternare impulsi di cattiveria. «A chi gh’à vója ‘d fär al cativ, bizògnariss portärol a far un gir in sert ospedäl: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

Purtroppo non è detto che l’esperienza diretta o indiretta della sofferenza induca a più miti consigli. Lo stanno a dimostrare le diverse reazioni avute da due vip dopo essere state colpite dal coronavirus. Con tutto il rispetto, la delicatezza e la comprensione del caso sono spinto a mettere a confronto il comportamento di Massimo Giannini, direttore del quotidiano La Stampa, con quello di Donald Trump. I due personaggi sono inconfrontabili, ma il paragone impossibile mi serve per sottoporre implicitamente all’attenzione il diverso taglio culturale. Faccio riferimento alle cronache apparse sul quotidiano La Repubblica.

Donald Trump si è levato la mascherina chirurgica con la quale era stato dimesso dall’ospedale subito dopo essere sceso dall’elicottero che lo ha riportato alla Casa Bianca. Lo ha fatto a favore di telecamera, mentre alzava i pollici facendo il segno del “va tutto bene”. Si spera non abbia l’intenzione di disobbedire alle indicazioni dei medici, girando senza protezione pure nella famosa dimora: col rischio di contagiare altri membri dello staff.

Fonti dei servizi segreti denunciano il malumore degli agenti di scorta: alcuni di loro sono risultati positivi, infettatisi viaggiando col presidente nei giorni precedenti alla conferma della malattia. “Siamo pronti a prenderci una pallottola per il presidente. Ma non una pallottola dal presidente…” dice una fonte, che vuol restare anonima, al corrispondente di Cnn, Jim Acosta.

Ma Donald Trump proprio non ne vuol sapere di mostrarsi ulteriormente debole e, nel Paese che ha superato i 7 milioni di contagi, in un tweet dice: “Non abbiate paura del Covid. Non fategli dominare le vostre vite”. E non spende una parola per gli oltre210mila già uccisi dal virus. ‘Trump ha sconfitto il Covid’ c’è scritto sulle nuove monete in vendita a 100 dollari l’una. A venderle online è il negozio che vende solo oggettistica legata alla Casa Bianca.  Il 20% dei fondi raccolti con la vendita delle monete sarà donato alle associazioni per la prevenzione del Covid e alla ricerca sul cancro. Ma il gesto di levarsi la mascherina appena rientrato alla Casa Bianca, lascia perplessi.

Massimo Giannini, risultato positivo dopo aver accusato qualche sintomo preoccupante, ha trascorso undici ore al reparto Covid del Policlinico romano Gemelli, tra i ricoverati e la paura del coronavirus. “Ho sentito tanti pazienti piangere e gridare di dolore” e il racconto di medici e infermieri su “quanto stiano crescendo i ricoveri urgenti” e su “come si stiano riaprendo le terapie intensive”.  Nell’ editoriale sul suo quotidiano racconta “La lezione che imparo dal Covid”, perché “qualche ora di visita in questi luoghi in cui si continua o si ricomincia a soffrire farebbe bene a ognuno di noi. Sarebbe una lezione utile”, scrive Giannini.

Il secondo motivo del suo editoriale “riguarda il nostro Paese e la nostra convivenza civile. Di fronte alla drammatica impostura dei negazionisti e alla cinica disinvoltura dei riduzionisti. Di fronte all’insofferenza degli imprenditori – aggiunge l’ex vicedirettore di Repubblica – e all’indifferenza dei giovani verso le restrizioni imposte dalle autorità politiche. Di fronte a un pericolo mortale: che scenda il Grande Oblio sulla tragedia che abbiamo vissuto tra marzo e aprile, sui diecimila morti soli senza l’ultima carezza e sugli ‘eroi in corsia’ che hanno dato la loro vita per salvare quella degli altri”.

Giannini, ospite in videocollegamento di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, alla luce di quello che ha visto in ospedale, ha affermato che “dobbiamo stare tutti più attenti. Serve più attenzione e più rigore. Dobbiamo metterci una mano sulla coscienza e non dimenticare quello che abbiamo vissuto, perché anche se adesso non siamo in quella situazione, possiamo tornarci rapidamente se non facciamo attenzione”. Poi un nuovo appello rivolto “soprattutto ai giovani che devono avere grande senso di responsabilità, perché possono essere loro i principali veicoli del virus”.

Non c’è alcun dubbio, due diversi approcci, due modi di essere uomini prima che politici o giornalisti, due culture a confronto, due differenti e contrapposti esempi. La tentazione di chiosare il discorso è forte, ma mi faccio violenza, non aggiungo altro, mi limito ad indirizzare ad entrambi i miei auguri di pronta e totale guarigione.

 

Il teatrino calcistico dell’assurdo

Un mio conoscente, in vena di sparare parole forbite, sosteneva di avere raggiunto “l’epice” della propria carriera, così dimostrando purtroppo di avere raggiunto l’apice della sua ignoranza. Già che ci siamo mi sovviene lo strafalcione di un altro mio simpatico amico. Quando spuntava qualcuno, di cui aveva appena (s)parlato, esclamava: «Ecco, tabula rasa!». Voleva dire “lupus in fabula”, ma faceva lo stesso.

Lo stupidario calcistico non ha limiti. La mamma dei cretini pallonari è sempre incinta e in questi giorni ha partorito un’assurda polemica: mi riferisco al tira e molla conseguente alla positività al covid di due persone facenti parte della squadra del Napoli. Da una parte la FGCI che brandiva il protocollo secondo il quale il Napoli avrebbe dovuto scendere in campo contro la Juventus senza battere ciglio; dall’altra parte l’ASL campana che accampava il diritto/dovere di mettere in quarantena tutto il gruppo napoletano impedendogli di recarsi a Torino e di giocare la partita.

Non voglio scomodare Luigi Pirandello, ma la querelle sembra la versione comica del suo “così è se vi pare”. Chissà per quanto tempo si trascinerà questa discussione sul sesso del calcio. La ASL si è impuntata in nome della difesa della salute pubblica: volendo portare fino in fondo il discorso ci sarebbero gli estremi per chiudere i battenti dell’intero Paese e non solo della Campania. Ci siamo infatti dentro alla grande anche se non lo vogliamo ammettere e vogliamo negare l’evidenza di un ritorno alla grande della pandemia e finiamo col mettere in priorità tutto meno la salute pubblica.   Abbiamo desiderio impellente di normalità, ci stiamo rilassando più che distanziando, e il calcio lo impugniamo come la più grande arma di distrazione di massa. Come si permette quindi l’ASL di intromettersi e di rovinarci la festa?

La FGCI si è intestardita a difesa del proprio mondo: lo spettacolo deve continuare, facciamo finta che il covid non esista e alla fine vinceremo noi, non col vaccino ma col pallone. Così stanno facendo tutti e perché proprio il calcio dovrebbe essere più realista del re? La ASL si preoccupi di altre questioni. Quali? Faccia quel che vuole, ma non rompa le uova nel paniere calcistico! Abbiamo varato delle regole e a chi osa buttarcele all’aria peste lo colga (non ha importanza se la peste c’è già…).

Mentre il Napoli si è messo in quarantena seguendo scrupolosamente le disposizioni delle autorità sanitarie, la Juventus è scesa in campo seguendo rigorosamente le regole dettate dalle autorità calcistiche. Naturalmente ci puzza di opportunismo al limite del conflitto geo-politico. Staremo a vedere fin dove arriverà questa paradossale rissa pallonara. Prima o poi si scateneranno (in parte è già successo) le tifoserie sui social e ne leggeremo delle belle. Ai giornalisti non par vero trovare pane per i loro denti cariati.

E cosa c’entrano l’epice, la tabula rasa, il lupus in fabula da cui sono partito? Strafalcione chiama strafalcione, meditate gente… La FGCI ha raggiunto l’epice dell’assurdità; l’ASL ha tentato di fare tabula rasa; io ho fatto la parte del lupo come personaggio delle favole o come animale che porta i suoi interlocutori alla perdita della parola. In fin dei conti ho voluto solo sorridere un po’. “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”. E quale sarebbe il bene? Ma è chiarissimo: lo spettacolo calcistico. E le pene in cosa consisterebbero? Ma è chiarissimo: il rischio di essere infettati. Forse però a pensarci bene, infettati li siamo già, nel cervello. Goal!