Il mattarello di Mattarella

In mezzo alla puzza di velleitarie sciocchezze governatoriali, di crescenti debolezze e incertezze governative, di latenti conflitti istituzionali, ad un certo punto ho sentito profumo di politica con la “p” maiuscola, ho provato a verificarne l’origine seguendo il mio olfatto, al momento non ancora intaccato dal covid, e sono arrivato al Quirinale: tutto tranquillo, anche se l’odore si intensificava e allora ho capito (quasi) tutto.

Sì, Mattarella si è stufato alla sua maniera e, probabilmente senza alzare la voce, ha costretto le regioni a più miti consigli, ha dato la sveglia al governo appisolato tra un decreto e l’altro, ha fatto magari una telefonatina ad Angela Merkel per capire come si stava comportando alle prese con problematiche simili, ha fatto una preghierina allo Spirito Santo perché illumini tutti (anche gli americani che stanno votando) e poi ha guardato di nascosto l’effetto che tutto ciò poteva fare.

In effetti l’effetto sembra esserci stato. I governatori hanno smesso di blaterare, Giuseppe Conte ha finalmente presentato una pur vaga linea di comportamento, in Parlamento le opposizioni si sono astenute sulle linee di programma anti covid presentate dal governo e sostenute dalla maggioranza, il clima si è leggermente rasserenato e la situazione sembra essere tornata, seppure assai precariamente, sotto controllo.

Per mio padre dopo l’operazione chirurgica per l’asportazione di ben tre ulcere al duodeno cominciarono le grandi manovre di sgombero intestinale. Non avevano successo e le cose si stavano decisamente complicando. Ad un certo punto rifiutò categoricamente che il clistere gli venisse praticato da un infermiere da lui conosciuto e ritenuto incapace: «Ti al cristéri at m’al fè pù. Putost a m’al fag fär da la sóra» (allora nei reparti ospedalieri vi era la presenza delle suore). L’infermiere se ne andò via scuotendo il capo e fortunatamente ne arrivò un altro dotato di una certa professionalità ed esperienza. «Agh pens mi, Mora, stat miga preocupär…». Glielo eseguì a regola d’arte al punto da scatenare finalmente un’autentica liberazione facilmente immaginabile, con tanto di preventiva installazione di barriere ambientali protettive. La similitudine un po’ triviale, rispolverata anche per alzare il morale,  mi sembra comunque abbastanza eloquente del clima emergenziale esistente e dell’intervento non risolutivo, ma efficace, operato da Mattarella.

Non credo che il presidente della Repubblica sia entrato nel merito dei provvedimenti da adottare, avrà al riguardo dato solo qualche utile consiglio attenendosi scrupolosamente, come è solito fare, alle sue prerogative costituzionali, ma sicuramente avrà affrontato di petto i nodi istituzionali che si stanno sempre più ingarbugliando, richiamando tutti per l’ennesima volta al senso di responsabilità, probabilmente minacciando anche qualche iniziativa imbarazzante.

Sì, perché cosi non si può andare avanti: o si ritrova, da parte di tutti, un minimo senso collaborativo e costruttivo o la situazione può veramente precipitare nel caos delle piazze, degli ospedali e delle terapie intensive. Non so se sia farina del sacco di Mattarella l’individuazione oggettiva delle tre fasce di rischio regionale con relativa previsione di provvedimenti graduati a seconda dell’entità del rischio stesso: non mi sembra tuttavia l’uovo di Colombo né il solito compromessone all’italiana, mi pare una buona intuizione da concretizzare in tempi brevissimi e da attuare con grande correttezza da parte dei protagonisti (cittadini compresi).

“La politica è l’arte del possibile, la scienza del relativo”: così diceva Otto Von Bismark. Più le situazioni sono difficili e complesse e più bisogna esercitarsi seriamente in questa arte. In questo tragico momento, ad esempio, devono tacere le trombe regionali e devono suonare le campane dell’unità nazionale; in questa contingenza drammatica deve ridimensionarsi lo scontro parlamentare tra maggioranza ed opposizione; in questa spaventosa confusione le parole devono essere pensate, calibrate e ricondotte nell’alveo delle sedi istituzionali; in questa incertezza e precarietà il rapporto tra politica e scienza deve trovare adeguate soluzioni al servizio del bene comune; in questo clima di preoccupazione e paura occorre sforzarsi di coniugare al meglio la difesa del diritto alla vita ed alla salute con la considerazione degli altri diritti di libertà economica e sociale.

Il presidente Mattarella, non solo da oggi, sta lavorando in questo senso e dobbiamo essergli grati e seguirlo: non ha la bacchetta magica, ma accettiamo con disciplina e senso del dovere le sue opportunissime bacchettate. Ben venga che Mattarella sfoderi il mattarello. Qualcuno fa lo spiritoso definendolo il parroco del Quirinale: ben venga il parroco. Ne ho conosciuto uno che non stava in sagrestia, ma veniva addirittura coinvolto nel sedare le liti a livello famigliare, condominiale e stradale. Ben venga anche lo spirito cristiano che connota la vita e l’impegno politico ed istituzionale di Mattarella: ricordiamoci che papa Paolo VI amava ricordare che “la politica è la più alta forma di carità”, dove carità vuol dire amore per l’altro, a prescindere dalla religione professata, dalla propria cultura, dal partito di appartenenza, dal ruolo ricoperto, dal colore della pelle, dalla lingua con cui si esprime.

 

 

Lo sciocchezzaio di unità nazionale

Vincenzo De Luca si scaglia contro giornalisti che hanno criticato la scelta di chiudere le scuole in Campania: «Hanno intervistato una mamma che dice che sua figlia piange per andare a scuola. È l’unica in Italia che piange perché non può studiare endecasillabi, forse l’unica al mondo. La mamma le dà il latte al plutonio».

“Il Paese non può permettersi un nuovo lockdown”, dice il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti il quale in una nota sui social suggerisce che bisogna intervenire sulla categoria più fragile, gli anziani. Ma scoppia la bufera perché Toti scrive anche, parlando degli anziani: “Si tratta di persone che sono per fortuna per lo più in pensione, non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese ma essendo più fragili vanno tutelate in ogni modo”.

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…». E aveva ragione, mille ragioni. Se poi certi toni vengono usati da persone investite di alte responsabilità pubbliche, il discorso diventa clamorosamente offensivo e inaccettabile.

E questi signori, che si muovono con il garbo di un elefante in una cristalleria o in un negozio di porcellane, sarebbero coloro che decentrano il potere e avvicinano la gente alle istituzioni? Preferisco i più beceri burocrati ministeriali: cazzate simili non passano nemmeno nell’anticamera del loro cervello. Toti e De Luca si rendano conto che non stanno amministrando il condominio o la bocciofila, ma sono alle prese con problemi enormi in una situazione di una delicatezza estrema. Mio padre li fucilerebbe con una sarcastica ed “anarchica” battuta: «A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt, al dvénta un stuppid».

Oltre tutto dovrebbero starsene zitti dopo aver dato pessima prova della loro (in)capacità amministrativa nei mesi scorsi. Invece di fare battute o affermazioni di cattivissimo gusto, pensino a combinare qualcosa di utile e la smettano di giocare a scaricabarile. Se continuiamo così è la volta che scendo in piazza anch’io e mi unisco alle pur stucchevoli proteste di questi giorni.

Qualcuno dirà che reagisco male perché sono stato toccato nella mia anzianità. Sissignori! Non accetto che un politico cooptato dal suo padrone, un soggetto che ha solo il merito di essere un berlusconiano d’accatto, venga a pontificare sulla mia capacità di contribuire alla produttività del Paese. Non si può nemmeno dire che Giovanni Toti, che nel 2019 ha fondato il partito politico “Cambiamo!”, di cui è leader, sia pieno di sé. Se così fosse infatti sarebbe magro e invece è grasso e ben pasciuto. Di cosa sia pieno, non lo so, o meglio lo so, ma taccio. Toti e De Luca hanno fatto lo sciocchezzaio di unità nazionale.

I tanto bistrattati e picconati uomini della cosiddetta prima repubblica non avrebbero mai detto simili scemenze. E non mi si dica che si tratta di incidenti di percorso, di equivoci, di fraintendimenti. Che la gente oltre la tortura a cui è sottoposta dalla pandemia, debba sopportare anche di essere insolentita da certi governatori (?) regionali, mi sembra un po’ troppo. Se questo è l’aperitivo alle prossime misure restrittive contro il covid 19, mi tremano le vene ai polsi. Agli scienziati che farneticano in continuazione e non hanno ancora capito come, dove e quando ci si contagia, ai media che buttano continuamente il prete della pubblica opinione nella merda prezzolata del loro mestiere, ai governanti che pestano l’acqua della loro insipienza nel mortaio della politica politicante, aggiungiamo pure i governatori regionali in vena di scherzare o di parlare come se fossero al bar dei loro palazzi istituzionali.

Un noto proverbio dice: “Chi scherza coi matti deve lasciare che i matti scherzino con lui”. La gente sta impazzendo di incertezza e di paura e non può accettare che qualcuno scherzi sulla sua pelle. Potrebbe succedere che i matti scoprano la propria virtù: quella di mandare a casa chi (s)parla e chi (s)governa alla maniera descritta in modo colorito dall’allenatore della squadra di calcio del Bologna.  ”Non prendiamo esempio dai nostri governi che fanno i decreti così a cazzo di cane, che non c’è una logica…”, lo ha detto Sinisa Mihajlovic, nella conferenza stampa alla vigilia della sfida casalinga contro il Cagliari, replicando a chi gli chiedeva se la sua squadra dovesse ritornare sul mercato e puntare allo svincolato Mandzukic per sostituire l’infortunato Santander. Ebbene la parafrasi calcistica introdotta da un allenatore, a prima vista esagerata e qualunquistica, si è rivelata profeticamente pertinente anche perché, a quanto pare, purtroppo chi ci governa sta andando nel pallone e prima di emanare i decreti, certi governatori si allenano buttando la palla in tribuna o, se proprio volete, sparando cazzate alla viva il parroco.

 

 

La caduta di braccia, braghe e …

Nell’aula del Senato, giovedì 29 ottobre, il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha reso un’informativa sui decreti, recanti ulteriori misure per contrastare l’epidemia da COVID-19 e i cosiddetti ristori per i soggetti colpiti dalle restrizioni imposte dal governo. Ho seguito la diretta Rai del successivo dibattito, che ha visto l’intervento di parecchi esponenti politici.

Sono partito con un certo, colpevole ma comprensibile, scetticismo, superato ben presto dal tenore dei pur brevi discorsi: la diffidenza si è trasformato in attenzione e via via addirittura in emozione per non dire commozione. Ero solo, ma sussurravo: checché se ne dica, questa è la democrazia. Queste signore e signori sono i miei rappresentanti ed io li devo ascoltare.

Penso che anche i senatori intervenuti fossero piuttosto emozionati a giudicare dal tono della voce e dalla partecipazione emotiva: tutti si sforzavano di entrare nel merito superando i rigidi schematismi di partito e la contrapposizione tra maggioranza e opposizione. Aleggiava in tutti un senso di sofferta critica piuttosto centrata e abbastanza costruttiva. La maggior parte erano donne, che onoravano il loro genere e che, soprattutto, dimostravano una notevole sensibilità. Dalle fila della maggioranza non venivano risparmiate critiche fino al punto di chiedere al presidente del Consiglio una verifica sull’adeguatezza dei ministri rispetto ai gravosi ed impegnativi compiti loro affidati. Dai banchi dell’opposizione piovevano dure censure all’operato del governo, però condite da una qualche voglia di dialogare e collaborare per il bene del Paese.

Ero sinceramente e positivamente sorpreso dal dibattito: gli oratori, probabilmente influenzati dalla diretta televisiva, cercavano finalmente di uscire dagli atteggiamenti di adesione acritica e di opposizione preconcetta, che purtroppo caratterizzano la dialettica politica e parlamentare. L’argomento a maggior ragione lo richiedeva: ho ascoltato argomentazioni serie e piuttosto coinvolgenti. Un ottimo segnale politico in un momento in cui c’è estremo bisogno di serietà e di equilibrio.

Purtroppo l’atmosfera, se non proprio collaborativa almeno rispettosa, ad un certo punto è stata letteralmente rovinata dall’intervento del solito guastafeste leghista, vale a  dire di Matteo Salvini, il quale ha cominciato a sparare cavolate a più non posso, scaricando responsabilità sui governanti, dimenticando che tra i governanti ci sono anche suoi amici politici a livello di molte importantissime regioni, superando bellamente clamorose incongruenze e incoerenze rispetto a suoi precedenti sproloqui, chiedendo dimissioni a tizio e caio, scordando di essere stato ministro degli Interni poco tempo fa e di non aver combinato niente di buono, anzi di avere scombinato parecchie situazioni inerenti la sicurezza e l’ordine pubblico e di avere fatto promesse mai mantenute.

Rovinato tutto, come diceva un mio carissimo e bravissimo insegnante, quando un allievo si inseriva maldestramente in certi discorsi avviati proficuamente. Sì, perché immediatamente gli esponenti della maggioranza si sono chiusi a riccio in difesa dell’operato del governo e quelli dell’opposizione non hanno resistito al fascino della polemica fine e se stessa innescata dall’illustre (?) collega leghista. A volte basta un granello di polvere per inceppare certi meccanismi virtuosi, immaginiamoci cosa può succedere se qualcuno butta un macigno tra le delicate rotelle del dibattito parlamentare.

Un vero peccato, un’occasione sprecata, una caduta di stile, un ritorno alla solita recita. Complimenti al senatore Salvini, molto capace di dare aria ai denti, di criticare a vanvera, di vomitare accuse. La gente se ne sta un po’ rendendo conto, ma il danno arrecato alle istituzioni è incalcolabile. “A m’ son caschè i bras”, diceva un mio collega poco avvezzo al dialetto parmigiano. Si dice: “A m’é caschè i bras”. Sempre lo stesso amico a volte esclamava: “A m’ son caschè i calsón”. Si dice: “A m’è caschè il bräghi”. Non cambia molto: ascoltando Salvini cadono le braccia, le braghe e…anche qualcosa d’altro…

 

I lupi di Trump

Consiglio a tutti di vedere o rivedere su You Tube l’ultima puntata del programma televisivo Atlantide, che ha tratteggiato in modo agghiacciante la personalità di Donald Trump e, di conseguenza, la paradossale dabbenaggine del popolo americano che lo ha votato e che lo prende ancora in seria considerazione. Per stessa ammissione degli autori il programma assomigliava a una vignetta satirica più che a un resoconto storico, ma, come si sa, le vignette non sono fasulle, anzi, prendono in considerazione i difetti per ingrandirli e drammatizzarli. Ebbene, così facendo, di Trump esce una immagine a dir poco mostruosa. Anche se di vero ci fosse solo una piccolissima percentuale, ci sarebbe comunque da rabbrividire di fronte al rischio che abbiamo corso e che corriamo ancora: consegnare le chiavi di casa del mondo intero a un disturbato mentale, a un pazzo scatenato che però piace alla gente perché ne legittima tutti i peggiori istinti.

Mi ha colpito l’episodio di una ragazza madre, che sbarca il lunario con fatica lavorando ad una paga da fame in un supermercato, alla quale è stato chiesto il perché del suo voto a Trump: di fronte alla sua piccola bambina, ha tirato fuori con estrema soddisfazione una rivoltella, chiarendo che il presidente, rendendole possibile il possesso di un’arma, l’aveva tranquillizzata e in un certo senso beneficata. Pazzesco!

Ed eccoci arrivati alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi. Cruenti fuochi artificiali sono da prevedere: Donald Trump è alla frutta, se non verrà rieletto rischia la galera e/o la rovina finanziaria ed allora sta facendo l’impossibile per recuperare e non è da escludere che scateni un pandemonio istituzionale in caso di sconfitta. Dopo il danno la beffa. Un ultimo provvedimento riguarda la licenza di uccidere Zanna Bianca. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, l’amministrazione Trump ha dato luce verde in extremis alla caccia al lupo grigio, uno dei simboli del vecchio West, entrato oltre 45 anni fa nelle liste delle specie in pericolo del governo americano. «Le protezioni previste dalla legge non sono più necessarie», ha detto il ministro degli Interni David Bernhardt, a cui fanno capo la tutela dei parchi e della fauna a rischio, annunciando la decisione in Minnesota.

A prescindere dal merito di questa decisione ne colgo tutto il simbolico messaggio: licenza di uccidere i lupi ma anche i neri, gli immigrati, i soggetti indesiderati, i poveracci che rompono le scatole. L’ipotesi è quella della pulizia etnica, sociale ed economica. Quante volte mi sono chiesto perché gli americani siano caduti in questa incredibile trappola politica. La risposta plausibile l’ho trovata, pensate un po’, nella impietosa analisi che faceva mia sorella Lucia delle magagne del popolo italiano: siamo rimasti fascisti con tutto quel che segue. Tradotto in lingua d’oltre oceano: gli americani sono rimasti razzisti con tutte le relative conseguenze socio-politiche.

La logica trumpiana è quella di eliminare comunque chi dà fastidio al sistema al fine di ripulirlo in superficie lasciando stare tutte le brutture, le ingiustizie, le povertà che contiene. Una sorta di maxi paradossale lavanderia dove i panni sporchi non si puliscono, ma si considerano puliti e quindi si lasciano intatte le vere sporcizie messe sotto un enorme e rassicurante tappeto. Il capovolgimento dei valori e dei principi accettato in nome di una parvenza di benessere individualistico ed egoistico. Forse la peggiore versione populista che la storia abbia finora conosciuto.

I poveri hanno votato Trump perché sperano di lavorare, le donne lo hanno scelto perché è un vero macho: è stato sufficiente per farlo vincere, anche se in realtà aveva perso (due milioni di voti in meno rispetto ad Hillary Clinton) ed è andato alla Casa Bianca sulla base di un sistema elettorale assurdo. Sembra che in parecchi, soprattutto le donne si stiano convertendo ed abbiano aperto gli occhi: staremo a vedere con ansia e preoccupazione. Il timore è che per la seconda volta il perdente finisca con l’essere vincente. Evviva la democrazia americana!

Tornando ai lupi, secondo i biologi, il via libera dell’amministrazione Trump alle doppiette si rivelerà “prematura” e “avventata”. I lupi, secondo gli scienziati, hanno infatti un ruolo chiave nell’ecosistema. In un celebre esempio, i pioppi di Yellowstone, che avevano sofferto negli anni in cui i lupi erano assenti, hanno ripreso a prosperare quando questi sono tornati a danno delle alci che ne mangiavano le foglie. Questo a sua volta ha avuto un effetto benefico su altre specie, come ad esempio i castori che hanno trovato più piante di cui nutrirsi. Però l’ecosistema trumpiano prevede che i cittadini si comportino come i lupi, i quali quindi non possono ballare coi lupi veri: di lupi ce ne sono abbastanza, quelli veri e propri vanno eliminati. Una specie di lapsus freudiano nella psiche malata di Trump. Bisognerà verificare la sanità mentale e psicologica del popolo americano: non mi faccio soverchie illusioni.

 

Il filo (il)logico del “lockdownino”

Il presupposto teorico del comportamento attuale dei governanti in merito alla pandemia da covid 19 sembra essere il seguente: assembramento = contagio. Quindi una sorta di assioma: per contenere le occasioni di contagio occorre evitare gli assembramenti e allora lotta indiscriminata alle possibilità di assembramento, vale a dire ristoranti e bar pieni di gente, teatri, cinema, palestre, piscine, stadi, sagre, feste, cerimonie, convegni, etc. etc.

Qualcuno, forse con un po’ di malizia anticlericale, ha sollevato il ditino chiedendo: perché le chiese invece restano aperte? Probabilmente si sarà pensato che la gente in chiesa è più disciplinata e portata al rispetto delle regole. Mi rimane qualche dubbio, anche perché pure a teatro si può andare con criterio e senza vendere il cervello alla movida. Ma lasciamo perdere…

Come funzionava la disciplina nella scuola di un tempo? Se non si riusciva a individuare l’autore delle malefatte, si sparava nel mucchio o, meglio, si puniva tutto il gruppo. In un certo senso è la logica del lockdown generale, ma anche di quello sedicente mirato. In certe palestre c’è troppo casino: chiudiamo tutte le palestre. Certi bar sono sommersi dagli “apericena”: abbassiamo le saracinesche per tempo. Picchiamo duro, entriamo a gamba tesa laddove si profila la violazione dell’obbligo di mascherine e distanziamento o comunque dove i contatti ravvicinati sono piuttosto probabili se non addirittura inevitabili. Una sorta di punizione preventiva. Dice un vecchio proverbio cinese: “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo …”. Non mi dilungo sulla trasparente similitudine.

L’impressione è che si proceda a tentoni con i lockdown sparati alla viva il parroco, con le chiusure imposte alla “mosca ceca”, con le regole buttate al vento del “se la va la va”. D’altra parte questa incertezza non è solo dei governanti centrali e periferici italiani, è di tutta la scienza che una ne dice e cento ne pensa, è di tutti i potenti del mondo che brancolano nel buio forse ancor peggio di quelli italiani (si pensi soltanto al delinquenziale tira e molla di certi personaggi in Europa e in America del nord e del sud).

Che tutto il mondo sia vittima della pandemia e stia balbettando preoccupandosi soprattutto di impostare speculazioni globali nella distribuzione del vaccino, è cosa arcinota e sconfortante. Questa tristissima realtà non deve però giustificare il pressapochismo nostrano e non ci esonera dal cercare comportamenti virtuosi a tutti i livelli. Mal comune non è mezzo gaudio, ma totale disastro!

Sembrava che il nostro Paese avesse, nei tempi e nei modi, accumulato un vantaggio rispetto al resto d’Europa e del mondo, nella battaglia al coronavirus: i nostri comportamenti venivano da più parti additati come esemplari e da imitare. Si trattava di un primato, seppure molto discutibile e doloroso, pur sempre tale da inorgoglire. Lo abbiamo malamente sprecato con una lunga pausa, dopo la quale siamo tornati a comportarci all’italiana.

Non mi sembra onesto peraltro spostare l’attenzione sui disordini legati alle manifestazioni di protesta che si stanno sparpagliando in tutto il Paese: sono da condannare fermamente le degenerazioni violente e persino le generalizzazioni qualunquiste che rischiano di inquinare le manifestazioni di dissenso. Prima di tutto sarebbe opportuno che chi critica avesse qualche proposta alternativa da porre, altrimenti giochiamo al massacro (vale anche per il sottoscritto). In secondo luogo la violenza complica ulteriormente la situazione e può persino diventare un alibi per chi non vuol ascoltare le critiche. In terzo luogo non vorrei che si scatenasse una polemica come ai tempi del sequestro di Aldo Moro: si discuteva dell’autenticità delle sue lettere e ci si lasciava scappare i brigatisti da sotto il naso. Ora, ci disperdiamo in inutili polemiche sulla chiusura anticipata dei ristoranti e magari ci lasciamo scappare fior di miliardi europei con cui affrontare l’emergenza e programmare il dopo emergenza. Spero infine che non si arrivi a parafrasare linguisticamente ed a scopiazzare culturalmente il paradossale “né con lo Stato né con le Br”. Non giungiamo, per l’amor di Dio, a pensare e tanto meno a proclamare: “né con i lockdown né con le piazze infuriate”. Nelle mie riflessioni critiche non voglio certo arrivare a tanto, ma proprio per evitare il peggio, vorrei capire qualcosa di più, ammesso e non concesso che ci sia, del comportamento dei miei governanti, senza bisogno per questo di screditarli istituzionalmente o rifiutarli qualunquisticamente.

Torno a bomba. Qualche scienziato o comunque qualche addetto ai lavori della virologia sostiene che i tentativi governativi non siano suffragati da nemmeno uno straccio di dati al fine di valutare preventivamente l’impatto di certe restrizioni sulla diffusione del virus. Forse si pretende un po’ troppo, però c’è l’impressione che la situazione non sia sotto controllo e che quindi si proceda per tentativi, lasciando al tempo la dimostrazione dell’opportunità di certe misure. Ma il tempo significa accumulare incertezze ulteriori per le regole assieme alle certezze per i cadaveri. Con questa macabra constatazione termino la mia odierna problematica riflessione.

 

 

 

Capitalismo (in)sopportabile

Quando leggo o ascolto qualche seria riflessione volta a mettere in discussione l’ideologia capitalista vengo catturato da una forte nostalgia valoriale, lontana da ogni e qualsiasi velleitarismo adolescenziale e pseudo-rivoluzionario, ma altrettanto lontana da ogni e qualsiasi rassegnazione di stampo liberista.

In questi giorni sono stato invitato a nozze dall’enciclica papale “Fratelli tutti”, che mi ha spinto a rivedere criticamente, alla luce del Vangelo e adottando la logica del buon samaritano, il mio stare nel sistema. Registro con interesse che il pensiero di papa Francesco irrita lorsignori, vale a dire i liberisti a tutto tondo, schiavi del capitalismo con i secoli contati. Benissimo! Allora vuol dire che ha toccato nel vivo della carne capitalistica e anche della mia carne.

Alcuni anni fa, nel periodo in cui ero impegnato a livello di volontariato in una cooperativa sociale, mi recavo spesso in banca per versare gli incassi del negozio gestito da un meraviglioso gruppo di persone fra le quali spiccavano alcuni soggetti svantaggiati avviati al lavoro. Manco a farlo apposta nei pressi dell’istituto di credito incontravo frequentemente un simpatico, schietto e colto amico col quale scambiavo qualche parola. Una mattina se ne uscì con questa provocatoria battuta: «Oh Mora, co’ sit dvintè un cäpitalistä?». Evidentemente era noto che non lo ero né in senso economico né in senso culturale. E non lo sono tuttora.

Ecco perché ho letto con un certo avido interesse di un libro-conversazione scritto da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini contro il neoliberismo, il populismo, il post-ideologismo della destra ma anche della sinistra, il disincanto, i pigri luoghi comuni, la tecnocrazia senza politica, la dittatura del Pil. È un libro per un capitalismo democratico, la democrazia partecipata, lo sviluppo sostenibile, la riduzione delle diseguaglianze, l’interventismo statale e quello dei cittadini, il ricambio generazionale. È un manifesto per una nuova politica, un’agenda per il futuro, prossimo non remoto. Così lo presenta in modo molto invitante Roberto Mania sulle pagine culturali de La Repubblica.

Paolo Sylos Labini sosteneva che il capitalismo è capace di adattarsi ai conflitti e alle pressioni che si trova di fronte. Giorgio Ruffolo sosteneva che il capitalismo ha i secoli contati. E allora? Vuoi vedere che fare un po’ di anticapitalismo o almeno cercare un nuovo capitalismo equivale a pisciare contro vento? Enrico Giovannini sembra quasi tranquillizzarmi: «È il capitalismo malato nella versione neoliberista che va riequilibrato. Non li capitalismo in sé. Ma un modello rapace che ha invaso il mondo, ossessionato dalla ricerca della creazione di ricchezza a tutti i costi, dall’esaltazione del ruolo dei mercati, dalle privatizzazioni sempre e comunque, dalla critica all’intervento statale. Quell’economia guidata dai tecnici e dalle burocrazie tecnocratiche degli organismi internazionali (dal Fmi all’Ocse), con la politica che si è piegata, arrendendosi. Un capitalismo senza redini».

Fabrizio Barca spiega: «Il rapporto fra capitalismo e democrazia può squilibrarsi ed è esattamente quello che è successo: i meccanismi di riequilibrio che la democrazia ha esercitato e sta esercitando nei confronti del capitalismo sono deboli». Poi torna Giovannini a rincarare la dose: «Il covid 19 ha reso più evidenti i rischi che stiamo correndo rispetto al futuro se non affrontiamo seriamente il tema della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale. Da questo punto di vista, credo – e non è solo una cieca speranza – che questa crisi ci lascerà un capitalismo più responsabile, più avverso al rischio, anche se ancora alla continua ricerca di occasioni di profittabilità».

Il discorso si fa inevitabilmente e giustamente politico: la distinzione fra destra e sinistra è tutt’altro che superata; occorre riscoprire “le papille morali” della politica, vale a dire autorità, lealtà sacralità. L’autorità si conquista e si fonda attraverso il confronto acceso, aperto, informato e ragionevole volto a ricercare una credibile nuova identità della sinistra; la lealtà significa rimanere fedeli all’impostazione democratica di fondo senza assimilazioni alla lettura neoliberale o autoritaria; la sacralità non vuol dire mercato e merito, ma interesse collettivo, impegno a garantire l’avventura di un mondo realmente sostenibile.

Leggerò questo libro per capire meglio, per approfondire il discorso e per verificarne la fattibilità a livello partitico. In conclusione infatti mi sento di esprimere due dubbi o meglio di porre due punti interrogativi. Siamo sicuri che la crisi pandemica ci orienterà verso una revisione profonda del sistema capitalistico oppure non ci farà sentire il richiamo della foresta spingendoci semplicemente a rifugiarci all’ombra delle piante secolari del capitalismo? Chi, come e quando sarà in grado di effettuare e guidare questa revisione così profonda, scomoda e impegnativa? Prometto agli autori del libro di leggerlo con molta attenzione, di proseguire la riflessione, ringraziandoli comunque di questa provocazione, che ringiovanisce il mio spirito politico e risveglia il mio annebbiato idealismo.

Dall’idillio al dissidio

Aveva stupito tutti l’atteggiamento disponibile e responsabile tenuto dagli italiani durante il periodo del lockdown nella scorsa primavera: i cittadini avevano capito l’estrema gravità della situazione e, tutto sommato, avevano somatizzato le misure restrittive con un “obbedisco” rivolto alle istituzioni impegnate nella battaglia. La gente si era stretta attorno ai pubblici poteri indipendentemente dal colore politico di chi li esercitava.

Anche le parziali elezioni regionali e comunali del settembre scorso avevano lanciato un messaggio di positiva attenzione nei confronti di chi si presentava al giudizio dopo aver gestito direttamente o indirettamente la prima fase della pandemia. Le opposizioni non venivano prese sul serio tanta era la loro demagogica e strumentale avversità nei confronti dei governanti. Si potrebbe dire che il voto aveva una netta connotazione filo-istituzionale, l’esatto contrario del qualunquismo tipicamente scatenato dalle situazioni drammatiche.

Poi è arrivata l’estate con la diffusa illusione che il peggio fosse passato e la normalità fosse a portata di mano. Chi metteva in guardia rispetto ad una probabile recrudescenza autunnale della pandemia veniva regolarmente “cassandrizzato”: da una parte le persone sono andate giustamente in vacanza, ma si sono dimenticate o hanno fatto finta di dimenticare il covid 19 con tutti i problemi annessi e connessi; dall’altra parte i governanti si sono addormentati sugli allori (?) ed è sopraggiunta una colpevole inerzia: sono andati in vacanza anche loro lasciando emergere  una certa fastidiosa se non odiosa pigrizia mentale e fisica.

Nel rapporto tra governanti e governati la fiducia va conquistata giorno per giorno e purtroppo è andata via via scemando. La pandemia ha ripreso a correre mentre noi siamo rimasti al palo, perdendo tutte le occasioni per migliorare la situazione e prepararci all’onda di ritorno. Non so fino a qual punto l’atteggiamento distratto di molta gente abbia influito sul disimpegno pubblico: non riesco a valutare quale sia stato l’influsso negativo dell’irresponsabilità privata sull’inerzia pubblica e viceversa. Fatto sta che il circuito virtuoso si è trasformato in cortocircuito.

Il governo si è svegliato ed ha trovato l’invasore. La gente ha aperto gli occhi e ha visto il (quasi) niente intorno a sé. E allora via alle tardive misure restrittive per chiudere la stalla quando i buoi erano scappati: misure un po’ raffazzonate, ma soprattutto tardive rispetto agli impegni a suo tempo presi in materia sanitaria, scolastica, organizzativa ed economica. L’idillio, se mai era cominciato, è finito ed è finito di brutto.

È pur vero che il lockdown generalizzato metteva tutti nella stessa barca e dava l’impressione che i sacrifici fossero spalmati su tutti e quindi meglio accettabili da tutti. Ora che il lockdown è ristretto i cittadini colpiti si sentono maltrattati e discriminati e protestano duramente estremizzando e drammatizzando le conseguenze. In realtà il motivo di fondo del cortocircuito tra cittadini ed istituzioni è la sopravvenuta mancanza di fiducia. Se in una famiglia i genitori chiedono sacrifici dando il buon esempio a livello di impegno e di disponibilità, hanno qualche probabilità di successo; se invece danno l’idea di fregarsene altamente o comunque di non fare interamente il loro dovere, i figli e i nipoti cominceranno a scalpitare ed a protestare.

Sulle proteste c’è da fare la tara rispetto alle vergognose strumentalizzazioni politiche (ho sentito parlare di sciopero della fame per solidarietà con i ristoratori), rispetto agli egoismi corporativi (ogni categoria tira penosamente l’acqua al proprio mulino senza capire che manca l’acqua), rispetto alla mera rabbia sociale (coltivata da estremisti alla ricerca spasmodica di un clima di sfiducia generale), rispetto al ricorso alla violenza (facile rifugio per l’insensatezza dello scontro fine a se stesso),  rispetto agli egoismi individuali e di gruppo (i sacrifici li devono sempre fare gli altri). Resta tuttavia un malessere palpabile, pericoloso e sfiduciato. Adesso inizierà la solita diatriba fra chi vuole usare il pugno di ferro e chi intende dialogare fra sordi.

Le magagne della politica italiana, che fino ad ora erano state coperte dal rapporto benevolo istituzioni-cittadini, stanno riemergendo in tutta la loro evidente gravità: chi si smarca sostanzialmente dalla maggioranza di governo,  chi pensa a dividere piuttosto che ad unire, chi pensa ai voti che se ne stanno andando, chi pensa di recuperarli sbraitando, chi gioca al tanto peggio tanto meglio, chi non pensa nemmeno lontanamente di passare la mano, chi si nasconde dietro il mondo gravato dalle stessa difficoltà, chi allarga le braccia  in segno di impotenza, chi alza le spalle in segno di menefreghismo etc. etc.

Con la politica bisogna fare i conti. Forse ci eravamo illusi di bypassarne i nodi più spinosi. Stanno riemergendo tutti i punti critici e sinceramente non so come se ne possa uscire. Occorrerebbe una carismatica dimostrazione di alta capacità governativa per ridare credibilità alle istituzioni e recuperare il tempo malamente perduto. Non vedo niente di interessante all’orizzonte.  “Sl’è not us farà dé” ripeteva spesso Benigno Zaccagnini in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza. E non è che siamo messi meglio rispetto a quei tempi, anzi…manca però gente come Zaccagnini.

 

Continuismo a prova di docufilm

Se non erro, l’ultima omelia pronunciata dall’indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, agli inizi del 2014, affrontò lo spinoso argomento del rispetto della laicità dello Stato in materia di legislazione famigliare. Ricordo di avere apostrofato le sue parole, esprimendo un commento alla persona che mi stava accanto: «Un sacerdote con questo coraggio e con una visione così chiaramente evangelica e laica è molto difficile, forse impossibile, trovarlo». Era quasi un testamento spirituale che riporto di seguito: «Quindi tu, Chiesa, non avere paura! Non avere paura dei diversi, anche dei diversi sessualmente parlando: sono una ricchezza e non un pericolo. Non avere paura delle coppie di fatto: il sacramento che le unisce è l’amore. Non avere paura delle coppie omosessuali perché sono segno di amore e non temere se i bambini saranno affidati a queste coppie che hanno la vocazione e l’impegno a livello genitoriale e possono andare ben oltre la procreazione biologica. Non avere paura delle leggi civili laicamente e democraticamente adottate dal Parlamento. Non avere paura del sesso, perché è un grande dono di Dio. Non avere paura degli stranieri, perché Gesù li andava a cercare ed aveva grande fiducia in loro. Non avere paura degli Islamici, perché Gesù non discriminava nessuno in base alla religione.  Signore! Aiutaci a non avere paura! Ad andare per le nostre strade con il coraggio dell’amore e non in piazza con la paura del nuovo!». Don Scaccaglia, quando sosteneva queste tesi, sapeva di rappresentare un’avanguardia, di suscitare reazioni stizzite, di essere oggetto di allarmistiche critiche a livello episcopale e clericale, ma non si lasciava spaventare o frenare.

Ai suoi scandalizzati critici fischiano le orecchie: papa Francesco sta dicendo sostanzialmente le stesse cose. D’altra parte don Scaccaglia in vita era comunque in compagnia fortemente minoritaria, ma decisamente autorevole, se il cardinale Carlo Maria Martini affermava con assoluta tranquillità: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

Infatti non a caso il nostro pretaccio lo ricordava così: «Tre anni or sono moriva il card. Carlo Maria Martini, grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti».

In questi anni del pontificato francescano ho spesso registrato un certo gap teologico fra il pensiero di papa Francesco e quello del cardinal Martini soprattutto in materia sessuale. Bergoglio era un seguace di Martini: entrambi gesuiti, entrambi riconducibili all’area progressista cattolica. Il cardinale argentino ha raccolto il tardivo testimone dal perdente italiano nel conclave del 2006: Martini rinunciò alla candidatura a favore di Ratzinger. Ci vorrà tempo, ma ho fiducia che la distanza alla lunga possa essere colmata e le novità possano finalmente sbocciare e diventare stile pastorale comune.

“Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge di convivenza civile. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo”. Lo afferma papa Francesco nel docufilm “Francesco” di Evgeny Afineevsky, presentato in anteprima mondiale al Festival del cinema di Roma, nella sezione Eventi Speciali.

Nel lungometraggio il Papa interviene sul tema anche con una telefonata a una coppia di omosessuali italiani che gli avevano indirizzato una lettera. Andrea Rubera e Dario Di Gregorio, tre figli piccoli a carico avuti con la “gestazione per altri” in Canada, avevano chiesto al Papa come superare l’imbarazzo legato al loro desiderio di portare i figli in parrocchia alle lezioni di catechismo. La risposta di papa Francesco è stata inequivocabile: i bambini vanno accompagnati in parrocchia superando eventuali pregiudizi e vanno accolti come tutti gli altri. Andrea Rubera è presidente di “Nuova proposta”, associazione di cristiani lgbt di Roma.

Sono parecchi i pronunciamenti aperturisti di papa Francesco in ordine all’omosessualità. La frase forse rimasta più celebre rimane quella del 28 luglio 2013 di ritorno dal viaggio apostolico in Brasile, in occasione della XXVIII Giornata mondiale della gioventù: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?».

Il quotidiano Avvenire si mette dalla parte del manico e scrive che la nuova presa di posizione sui diritti da riservare alle persone omosessuali – ineccepibile (bontà sua n.d.r.) alla luce del Vangelo – rischia di essere letta come volontà implicita di rivedere il magistero sul matrimonio. Secondo il giornale di emanazione Cei, non è così e non avrebbe alcun senso ipotizzarlo.

Non mi interessa cercare l’ago nel pagliaio del continuismo magisteriale in materia sessuale. I casi sono due. O il cardinal Martini vaneggiava quando sosteneva: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?». Oppure si tende a parlare bene e a razzolare male: magari rispedendo al mittente il sacrosanto diritto di accedere ai sacramenti e/o mettendo sulla groppa degli omosessuali il ridicolo obbligo di vivere in castità.

Attenzione a non fare come con il coronavirus: ci sono i negazionisti e i riduzionisti. Nel caso dell’omosessualità essere negazionisti rispetto ad un passato fatto di discriminazioni e intolleranze, anche da parte di uomini di Chiesa, mi sembra impresa storicamente e culturalmente assai ardua. Il riduzionismo invece è di casa anche se forse è ancor peggio. D’altra parte a livello di ebraismo non c’è chi sostiene che Gesù non dicesse niente di nuovo rispetto alla dottrina seguita dai “preti” dell’epoca? Mi chiedo allora perché tanta ostilità fino a metterlo in croce.

Cerchiamo di essere seri e ammettiamo che papa Francesco, pur con qualche titubanza e incertezza, sta cambiando certi indirizzi pastorali sciacquando quelli dottrinari nell’Arno evangelico e vigiliamo perché le inevitabili ondate reazionarie e tradizionaliste non tentino di svuotare nella prassi le novità espresse dal pontefice. Il pericolo è fortissimo.

Papa Francesco ha parlato del rapporto tra Chiesa e gay il 21 maggio 2018, incontrando un omosessuale cileno, Juan Carlos, come riferisce il quotidiano spagnolo “El Pais”. Queste le parole di Francesco: «Juan Carlos, che tu sia gay non importa. Dio ti ha fatto così e ti ama così e non mi interessa. Il papa ti ama così. Devi essere felice di ciò che sei”. Juan Carlos Cruz fu vittima di don Fernando Karadima, parroco pedofilo che è stato all’origine dello scandalo che ha scosso la Chiesa cilena. I suoi abusi, in particolare, sarebbero stati nascosti dalle gerarchie, fra queste dal vescovo di Osorno, Juan Barros.

Don Scaccaglia era da poco ritornato in parrocchia dopo lunga degenza ospedaliera per un complesso intervento chirurgico: gli rendevo visita non troppo frequentemente per non affaticarlo, ma comunque cercavo di comunicargli la mia vicinanza con qualche breve puntata nel suo appartamento. Andai da lui una domenica mattina prima della messa, che non aveva ancora ripreso a celebrare, pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo dell’outing del monsignore della curia vaticana, il quale ammetteva la sua omosessualità e la relazione con il suo partner, lanciando un bel sasso nella piccionaia omofoba (di facciata) degli ambienti clericale. Provai a introdurre en passant l’argomento con una battuta: «Hai visto Luciano che razza di casino ha fatto scoppiare quel monsignore della curia romana?». Sostanzialmente la risposta secca e immediata fu: «Ha fatto benissimo! È inutile continuare a nascondere la realtà dell’omosessualità presente anche fra i sacerdoti. Bisogna prenderne atto, smettere di criminalizzarla, toglierla dalla clandestinità e volgerla in positivo». Non volli battere ulteriormente il tasto, mi limitai solo a commentare: «Se mi volevi dimostrare di avere ripreso totalmente la tua lucidità e la tua verve, ci sei riuscito pienamente». Ne riferii ai componenti della comunità di S. Cristina al termine della messa celebrata da un sostituto: rimase piuttosto perplesso, ma non disse nulla e incassò il colpo.

 

 

I pesci in un barile che sta traboccando

Tento una lapidaria narrazione dei fatti inerenti l’ultimo periodo della pandemia, i lunghi mesi che hanno visto molte chiacchiere, parecchie polemiche, tante previsioni, infinite discussioni e pochissimi interventi concreti e mirati. Il 16 luglio di quest’anno – ed era già tardi – in uno dei miei commenti scrivevo quanto di seguito riporto.

“Secondo Massimo Cacciari, in autunno la situazione sociale ed economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia e tenere le redini in qualche modo. Una “dittatura democratica sarà inevitabile”.

Molto simile a questa piccante analisi, quella di Carlo De Benedetti, secondo il quale è la disuguaglianza il punto a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali”.

Faccio un salto di tempo e vengo ai giorni nostri, al 24 ottobre: Antonio Di Costanzo su La Repubblica fornisce la cronaca che riporto di seguito.

“Monta la protesta a Napoli contro il “coprifuoco” e contro il lockdown annunciato dal presidente della Regione Vincenzo De Luca in diretta social. A tarda sera esplode la tensione. Scontri davanti alla sede della Regione in via Santa Lucia, cariche delle forze dell’ordine, lancio di lagrimogeni, urla e slogan contro la decisione di chiudere tutto in Campania, in una situazione di già grave crisi dell’economia. Così la prima notte del coprifuoco fallisce e il centro di Napoli si accende per la rabbia sociale”.

Lo stesso giorno sullo stesso giornale Roberto Petrini riferisce, in modo peraltro piuttosto tecnocratico, come di seguito.

“Il decreto “novembre”, il quarto anti-covid, è in allestimento al Mef e per ora conta su 4-5 miliardi. «Le risorse ci sono, sosterremo chi ne ha bisogno», assicura Gualtieri. L’idea originaria era quella di inserire nel decreto la proroga della cassa integrazione con una dotazione di 6-10 settimane spendibili fini a fine anno dalle imprese e di inserire anche la proroga del blocco dei licenziamenti fino a quella data. Il tutto per un costo di 2 miliardi. L’aggravarsi della situazione sanitaria ha suggerito di anticipare altre misure della legge di Bilancio: in particolare 1,4 miliardi per la proroga dei contratti a tempo determinato per 30 mila medici e infermieri e 1 miliardo per il contratto di lavoro dei medici. In tutto si salirebbe a 4-5 miliardi considerando che, se dovesse scattare una chiusura ancora più estesa delle attività economiche, sarà necessario anticipare parte del rifinanziamento da 4 miliardi, previsto in legge di Bilancio, del cosiddetto fondo perduto destinato alle piccole imprese gestite con partita iva, tra le quali spiccano ristoranti, bar e altre attività particolarmente colpite in questa fase. Quanto alle risorse, stavolta non si dovrà ricorrere allo scostamento di bilancio perché saranno riutilizzati i soldi “avanzati” da alcune delle misure di quest’anno a partire dalla cig: operazione indispensabile per evitare che le risorse vadano perdute”.

Poi sono arrivate le misure restrittive varate dal governo Conte il 25 ottobre 2020, che lasciano prevedere ulteriori reazioni di protesta da parte dei cittadini e delle categorie imprenditoriali interessati. Dopo Napoli e Roma sono in pentola altre manifestazioni stando anche agli inviti alla mobilitazione comparsi a catena su vari social e siti internet. Lungi da me soffiare sul fuoco, gufare o “sciacallare”, mi limito a registrare con molta preoccupazione i fatti del giorno col timore che l’ansia e la paura di parecchia gente possa trasformarsi in rabbia sociale sfogabile con la violenza.

Subito dopo il Dpcm del mini lockdown, ecco il ristoro economico. Scrive il quotidiano La Stampa: È il passo obbligato, richiesto da tutte le categorie economiche e le forze politiche, siano esse di maggioranza e opposizione. Il premier Giuseppe Conte, in conferenza stampa, fa sapere che i tecnici dei ministeri hanno già studiato come liquidare le compensazioni alle categorie più colpite. «Ci sarà un bonifico, direttamente sul conto corrente, dall’Agenzia delle Entrate, è una modalità che abbiamo già sperimentato», dice Conte. Per quanto riguarda le tempistiche il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, pensa che i contributi possano essere erogati «entro metà novembre». L’indennizzo sarà «superiore a quello ricevuto la scorsa volta» e riguarderà attorno alle 350mila aziende ed esercizi pubblici «che sono oggetto delle restrizioni introdotte dal Dpcm». Viene poi annunciato un credito di imposta per i mesi di affitto commerciale in ottobre e novembre. lo stop alla seconda rata Imu e una nuova indennità mensile ‘una tantum’ per i lavoratori di turismo, spettacoli, e sport: tutte categorie che vivranno almeno un mese sostanzialmente di sole spese, senza alcun ricavo”.

Mance e polizia? Fare la Cassandra è un modo di dire che significa predire avvenimenti disastrosi, preconizzare eventi funesti, drammatici, luttuosi, senza essere creduti. Ma Cassandra ci prendeva e per la verità anche Carlo De Benedetti ci ha azzeccato, anche se non era poi così difficile fare simili previsioni. La schizofrenia dei disordini è lampante: si protesta all’insegna del “piove governo ladro” o c’è qualche ragione fondata per protestare violentemente contro chi governa? La verità, come spesso succede, sta nel mezzo: i pubblici poteri potevano fare di più e meglio; la gente scarica sui pubblici poteri le proprie frustrazioni, le proprie paure e le proprie trasgressioni. Quanto alle mance, sembrano piuttosto consistenti, ma poi occorrerà del tempo e speriamo che gli aiuti non arrivino a pioggia su un’economia morta.

E la dittatura democratica prefigurata da Massimo Cacciari? L’ossimoro in questo caso sta diventando coerenza, un modo per uscire da una situazione pazzesca in cui la politica del bastone e della carota cerca disperatamente di raccogliere i frutti. Resta in tutto e in tutti la sensazione dell’improvvisazione e della precarietà. Se ben ricordo, Mario Draghi ha individuato nella precarietà il dato negativamente fondamentale di questa fase storica. In fin dei conti le profezie di De Benedetti e Cacciari mettevano in guardia da questo rischio: un colpo al cerchio della salute, un colpo alla botte dell’economia, una bastonata a chi rompe i coglioni, una carota a chi fa il bravo bambino, una restrizione di qua e una concessione di là. L’istituzionalizzazione dei pesci in barile? Una trafelata e tardiva rincorsa ai prevedibili e trascurati effetti della pandemia? Forse sono troppo cattivo. Spero di sbagliarmi, ma il brutto deve ancora venire!

 

La potenza vaccinale dell’amore

Mi sono preso la briga di consultare il dizionario per verificare il significato del termine “lockdwn”, che in questo periodo va purtroppo assai di moda. Ebbene, lockdown, scritto anche lock down, è una parola d’origina americana e significa letteralmente isolamento, chiusura, detenzione, confinamento. Confesso la mia ignoranza in materia di lingue straniere, quindi non lo sapevo per certo, lo avevo intuito dall’uso che se ne fa e adesso, se possibile, sono ancora più preoccupato. A monte dell’isolamento/confinamento non possono che esservi delle regole negative, delle proibizioni più o meno drastiche, dei divieti difficili da sopportare anche in nome della salute personale e pubblica.

Ero sull’autobus, circa a metà mattina, e osservavo come il traffico e la confusione fossero contenuti (era luglio e si vedeva), ma, come spesso accade, i fatti si prendono la briga di smentire immediatamente i pensieri: l’autobus si blocca improvvisamente e rientriamo in piena bagarre per una strettoia , impediti a sinistra da mezzi per lavori stradali e a destra (ogni riferimento alla logistica politica è puramente casuale) da un suv (io le chiamo camionette, fuoristrada per la precisione) grosso, ingombrante, lussuoso, decisamente bello sul piano estetico. L’autista del bus, alquanto spazientito, dava sfogo alla propria eloquente gestualità per far capire al conducente del suv la necessità di spostare il mezzo: altrimenti non si poteva passare. Devo ammettere che, molto educatamente, l’autista in questione non aveva fatto ricorso al clacson illudendosi di risolvere la questione senza bisogno di immettere baccano in un ambiente abbastanza tranquillo. Ma Toscanini non ottenne l’effetto sperato perché il suonatore faceva finta di niente, sperava che non si rivolgessero a lui (o meglio stava facendo il finto tonto). L’autista imperterrito continuava a gesticolare tentando di rendere l’idea: se non sposti il suv, il bus ti viene in cul (scusate la volgarità, ma il messaggio era quello). Finalmente il “tonto di lusso” si degna di scendere dal suo potente mezzo con l’intenzione di parlare all’autista direttamente: forse ci siamo, pensavo tra me, dove non poterono i gesti risolveranno le parole. Il dialogo non fu concitato per merito del pubblico dipendente che si limitò ad esporre la sua oggettiva impossibilità a proseguire la corsa. Da parte sua “il fenomeno” se ne uscì con una pirandelliana affermazione: “Ma io devo andare in banca !!!…” (nell’agenzia proprio a lato). Non so come, ma l’autista del bus non si agitò, si limitò a scuotere il capo mentre l’altro continuava dicendo: “Perché non chiede di spostare il mezzo di lavoro stradale?”.  Risposta anche troppo equilibrata: “Ma le sembra possibile?… e poi le faccio presente che esiste un divieto di sosta molto ben visibile”.  Dopo qualche residua insistenza il suv venne finalmente spostato ed io ridendo di gusto estrassi il taccuino per annotarmi il ghiotto aneddoto: il traffico era ripreso e dico sinceramente di non essermi minimamente preoccupato dell’urgente operazione bancaria di quell’assurdo signore.

A questo punto mi chiederete cosa c’entri questo episodio di qualche tempo fa, pur molto curioso, con il lockdown dei giorni nostri. Apparentemente nulla. Invece dà l’idea della nostra refrattarietà alle regole e quindi del nostro accettare con difficoltà le pur pesantissime restrizioni imposte dalle pubbliche autorità per contrastare la diffusione del covid. Da una parte non giustifico le trasgressioni, ma nello stesso tempo capisco il senso di smarrimento di chi si trova umanamente e socialmente isolato a causa dei divieti imposti.

Qual è il limite che ci dobbiamo porre per non passare dall’isolamento fisico all’alienazione umana? La scrittrice israeliana Hamutal Shabtai nel suo romanzo “2020” ha curiosamente profetizzato la pandemia ed è rimasta essa stessa colpita da quanto la sua descrizione romanzesca si stia rivelando e dimostrando realistica: come la paura abbia preso il sopravvento e come non solo gli uomini, ma anche gli Stati abbiano iniziato a relazionarsi attraverso la lente della paranoia. Meir Ouziel termina su La repubblica il suo pezzo di commento al libro di cui sopra con queste affermazioni, che non ho capito se siano riprese testualmente dal libro, ma certamente ne rispecchiano sostanzialmente lo spirito: “Un mondo senza erotismo e senza amore tra gli esseri umani equivale alla morte del mondo. Il bacio è l’unico mezzo che l’uomo ha per far fronte, per un istante, alla sua nullità rispetto all’eternità. L’amore è l’elemento più importante delle nostre vite. Tutti moriremo prima o poi, con o senza virus. Ma se continueremo a vivere senza l’amore, senza la possibilità di baciarci, il covid avrà davvero sopraffatto l’umanità”.

Sto faticosamente e disciplinatamente osservando le regole anti-covid, ma non rinuncio, nel modo più assoluto, ai miei affetti, a baciare ed a fare l’amore con la persona a cui sono legato sentimentalmente. Ci sto a morire, perché diversamente mi sentirei morire prima del tempo. La mia paura, che pure è tanta, trova un limite invalicabile nell’amore.

Mi ricordo di un’ardita e stupenda similitudine, che mi prospettò anni fa un sacerdote amico, tuttora vivo e vegeto, unico per la sua pazienza verso la mia mentalità sessuale al di fuori degli schemi. Forse attingendo dalla sua vocazione adulta e quindi dalla più diretta conoscenza dei rapporti umani, parlando di Risurrezione, Paradiso e Premio Eterno, mi propose un raffronto tra lo stato di soddisfazione e felicità nella vita eterna con lo stato sublime e pieno di scambievole amore dell’amplesso coniugale, con quei momenti che si vorrebbe non finissero mai, tanta è la gioia e la completezza che si vive insieme. Così, a detta di questo amico sacerdote, disinibito e uomo fino in fondo, sarà di noi nell’altro mondo. Ebbene, io non rinuncio agli acconti di Paradiso, non rinuncio all’eternità per paura del coronavirus.

Termino con un grazioso aneddoto anche per sdrammatizzare in un certo senso il discorso. Un mio zio, che non era da meno in senso battutistico rispetto a mio padre, scommetteva su una lunga vita così giustificandosi: «Al garà un bél dir al dotór: questo paziente sta morendo; mi a continov a tirär al fiä…». Avrà un bel daffare il covid a condizionarmi gli affetti spaventandomi a morte, a far svanire per sempre il sogno mio d’amore: io continuo a dare e ricevere dolci baci e languide carezze mentre fremente le belle forme disciolgo dai veli…