I ladri di Pisa e di…Covid

Nei giorni scorsi dialogando con un amico avevo preso in seria considerazione l’atteggiamento costruttivo di Silvio Berlusconi nei rapporti col governo in materia pandemica, improntato a svelenire il clima di contrapposizione fra maggiorana e opposizione offrendo la disponibilità a valutare le misure varate dal governo ed elaborando concrete proposte aggiuntive e/o emendativeAl termine del breve colloquio mi sono permesso di sollevare un malizioso dubbio: tutto molto bene a meno che Berlusconi non abbia più o meno inconfessabili secondi fini non certo di carattere politicamente strategico, ma di valenza brutalmente bottegaia. Pensavo alle sue aziende che hanno sempre rappresentato il leitmotiv dell’impegno politico berlusconiano.

Passano pochi giorni e leggo al riguardo un titolo piuttosto inquietante su Formiche.net: “L’astensione della Lega (e il no in Commissione) al Senato sull’emendamento Pd per difendere Mediaset da Vivendi apre un crepaccio nel centrodestra. Un monito a Silvio Berlusconi e ai suoi flirt con il Conte bis. Salvini nega, ma alcuni fra i suoi sono sgomenti, “è incomprensibile”. Preso dalla curiosità ho letto il pezzo che di seguito riporto integralmente. Lo faccio per lasciare ad altri la responsabilità di inserire questioni così piccanti e insinuanti, aggiungendo benzina sul fuoco del dibattito politico già tanto teso e poco leale. Lo faccio però anche per esercitare un dovere di critica come cittadino senza voltarmi dall’altra parte di fronte a fatti quanto meno imbarazzanti, ammesso e non concesso che ne venga acclarata la fondatezza.

La Lega mette in mora Forza Italia? Lo stop dei leghisti in Commissione Affari costituzionali del Senato all’emendamento anti-scalate per difendere Mediaset dai francesi di Vivendi ha suonato un campanello d’allarme nel centrodestra. L’emendamento “per proteggere le aziende italiane televisive ed editoriali” era stato presentato dalla relatrice del decreto Covid, la dem Valeria Valente, per fermare l’avanzata del gruppo guidato da Vincent Bolloré, ad oggi proprietario di una quota del 9,98%, dopo aver affidato a una società indipendente senza diritto di voto la restante quota del 19% su richiesta dell’Agcom.

A settembre una sentenza della Corte di Giustizia Ue aveva ritenuto inappropriato l’intervento dell’Authority guidata da Giacomo Lasorella, di fatto dando un via libera a Vivendi per riprendere fra le mani l’intera quota Mediaset. Con lo scudo preparato dal governo, Agcom avrebbe invece la possibilità di congelare per sei mesi la scalata nel gruppo di Silvio Berlusconi richiedendo un’istruttoria.

Per questo lo stop leghista a Palazzo Madama ha suscitato rabbia e sgomento fra i forzisti, tanto più perché arriva a pochi giorni dalla relazione del Copasir (presieduto dal leghista Raffaele Volpi) che ha acceso i riflettori sulle mire francesi su Generali e Unicredit.

Prendendo la parola in aula, il segretario Matteo Salvini ha negato i retroscena di uno strappo nel centrodestra, annunciando l’astensione della Lega sull’emendamento dem (che è poi stato approvato). “Una grande riforma non si fa di notte con un emendamento al decreto Covid, si fa con trasparenza”, ha tuonato il “Capitano”.

Eppure in tanti l’hanno letta in modo diversa. A qualcuno lo stop di Salvini all’emendamento salva-Biscione è suonato come un monito a Berlusconi, reo di un flirt troppo prolungato con la maggioranza di governo sull’emergenza coronavirus che nelle ultime settimane ha preso le sembianze di un’intesa politica.

A tradire la frattura le violente reazioni dei senatori forzisti. “Credo che la Lega in Commissione non abbia compiutamente valutato la situazione”, ha mugugnato Maurizio Gasparri, padre dell’omonima legge sul riassetto delle telco in Italia. Ci va giù pesante Andrea Cangini, “evidentemente Salvini ha cambiato slogan: da ‘prima gli italiani’ a ‘prima i francesi’”. Gli fa eco Osvaldo Napoli, “Salvini non vuole alleati ma solo plauditori”.

Ma a sollevare il sospetto di una crisi domestica è soprattutto quella velina fatta circolare da fonti leghiste a metà pomeriggio, che prima specifica come la Lega sia sempre a favore delle aziende italiane e a difesa dell’italianità”, ma si premura di aggiungere che i vertici di via Bellerio non vogliono credere “ad alcune ricostruzioni (come quella di Dagospia) che parlano di inciucio tra la maggioranza e Forza Italia”. A riprova che il patto del Nazareno su Mediaset ha messo sull’attenti i leghisti, Salvini in aula ricalca: “Non credo a un inciucio Conte-Berlusconi, su questo emendamento”.

L’emendamento è passato, lo strappo leghista si vedrà. Intanto anche dentro al Carroccio c’è chi rimane sgomento. “Incomprensibile, ne stavamo parlando oggi”, confida a Formiche.net un fedelissimo di Salvini. Ma un collega prova a spiegare: “Il primo voto è stato un errore-messaggio. Tattica, insomma. Poi è stato corretto con l’astensione”.

Cosa aggiungere a commento? Se il Covid fosse diventato occasione per scambi di favori a livello parlamentare, sarebbe cosa gravissima e squalificante per una politica che non riesce mai a distanziarsi da operazioni opache e affaristiche: un autentico insulto alla sofferenza del popolo italiano. Dietro la pandemia ci sarebbe chi coglie occasioni per fare i cazzi propri in modo più o meno elegante.

Non trovo motivo di soddisfazione nel cogliere difficoltà tattiche nel centro-destra: ammesso e non concesso che esistano queste divergenze, piove sul bagnato della incapacità dell’opposizione a fare seriamente il suo mestiere in una fase storica che richiederebbe il massimo dell’impegno. Da una parte ci sarebbe Salvini che sputa veleno sul governo comportandosi come lo spretato nei confronti del vescovo Conte che lo ha colto con le mani nella marmellata; dall’altra Berlusconi, che tirerebbe la giacca al governo per ottenere favori in difesa delle proprie aziende. Non c’è che dire: un vomitevole mix politico da segnare sul calendario e da ricordare alle prossime tornate elettorali. Non so se sia più grave puntare, sulla pelle degli italiani martoriata dal Covid, a raggranellare consensi strumentalizzando tutto in chiave antigovernativa alla faccia del buonsenso, della coerenza e della serietà, oppure cercare di incassare qualche favore per Mediaset barattando appoggi con un piatto più o meno succulento di lenticchie alla mensa del popolo italiano. Una scelta schifosamente paradossale, a cui accenno, ma che mi rifiuto di prendere in ulteriore considerazione. Qualcuno penserà sicuramente alla differenza tattica dei “ladri di Pisa”: fanno finta di litigare di giorno in Parlamento poi, di notte, alle elezioni, rubano assieme i voti.

L’ipotesi dell’armata brancaleone destrorsa potrebbe avere anche una piccola variante. Non vorrei infatti che fosse, solo o almeno soprattutto, una grossa e subdola montatura di Matteo Salvini per uscire dall’angolo in cui si è ficcato: Trump solleva pretestuosamente la questione dei brogli elettorali, il suo referente italiano, peraltro e oltre tutto a corto di lucidità,  lascia intendere la questione  di un broglio affaristico, tirando il sasso nella piccionaia del pur storico e incancellabile conflitto di interessi berlusconiano nascondendo la mano dietro un improbabile azione moralizzatrice targata Lega. Sono anni in effetti che Salvini getta manciate di cacca addosso a tutti. Gli elettori non sono riusciti finora a sentirne la puzza. Tutto è politica, purtroppo anche la spazzatura politica.

 

Il cuore a sensibilità intensiva

Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica.

Probabilmente è quel tratto di percorso che non stiamo facendo di fronte alla tragica pandemia che ci colpisce. Saltiamo un passaggio, quello appunto della pietà, per andare immediatamente al discorso politico, spesso dimenticandoci anche della fase solidale che dovrebbe coinvolgerci. L’ho capito l’altra sera, rivivendo l’imbarazzato e tormentato atteggiamento di mia sorella, guardando le immagini ed ascoltando le parole dei parenti delle persone ricoverate in ospedale in quanto affette da Covid, ammucchiate in reparti collassati, costrette a stendersi su barelle appoggiate in terra o a rimanere in ambulanza per ore in attesa di un (im)possibile ricovero, soli come cani, rifiutati dal sistema sanitario incapace di farsene carico. Non ho retto, ho cambiato canale, ho provato un senso paralizzante di impotenza.

Ho accantonato le forbite e contraddittorie analisi degli scienziati, ho dimenticato le carenti, per non dire  insufficienti, disposizioni approntate  dai governanti, ho criminalizzato i negazionisti che giocano a fare i furbi sulla pelle degli altri, ho solo sfiorato tutto gli errori commessi dalla nostra società del finto benessere, ho imprecato contro la irresponsabilità di quanti faticano persino a rispettare le minime regole per una convivenza adeguata al momento drammatico che stiamo vivendo.

Mio padre di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi o bellicisti, come dir di voglia. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre. Così come di fronte alla umana cattiveria auspicava, per le persone fuorviate e condizionate dall’egoismo più incallito, un giretto tra le corsie degli ospedali: si illudeva che sarebbero scesi definitivamente a più miti consigli. Sante e ammirevoli illusioni.

Non mi illudo, ma se pensassimo un poco al dramma di chi soffre e magari muore in solitudine a causa del coronavirus, di chi non riesce nemmeno ad essere assistito, di chi non può nemmeno vedere un suo congiunto isolato e inchiodato ad un letto di terapia più o meno intensiva, qualcosa potrebbe cambiare e migliorare: ognuno, col suo piccolo o grande bagaglio di responsabilità, potrebbe fare di più, senza scaricare indirettamente tutto sulle spalle di chi si trova in prima linea a fronteggiare l’emergenza. Non mettiamoci a posto la coscienza con la retorica dell’eroismo dei tanti operatori sanitari, con la critica spietata ai governanti che brancolano nel buio, con la graduatoria delle colpe altrui, con il qualunquismo della sfiducia nei pubblici poteri, con la speranza del miracolistico vaccino.

Almeno proviamoci anche perché non abbiamo altro modo per cercare di uscire dal tunnel. Più postazioni di terapia intensiva, ma anche e soprattutto più cuore nel petto di tutti. Tempo fa mi raccontarono un triste episodio, che sembrava uscito dalla parabola evangelica del ricco epulone. Un povero diavolo, che non riusciva a pagare un debito verso una persona molto ricca, chiese timidamente un po’ di comprensione al suo intransigente creditore: «Cal s’mètta ‘na man in-t-al côr…». La risposta fulminante fu: «E lu cal s’la mètta in-t-al portafoj…». Mettiamoci tutti una mano al cuore e poi potremo anche pensare al portafoglio anti-pandemia italiano ed europeo. A ben pensarci, tra l’altro, le due cose sono anche molto collegate.

 

 

Tutto il virus minuto per minuto

Sembrava una soluzione sensata quella di articolare su tre fasce di pericolosità il territorio nazionale, assegnando ad ogni fascia le regioni più o meno a rischio Covid sulla base di parametri obiettivi in grado di misurare l’esposizione al contagio e la capacità di farvi fronte. Doveva essere il modo intelligente per affrontare una intricata questione, vale a dire, come sostiene Nicolò Bellanca su Micromega, per risolvere il trilemma della pandemia tenendo insieme salute pubblica, funzionamento dell’economia e qualità della vita sociale.

L’apprezzabile tentativo si sta purtroppo rivelando una pantomima: non si capisce più niente, si sovrappongono di continuo catalogazioni regionali, gli addetti ai lavori lasciano trapelare indiscrezioni, i media fanno previsioni allarmistiche, i dati vengono buttati come dadi, si è scatenato un vero e proprio totovirus. Zona gialla=vittoria interna=1; zona arancione=pareggio=x; zona rossa=vittoria esterna=2.

E tutti giocano la macabra e drammatica schedina. C’è l’arbitro delle partite che dovrebbe essere il ministro della Salute; il quarto uomo che dovrebbe essere l’Istituto Superiore di Sanità; il var interpretato dalla conferenza Stato-Regioni o roba del genere; c’è tutto il covid minuto per minuto con i media che aggiornano continuamente la situazione sul campo; c’è il pubblico spazientito e disorientato, che fischia comunque, protestando contro l’andamento del match, contro l’arbitro, gli allenatori, i giocatori, i massaggiatori e chi più ne ha più ne metta.

Dove finirà il Veneto? Dipende dal rigore del governatore, dalla solidità della difesa, vale a dire dal rispetto delle regole per il contenimento del contagio e per la cura dei contagiati, dalle folli ripartenze dei cittadini in cerca di evasione e di trasgressione. E tutti ad esercitarsi nelle previsioni che cambiano di giorno in giorno o addirittura di ora in ora.

Mi era parso di capire dalle parole del premier Conte che si giocassero queste tragiche partite ogni quattordici giorni in un campionato molto combattuto e assai poco spettacolare, invece si è sempre in campo e tutto può cambiare da un momento all’altro. Vista in positivo abbiamo la volontà di tenere aggiornata e graduata la situazione dello scontro con un avversario subdolo che colpisce di rimessa non appena ti rilassi o ti distrai; vista in negativo abbiamo la solita confusione di ruoli e di schemi tattici col rischio di subire una valanga di goal.

Non ho ancora capito se il tira e molla delle scelte a tavolino dipenda dalla incapacità a decidere e/o dalla paura di scegliere oppure se sia una strategia calcolata per operare un (dis)onorevole compromesso tra salute ed economia evitando le proteste sociali delle scatenate tifoserie oppure se sia, molto più semplicemente, un procedimento a tentoni, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e sperando in Dio.

Fatto sta che il balletto prosegue e non si capisce dove si vada a parare. O meglio credo di avere capito: si vuole arrivare al lockdown totale e generale dopo avere sperimentato tutte le alternative, allargando le braccia nel senso di una resa alle cause di forza maggiore, preparandosi all’inevitabile peggio con il male dei passi intermedi. Prima le pillole, poi le dolorose e inevitabili iniezioni, per arrivare alle invasive operazioni chirurgiche. Col rischio che nel frattempo l’ammalato muoia: il medico pietoso (nel caso forse più incapace che compassionevole) fa la piaga puzzolente.

Una volta Renato, un caro amico di mio padre, la fece grossa. Volle architettare una presa per i fondelli per tutti gli ospiti del palco da lui gestito, in particolare per le eleganti signore snob presenti ad una importante serata di gala. Comprò una pattona e la fece guarnire da un pasticciere in modo tale che sembrasse una perfetta e invitante torta inzuppata con tanto di crema e panna. Durante l’intervallo la scartò e la offrì ai presenti che l’accolsero con esclamazioni di gradimento. La fece tagliare a fette dal solito chirurgo senza camice e cominciò a distribuirla su eleganti piattini con i relativi cucchiaini. Passarono pochi istanti, il tempo di assaggiare e si cominciò a sentire qualche signora che diceva all’amica: «Ma questa è pattona…». «Fammi assaggiare…, sì, questa è pattona…». Molti fecero finta di niente e mangiarono la pattona, altri la lasciarono nel piatto, chi conosceva bene Renato capì l’antifona e nel corridoio della quarta fila dei palchi si rise (o forse si pianse) per tutta la serata…e anche per quelle successive.

 

Anche il cuore degli sfigati batte a sinistra

Per Donald Trump la pandemia da covid 19 sarebbe stata la buccia di banana su cui è scivolato goffamente o comunque la goccia che ha fatto traboccare il suo vaso dell’antipolitica. Può essere vero anche se è pur vero che “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”. Governare a prescindere dai problemi, o meglio affrontando i problemi di pancia, ad un certo punto, quando anche la pancia è piena di problemi, non resta altro da fare che cancellare i problemi. Trump con il coronavirus dilagante ha fatto così: ha provato ad ignorarlo, ma la gente se ne è accorta sulla propria pelle e quindi si è svegliata dal sonno dell’anestesia populista.

Interessante è l’approfondimento fatto al riguardo da Massimo D’Alema: il covid ha riportato la politica ai valori di fondo, vale a dire la difesa della vita, la sanità garantita dallo Stato, il senso comunitario e solidale, la necessità che l’economia venga guidata e non abbandonata a se stessa. Sotto i colpi della pandemia sono crollati i presupposti del trumpismo. Dopo aver negato l’esistenza del virus, a Trump non resta che provare paradossalmente a negare l’evidente sconfitta elettorale.

Si profilano due tendenze culturali: una ritiene che il populismo in tutto il mondo, Italia compresa, stia prendendo una bella botta politica dalla insistente e invadente pandemia; un’altra che pensa ad un lockdown politico, una pausa pandemica al di là della quale rispunteranno puntualmente certe idee e certe visioni basate sull’egoismo individuale e collettivo. Gli uni insistono ingenuamente col “niente sarà come prima”; gli altri sdrammatizzano l’evento considerandolo un mero “mortus” imposto al gioco, che tuttavia col tempo riprenderà come se niente “fudesse”, o meglio riuscirà a metabolizzare anche il coronavirus riportandolo a tragico incidente di percorso.

Continuo a rifarmi all’acuta analisi di Massimo D’Alema (c’è poco da fare, la classe non è acqua), che legge le elezioni americane con gli occhiali del partito democratico statunitense, ma anche con la lente delle prospettive strategiche della sinistra in generale. Il ritorno obbligato della gente ai valori mette in crisi anche la sinistra, scoprendo gli altarini della sua attuale incapacità di saldare gli “istinti” popolari alle teorizzazioni elitarie: i grandi partiti popolari avevano questo ruolo, mentre oggi non riescono più a svolgerlo e quindi rischiano di “regalare” le difficoltà del popolo alla reazione della destra estrema ammantata di populismo.

È successo negli Usa con Trump che è riuscito a conquistare il voto degli “sfigati”: dei senza lavoro a cui ha promesso una facile occupazione difendendoli dalle intromissioni degli immigrati, degli angosciati dalla paura a cui ha consentito di difendersi con la violenza delle armi, dei poveri bianchi a cui accarezzare la pancia razzista ancestralmente ostile ai poveri afroamericani, dei cattolici alla ricerca di identità poco evangelica e molto politica,  agli insicuri ed ai precari proponendo loro una sicurezza fatta di muri, di dazi e di polizia. È successo in Italia con Matteo Salvini che è riuscito a conquistare il voto di certe fasce di classe operaia frustrata dalle difficoltà economiche di una crisi pressoché permanente, persino di certe fasce di gente meridionale stanca delle promesse della politica e propensa a provare le chimere dell’antipolitica. Nel nostro Paese però la Lega di Salvini ha trovato un duro ostacolo in questa strategia populista nel movimento cinque stelle, al punto da provare con esso un patto di non belligeranza, che è miseramente e sveltamente fallito.

È successo a livello geopolitico all’Europa intera, tendente a chiudersi nelle sue stanze tecnocratiche e burocratiche, mentre la gente non vede e non sente più il richiamo della foresta democratica, abbagliata dagli interpreti nostrani del populismo di Putin e di Trump (i ladri di Pisa), condizionata dall’invadenza economica cinese con cui fare i conti tramite nuove e imbarazzanti “vie della seta”.

Se è vero che le elezioni americane le abbia vinte non tanto Joe Biden, ma il partito democratico, novello interprete dei valori riscoperti dalla pandemia, l’Europa riuscirà a trovare la giusta sponda statunitense per rimettere insieme i cocci degli squilibri internazionali procurati dal trumpismo? I partiti della sinistra riusciranno a imparare che i voti non si prendono nel centro moderato e liberista ad oltranza, ma coniugando i valori con la necessità di rivedere i meccanismi di un sistema capitalistico fondato sugli egoismi, sulle ineguaglianze e sulle ingiustizie? La politica riuscirà a ritrovare il suo spazio vitale uscendo dalla prigione dei leaderismi e dei personalismi per tornare dalla pancia alla mente della gente passando dal cuore?  E Trump, ammesso e non concesso che se ne vada al diavolo, finirà e porterà nella discarica dei rifiuti anche il trumpismo o riuscirà a riciclarsi direttamente o indirettamente? Domande provenienti da lontano, ma che ci sono molto vicine!

Tagliarsi i coglioni per fare dispetto al coronavirus

Il leitmotiv negativo dei protagonisti della lotta al coronavirus è quello di anteporre la propria visibilità alle esigenze individuali e comunitarie di vivibilità, allo svolgimento puntuale e corretto del proprio ruolo istituzionale. È una chiave di lettura piuttosto sconsolante, ma purtroppo rispondente alla realtà dei fatti. Cominciamo dall’alto, anche se si potrebbe iniziare tranquillamente anche dal basso.

Il governo, pur concedendogli tutte le attenuanti del caso, ha cercato e sta cercando di difendere più la propria immagine che non la salute dei cittadini: il protagonismo mediatico del premier e dei ministri non ha aiutato ad instaurare quel clima di dialogo e di collaborazione indispensabile per affrontare una situazione così difficile, complessa e drammatica. Troppe conferenze stampa, un’autentica inflazione, troppe buone intenzioni rimaste lettera morta: in certe condizioni occorre parlare poco e a tono. Lo spreco del tempo ha inferto un colpo mortale alla strategia complessiva, ma anche e soprattutto alla serietà governativa.

Errori in cui sono caduti colpevolmente anche gli scienziati protagonisti di una fuorviante bagarre: tutto e il contrario di tutto, opinioni in libertà, idee contrastanti, logorroiche gare all’ultima ricetta. Si sono giocati credibilità ed affidabilità in un momento in cui c’era e c’è grande bisogno di avere alcuni precisi riferimenti scientifici per orientarsi in mezzo all’angosciata e angosciante lotta per la sopravvivenza.

Forse ancor più clamoroso è il comportamento delle Regioni e dei loro massimi responsabili: un vomitevole gioco allo scaricabarile verso il governo centrale, una tendenza a scavalcare le disposizioni nazionali contestandole o addirittura accentuandole, finendo col creare un clima di rissa istituzionale in cui non si capisce più niente.

I media stanno svolgendo un ruolo devastante: il loro ossessionante ritmo informativo diventa, seppure indirettamente, un invito all’evasione e alla trasgressione. Non se ne può più!  La canzone di Mina è perfetta al riguardo:

“Caramelle non ne voglio più
Certe volte non ti capisco
Le rose e violini
Questa sera raccontali a un’altra,
Violini e rose li posso sentire
Quando la cosa mi va se mi va,
Quando è il momento e dopo si vedrà
Una parola ancora
Parole, parole, parole
Ascoltami
Parole, parole, parole
Ti prego
Parole, parole, parole
Io ti giuro
Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi”

E la gente non è stata e non è da meno. Ha colto al volo le manchevolezze dei pubblici poteri, degli scienziati e dei media e ne ha fatto un alibi per la propria insensatezza trasgressiva. Il clima si è surriscaldato e rovinato: ripristinare collaborazione e solidarietà diventa un problema quasi impossibile. Tutti criticano, tutti si lamentano, tutti protestano: sembra di essere nel felliniano film “Prova d’orchestra”.

La più clamorosa prova è però quella delle Regioni. Volevano intervenire in proprio con provvedimenti drastici e giustamente il governo le ha frenate in questa loro smania di protagonismo. Sono state quindi coinvolte in un discorso globale ma differenziato, anche perché loro stesse non volevano più interventi generali penalizzanti per tutti. Sul più bello si mettono a contestare le decisioni a cui hanno partecipato, accusando di discriminazione politica la catalogazione dei territori effettuata in base a criteri oggettivi di misurazione della gravità della situazione. Chi è in zona rossa chiede perché altri no. Chi è in zona gialla vuole rincarare la dose in proprio chiudendo le scuole ed auto-collocandosi in (quasi) zona rossa. Chi è in zona arancione tace ma non acconsente e si prenota al dissenso non appena sprofonderà in zona rossa. L’opposizione parlamentare cavalca lo scontro e soffia sul fuoco. Semplicemente pazzesco! E se io devo uscire di casa alle undici di sera, devo redigere la solita dichiarazione d’intenti. Cosa risponderebbe anche il più disciplinato dei cittadini: andate tutti a farvi fottere! Stiamo fornendo un perfetto assist a chi vuole fare insensatamente i propri comodi. Stiamo giocando un indecente gioco al massacro. Miglior brodo di coltura al virus non potremmo offrire. Per favore, basta… diamoci tutti una regolata, perché, se non ci convertiamo, periremo tutti.

 

Biden e la forza dei nervi distesi

È molto difficile che nelle vicende umane emerga come vincitore un soggetto mite in un mondo che premia l’arroganza e l’aggressività. Ebbene nel confronto tra Donald Trump e Joe Biden, non tanto nelle urne, ma negli atteggiamenti dei giorni della campagna elettorale e in quelli immediatamente successivi alle votazioni ha prevalso in modo netto la pacatezza sull’intolleranza, la calma sulla spietatezza. Nei giorni scorsi riflettevo e temevo che Davide non avesse fionda e pietre da lanciare contro Golia, invece mi sono sbagliato. La bisaccia è quella storica dei democratici e dei loro valori, ma la faccia ce l’ha messa Biden ed è un viso accattivante per la sua semplicità.

Ho ascoltato il discorso del nuovo presidente americano: breve, semplice e molto coinvolgente, almeno per chi crede nel volto umano della politica, un discorso che merita di essere valutato ed accolto con un senso di liberazione e un po’ di ottimismo. Dico la verità: mi è piaciuto molto, mi sono persino commosso, ho pregato per lui perché possa aiutare l’America e tutto il mondo. Prendo in parola quanto detto da Lucia Annunziata: lasciateci sognare ed essere ottimisti almeno per alcuni minuti. Faccio riferimento inoltre a quanto affermato da Massimo D’Alema: negli Usa c’è un ritorno ai valori, la vita, la salute, la solidarietà, l’unità, la democrazia.

Nessun tono trionfalistico, ma una seria constatazione delle profonde divisioni esistenti nel popolo statunitense e la necessità quindi di lanciare messaggi distensivi e idee unificanti. Non sarà facile per Biden superare il clima conflittuale che si è instaurato: esistono due modi di intendere la politica, la tensione egoistica verso soluzioni sbrigative e divisive contro l’apertura dialogica e paziente verso programmi solidali. Queste due impostazioni attraversano un po’ tutte le classi sociali, donne e uomini, tutti i territori, tutte le etnie e le religioni seppure con un peso diversificato.

In politica si è soliti affermare che prima di tutto vengono i programmi e poi le persone che li portano avanti. Bisogna probabilmente cambiare questo approccio alla realtà: prima c’è il metodo, poi i valori di riferimento, poi le persone e poi i programmi. Biden sta interpretando questa nuova scaletta e speriamo riesca ad osservarla nonostante le inevitabili difficoltà che gli si presenteranno.

Nel dibattito post-elettorale molti cercano di individuare da subito le novità che si verificheranno in conseguenza del cambio alla Casa Bianca. Cosa succederà all’interno degli Usa, nei rapporti con l’Europa, nei rapporti con Cina e Russia? A me interessa che cambi il clima e che alla contrapposizione aprioristica si sostituisca un dialogo costruttivo da cui far scaturire nuovi equilibri e nuove intese nel rispetto dei valori fondamentali della democrazia. Voglio sperare che muti il metodo con cui affrontare i problemi e cercare le soluzioni. “America first” era lo slogan di Donald Trump. “Democracy first” mi pare sia quello di Joe Biden.

So già che i  critici di Biden pretenderanno la soluzione immediata delle questioni sul tappeto. In questo ha già risposto: per la pandemia metterà al lavoro un gruppo autorevole di esperti che dal gennaio prossimo, data in cui entrerà nel pieno dei poteri, gli consenta di varare un piano ben diverso dal negazionismo o riduzionismo del suo predecessore.

In campo economico in questi ultimi anni ha trionfato il “Lasciate fare”, massima assunta a simbolo del liberismo economico, adottata da Trump in tono radicale e provocatorio, un principio favorevole al non intervento dello Stato nel sistema economico; secondo questa teoria, l’azione egoistica del singolo cittadino, nella ricerca del proprio benessere, sarebbe infatti sufficiente a garantire la prosperità economica dell’intera società, secondo la metafora della mano invisibile creata da Adam Smith. Anche per effetto della crisi susseguente alla pandemia sarà invece necessario ripensare i processi economici prevedendo anche interventi pubblici che favoriscano opportunità di lavoro e difesa dei soggetti più deboli.

In conclusione spero sia veramente arrivato uno squarcio di luce nelle tenebre che ci stanno opprimendo. Ci sarà tempo e modo di verificare, di criticare, di arrivare anche a delusioni di percorso, ma qualcosa è cambiato e non di poco conto.

 

Le trumpiane mutande dell’immunità

Mi sento di affacciare una maliziosa ipotesi: se dietro la vergognosa e imbarazzante testardaggine istituzionale di Donald Trump davanti alla incontrovertibile vittoria di Joe Biden ci fosse la prosaica volontà di ottenere l’impunità per i reati di cui è accusato e, forse ancor più, di ottenere il ristoro dai debiti delle sue aziende!?

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane Bloomberg ha pubblicato un articolo sui pericoli che Donald Trump avrebbe corso se non fosse stato rieletto. Il presidente americano uscente ha una serie di processi e di accuse che sono stati “congelati” grazie alla sua posizione politica. Una volta tornato ad essere un normale cittadino, però, la macchina della giustizia si rimetterebbe in moto, a quel punto senza un’indennità presidenziale Donald Trump potrebbe anche finire dietro le sbarre dal momento che le accuse sono tante: dalla frode fino all’ostruzione della giustizia.

Il New York Times, che ha denunciato l’evasione fiscale di Trump, prevedeva: Trump farà di tutto per vincere e anche se perdesse si rifiuterà di accettare i risultati dello spoglio delle urne e chiederà di ricontarle; c’è anche chi pensa che sia disposto ad incitare la destra militarista americana a mobilitarsi, a scendere in piazza in assetto da guerra per fare giustizia della frode elettorale dei democratici. Siccome credo, nonostante tutto, che Trump non sia un pazzo scatenato, provo ad immaginare che, dietro questo gran polverone, egli stia puntando a difendere i suoi interessi, che potrebbero appunto chiamarsi impunità e ristoro dai debiti. Potrebbe tentare di alzare la posta del gioco per ottenere un colpo di spugna sulle sue numerose e gravi vicende giudiziarie. Per toglierselo dai piedi credo che Joe Biden non esiterebbe a pagare questo pur bruttissimo prezzo nel modo più coperto e indolore possibile. Molto potrebbe dipendere anche dalle maggioranze alla Camera ed al Senato: in caso di prevalenza repubblicana il rapporto istituzionale tra il nuovo presidente Biden e il condizionante potere legislativo potrebbe rientrare nella trattativa, ammesso e non concesso che al partito repubblicano interessi un’ancora di salvataggio per Trump (se lo toglierebbero dai piedi anche loro, cercando di voltare pagina dopo un quadriennio a dir poco pazzesco durante il quale il partito si è appiattito dietro le malefatte trumpiane).

Un avvocato americano di casa nei corridoi del potere e che vuole rimanere anonimo sostiene che Trump ha un piano ben diverso, una variante all’ipotesi introdotta dal sottoscritto. Se dovesse perdere (e ormai è cosa fatta), nel periodo che va da novembre fino al 21 dicembre si dimetterebbe (magari in segno di protesta aggiungo io). A quel punto Mike Pence, il suo vice, diventerebbe presidente e gli concederebbe il celeberrimo pardon, il perdono, presidenziale. È quello che fece Richard Nixon che non venne mai condannato nel processo di impeachment. Si dimise e il suo vice, Gerald Ford, lo perdonò. A quanto pare il pardon presidenziale impedisce qualsiasi causa futura, ciò significa che Trump lascerebbe la Casa Bianca mondato da tutte le accuse, proprio come fu per Nixon.

In buona sostanza il vero obiettivo di Trump sarebbe quello di cavarsi le castagne dal fuoco direttamente o indirettamente. Inoltre nel 2021 matureranno circa 100 milioni di prestiti immobiliari contratti dalle sue società, al momento gestite dal figlio, soldi che Trump non ha. Banche e finanziarie sono reticenti a rinegoziare prestiti con familiari del presidente a causa dei controlli serrati da parte dell’amministrazione pubblica, la Riserva Federale e soprattutto l’ufficio delle tasse. Diversa sarebbe la situazione se Trump non fosse più in carica. Se questa analisi fosse corretta allora Trump darebbe prova di essere una vecchia volpe e di aver capitalizzato al massimo la vittoria elettorale del 2016, essendosi sbarazzato di tutti i problemi che aveva con la legge quando è stato eletto. Tutto sommato quindi non gli dispiacerebbe più di tanto abbandonare la Casa Bianca pur di ottenere, magari con le pesanti raccomandazioni del nuovo presidente, una esiziale boccata d’ossigeno finanziaria.

In conclusione, se fosse così, povera America, che ha vissuto nelle mani di un pazzesco tycoon, il quale pretende una altrettanto pazzesca buonuscita e che vedrebbe il nuovo presidente, costretto per il quieto vivere e per l’unità nazionale, a concedergliela in qualche modo.  Ci sarebbe da farsi venire i brividi e da archiviare immediatamente l’impulso gioioso per la vittoria di Byden. Staremo a vedere e comunque resta pragmaticamente l’opportunità di brindare all’uscita di scena, speriamo definitiva, di uno squallido e potente personaggio. Il resto si vedrà: verificheremo col tempo se la politica americana riprenderà un minimo di confidenza coi valori democratici e un certo impegno nei rapporti costruttivi con il resto del mondo (in primis Ue e quindi anche Italia).

 

 

 

I virus aggiuntivi

Sento spesso, in questi giorni confusi e convulsi, accusare il governo italiano di non ristorare a sufficienza gli operatori economici ed i cittadini in genere, danneggiati dalle misure del distanziamento adottate per far fronte alla seconda ondata della pandemia da covid 19. Si azzardano al riguardo anche confronti con altri Paesi europei ed extra europei, assai più virtuosi del nostro.

È inutile nasconderci che l’Italia ha gravi ulteriori e storici problemi con cui fare i conti, problemi che complicano ulteriormente e maledettamente la situazione e rendono ancor più drammatica l’azione di contenimento del coronavirus. All’alto tasso di litigiosità tra le forze politiche che sta raggiungendo livelli indegni di un Paese civile, allo scontro tra le Istituzioni che rischia di inficiare l’equilibrio delineato esemplarmente dalla nostra Costituzione, si aggiungono quattro storici handicap che ci rovinano l’esistenza.

Parto dal fenomeno dell’evasione fiscale che ha impoverito le casse dello Stato costringendolo spesso ad operare tagli nella finanza pubblica che ora si rivelano deleteri: si pensi alla sanità ed ai trasporti, due campi in cui emerge in modo particolare la nostra debolezza nella guerra contro il virus. Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…».

C’è un secondo tarlo che rovina la nostra società nei rapporti tra politica ed affari ed è la corruzione. Questo rovinoso asset ha conosciuto un crescendo rossiniano fino a deflagrare nella fine della cosiddetta prima repubblica. Non è bastato lo scoppio di tangentopoli a frenare il fenomeno, che è addirittura progredito affinando le proprie caratteristiche fino al punto di far diventare l’Italia il Paese con il più alto livello di corruzione in Europa. Almeno in termini assoluti e non in percentuale al Pil. Ogni anno perdiamo infatti 236,8 miliardi di ricchezza, circa il 13 per cento del prodotto interno lordo, pari a 3.903 euro per abitante. La cifra della corruzione, già impressionante di per sé, è due volte più alta di quella della Francia, pari a 120 miliardi di euro e al 6 per cento del Pil e di quella della Germania, dove la corruzione costa 104 miliardi di euro (il 4 per cento del Pil). Questi sono i numeri contenuti in uno studio pubblicato dal gruppo dei Verdi europei basato sulle analisi condotte dalla ong americana RAND per il parlamento europeo, relatrice la deputata 5 Stelle Laura Ferrara. Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo: «Bizoggna butär in tazér parchè a s’ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tutti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della visione affaristico-massonica della nostra società.

Ai due punti negativi di cui sopra si aggiunge il peso di una burocrazia pesante, costosa e frenante, tale da neutralizzare anche le migliori intenzioni contenute nei provvedimenti legislativi e governativi. È un vero e proprio contro potere in grado di scombussolare la società rendendola impermeabile alla politica e paralizzandola nei suoi meccanismi istituzionali ed evolutivi. La burocrazia è stata sempre tollerata o addirittura subita dai pubblici poteri, foraggiata e “clientelarizzata” dai partiti politici, difesa e protetta dai corporativismi pseudo-sindacali. Di fronte ad essa chinano il capo i governanti e soffrono i cittadini. Anche il decentramento regionale non ha snellito le procedure, ma ha finito con l’aggiungere alla tradizionale burocrazia centrale una ulteriore burocrazia periferica, peraltro assai meno preparata, competente ed esperta.

Dulcis in fundo abbiamo la delinquenza organizzata: una sorta di quinto potere o potere parallelo. La mafia, secondo la commissione parlamentare antimafia (presidente Giuseppe Pisanu), avrebbe un fatturato, cioè ricavi pari a 150 miliardi di euro all’anno. C’è chi sostiene che il fatturato sarebbe più basso. Prendendo per buone queste stime, si può affermare che con i suoi 150 miliardi Mafia Spa, una ipotetica holding sotto la quale ci sarebbero tutte le attività delle organizzazioni criminali, sarebbe di gran lunga la prima società italiana per il giro d’affari: avrebbe 40 miliardi di ricavi in più rispetto al primo gruppo italiano, Exor, che ha 111 miliardi di fatturato.

Con queste palle al piede non è facile governare e diventa (quasi) impossibile farlo in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo. Purtroppo, mentre la battaglia contro il coronavirus ha tempi strettissimi, quella contro i virus dell’evasione fiscale, della corruzione, della burocrazia e delle mafie ha tempi biblici. Marciamo col freno a mano tirato e non serve accelerare e serve poco discutere sul percorso da fare. Rendiamocene conto, altrimenti rischiamo di dare tutte le colpe al conducente attuale, che arriva a babbo morto.

 

Amico del giaguaro e del maiale

Per l’ennesima volta ricordo cosa successe in Scozia durante la campagna elettorale referendaria sulla brexit.  La propensione scozzese – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. La porcilaia si è storicamente allargata, consolidata e si rischia di non uscirne più.

Trump ha rispettato le premesse e mantenuto le promesse: è stato il più autorevole ed acerrimo nemico dell’unità europea. Anche all’Italia ha mandato parecchi messaggi di incoraggiamento per un’uscita dalla Ue, promettendo in cambio aiuti e appoggi. Non se ne è fatto niente, forse più per diffidenza verso Trump, che per convinzione europeista.

Mentre si sta profilando un respiro di sollievo proveniente dalle cancellerie europee – anche se c’è il controcanto dei populisti e sovranisti che hanno iniziato una sorta di penosa e macchiettistica vedovanza in vista della trumpiana uscita di scena – qualcuno ha tirato in ballo una curiosa e parafrasante versione della teoria del “tanto peggio tanto meglio”. In base a questa pseudo-analisi storica l’Europa sarebbe stata opportunamente costretta a rinserrare le fila sul piano militare, strategico, politico ed economico in conseguenza della chiusura dell’ombrello protettivo americano effettuata apertamente e decisamente da Donald Trump. Una sorta di educazione al nuoto buttando in acqua il bagnante incapace di nuotare. Non ho mai creduto a questi sistemi sbrigativi del si salvi chi può. C’è un fondo di verità nel discorso dei duri rapporti tra Usa e Ue, ma non ci vedo il bicchiere mezzo pieno.

Il Santo Padre ha ricordato la sua personale ‘formula’ per far funzionare un matrimonio, ovvero quelle tre parole utili “perché la famiglia vada sempre avanti e superi le difficoltà”: “Permesso. Grazie. Scusa”. “Permesso – ha spiegato il Papa – perché bisogna sempre chiedere al coniuge, la moglie al marito e il marito alla moglie: ‘Cosa pensi? Facciamo così?’ Mai calpestare: permesso”. Grazie, perché si deve “essere grati”: “Quante volte il marito deve dire alla moglie: ‘Grazie!’. E quante volte la sposa deve dire al marito: ‘Grazie!’. Infine “scusa”: “una parola molto difficile da pronunciare. Nel matrimonio sempre – tra marito e moglie – sempre c’è qualche incomprensione. Sapere riconoscerla e chiedere scusa. Chiedere perdono fa molto bene”, ha sottolineato il Pontefice.  “Sempre nella vita matrimoniale ci sono problemi o discussioni. È normale! E succede che lo sposo e la sposa discutano, alzino la voce, litighino e a volte volano i piatti! Non vi spaventate, però, quando succede”. Il consiglio del Papa è piuttosto a “non terminare mai il giorno, senza fare pace”. “Sapete perché? Perché la guerra fredda il giorno seguente è molto pericolosa.

Strana e azzardata similitudine: evidenzia tuttavia uno stile di comportamento che può avere un senso anche nei rapporti fra Stati alleati. Trump faceva volare i piatti, ha cominciato ancor prima di essere presidente, ma non ha mai chiesto permesso, non ha mai detto grazie e tantomeno si è scusato con gli europei trattati a pesci in faccia.  Al primo incontro alla Casa Bianca con Angela Merkel, mostrò indifferenza e fastidio versa la Cancelliera che timidamente gli porgeva la mano: fossi stato al posto della Merkel me ne sarei venuto via immediatamente, segnando una distanza abissale fra due modi opposti di intendere la politica. La Merkel invece si rassegnò alla prepotenza di questo personaggio e da allora cominciò addirittura a tentare di recuperare il difficile rapporto: la realpolitik vince sempre.

Quindi niente prese di distanza e colpi di reni come teorizzano certi storici in vena di improvvisazioni. Rivendicare la propria autonomia di giudizio e comportamento non vuol dire prescindere da certi rapporti obbligatori e fare i conti con l’oste non significa berla da botte.  L’esperienza trumpiana è quindi stata negativa in tutti i sensi a livello europeo. Non è servita a niente: non ha fatto scattare nessuna reazione d’orgoglio, non ha innescato nessun processo di maturazione, al contrario ha suonato sirene pericolosissime in chi le ha volute ascoltare.  “Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io” dice un vecchio proverbio. Trump era un nemico da cui guardarsi (uso l’imperfetto e faccio politicamente i debiti scongiuri), ma si presentava con l’aspetto dell’amico ed allora il discorso si è assai complicato ed è diventato un bel casino internazionale. Il bicchiere dei rapporti Usa/Ue non si è rivelato mezzo pieno o mezzo vuoto, ma vuoto del tutto dopo aver rovesciato quanto c’era dentro. È pur vero, come sostiene la saggezza popolare, che del maiale non si butta via niente, ma ricollegandomi alle invettive scozzesi di cui sopra e condividendole pienamente, devo sconsolatamente ammettere che la saggezza popolare nel caso di Trump trova un limite: non c’è niente da salvare.

 

 

Quando la matematica (e la democrazia) diventa un’opinione

Non sono malato di patriottismo, non sono un fanatico di europeismo, ma forse mai come in questo momento mi sento orgogliosamente italiano ed europeo. Sto constatando infatti come l’orto d’oltre atlantico sia molto meno verde: lo vedo addirittura morto a causa di bruciature da concime.

L’assetto istituzionale statunitense è infatti assurdo. Gli Stati Uniti non sono mai stati così divisi e incasinati. La democrazia americana, che peraltro è sempre stata oggetto di contesa fra bande corporative al limite del criminale, è diventata un autentico circo in cui spadroneggia un inopinato clown. Dal punto di vista sociale sono incollati al razzismo al proprio interno e verso l’esterno. Un tempo tendevano ad intromettersi negli affari degli altri Paesi: la loro politica estera era quella dell’ingerenza. Oggi condizionano il mondo con il proprio egoismo nazionale fatto di muri, dazi, alleanze schizofreniche e negazioni dell’evidenza.

Se Cristoforo Colombo l’avesse immaginato non sarebbe partito, anche se lui non pensava di scoprire l’America e quindi non ha nessuna (?) colpa. Su questa paradossale torta è stata posta la ciliegiona delle elezioni in cui Donald Trump sta facendo la parte del bambino capriccioso, che, quando si accorge di perdere, scappa col pallone, mettendo unilateralmente fine al gioco. I dati elettorali a lui sfavorevoli sono truccati, il voto per posta non vale, la matematica è diventata un’opinione.

Passi il discorso strisciante del negazionismo Covid nascosto dietro il concetto della medicina che non è una scienza esatta, ma che la matematica non valga un accidente è una novità che ci insegna questo buffone a cui gli americani continuano a concedere attenzione e credibilità. La sua presidenza è tutta un trucco e non finisce di stupire: sempre più difficile, proprio come nei circhi, solo che, anziché gli acrobati, in quello trumpiano sono i clown a tenere tutti col fiato sospeso. Senza rete perché i disastri se li bevono gli altri.

Un quadro desolante complicato dal fatto che per contrastare la marcia di questo carro armato, che avanza abbattendo qualsiasi ostacolo usando qualsiasi mezzo, i cosiddetti democratici statunitensi hanno mandato allo sbaraglio un vero signore, ma un politico piuttosto debole. Golia/Trump è “alto sei cubiti e un palmo, con in testa un elmo di bronzo, rivestito di una corazza a piastre, il cui peso è di cinquemila sicli di bronzo. Porta alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia è come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesa seicento sicli di ferro”. Davide/Biden corre prontamente al luogo del combattimento, caccia la mano nella bisaccia, ma non c’è nessuna pietra da lanciare, manca persino la fionda (in un certo senso meglio così, perché lo spettro di una guerra civile post-elettorale non è da escludere).

Non so come finirà il duello. Ho fatto il tifo per Biden, ma pensavo che avesse qualche idea pesante nella bisaccia e almeno uno straccio di carisma con cui spaventare l’avversario. Spero che, in caso di sua auspicabile vittoria, si riveli migliore come presidente che come candidato alla presidenza. E qualcuno continua a ripetermi testardamente che a noi “non ce ne può fregar di meno”, che se la vedranno gli americani, che per noi tanto non cambia niente. A volte mi viene persino il dubbio che abbiano ragione, poi penso a tutti i miei insegnanti di educazione civica, ai maestri di politica vera, a quanti sono morti (anche negli Usa) per la democrazia e la giustizia, e mi vergogno come un ladro di storia e come un cane che fruga nei rifiuti.

Sono andato a rileggermi quanto ha scritto Carlo Bastasin su La Repubblica: “Tuttora per definire i rapporti tra Europa e Stati Uniti si usano i riferimenti del dopoguerra: cooperazione strategico-militare e scambi commerciali. Nel primo caso Trump sembrava avere rotto una storia di 70 anni minacciando di lasciare la Nato. A inizio 2020 le istituzioni europee avevano invocato la propria autonomia strategica e promesso una visione politica globale. In realtà, quasi tutti i leader europei aspettavano soprattutto di veder passare l’eccezione -Trump per tornare al vecchio mondo. Una nuova assertività europea è evidente nelle vicende di Bielorussia, Ucraina, Turchia e nelle critiche alla Cina per la crisi di Hong Kong. Sanzioni sono state imposte a Russia, Cina e Nord Corea per le interferenze nella sicurezza digitale e a Mosca ora anche per il caso Navalnyj. Ma nei fatti non molto è successo per rafforzare la capacità strategica europea, per la quale l’Europa spera ancora nell’ombrello americano. Biden d’altronde ha definito l’Europa «il primo e indispensabile partner». Con un nuovo presidente il distacco atlantico potrebbe dunque ridursi”. Così dovrebbe essere anche per gli scambi economici (guerra dei dazi, governo dell’economia globale), per l’ambiente, per l’agenda digitale, per la crisi sanitaria, per le spinte sovraniste, etc. etc.

Non mi resta che aspettare e sperare che Davide prevalga a dispetto di Golia. Non riesco a rimanere indifferente. C’è in gioco l’avvenire globale e vorrei tanto potermi sentire, oltre che italiano ed europeo, un cittadino del mondo.