In primo luogo, c’è bisogno di uscire dalla logica bellicista, che si picca di realismo, ma che è prigioniera di una gabbia di schematismi consequenziali e deterministi, che si sovrappongono alla realtà, con previsioni regolarmente smentite dal corso spesso imprevedibile della guerra. È necessario un recupero di buon senso e ragionevolezza. Occorre, cioè, guardare con realistica consapevolezza alla situazione di una guerra scellerata sempre più distruttiva e a rischio di entrare definitivamente in una spirale inarrestabile. La prima consapevolezza è che l’intensificazione (ed estensione) della guerra non è un vortice inesorabile. La storia non è mai predeterminata e le scelte delle donne e degli uomini possono modificare quelle che sembrano dinamiche irrefrenabili.
Nella guerra c’è spazio per l’iniziativa della società civile: per l’impegno umanitario, primo passo per la costruzione della pace, ma anche per una mobilitazione delle coscienze a favore della pace.
Nella guerra c’è spazio per la politica. Anzi, la riduzione della politica alla guerra è un’illusione, che conduce sovente a fallimenti. È della politica la responsabilità di non restare schiacciati dal presente bellico e di guardare al futuro. Durante la guerra si prepara il dopoguerra e quando non si fa si rischia di innescare processi devastanti (vedi Iraq). È tempo di pensare al futuro dell’Ucraina, come in parte già si è cominciato a fare. Ma c’è bisogno di iniziare a ragionare anche sull’architettura geopolitica del dopoguerra in Europa e su scala globale.
Prefigurare vie di uscita dalla guerra, anche per evitare costi umani e materiali enormi sempre più insostenibili dall’Ucraina, è una urgenza. Non è vero che quando sparano i cannoni si chiude ogni possibilità per l’azione diplomatica. In ogni guerra c’è stato un lavorio diplomatico alla ricerca di soluzioni. Nella guerra in Ucraina c’è spazio per la diplomazia, anzi forse è proprio questo il momento per l’iniziativa diplomatica. Consapevolezza realistica è abbandonare la insipiente alternativa: o guerra o diplomazia. Infatti, la diplomazia, se non serve a capirsi con i nemici, a che serve?
La via negoziale è tenuta aperta con pragmatismo dai militari, come attestano gli scambi di prigionieri, ma anche le conversazioni tra capi di Stato maggiore e ministri della Difesa di Russia e Stati Uniti. Le iniziative diplomatiche di Qatar ed Emirati Uniti, come anche della Turchia, hanno aperto canali di comunicazione tra Mosca e Kiev. Aprire canali di comunicazione, stabilire relazioni di fiducia è un investimento decisivo per poter immaginare percorsi di pace. In tale prospettiva anche l’iniziativa di diplomazia umanitaria della Santa Sede con la missione del cardinale Zuppi ha aperto uno di questi canali.
Questa guerra, come tutte, non è solo una partita che si gioca tra le due parti, ma è una vicenda di natura internazionale. Le prospettive di pace dipendono quindi anche dall’azione della comunità internazionale. Le iniziative in questo senso non sono di poco rilievo: una rinnovata attenzione cinese alla guerra russo-ucraina, le visite del premier indiano Modi a Mosca e a Kiev, mentre si attendono le elezioni del presidente degli Stati Uniti, sono segnali di una situazione in movimento, benché ancora incerto.
Insomma, l’attuale momento, sebbene possa non indurre a grande ottimismo, rivela la possibilità di iniziative diplomatiche di vario tipo e a vari livelli, che possono contribuire a configurare un percorso di pace, quantunque travagliato (ma potrebbe essere diverso?). È questo il tempo di audacia e creatività nell’iniziativa diplomatica a tutti i livelli. Per fare la pace bisogna darsi da fare e non crogiolarsi nell’irrilevanza o nella sterilità politico-diplomatica. (dal quotidiano “Avvenire” – Adriano Roccucci)
Ho recentemente avuto uno scambio di idee con un carissimo amico che, come me, aveva letto con grande interesse l’articolo dell’esperto Adriano Roccucci, ampiamente citato in premessa. Dopo averne giustamente apprezzato lo sforzo analitico, ci siamo impietosamente chiesti: quali sono gli spazi concreti per le urgenti iniziative di pace? Appellarsi alla diplomazia è cosa buona e giusta, ma rischia di rimanere la mozione degli affetti se non si propone qualche, seppur minima, via di concreto intervento diplomatico.
Esistono due approcci contrari al piatto e rassegnato bellicismo trionfante. Da una parte il richiamo etico-religioso all’imprescindibile binomio del perdono-preghiera: una strada apparentemente irreale, ma invece la più realistica e coinvolgente. Dall’altra parte l’appello alla diplomazia sostenuta dalla politica, spinta anche dalla mobilitazione della società civile (lo spazio sociale di intervento immediato di noi poveri mortali).
Non si intravedono sulla scena personaggi che possano fare sintesi o comunque farsi interpreti di questi aneliti pacifici. Se è vero che la storia cammina con le gambe degli uomini è ancor più vero che la pace si può raggiungere solo con percorsi individuati e battuti dagli operatori di pace (che saranno chiamati figli di Dio).
Nel secolo scorso è vissuto un personaggio paradossalmente in grado di mettere d’accordo le preghiere delle suore di clausura con i colloqui portati avanti allo sbaraglio con i nemici dell’Occidente (Urss, Vietnam del Nord, etc. etc.). Si chiamava Giorgio La Pira, non era un visionario come molti tentarono e tentano ancora di considerare: una sorta di uomo in preda a Santa follia, dimenticando che la santità è folle e la follia serve a purificare e santificare il mondo. Egli si sforzò di portare la fantasia al potere: il potere senza fantasia non può che accettare logiche di guerra a tutti i livelli.
E se questo profilo profetico lo stesse attualmente incarnando il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e uomo di fiducia di papa Francesco, prevedibilmente protagonista dei futuri assetti vaticani? Riporto di seguito una sua breve dichiarazione estratta da un’intervista rilasciata al quotidiano “Avvenire”: «Speriamo che la prossima commissione scelga di difendere le radici più profonde e vere dell’Europa che significano anche il ripudio della guerra e la scelta di trovare vie di soluzione alternative ai conflitti. Continuo a pensare che è necessaria una “Camaldoli per l’Europa”».
In poche parole ha toccato tutti gli elementi interconnessi, presupposto per lavorare ad un futuro di pace: la riscoperta delle radici europee, il ripudio della guerra, l’adozione di soluzioni alternative ai conflitti, l’impegno della Chiesa a diventare lievito per il mondo. Un intrigante mix fra religione e politica senza integralismi, ma anche senza timidezze.
Ricordiamoci che, per la Chiesa e per il mondo, i profeti non sono degli accaniti sognatori, ma dei convinti fustigatori delle derive fuorvianti e dei concreti indicatori di strade alternative, difficili ma imprescindibili.
Perché il mondo sta andando in rovina? Perché mancano i profeti e, se esistono, vengono osteggiati o ignorati o tuttalpiù accantonati con l’applauso. Senza considerare tutti i falsi profeti che ci stanno regolarmente affascinando e ingannando.