Non sono appassionato di cinema; è uno dei miei tanti buchi culturali, forse il più clamoroso. Per i film di spionaggio inoltre ho sempre avuto una sorta di ripulsa aprioristica: non ci si capisce dentro niente, i colpi di scena si susseguono senza filo logico, la trama è fine a se stessa.È quindi doppiamente normale che le attuali vicende spionistiche, in cui sembriamo immersi, mi siano piuttosto indifferenti e fastidiose. Mi riferisco agli hacker russi che sembra abbiano messo a soqquadro gli equilibri internazionali intrufolandosi addirittura nella recente campagna elettorale americana e strizzando l’occhio a Donald Trump. Penso al fenomeno delle cyberspie, che mette in bilico tutta la credibilità del sistema informatico su cui viaggiamo e che in Italia, come spesso accade, si tinge di massoneria e di poteri occulti. Faccio riferimento al datagate americano e al fenomeno WikiLeaks con la divulgazione a livello mondiale di segreti e relativa messa a soqquadro di tante (in)certezze negli assetti di potere a livello mondiale.Si ha la sensazione che esista una realtà virtuale sovrapposta e/o infiltrata rispetto a quella reale e non si riesce a capire in quale delle due noi effettivamente viviamo e ci muoviamo con la rischiosa conseguenza di veder precarizzati continuamente giudizi e comportamenti nostri e altrui.Le spie da che mondo è mondo ci sono sempre state, ne abbiamo fatto esperienza diretta a partire dalle primissime esperienze scolastiche, durante le quali a volte ci trovavamo di fronte ai voltafaccia di coetanei ritenuti amici ma pronti a tradire per ingraziarsi il maestro e la maestra di turno.Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di 4° e 5° elementare (persona che peraltro ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi, si diceva e si scriveva proprio così, vale a dire per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico, educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a contribuire a quella sciocca schedatura spionistica dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”. Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione e di spionaggio. Capii abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò in positivo il rifiuto di fronte alla classe, quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generale ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. Da mio padre s’intende.Archiviato questo significativo ricordo della mia infanzia mi trasferisco in periodo più avanzato ed in ambito molto diverso: i rapporti tra politica e servizi segreti. Due sono i riferimenti semplici al limite dell’ovvietà che mi orientano. Da una parte il grande giornalista, prestato per un certo periodo alla politica, Gugliemo Zucconi, che, con la sua simpatica verve ironica, sosteneva come in Italia avessimo l’ardire di pretendere “i servizi segreti pubblici”. Dall’altra il grande statista Aldo Moro, il quale a chi gli chiedeva un giudizio sul nostro ed altrui sistema di intelligence, rispondeva laconicamente che le spie servono anche se sono le peggiori persone esistenti sulla faccia della terra.Quindi è inutile nasconderlo: siamo alle prese con un male necessario, l’importante però sarebbe evitare che questo male, anziché allontanarne altri ben più gravi (guerre, conflitti e drammi vari) ci porti a vita apparente e morte clinica.Credo sia questo il limite invalicabile e irrinunciabile da mettere alle spie di ogni tempo, ordine e grado. Imparare a convivere con una malattia non vuol dire non curarsi, non premunirsi, non combatterla.Tanto per essere chiaro ed estremamente attuale, qual è la differenza tra Obama e Trump di fronte al fenomeno dello spionaggio. Obama non ha mai detto: «Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù…». Ha tuttavia cercato di controllare se non governare il fenomeno. Trump rischia di essere invece talmente funzionale al fenomeno da esserne un frutto proibito e pertanto un fruitore inaffidabile.Come un politico di alto livello riesca a conciliare una certa etica di comportamento con l’accettazione dello spionaggio quale presupposto di governo è un discorso molto delicato che lascio alla coscienza degli interessati. Resta tuttavia, leggendo le cronache (non si sa fino a qual punto attendibili o romanzesche) delle vicende relative alla matassa ingarbugliata dei fili segreti del potere, un senso di profondo disagio che minimalizza o addirittura annulla la voglia di combattere per un mondo migliore. Se è vero che Julian Assange non ci aiuterà a capire il mondo e a migliorarlo, altrettanto vero è che non possiamo mettere la testa nella sabbia. E allora? Auguri e figli di ambo i sessi, con la speranza che non diventino mai le spie dei loro simili, ma che siano la spia della voglia di cambiare il mondo.