Il personaggio. Perché Draghi «imbarazza» destra e sinistra. L’attacco – con retromarcia – di Meloni e la freddezza di Schlein su eventuali incarichi europei sono due lati della stessa medaglia (…) I motivi di questo «imbarazzo» che Draghi crea a destra e sinistra sono probabilmente imputabili alle dinamiche politiche contemporanee, sdraiate su slogan e proclami che già in premessa si sa essere irrealizzabili. E alla consapevolezza che però l’azione di governo – nazionale, europea e sovranazionale – richiede una dose di realismo e pragmatismo che l’ex capo della Bce, da tecnico, ha potuto quasi ostentare, non dovendo temere contraccolpi elettorali. Col senno del poi, è forse proprio questo «imbarazzo» dei partiti rispetto al profilo di Draghi ad averne ostacolato l’ascesa al Colle più alto. (dal quotidiano “Avvenire” – Marco Iasevoli)
Il discorso, al di là delle “piccinerie meloniane” (che ho già avuto modo di stigmatizzare ironicamente), merita considerazione e approfondimento. Teoricamente ha un suo fondamento positivo nel ribadire il primato della politica rispetto alla tecnica (automaticamente ed inevitabilmente promossa a tecnocrazia), concretamente evidenzia l’imbarazzo dei politici a riconoscere i propri limiti ed i propri difetti, coperti dal populismo propagandistico ed elettoralistico.
Mario Draghi fu insediato a palazzo Chigi da Sergio Mattarella per affrontare le varie e clamorose emergenze fra le quali spiccava, quale causa-effetto, quella della inadeguatezza della politica (sarebbe meglio dire dei politici). Visto che la ricetta tendeva a funzionare, i politici non trovarono di meglio che mandare a casa Draghi, guardandosi bene dal fare i necessari mea cupa e offrendosi sguaiatamente in pasto al recalcitrante e disgustato elettorato.
Siamo fermi lì. Quando la politica risente odore di Draghi si irrigidisce perché lo teme e anziché coinvolgerlo in un processo di rinnovamento politico-programmatico preferisce esorcizzarne la scomoda presenza. Nemmeno l’ascesa al Colle, che poteva essere un modo elegante per giubilarlo, fu praticata, anche perché effettivamente quello non poteva e doveva essere il ruolo di Mario Draghi.
Adesso spuntano, in un orizzonte piuttosto nebbioso, le prospettive di un ritorno draghiano in Europa, cosa che scombussolerebbe le tattiche elettorali e soprattutto i riti politici di una Ue stantia e avvitata su se stessa per far spazio a populismi e sovranismi più o meno dichiarati.
Gli schieramenti politici piuttosto labili e confusi verrebbero messi a dura prova: un Draghi in primo piano richiederebbe una sorta di grande coalizione europeista assai problematica, una sorta di rifondazione europea che toglierebbe finalmente la terra sotto i piedi dei nazionalisti più o meno camuffati.
Si capiscono molto bene le perplessità delle destre italiane ed europee, un po’ meno quelle delle sinistre. Mentre le prime temono di perdere irrimediabilmente terreno costrette a fare i conti col pragmatismo di alto bordo, le secondo temono di non riuscire a mantenere uno straccio di identità da esibire ai loro potenziali elettorati.
Proporre il laboratorio Draghi anche in Europa, dopo il suo affossamento italiano, risulta oltre modo problematico, anche perché a livello europeo non vedo uno o più garanti del livello mattarelliano. Noto una certa forte ritrosia draghiana, che non mi pare caratteriale o tattica, ma intelligente e prudente.
Draghi conosce bene i suoi polli italiani ed europei e non vuole essere impallinato dal fuoco incrociato di europeisti ed antieuropeisti, diventando il paravento per un’Europa che tira a campare. Anche perché forse lui non ha la tempra del vero e proprio statista, è più un gestore illuminato che un rifondatore carismatico. Non si può pretendere l’impossibile. E allora lui dirà: tenetevi i vostri governanti di serie c e lasciatemi in pace…