“Viva l’Italia antifascista”, così ha gridato un loggionista al termine dell’inno nazionale eseguito all’apertura della stagione lirica scaligera con la rappresentazione del don Carlo di Giuseppe Verdi.
Un grido che ha fatto giustizia di tutte le componenti anomale della serata: la vergognosa presenza nel palco reale di un presidente del Senato, che, a dir poco e volendo usare un eufemismo, non è un antifascista; la passerella dei rappresentanti di un governo che con il fascismo tradizionale e con quello nelle sue più moderne versioni ha parecchi conti in sospeso; gli onori (?) di casa fatti da un sindaco di sinistra (?), che non è capace di astenersi sobriamente dalla sfilata sul red carpet e dall’esibirsi in un palco reale che fa a pugni con l’altra Milano, quella di chi protesta e soffre; la prima fila di chi, nascondendosi dietro Liliana Segre o mettendosi al suo fianco, tenta di coprire il passato di fascismo, nazismo e antisemitismo con un acritica e opportunistica vernice filo-israeliana; la retorica di chi pensa che l’Unesco, proclamando la pratica del canto lirico italiano a elemento del patrimonio immateriale dell’umanità, abbia assolto la incultura degli attuali governanti, in particolare del ministro della cultura (intervistato al riguardo) ormai universalmente ribattezzato ministro dell’ignoranza (se per Sangiuliano Dante Alighieri era il fondatore del pensiero di destra, Giuseppe Verdi, potrebbe essere un romantico sognatore sovranista e populista); il leccaculismo di chi, facendo un fastidioso, fuorviante e mondano fumo mediatico, ritiene di svolgere un servizio pubblico funzionale alla valorizzazione artistico-culturale del Paese.
Bene ha fatto il presidente Mattarella a non presenziare alla prima della Scala: ha lasciato la scena a chi deve prendersi le proprie responsabilità, non ha voluto coprire, col suo prestigio e con quello della Scala di Milano, una fase politica assurda e negativa da tutti i punti di vista. Giorgia Meloni, probabilmente, temeva i fischi del pubblico e ha messo in primo piano i fiaschi del suo governo.
La Rai ha avvolto l’evento con un complesso di personaggi di contorno che di opera lirica non sanno un cazzo, ma lo dicono bene. Volete una sintesi? Roberto Bolle, che balla nel manico: da ospite della Scala a ospite di Sanremo. È detto tutto. Questa è l’aria che tira!
L’opera è inevitabilmente rimasta sullo sfondo anche se si è cercato di darne, da parte dei commentatori, una lettura pseudo-culturale fatta di luoghi comuni, di interpretazioni storiche forzate e di retoriche varie: roba da far scaravoltare nella tomba, Schiller, Verdi, François-Joseph Méry, Camille Du Locle, Achille De Lauzières e Angelo Zanardini.
Resta l’evento teatrale ben confezionato da un direttore che non emoziona ma svolge bene il proprio compito, da cantanti intenti più ad esibire le proprie virtù canore che a calarsi nei personaggi, da scenografo, costumista e regista talmente tradizionalisti da far quasi rimpiangere le baggianate nuoviste. Mi sento in dovere di sottolineare la classe di Anna Netrebko, cantante di un altro pianeta rispetto ai pur bravi colleghi. E pensare che Bruno Vespa, da presuntuoso quanto insopportabile ed incompetente commentatore della serata, ha osato affermare che dopo alcune incertezze il soprano si è riscattato nel finale dell’opera. Non ha capito niente. In politica usa soltanto il più disgustoso degli opportunismi, nella musica e nel teatro si concede il lusso di dare aria ai denti. Con quella bocca può dire ciò che vuole…