Rimpatrio forzoso di migranti che costituiscono un rischio alla sicurezza, possibilità di agire sui visti, vincolare gli aiuti allo sviluppo alla cooperazione sul fronte migratorio. Sull’onda degli attacchi di Bruxelles e Arras, l’Europa si ripiega sulla paura all’insegna della «fortezza». Anche la giornata di ieri è stata costellata di allarmi. Dieci aeroporti chiusi per allerta bomba in Francia (non Parigi), chiuso anche lo scalo di Ostenda, in Belgio. Allarme bomba pure alla Reggia di Versailles, rivelatosi falso, mentre nella notte tra martedì e mercoledì a Berlino si sono registrati scontri tra la polizia e manifestanti pro-Hamas, con 20 agenti feriti.Un clima di alta tensione, nel quale si inserisce la decisione dell’Italia del ripristino, dal 21 ottobre, dei controlli di frontiera al confine Schengen con la Slovenia. Una decisione, ha dichiarato la premier Giorgia Meloni, che «si è resa necessaria per l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, l’aumento dei flussi migratori lungo la rotta balcanica e soprattutto per questioni di sicurezza nazionale, e me ne assumo la piena responsabilità».
È l’incipit della corrispondenza da Bruxelles di Giovanni Maria Del Re del quotidiano “Avvenire”, che la dice lunga sul clima esageratamente conseguenziale agli atti terroristici innescati dalla guerra tra Hamas e Israele. Ho usato il termine esageratamente per alcuni precisi motivi che tento di seguito di spiegare.
Illudersi di combattere il terrorismo islamico con misure restrittive e poliziesche è fuorviante e illusorio. Posso capire che si voglia mandare alle pubbliche opinioni europee un messaggio tranquillizzante, ma personalmente non sarei molto tranquillo. Il fenomeno terroristico ha radici etniche, religiose e sociali molto profonde, che non si rimuovono certo sigillando le porte della stalla quando i buoi sono tutti dentro ma ben inseriti e confusi nella mandria.
Gli atti di terrorismo interno altro non sono che eruzioni provenienti da una pentola internazionale sempre in ebollizione: l’attacco di Hamas ad Israele l’ha fatta debordare e quindi… In questa pentola c’è il brodo dell’ingiustizia nei rapporti tra i popoli, c’è il collegamento inevitabile col fenomeno migratorio, c’è tanto disagio sociale delle nostre città al limite della psicopatologia, c’è un gigantesco odio religioso con la spinta al martirio. Coperchiare questa pentola è impossibile, meglio tentare almeno di scolmarla con politiche di aiuto mirato verso i Paesi rientranti nel bailamme e di integrazione verso i migranti al fine di disinnescare la miccia terroristica, di dialogo con i capi religiosi musulmani al fine di evitare il rischio di radicalizzazione nelle carceri e nei punti caldi del territorio.
Combattere il terrorismo cercando gli aghi islamici impazziti nel pagliaio della nostra società è autentica follia repressiva, anche perché si tratta di “lupi solitari” che operano singolarmente o in piccole aggregazioni solo ideologicamente legate alle centrali del terrore. Il clima si è fatto oltre modo favorevole a questi sfoghi: in territorio arabo ribollono le piazze, in territorio europeo esplode la violenza dei kamikaze.
In questi giorni ho ascoltato analisi politiche che assegnano il merito nostrano di una relativa difesa contro il terrorismo all’azione di polizia e magistratura. Mi permetto di dissentire categoricamente. La nostra forza difensiva si basa su un passato geopolitico costruito dalla lungimirante azione dei nostri governanti verso i palestinesi e gli Stati arabi, quella dei Fanfani, dei Moro, degli Andreotti, dei Craxi, dei Prodi e dei D’Alema; dalla profetica azione dei Dossetti e dei La Pira; dalla impronta economica aperta e coinvolgente degli Enrico Mattei.
Alessandra Sardoni, ottima giornalista del “la 7”, ha avuto in questi giorni il merito di riportarci al 2006, quando, durante gli attacchi Hezbollah a Israele, in una seduta del Senato Italiano parla il senatore a vita Giulio Andreotti: “Ognuno di noi se fosse nato in un campo di concentramento e da 50 anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire sarebbe un terrorista”. Riflettiamo seriamente su queste parole, sentiamocele addosso.
Non rinneghiamo le politiche aperturiste sull’onda emozionale del tragico momento che stiamo vivendo. Ragioniamo anche con un pizzico di realismo e di opportunismo, non facciamoci trascinare nel gorgo oltranzistico della guerra, anche perché dichiarare guerra al terrorismo è proprio quello che si aspetta da noi il terrorismo stesso. Non regaliamogli i palestinesi e i disperati dell’emigrazione. Teniamo i nervi a posto: non esistono risposte facili ed immediate a problemi enormi e tragici. Facciamo pure attenzione ai soggetti equivoci, allertiamo tutto l’allertabile, ma ben coscienti che le alluvioni, anche quelle belliche e terroristiche, si evitano a monte e non a valle.
A proposito di alluvioni, tema sempre di grande attualità, voglio riprendere per l’ennesima volta una battuta velenosa di mio padre. Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti di un tempo, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”, mio padre rispose: “Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Non illudiamoci quindi di alzare argini di carta assorbente per contenere l’alluvione terroristica.