L’anniversario del mio divorzio dalla gerarchia cattolica

Ieri, 1° dicembre 2020, ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’introduzione in Italia della Legge sul Divorzio, la Legge Fortuna-Baslini, ovvero la n. 898 – “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, elaborata da Loris Fortuna e da Antonio Baslini. La strada per giungere a questo risultato è stata davvero molto lunga e ancora oggi la Legge sul Divorzio è oggetto di critiche e soprattutto di riforme.

Fu un grande risultato e forse segnò l’inizio di una trasformazione sociale del Paese, ma ovviamente la strada da percorrere rimaneva ancora lunga, perché l’Italia cattolica, quella antidivorzista, non si volle rassegnare; chiese il referendum, affinché fossero direttamente i cittadini ad esprimere le loro volontà. Ci vollero più di tre anni per andare a votare, ma dopo aver depositato alla Corte di Cassazione, 1 milione e 300 mila firme, il 12 maggio 1974 l’Italia si recò alle urne per votare per il Referendum sul Divorzio: si doveva decidere se abrogare o meno la Legge Fortuna-Baslini. Al Referendum partecipò l’87,7 percento degli italiani aventi diritto di voto.

La Legge, grazie a quasi il 60 percento dei no, resta in vigore. Il divorzio prevede lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio quando i coniugi dimostrano di non avere più alcun motivo, spirituale e materiale, per continuare a condividere la propria vita. Lo scioglimento è previsto per il matrimonio civile, si parla di cessazione degli effetti civili del matrimonio per quello concordatario (o religioso). Prima di giungere al divorzio, i coniugi devono registrare la loro separazione legale durante cui dimostrano di non coabitare. La Legge sul Divorzio del 1970 è stata modificata dalle leggi 436/1978 e 74/1987, quest’ultima ha ridotto il periodo di separazione da 5 a 3 anni.

Voglio celebrare questo anniversario ricordando una piccola vicenda personale, vissuta direttamente, pagata sulla pelle di cattolico impegnato e più o meno adulto. Non è la prima volta che la propongo, ma penso che serva a rendere l’idea della mia mentalità e della mia partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale (come mi ha insegnato mia sorella Lucia).

Nel 1974, anno in cui si tenne il suddetto referendum, collaboravo con il settimanale cattolico parmense Vita Nuova, testata prestigiosa, ricca di storia, diretta da un caro ed indimenticabile amico, gestita da una cooperativa, costituita tra i lettori del giornale; eravamo in pieno clima post-conciliare, con qualche timido ma significativo segnale di apertura al laicato, al dialogo con il mondo contemporaneo, all’attenzione ai problemi sociali e politici.

Il discorso si fece molto serio perché il direttore lavorò alla costituzione di un vero e proprio gruppo redazionale, che assemblava sensibilità e preparazioni diverse, che combinava sacerdoti e laici, che voleva interpretare la società parmense senza alcun intento integralista ma portando la voce dei cattolici nella vita cittadina: la redazione muoveva i primi passi, tenuta abilmente e premurosamente per mano dall’esperto direttore, acquisiva, strada facendo, una sua dignitosa funzione, si stava imponendo come stile nuovo ed esperienza concreta di dialogo all’interno della comunità diocesana.

Sui passi ancora incerti della redazione cadde il macigno del referendum sul divorzio, che la gerarchia cattolica aveva indirettamente promosso, che la Democrazia Cristiana aveva inopinatamente subito, che stava dividendo assurdamente i cittadini italiani in guelfi e ghibellini, laici e cattolici, che apriva il solito artificioso dibattito tra favorevoli e contrari, che ributtava indietro la vita politica italiana creando confusione e contrapposizione.

Il direttore Egisto Rinaldi nella sua limpida coscienza ritenne di schierarsi apertamente per il sì all’abrogazione, in linea con gli indirizzi della gerarchia anche a livello parmense. Niente da obiettare, ma durante una vivace e seria discussione la redazione chiese di poter aprire un dibattito al proprio interno riportandone gli esiti ai lettori.  La direzione del giornale accolse la proposta, il dibattito si svolse e fu magistralmente riportato su due paginoni del settimanale con tutte le precauzioni e precisazioni che la delicatezza del caso meritava. Emerse una posizione diversificata e venne evidenziata anche la posizione di chi (io fra di essi) faceva la distinzione tra la questione religiosa (indissolubilità del sacramento) e la questione politica (inopportunità di imporre per legge un principio religioso), dando una interpretazione avanzata della laicità della politica, basata sulla distinzione dei piani, collegati solo dalla coscienza della persona e non da imposizioni dall’alto.

Fin qui il nostro compito di redattori ed il nostro pensiero di cattolici impegnati: tutto nella chiarezza, nella diversità delle opinioni, nella garanzia del permanere nel campo dell’ortodossia, fornita dalla posizione del direttore e ben precisata ripetutamente sul settimanale. Non bastò a scongiurare il temporale, che francamente non immaginavo: il percorso era stato così lineare da prevenire polemiche e strumentalizzazioni. Invece mi sbagliavo perché il vescovo intervenne pesantemente, sentendosi in dovere di censurare nel merito e nel metodo la nostra iniziativa.

La reazione fu immediata, proporzionata e responsabile: dimissioni. Restò in carica solo il direttore in quanto lo ritenemmo fuori da ogni discussione. Ma non finì così perché chiedemmo un incontro al Vescovo e ci fu concesso: fu chiarificatore ma in senso negativo. Il Vescovo ribadì che a suo giudizio eravamo totalmente fuori strada e, pur concedendoci la buona fede, ci considerava ai limiti della comunione ecclesiale: stavamo sbagliando, dovevamo riconoscerlo.

A quel punto ricordo di essere intervenuto rincarando la dose ed affermando che ritenevo di avere diritto ad esprimere il mio parere anche su questioni di carattere ecclesiale, più che mai su questioni politiche anche se collegate a problemi etici e che non tutta la gerarchia era schierata sulle posizioni assunte così rigidamente dal Vescovo. Dissi precisamente al Vescovo: “Sappia monsignore che non tutti i suoi confratelli nell’episcopato la pensano esattamente come Lei!” La riposta fu: “Non è vero!” Si chiuse negativamente l’incontro anche e soprattutto perché non si era creato quel feeling che, nonostante tutto, deve esistere, tra padre e figli. Non c’era dialogo. Ne discutemmo ancora a livello di assemblea dei soci della cooperativa: si tentò di recuperare la situazione guardando avanti e sperando che, passato il ciclone divorzio, si sarebbe potuto ripristinare il collegamento. Fummo irremovibili e tutto finì. Fine della redazione di un settimanale cattolico. Da allora non misi più piede in strutture aventi un filo diretto con la gerarchia e…rottura insanabile con essa!