Un secco “no” al coprifuoco sentimentale

Mi fa sinceramente pena la superficialità e l’infantilità con cui si sta pensando alle prossime feste natalizie in chiave (anti) Covid. Innanzitutto – non voglio essere più catastrofico della catastrofe che stiamo già vivendo – bisognerebbe augurarsi di arrivare a questo appuntamento e chiedersi dove lo potremo vivere seriamente, se su questa terra o nell’aldilà. La precarietà, che è il dato caratteristico e inquietante di questo periodo, ci impone di vivere alla giornata, non nel senso di deresponsabilizzarci rispetto al futuro, ma per prepararci ad esso in modo ragionato e disincantato.

Ammesso e non concesso di arrivare al traguardo natalizio, smettiamola, per favore, di pensare solo ai cenoni ed ai pranzi. Rimanere incollati a questa visione consumistica significa non avere capito niente del Natale e del “messaggio covidiano”. Certo il Natale non farà che accentuare il dramma dei difficili (al limite dell’impossibile) rapporti umani ravvicinati: quindi il problema non sta tanto sulla tavola ed intorno ad essa, ma nel riuscire a difendere i nostri sentimenti dall’attacco divisivo del virus. Personalmente non vedo altra strada se non l’approfondimento dei nostri reciproci sentimenti a prescindere dalle occasioni per esternarli, o meglio, selezionando queste occasioni e valorizzandole interiormente.

Affermo con assoluta convinzione di non rinunciare a coltivare i miei legami sentimentali in nome di una pseudo-difesa fisica contro il “virus nero” che vuole mangiarmi. Se essere negazionisti vuol dire non piegarsi alla logica brutale dell’isolamento e della chiusura in se stessi, mi iscrivo anch’io a questo partito, di per sé paradossale, demenziale e masochistico. Se per vivere devo rinunciare a vivere, meglio morire. Però l’unico dato irrinunciabile della nostra esistenza non sono le feste, i balli, i cenoni, i pranzi, gli apericena, le merende al ristorante, le colazioni al bar, le serate spensierate e i botti, l’essenza del nostro vivere non è nemmeno coltivare gli interessi culturali, visitando mostre, musei, librerie, partecipando a convegni e concerti, frequentando discoteche, teatri, cinema etc. etc.,  l’importante è “il cuore” e quanto contiene.

Il coronavirus potrà vuotarmi le tasche, rinsecchirmi la pancia, financo condizionarmi la mente e incasinarmi la psiche, ma il cuore non me lo può toccare, anzi me lo arricchisce e mi costringe a rivalutarlo pienamente. “Un caffè con un amico vale più di qualsiasi libro”. Questa frase sta nel film “Centochiodi”, che è un film di Ermanno Olmi, girato nel 2007: mi ha cambiato la vita. Ricordo di averla letta in anteprima durante una seduta di lettura giornaliera. Ho rimesso negli scaffali tutti i libri che avevo in ballo e sono uscito alla spasmodica ricerca di un amico. Mi si dirà che adesso non lo si dovrebbe più fare: ebbene, telefoniamo ad un amico. D’altra parte credo proprio che Olmi intendesse paradossalmente fissare una scala di priorità imprescindibile a livello esistenziale.

Accetto il “coprifuoco logistico” e sarei ancor più deciso in tal senso, ma rifiuto categoricamente il “coprifuoco sentimentale”. Ecco perché mi fanno sorridere le preoccupazioni natalizie riferite agli aspetti esteriori della festa. Abbiamo da tempo accantonato il significato religioso del Natale, ne abbiamo fatto un totem consumistico e affaristico. Forse anche il Covid ci impone di rivedere questa assurda mentalità: torniamo al vero Natale, quello che non teme i virus, quello che dà un senso profondo alla nostra vita e niente e nessuno ce lo potrà togliere.

Quando si avvicinavano le feste di Natale mio padre registrava quasi con fastidio, con un notevole senso di sorpresa, una ricorrente domanda che gli veniva formulata “Indò vät par Nadäl “. Questo succedeva nel periodo delle vacche grasse, perché, quando regnava sovrana la miseria, tali richieste sarebbero risuonate assurde per non dire offensive. E la risposta, pronta e spontanea anche se un po’ risentita e giustamente provocatoria, fulminava l’interlocutore: “Tutti, s’ j én lontàn, i fan di vèrs da gat  par gnir a ca’, e mi ch’a són a ca’ vót ch’a vaga via?” . Si trattava, a ben pensarci, di un libero rifacimento del classico “Natale con i tuoi”, ma un po’ più ragionato e motivato da una logica stringente e indiscutibile che inchiodava, col buon senso, chi proponeva l’evasione in una pur legittima uscita dagli schemi. Per mio padre non se ne poteva neanche parlare: Natale=famiglia e basta così. Questa battuta, che spesso in vista del Natale mi capita di rammentare, viene a fagiolo in clima Covid ed a chiosa del discorso appena fatto.