Il papaccio, il pretaccio e il…lavoraccio

Quando mi capitava di incontrare un simpatico e cordiale amico, un vecchio socialista verace, sapevo fin dall’inizio dove andava a parare il dialogo politico: di qualunque aspetto si parlasse la lingua batteva sul dento dolente del lavoro. Gli rendo merito e testimonianza dedicando alcune riflessioni al tema del lavoro, mettendo a provocatorio confronto la drammatica problematicità del momento storico con gli insegnamenti di papa Francesco, mutuati letteralmente dalla recentissima enciclica “Fratelli tutti” e riportati in corsivo, riservando poi al lettore un finale a sorpresa (un colpetto di scena).

Il fatto è che «la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio». Parole come libertà, democrazia o fraternità si svuotano di senso. Perché, in realtà, «finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale». Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante.

Come sintetizza una importante ed interessante ricerca pubblicata su “La Repubblica”, l’Italia celebra l’11 ottobre la sua settantesima giornata nazionale per le vittime del lavoro. E mai come quest’anno nella ricorrenza, assumono un “sinistro” rilievo i numeri di una strage silenziosa che non conosce contrazioni: sono le stimmate della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua distratta e cinica classe dirigente. Da gennaio ad agosto di quest’anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi dal lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica.

L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.

È inutile ed ipocrita imbastire un paradossale contrasto fra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro: vale per l’industria inquinante, vale per le attività economiche che producono armi e strumenti di morte, vale per il clima di pandemia in cui sembra che sia meglio sacrificare l’incolumità alla possibilità di lavorare e non impoverirsi. Il difetto sta nel manico, nella scala di valori in cui abbiamo messo al primo posto la proprietà privata e la ricchezza fine a se stessa. La pandemia sta facendo scoppiare le contraddizioni del nostro sistema e mette in evidenza come siano stati posti in secondo piano i diritti fondamentali alla salute ed al lavoro rispetto alla alienante e scriteriata produzione purchessia, addirittura cartolarizzata nella mera speculazione finanziaria.

Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro». Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.

La Costituzione italiana esordisce dichiarando che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Più avanti nel titolo riguardante i rapporti economici parla di tutela del lavoro, di equa retribuzione, dei diritti della donna lavoratrice, di iniziativa economica libera, che però non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, di funzione sociale della proprietà privata. La bussola della vita del nostro Stato è orientata inequivocabilmente verso il lavoro per tutti e a condizioni dignitose e garantiste.

Il caro ed indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia coglieva i gesti liturgici e, genialmente ed immediatamente, li allargava dal loro religioso simbolismo all’impatto esistenziale. Durante la celebrazione del Battesimo sull’altare venivano posti due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Vale anche e soprattutto per il discorso del lavoro a cui sto facendo sofferto riferimento. Questo, secondo i detrattori del cavolo (resisto alla tentazione di usare un termine volgaruccio che lascio alla facile intuizione del lettore), anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Per fortuna è arrivato papa Francesco, il papaccio che rende giustizia al pretaccio.