Sanità non fa sempre rima con santità

Del batterio killer in un reparto pediatrico a Verona si era parlato qualche tempo fa in sarcastica coincidenza con la scorpacciata di ciliegie da parte di Matteo Salvini mentre il presidente della regione Veneto Luca Zaia parlava dell’inchiesta in occasione di una conferenza stampa. La penosa esibizione del leader leghista aveva in senso mediatico prevalso sulla delicatezza e gravità della questione dell’infezione, che ha causato morti e danni irreversibili a parecchi bambini, presumibilmente dovuta ad un batterio sconosciuto e contro il quale non si era potuto intervenire efficacemente. Già questo fatto della “devianza mediatica” la dice lunga e induce a serie riflessioni sul come e cosa stiamo vivendo. La notizia che aveva fatto scalpore non era tanto il dramma sanitario, ma la figuraccia di un Salvini in versione menefreghismo gastronomico. Giusto scandalizzarsi, eccome. Tuttavia rimaneva e rimane soprattutto il fatto inquietante di una sanità annichilita di fronte ad un batterio e imprigionata in comportamenti al limite della malasanità.

Affronto la questione facendo riferimento alla cronaca di Enrico Ferro su La Repubblica. Finalmente, dopo un anno e mezzo di verifiche e soprattutto dopo la battaglia legale avviata da una mamma, si scorge uno spiraglio di verità nella tragedia del Citrobacter all’Ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento a Verona. Dopo la morte di quattro neonati e la chiusura del reparto, ora si scopre che il batterio letale si era annidato in un rubinetto dell’acqua utilizzata dal personale della Terapia intensiva neonatale e anche nei biberon. Carenze igieniche, sottostima del problema e protocolli di sicurezza non rispettati, tutto questo ha generato una epidemia. È la conclusione a cui giunge la relazione di una delle due commissioni nominate dalla Regione Veneto, come indicato dal Corriere del Veneto.

Si tratta della cosiddetta “commissione esterna”, coordinata da Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’Università di Padova. Secondo le conclusioni della commissione esterna, il Citrobacter avrebbe colonizzato il rubinetto forse a causa di un mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene. Ricorrere all’acqua del rubinetto e non a quella sterile, è stato probabilmente un errore fatale. I primi controlli da parte dei vertici dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Verona erano stati avviati a gennaio poi erano stati interrotti a causa dell’emergenza coronavirus. L’intero reparto di Ostetricia – Punto nascite, Terapia intensiva neonatale e Terapia intensiva pediatrica – è stato riaperto, dopo che il 12 giugno scorso il direttore generale dell’Aou veronese, Francesco Cobello, ne aveva disposto la chiusura, procedendo alla totale sanificazione degli spazi. Un’altra relazione sarà consegnata alla Procura della Repubblica di Verona.

Il Citrobacter ha ucciso Leonardo a fine 2018, Nina a novembre 2019, Tommaso a marzo scorso e Alice il 16 agosto scorso. Altri nove hanno riportato lesioni cerebrali permanenti mentre sarebbero addirittura 96 quelli colpiti dal batterio. Decisiva nella vicenda la perseveranza di Francesca Frezza, madre di Nina: “Nina ha subito accanimento terapeutico. Ci è stato negato di avere accesso alla legge 219, non è mai stata attuata una programmazione condivisa di cura, nonostante la prognosi infausta che confermava l’irreversibilità della malattia e la non aspettativa di vita. Le è stata negata la terapia del dolore tramite le cure palliative (legge 38). Nina ha trovato pace e dignità solo dopo aver chiesto le dimissioni e averla trasferita all’ospedale Gaslini di Genova, dove è stata amata e “curata” con amorevole assistenza fino al suo ultimo respiro. Ho voluto raccontare la mia vicenda non per avere giustizia, in questo confido pienamente nella procura di Verona, ho chiesto ascolto affinché da questa tragedia avvenga il cambiamento, perché non succeda più e per lanciare un messaggio che in Italia le cure Palliative esistono e tutti i bimbi malati e inguaribili sono un bene prezioso della società, vanno tutelati e rispettati come persone e come individui”.

Fin qui la cronaca oltre la quale si intravedono delle brutte “magagne”. Durante la degenza ospedaliera di mia sorella, che ormai preludeva purtroppo alla sua fine, mi sforzavo di esserle vicino e questi miei tentativi erano apprezzati dagli altri degenti, i quali lanciavano messaggi consolatori del tipo: “Lei è fortunata ad avere un fratello così premuroso…”. Mia sorella non gradiva e, con il suo realismo al limite della spietatezza, rispondeva: “Non è oro tutto quel che luccica…”. Il discorso vale anche per “la sanità in odore di santità” in conseguenza dell’esperienza covid. Come del resto tutte le esperienze umane, anche nei reparti ospedalieri si fa molto, anzi moltissimo per i pazienti, ma si commettono anche errori e leggerezze. Mio padre, dopo aver subito un grosso intervento chirurgico andato a buon fine, ammetteva di non avere abbondato in elogi e ringraziamenti verso il personale ospedaliero e si chiedeva: “Se l’intervento fosse andato male, saremmo stati pronti col fucile spianato a scaricare colpe sugli operatori sanitari. È andata bene e tutto tace!”.

Detto questo bisogna pur ammettere che qualcosa non ha funzionato nell’ospedale veronese finito nell’occhio del ciclone e soprattutto che spesso all’interno delle strutture sanitarie esiste un colpevole silenzio di fronte ai propri limiti ed errori, una certa reticenza ad ammetterli che indispettisce e infastidisce. Certo, se per me commettere un errore nel redigere un bilancio contabile era grave pur non mettendo a rischio la vita di nessuno, per un medico l’errore può essere fatale ed avere conseguenze disastrose.

Poi emerge anche il discorso dell’accanimento terapeutico: questione delicatissima sollevata dalla madre di una vittima. Purtroppo la missione del medico è contenuta in mezzo a due paradossi. Da una parte la necessità di non rassegnarsi mai di fronte alla malattia: non c’è più niente da fare, mentre, come diceva il mio caro medico e amico, “c’è sempre qualcosa da fare”; dall’altra parte la consapevolezza che la vita della persona va difesa nel rispetto di essa e non a prescindere dalla persona e dai suoi diritti. Anche perché, come ebbe autorevolmente a dirmi un medico specialista a cui mi ero rivolto ripetutamente per approfondire certi miei disturbi, la medicina non è una scienza esatta, assai più collegabile alla letteratura che alla matematica. Forse è anche per questo che le inchieste in campo sanitario finiscono sempre in una bolla di sapone: c’è senz’altro un forte spirito di corpo che blocca sul nascere l’accertamento della verità, ma c’è anche una obiettiva difficoltà ad individuare precise responsabilità in un campo così difficile e complesso. “Io voglio andarci fino in fondo” sosteneva un mio conoscente sull’orlo dell’ipocondria. E una voce fuggita dal seno di un collega gli rispondeva laconicamente: “In queste cose non ci si arriva mai in fondo…, se non per andare al cimitero… “.