Tra preoccupante sconforto e baldanzoso delirio

Nella mia poco spensierata vita fanciullesca avevo due riferimenti extra-familiari: l’asilo e il teatro. Il primo mi dava ansia al limite dell’angoscia, il secondo mi dava gioia. All’asilo andai solo un anno: non mi piaceva, soffrivo nel mescolarmi agli altri bambini, mi preoccupavo di non riuscire a scrivere con gli stampini per la paura che mi venissero sottratti dai miei coetanei più furbi di me, non mi sentivo a mio agio. Chissà quali catastrofiche vitali premesse avrebbe dedotto uno psicologo. Basto io per dirvi che fu l’inizio di una sofferta e mai vinta lotta contro l’insicurezza. Per fortuna c’era il teatro, il Regio, con cui ebbi il primo approccio a quattro anni per assistere a “Un ballo in maschera” di Verdi (per la cronaca, Bergonzi, Stella e Silveri gli interpreti), per poi fare l’ingresso ufficiale il primo gennaio 2007 con una memorabile Turandot. Così la mia infanzia trascorse anche fra il panico dell’asilo prima e della scuola poi e l’estasi del teatro: due istituzioni fondamentali nella vita di una persona e di una comunità.

Purtroppo dopo tanti anni sono ancora qui a fare i conti con l’ansia che dilaga e con la gioia che si restringe (manco a farlo apposta infatti i teatri sono chiusi e chissà quando potranno riaprire i battenti). Ho letto una interessante intervista ad un pedagogista che dà alcuni consigli ai genitori in occasione del prossimo rientro a scuola dei loro figli: evitare di caricare di paure e ansie il ritorno in classe, che dovrebbe essere invece una festa. Per me andare a scuola non è mai stato una festa e, come detto sopra, mi ha sempre procurato una certa preoccupazione, se non una vera e propria ansia. Capisco però il significato dell’appello e lo condivido.

Ormai siamo condannati a vivere in ansia: paura del covid, paura per i continui disastri atmosferici, paura della povertà dietro l’angolo, paura della solitudine, paura…Si può vivere così? Un allerta continuo, che non ci aiuta, ma ci spaventa e ci condiziona. Alle disgrazie obiettive i media aggiungono l’enfasi e la maniacale insistenza. Temo che molte persone, i giovani in particolare, reagiscano nel modo più sbagliato possibile: il delirio di onnipotenza nell’esorcizzare i pericoli, vivendo nella più totale ed irresponsabile fuga dalla realtà. Da una parte l’ansia fatta sistema personale e collettivo, dall’altra lo sballo individuale e sociale, da una parte l’overdose di informazioni sanitarie e di consigli comportamentali e dall’altra il bullismo negazionista e menefreghista.

Dice lo psicologo Daniele Novara: «Non bisogna terrorizzare i bambini: e stai lontano dalla maestra, e non toccare i compagni, mi raccomando se no prendi il virus. Troppe apprensioni bloccano i bambini e, cosa più grave, rendono ai loro occhi la scuola un luogo dove addirittura i compagni e la maestra diventano pericolosi». Il discorso vale per i bambini, ma vale anche per gli adulti: rischiamo l’isolamento e lo scoraggiamento e molti, un po’ per celia e un po’ per non morire, buttano, come si suole volgarmente dire, “il prete nella merda” e si comportano come se niente fosse. Il soggetto depresso passa normalmente da stati di abbattimento a momenti di euforia. Se andiamo avanti così tutta la società cadrà in una sorta di depressione globale, rimbalzando scriteriatamente dalla prostrazione emotiva all’artificiale baldanza.

Mi soffermo sull’emergenza scolastica: è un aspetto molto delicato. Il problema è molto serio perché c’è il rischio, assai poco calcolato, di sovvertire il sistema educativo con effetti a cascata e nel tempo a venire. Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per noi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Attenzione quindi a non farsi prendere dall’ansia del distanziamento, perché potrebbe costarci molto cara in termini umani e sociali. Però bisogna anche difendere la propria incolumità. Valla a trovare la giusta via di mezzo, che non consiste certamente nelle discoteche e nelle movide affollate e spensierate.  Sento dire in questo periodo che esisterebbe anche un diritto al divertimento: ce lo siamo inventati noi. Esiste il diritto di vivere, che è tutto un altro discorso. Bisogna sforzarsi di vivere e di vivere al meglio, ancorandoci ai valori che né il covid né le intemperie, né le povertà possono distruggere. Nel finale dell’opera Ernani di Giuseppe Verdi, Elvira è tentata di reagire tragicamente al destino avverso che gli sta rubando l’uomo amato. Il vecchio Silva, autore di quel disastro, le grida: «No, sciagurata…arrestati…il delirar non vale».  Silva non era credibile in questo appello. Noi dobbiamo esserlo, abbiamo il dovere di esserlo verso chi sta dando fuori di matto: “Arrestatevi…il delirar non vale”.