Elezioni regionali: poca politica e molta antipolitica

Sulle elezioni regionali grava da sempre il dubbio se abbiano o meno un significato politico di rilevanza nazionale. Ogni volta che l’elettorato, a qualsiasi livello, si pronuncia, la cosa assume inevitabilmente e giustamente una portata politica, anche se limitatamente a ciò per cui si vota. Invece i riflessi amministrativi, soprattutto quelli regionali, impattano inevitabilmente sugli equilibri parlamentari e governativi.

Le elezioni regionali del 20-21 settembre, ammesso e non concesso che si possano svolgere in condizioni di sicurezza, riguardano sette regioni: Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta. Quasi nessuno, in preparazione del voto, effettua analisi serie e obiettive sui risultati ottenuti dalle giunte e dai presidenti regionali. Da una parte si parla di governi e governatori regionali enfatizzandone i pur rilevanti poteri, dall’altra si finisce col riportare il tutto in ambito nazionale per valutare l’effetto dei risultati sulla tenuta della maggioranza giallorossa, sui rapporti tra M5S e PD, sulla scalata della Lega di Matteo Salvini.

Il ruolo istituzionale delle regioni è molto importante: se ne è avuta una dimostrazione con la gestione dell’emergenza covid. Siamo purtroppo al limite della confusione fra poteri, con la situazione ulteriormente complicata dalla disomogeneità esistente fra gli indirizzi politici nazionali e locali. Ci sarebbe da mettervi mano a livello costituzionale per fare un po’ di chiarezza e di ordine, invece si preferisce picconare la Costituzione a vanvera, come sta succedendo con la drastica riduzione del numero dei parlamentari.

Le domande poste agli e dagli elettori dovrebbero essere le seguenti: come hanno amministrato gli uscenti e chi si pone in alternativa ha credibilità e capacità? Le candidature rispondono a criteri di competenza ed esperienza? Quali sono le linee programmatiche dei candidati e quale spessore evidenziano? Invece i punti in questione sembrano essere la sfida tra pentastellati e democratici, il consenso che riusciranno a raccogliere il dentista di Grillo, attrici, cantanti, nani e ballerine di varia storia e provenienza, la rivincita toscana di Salvini nella partita di ritorno dopo l’insuccesso emiliano dell’andata. Si ipotizzano già i risultati: 4 a 3, 3 a 4, etc. e per ogni esito si pensa all’effetto immediato. Come si fa per il valzer delle panchine nei campionati e nelle Coppe calcistiche.

Il M5S si è fatto dare un indirizzo dai propri iscritti: dalla piattaforma Rousseau è uscito un voto favorevole all’accordo periferico con il Pd, salvo poi preferire il ruolo di battitori liberi a costo di perdere capra e cavoli. Una presa in giro bella e buona, ma l’elettorato grillino è ormai talmente disilluso che reagisce scappando, non si capisce dove.

Il Pd, pur disposto a pagare prezzi salati sull’altare dell’alleanza giallorossa, deve fare i conti con un alleato (?) sgusciante e imprevedibile e quindi si vede costretto a combattere in solitudine e in condizione di manifesta inferiorità numerica contro il centro-destra. Se la Toscana dovesse andare a destra sarebbe veramente un bel guaio. Non so fino a che punto potrà funzionare il voto disgiunto grillino fra lista regionale pentastellata e candidato governatore di centro-sinistra.

In questi giorni sto rileggendo un libro sul pensiero e l’azione politica di Mino Martinazzoli: “Uno strano democristiano”. Il libro è del 2009, ma, per certi versi, è attualissimo. Si legge: “Possiamo dire che il sogno dell’alternanza della democrazia compiuta oggi è raggiunto, ma è certamente una cosa diversa da quella che Moro immaginava. La sua morte è una cesura su un certo tracciato. Con lui avremmo raggiunto una democrazia dell’alternanza attraverso la politica, senza di lui l’abbiamo raggiunta attraverso l’antipolitica. È, cioè, un’alternanza senza partecipazione, con l’emergere di assetti partitici che più che rappresentare si autorappresentano. Il grande problema in campo è la stanchezza democratica. Una stanchezza che Moro temeva più di ogni altra cosa. Sapeva che essa avrebbe potuto costituire il vero rischio per le istituzioni che il Paese stava ancora consolidando. Temeva lo svuotamento dei valori democratici, accantonati per far posto all’ipertrofia del privato, al ripiegamento sul sé Individuale. Avvertiva il paradosso delle democrazie mature, che stentano a suscitare impegno ed energie destinate alla politica”.

Non credo siano, da parte mia, assurde nostalgie, ma sincere, oserei dire commosse rivisitazioni della politica. L’alternanza, dopo il bagno affaristico proposto dal regime berlusconiano, si ripropone quale scelta tra un populismo strisciante ed ambivalente e un popolarismo debole e balbettante. Cosa andremo a votare il 20 e 21 settembre Dio solo lo sa: ci viene propinata una sorta di polpetta avvelenata, un mix tra un assurdo e dispettoso referendum, un voto con le porte girevoli pentastellate, un agguato destrorso. E la democrazia? Ne parleremo alla prossima occasione!