La pillola va giù, ma i drammi tornano su

“L’aborto farmacologico è sicuro. Va fatto in day hospital, nelle strutture pubbliche e private convenzionate, e le donne possono tornare a casa mezz’ora dopo aver assunto il medicinale”. La novità è nelle nuove linee d’indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza che verranno emanate dal ministero della Salute. Pagine elaborate dopo che il ministro Roberto Speranza ha ricevuto il parere del Consiglio superiore di sanità. Non è più necessaria la spedalizzazione che comprometteva l’impostazione e la finalità sdrammatizzante dell’aborto farmacologico.

Stiamo pur sempre parlando di pannicelli caldi per l’aborto, un problema delicatissimo, che però va affrontato senza riserve mentali ed ipocrisie frenanti o enfatizzanti. Non accetto l’atteggiamento di chi si attesta sull’ultima spiaggia del rendere ripida la salita verso l’interruzione di gravidanza, ma non accetto nemmeno che l’aborto possa essere una bandiera da sventolare nella battaglia sui diritti della donna. Parliamo comunque sempre di una scelta minimalista da non ideologizzare né a favore né contro.

L’aborto non è un diritto in assoluto, è un diritto di ripiego, è la presa d’atto di una sconfitta individuale e collettiva. Sono d’accordo che sia meglio un’amara sconfitta di una vittoria imposta, ma non c’è niente di cui gioire e rallegrarsi. Le battaglie etiche e sociali andrebbero fatte prima: è inutile intestardirsi a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati così come è goliardico festeggiare la chiusura della stalla vuota.

Non mi sento di colpevolizzare la donna che decide di interrompere la sua gravidanza: è una decisione che rispetto, ma mi chiedo se un po’ tutti (dal suo partner alle strutture socio-assistenziali, da chi può rimuovere i condizionamenti economici a chi può educare ad una maternità responsabile, etc. etc..) abbiano aiutato la donna a prendere questa decisione in modo consapevole e costruttivo e se tutti cerchino di aiutarla prima e dopo la decisione. Sì, perché anche il dopo-aborto è pur sempre un dramma che la donna vive spesso in assoluta solitudine umana, psicologica, etica e religiosa.

Riprendo quanto scrissi in passato sull’argomento: una sofferta ma doverosa ripetizione. Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi, all’entrata, in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione?

Diceva don Andrea Gallo (cito a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Provocatori interrogativi rimasti nella mia immaginazione. È comodo scendere in piazza ad inneggiare al diritto di abortire, è comodo pregare per o addirittura contro…, è facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria e…chi ha il problema si arrangi…, è facile obiettare lasciando la patata bollente in mani altrui, è illusorio pensare di risolvere i problemi a valle mentre a monte si creano i presupposti del dramma umano, è inutile e pericoloso aggrapparsi al proibizionismo per nascondere le magagne di una società permissiva, è altrettanto inutile pensare di far quadrare i conti della persona e della società con un permissivismo spinto fino alle estreme conseguenze. Tra proibizionismo e permissivismo c’è l’area dell’interventismo positivo a tutti i livelli e in tutti i sensi.

Di fronte a questo problema vado in crisi di coscienza e mi interrogo prima di sputare sentenze. L’aborto è certamente una scelta drammatica. Mi oppongo strenuamente alla vomitevole, bigotta e spietata colpevolizzazione della donna che, certamente in modo sofferto, decida in tal senso e non accetto per nessun motivo di accusarla, né sul piano civile, né sul piano etico, né a livello religioso. Lei, sì, farà i conti con la sua coscienza e chissà quanta sofferenza ne ricaverà. Semmai bisognerebbe sforzarsi di essere più vicini alla donna in procinto di assumere decisioni così delicate e anche dopo che le abbia assunte. Persino la Chiesa, a livello istituzionale, sta assumendo qualche seppur tardivo e insufficiente   atteggiamento di comprensione. Abbandoniamo quindi ogni velleità e rispettiamo la coscienza di tutti, anche quella dello Stato laico.

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Ilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Cappucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…». Con tutto il rispetto per l’allora papa credo che pregare sia importante, ma non basti.