Il ponte dei sospiri democratici

Della cerimonia, giustamente mesta, di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, che ha sostituito quello crollato il 14 agosto di due anni fa, ho apprezzato la discrezione e la delicatezza del presidente della Repubblica nei confronti dei famigliari delle vittime: l’ennesima lezione di umanità e di stile dal Capo dello Stato. Non ripeto le sue parole perché potrei solo rovinarne la semplice profondità e l’apprezzabile disponibilità.

Mi viene invece spontaneo cogliere due messaggi provenienti dalla vicenda del tragico crollo e della immediata ricostruzione. Si fa un gran parlare di nuovi investimenti in infrastrutture finalizzati alla crescita socio-economica del Paese. Prima, però, siamo seri e vediamo di mettere veramente in sicurezza le vecchie e le nuove infrastrutture, per evitare che crolli qualche soffitto sulla testa degli alunni di una qualche scuola. Siamo tutti un po’ prigionieri della mentalità dello “straordinario” e finiamo col trascurare l’ordinario che rischia di diventare “straordinario per la sua precarietà”. Chi governa questo Paese si rimbocchi le maniche e imposti un piano di controllo, revisione e manutenzione di tutte le infrastrutture esistenti: soldi spesi molto bene anche se non se ne vedrà l’esito, perché serviranno a evitare le catastrofi e gli elenchi di morti e feriti.

Una seconda riflessione critica riguarda i tempi record di realizzazione del nuovo ponte di Genova. C’è di che rimanere stupiti e ammirati. E allora, perché tante lungaggini e ritardi nella realizzazione di altre strutture forse anche meno impegnative? È tutta questione di fari puntati? Ci si doveva in qualche modo far perdonare una enorme disgrazia? Si doveva dare dimostrazione della capacità di ripresa del nostro sistema? Tutti motivi plausibili, ma non mi sento soddisfatto da queste ipotetiche risposte.

Si dice sempre che quando gli italiani si impegnano veramente non li batte nessuno. E allora, cari italiani, vediamo di impegnarci sempre, non solo sulla spinta degli occhi puntati di mezzo mondo. La creatività e la fantasia non ci mancano, l’intelligenza, la professionalità e la laboriosità non ci fanno difetto. Cosa ci manca? Il senso dello Stato e lo spirito di servizio. Lo Stato lo vediamo come un lontano nemico da esorcizzare e combattere. La solidarietà è vissuta come medaglia da appuntarsi sul petto, ma non come stile di comportamento abituale.

Non siamo capaci di aiutare la politica a farsi carico dei veri nostri problemi e la politica non è purtroppo in grado di sollecitarci e spronarci all’impegno. La chiave di collegamento fra queste due necessità dovrebbe essere la democrazia. È nato prima il bisogno di socialità o la scarsità della politica? L’uovo del qualunquismo o la gallina del malgoverno? La laboriosità che costruisce i ponti o il menefreghismo che li fa crollare? Tutti i ponti, non solo quelli stradali.   I cittadini hanno la classe politica che meritano o è la politica che fa i cittadini?

“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa famosa frase, associata dai più a Massimo D’Azeglio, sta a significare che per quanto l’Italia geograficamente e politicamente nel 1861 risultasse unita, in essa regneranno sempre culture, tradizioni e lingue (dialetti) diversi tra loro. “Fatta la democrazia, bisogna fare i democratici”: una parafrasi della frase di cui sopra, che dovrebbe significare come la democrazia venga soprattutto dopo il voto e prima che crollino i ponti. Non è quindi questione di uovo o di gallina, ma di – mi si perdoni la brutta similitudine – pollaio democratico. La nostra politica è molto simile ad un pollaio, peccato però che sia un pollaio assai poco democratico.